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Capitolo primo. Prologo.

By 17 Febbraio 2018Aprile 2nd, 2020No Comments

A te, che trovi questi scritti, affido questa testimonianza.

Non confessione, ma testimonianza. Una confessione implica, in senso più o meno lato, del pentimento.
&egrave una cosa che, qua, non troverai. Ci sarebbe potuto essere, se a scrivere fosse stata la donna che son stata, fino a qualche mese fa.

Come potrai capire, dai documenti che ho lasciato qua accanto, mi chiamo Laura Francesca Tosca. O, più probabilmente, a questo punto dovrei usare “mi chiamavo”.
Ho smesso di farmi illusioni da un pezzo.

Quello che hanno raccontato i giornali ed i tg, sul mio conto, &egrave vero.
Ed &egrave falso.
A questo punto, non da differenza.
La verità che sopravvive non la scrivono quelle come me. La scrivono quelli che vincono.

Ho studiato medicina e per la stragrande maggioranza del tempo ho vissuto secondo le regole.
Tutte. Ero una di quelle persone che rispettavano la fila, attraversavano col verde e pagavano il biglietto, senza fiatare. Perché era giusto. &egrave ancora giusto, credo.

Come sono arrivata a questo punto?
Ho fatto sul serio tutto quello di cui son accusata?
Si e no, anche in questo caso.

So che può sembrare strano, parlare di “inizio della fine”, e per questo preferisco utilizzare la formula “orlo del precipizio”.
La stragrande maggioranza delle persone, arriva a quel punto e si ferma.
Soppesa, valuta e, di solito, si volta, tornando sui propri passi.
Io non ci son saltata a pi&egrave pari, quello no. Ma ci son caduta, spinta da chi mi aveva ispirata fiducia.
Lo avevo scritto, che non son sempre stata così. Non dico (o dovrei usare scrivo?) di esser stata una povera cretina, ma si, un po’ ingenua lo son stata.

Comunque, il tempo &egrave abbastanza, ma non voglio esagerare.
Ogni azione, ha una reazione. Non voglio star li a scomodare le farfalle e gli uragani, ma nel mio caso, quello che ha dato il La a tutto, &egrave stato quanto accaduto pochi giorni prima di capodanno.

Sono uscita, con il mio compagno e una coppia di amici, per andare a cena. Una di quelle occasioni che ti fanno realizzare che stai iniziando a diventar “vecchia”, borghese.

Probabilmente abbiamo bevuto un po’ troppo, perché alla fine abbiam deciso di ospitare i nostri amici a casa. Non erano in condizioni di guidare e noi probabilmente lo eravamo ancora meno.
Te l’avevo scritto, che rispettavo le regole.

Abbiam continuato a chiacchierare e si, anche a bere, al punto che, alla fine, mi son ritrovata ad esser l’unica sveglia, sul divano.
Mi son messa le cuffie e, colpa dei cicli circadiani ormai sballati per i turni del tiirocinio, riprendo a guardare la serie che stavo seguendo.

Dovrei imparare ad essere come la pistola qua accanto. Fredda, lucida, quasi asettica. Ma se non ho imparato a questo punto, non credo ci riuscirò mai.
Meno dettagli inutili, più fatti.

Non mi son accorta del Cesco che si avvicinava al divano, al punto che son sobbalzata, quando mi si &egrave seduto accanto.
E così, mentre le immagini scorrevano sullo schermo, silenziose, abbiamo parlato.
Parlato dei “vecchi tempi”, del liceo, e si, di come andavano le cose nelle nostre relative relazioni.

Come avrai appreso dai notiziari, il mio compagno si chiamava Paolo. Le cose, tra di noi, andavano alla grande.
Ecco, forse non &egrave pentimento, ma quello che provo si avvicina tanto al rimpianto. Al rimorso.
Mi spiace, mi spiace tanto, per come &egrave andata. Era un ragazzo d’oro, non si &egrave mai meritato quel che gli &egrave capitato.

Andavano alla grande sul serio?
Perché, allora, prima ancora di rendermene conto avevo le labbra su quelle di Francesco?
Perché, sentire le sue mani sul mio corpo mi faceva sentire così?
Probabilmente era dovuto al fatto che, sentirmi desiderata da un altro uomo, già impegnato, mi sembrava una trasgressione inimmaginabile.
Non lo so, di preciso.

Giuro che non lo so.

Così come non mi son accorta del suo avvicinarsi al divano, faccio fatica a ricordare chi ha sfilato cosa a chi. Sta di fatto che mi son ritrovata seduta cavalcioni su di lui, con lui dentro di me, mentre i nostri rispettivi partner dormivano, nelle stanze a pochi metri di distanza.

Non ci siamo mai rivolti parola, mentre ci muovevano come due animali. Né abbiamo emesso suoni.
Ci limitavano a fissarci, toccarci.
Semplicemente, senza tanti fronzoli, scopavamo.

Solo quando l’ho sentito inarcarcarsi sotto di me, quando gli ho sentito stringer con forza le mani sui miei glutei, ho realizzato che era prossimo all’orgasmo.
E non mi son spostata.
Non ho pensato al fatto non avesse indossato il profilattico. Non ho fatto altro che continuare a muovermi su di lui, sentendolo scivolare dentro di me.
Sentendolo pulsare dentro me.
Sentendolo vuotarsi, dentro di me, prima di perdere il contatto con il mondo esterno, travolta a mia volta dall’orgasmo più intenso degli ultimi tempi.

&egrave così, che &egrave cominciato tutto.
Con quella cena.
Con quel tradimento.

Dopo, non so se per l’imbarazzo o i sensi di colpa, siam rimasti in silenzio a lungo, limitandoci ad ansimare, piano.

Cerco parole, qualcosa da dire.
Qualsiasi cosa da fare ma, come l’Antenor di Guccini, non trovo nulla.
La sua mano, che si và a posare sulla mia, giunge in mio soccorso.
E così, mano nella mano come due ragazzini e non come una trentatrenne e un trentasettenne, rimaniamo in silenzio, a fissare (senza realmente guardarle) le immagini che scorrono, mute, sullo schermo della tv.

“Grazie”

Anche se sono poco più che un sussurro, quelle poche sillabe mi toccano dentro. Scoppio a piangere, senza neppure sapere perché. Per chi.

Probabilmente, per me stessa.
Sarò stata preveggente.

Sono stata alla finestra, fino a poco tempo fa.
Per una quindicina scarsa di minuti son rimasta come imbambolata ad osservare il sole sorgere.
Sembrerà un’ovvietà ma, nella testa, mi &egrave riecheggiato per tutto il tempo il Bolero di Ravel.
Come il componimento &egrave una marcia inesorabile, in crescendo, così il sole sorge, inesorabile.
Tutti i giorni.
Può essere il tuo ultimo giorno su questa terra, può esserti capitata qualsiasi cosa il giorno precedente, lui sorge.
E il brano, uno strumento dopo l’altro, avanza, cresce, va avanti.

La vita, quando vuole, sa esser crudele utilizzando strumenti stupendi.

Dopo quella sera, dopo quella notte, son dovuti passare parecchi giorni, prima si rifacesse vivo.
Non son mai stata una fan delle chiamate-del-giorno-dopo.
Però, ecco, mi avrebbe fatta piacere risentirlo, anche se evitando di menzionare quanto accaduto.
A quello ci pensava già abbastanza la mia coscienza.

I turni di guardia medica (ma penso valga per qualsiasi tipo di turno) riescono ad essere incredibilmente lunghi e quello non stava, fino a quel momento, facendo l’eccezione a conferma di nessuna regola.
Nel sentire la sua voce al citofono, nel vederlo nel piccolo monitor della telecamera posta all’ingresso, ho avuto la consapevolezza che quel turno, se mai fosse stato possibile, era appena diventato ancora più lungo.
L’ho raggiunto nella piccola stanza che funge sia da ingresso, sia da sala d’attesa. Come se, in sto buco di città, ci sia mai stato bisogno di attender tanto, alla guardia medica.

Mi sarei aspettata tante espressioni sul suo viso.
Imbarazzo? Si
Gioia? Sotto sotto ci speravo.
Preoccupazione? Sarebbe stata comprensibile.

Paura? No.
Non ho mai creduto nel sesto senso, ma credo che anche l’essere umano, in quanto animale, riesca a percepire la paura. Non so se rientra nell’empatia o meno, ma, credimi, lui traspirava paura.
E ho sentito freddo alla base del collo.
Ci hanno insegnato, durante il tirocinio, a tirar su uno schermo. A filtrare. Ne và della nostra salute, oltre che della professionalità.
Non ci son mai riuscita. Ho imparato a fingere, però. A dissumulare.
Eppure, prima ancora di chiedergli come stava, cosa lo portava li, perché cazzo non si era fatto vivo, son corsa a chiuder la porta alle sue spalle, nel silenzio più totale.
Con la schiena poggiata contro l’uscio, l’ho osservato a lungo e si, ho avuto la certezza che non era spaventato. Era terrorizzato.

Aiutami.

&egrave stata l’unica cosa che ha detto e, quando non gli ho risposto, l’ha ripetuta ancora.
E ancora.
E ancora.
Ogni volta, mi si &egrave avvicinato maggiormente, colmando la distanza che ci separava.

Gli ho preso la mano e l’ho accompagnato dentro l’ambulatorio, cercando di mantenere la calma. Cercando di non far vedere quello che tutti sanno ma che quasi nessuno ammette.
La paura, come quasi tutte le emozioni, &egrave contagiosa.

Probabilmente avrei dovuto soppesare meglio le parole, probabilmente avrei dovuto evitare di farlo entrare, però &egrave certo che, quando gli ho spiegato che in caso fosse arrivato qualcuno lui si sarebbe dovuto andare a nascondere nello sgabuzzino, &egrave scoppiato a piangere.
Certo che, con il senno di poi, con tutte le lacrime che son state versate fin dall’inizio, qualche sospetto mi sarebbe dovuto venire, sul possibile finale di questa storia.
Ma non &egrave scoppiato a piangere mentre gli spiegavo quel che avrebbe dovuto fare.
Lo ha fatto quando gli ho chiesto cosa stava succedendo.
Lo ha fatto posando i gomiti sulle ginocchia, portando il viso sulla mani. Rumorosamente, tirando più volte su con il naso.
Ho notato le nocche arrossate ma ho preferito evitare.

Il problema erano i soldi.
Il problema son sempre i soldi.

Avevo avuto il sospetto, quando si vantava delle vincite, che giocasse un po’ troppo. Non voglio giudicare chi ama l’azzardo, ma la misura sarebbe d’obbligo.
Scrisse quella che ha fatto quel che ha fatto.
Comunque.

Ha iniziato piano, prima con i gratta e vinci, poi con le scommesse sportive, per passare infine al poker.
Prima online, poi dal vivo.
E il debito alla fine era diventato una cifra a quattro zeri.
Nulla di insormontabile, ma comunque considerevole.

Gli ho tenuto le mani, seduta di fronte a lui, mentre vuotava il sacco.
Mi ha fatta male, quando mi ha chiesta espressamente di aiutarlo con i soldi.
Non perché non potessi o non volessi farlo, ma perché vedere una persona che conosco da praticamente sempre, in quelle condizioni, implorare aiuto, mi ha fatta realizzare quanto, in fondo, siamo soli.
L’ho rassicurato, dicendogli che una soluzione si sarebbe trovata ma, in quel momento, era necessario lui ritrovasse un po’ di calma.

Gli ho consigliato di far un giro in centro, lui che poteva, cercando di buttarla sul ridere.

Fosse stato possibile.

E ci ha provato, a sorridere.
Mi piace credere che l’abbia fatto sul serio, che abbia fatto tutto in buona fede.

Ci siamo salutati con un abbraccio e mi ha stretta forte. Per un attimo, avrei voluto fosse tutto così.
Che le cose, tutte, si potessero risolvere in quel modo. Con un abbraccio.

L’ho guardato allontanarsi, dalla finestra, come poco fa ho guardato sorgere il sole.

Il resto del turno &egrave trascorso così, senza infamia e senza lode. Solita routine. Certificato per quello che non vuol andare a lavorare il fine settimana, mamma preoccupata perché il bambino tossisce. Ragazzini fumati che pensano di esser sul punto di morire.

Arrivata a casa, ho osservato il mio compagno dormire, beato, ignaro di tutto. L’ho invidiato e, se devo esser sincera, l’ho invidiato tanto.
Potrei dire di esser arrivata tanto così dall’odiarlo, per alcuni istanti.
Per lui, la vita era sempre stata semplice.
Quello che vedeva, quel che si trovava davanti, era la realtà. Non vedeva oltre.

Prima di entrare in doccia, dopo essermi assicurata d’aver chiuso la porta del bagno, ho controllato il telefono, letto i messaggi e, dopo alcuni istanti d’esitazione, ho chiamato Francesco.

Risponde al terzo, forse al quarto squillo, ma risponde.
Ancora una volta, quei pochi secondi sembrano un’infinità.
Ero seriamente preoccupata.

Sta bene, e la cosa mi rincuora non poco. Rimaniamo d’accordo che sarebbe passato a casa, con la sua compagna, per cena.

Lascio cadere a terra i vestiti, sfilo l’intimo e rimango così, ad osservarmi nuda, riflessa allo specchio.
In tutti gli anni che son stata impegnata, non avevo mai, e sottolineo mai, tradito il mio partner.
Semplicemente, non ne avevo mai sentito il bisogno.
O, e il dubbio mi ha assalita sul serio, non ne avevo mai avuto l’occasione.
La donna che mi osserva allo specchio, mi sembra quasi un’estranea, anche quando porta la mano destra sul seno.
Lo carezza delicatamente, sfiorando appena il rosa del capezzolo, prima di pizzicarlo piano.
Proprio come aveva fatto Francesco sul divano.
Inspiro a fondo, prima di sospirare.
Anche se senza emettere alcun suono, la donna allo specchio compie i miei stessi movimenti.
Mi sorride, mentre la mano s’abbassa, scorrendo sul ventre fino a scomparire, sotto lo specchio.
Mi sfioro, senza mai realmente toccarmi.
Sento la leggera ricrescita dei peli sul pube, la pelle morbida.
Ora, forse ti sembrerà strano, ma sapere di aver il tempo contato (o quasi) non mi fa provar vergogna, imbarazzo, nell’ammettere di essermi masturbata, in piedi di fronte allo specchio.
E si, ho ripensato a quella notte sul divano.
A quando ho tradito la persona che si fida di me.
Mi sarei dovuta sentire sporca, in colpa e, in tanti altri momenti, mi ci son sentita.
Non in quel momento.

L’estranea socchiude gli occhi, lo sguardo perso nel vuoto, anche se guarda nella mia direzione.
Mi reggo con forza al lavandino, sentendo il freddo sotto le dita, in contrasto col caldo, con l’umido avvertito dalle dita dell’altra mano.

Non mi curo di trattenere gli ansimi che nascono, quando sento le dita della donna allo specchio farsi più insistenti, arrivando a scivolare dentro me.

Il piacere mi raggiunge, improvviso, violento. Chino il capo, respirando profondamente, cercando di mantenere il controllo, con scarsi risultati.
Lo sento arrivare, ad ondate. Quasi mi cedono le gambe.

La sconosciuta allo specchio solleva il capo, il viso stravolto dal piacere, le gote rosse ma il sorriso stampato sulle labbra.

Porta la mano alle labbra, accogliendo al loro interno un dito, assaggiando il suo stesso sapore.

Osservo la pistola, qua accanto.
In questi giorni l’ho portata alle labbra, più volte, senza mai trovare il coraggio di premere il grilletto.

Credo, a questo punto, siano necessarie alcune precisazioni.
Non credo ci siano persone cattive, come non credo ci siano persone buone.
Ogni essere umano, sia esso xx o xy, ha nella vita un compito che, nel corso della stessa, si prefissa. Consciamente o meno.
Quello che conta, non &egrave cosa, ma come.

Alcune persone cercano qualcosa, raggiungibile o meno, con modalità simili a quelle adottate dai cercatori del Graal.
Una cerca, una missione. Qualcosa di puro, da cercare senza doverlo per forza trovare.
I Parcival, con il loro Gradale da adorare, proteggere, venerare.

Altre, utilizzano ogni modo, per raggiungere il loro scopo.
A costo di dannarsi l’anima, a costo di distruggere la propria vita e quella di tutte le persone che le circondano, pur di soddisfare la propria passione.
Non intendo passione nel senso più comune del termine. Confido nel fatto tu capisca.
Parlo di quella sete che ti tiene in piedi tutta la notte, a scrutare l’orizzonte in cerca di quella sagoma.
Della tua, personalissima, balena bianca.
Non la vuoi custodire, non vuoi portarla in gloria.
Non vuoi proteggerla.
Vuoi distruggerla.
Ecco, cosa sono diventata.
Novella Achab, tengo il mio personalissimo diario di bordo.
Questo rende, te che trovi questi scritti, Ismaele.
Guarda il lato positivo, Ismaele.
Non ci lasci le penne, alla fine.
Alla tua.

La cena, dicevamo.
Non ho cercato in alcun modo di entrare in argomento, ho preferito lasciargli tutto il tempo di questo mondo.
E ha glissato. Anzi, sembrava particolarmente su di giri.
Brillante.
Scherzava su tutto, come se la sera precedente non fosse capitato nulla. Come ho scritto prima, le emozioni son contagiose e alla fine, anche io ho iniziato a ridere per le sue battute.
I dubbi della sera precedente, l’incertezza sul dirlo o meno al mio ragazzo, per qualche ora sono finiti nel dimenticatoio.
&egrave stata una serata piacevole.

Solo dopo, quando con la scusa della sigaretta di rito sul balcone, solo quando siam rimasti soli &egrave tornato serio.
Giù la maschera, su il gelo.
Sembrava quasi che, assieme alla temperatura, si fosse gelato anche lui.

Fuma in silenzio e ogni mia frase, il voler continuare a scherzare, si và a schiantare contro il blocco di ghiaccio che &egrave diventato.

Attendo, in silenzio, si decida a spiccicar parola.
E quando lo fa, se mai &egrave stato possibile, al freddo che stavo provando si &egrave aggiunto altro freddo.

“Ti ho mentita. Non sono per il gioco. Sono trentamila. Se non li trovo entro il fine settimana mi accoppano”

Accoppano.
Mi rimbomba dentro.
L’ho sempre sentito usare in frasi poco serie. Un termine, fino a quel momento, giocoso.
Non si dovrebbe trovare giocoso un termine simile, ma l’ho imparato troppo tardi.

Una somma del genere mi avrebbe prosciugata il conto, il salvagente d’emergenza che stavo mettendo da parte, un po’ alla volta. Per le emergenze, per l’auto nuova, per il matrimonio.

Però, la vecchia me stessa, non ci ha pensato.
E sai, Ismaele, cosa capita a chi agisce senza pensare?
Si ritrova nella merda.
O sotto terra.
Da morta, con un po’ di fortuna.

La vecchia me stessa &egrave andata dentro, senza dire nulla, lasciandolo li, da solo, a fumare una sigaretta ormai finita.
La vecchia me stessa ha anche scherzato, passando accanto ai rispettivi partner, sul fatto che avrebbero fatto bene a portar dentro Pingu, o qualche orso polare l’avrebbe accoppato prima che io fossi riuscita a fare la pipì.

Accoppato. Di nuovo.

La ricerca del blocco degli assegni in camera &egrave stata frenetica, rovistando nel cassetto con tutti i documenti, le fatture.
Le mani l’hanno compilato senza che, quasi, me ne rendessi conto.
E, nel tornare dagli altri, l’hanno fatto scivolare nella tasca del cappotto di Francesco con una maestria di cui non credevo d’avere.
Dovevo studiare da ladra, non medicina.

Ridacchiando per l’ultimo pensiero avuto, son tornata dagli altri e, sbuffando rumorosamente, teatralmente, mi son lasciata cadere sul divano, accanto al mio ragazzo.

Vedere Francesco ridere e scherzare, nuovamente, mi ha fatta sentire leggermente a disagio, ma una parte di me, quella alla quale faceva piacere non vedere i problemi, ha tirato un sospiro di sollievo.

Non sono per debiti di gioco.

Ignoravo quel pensiero che, ogni tanto, ritornava, soffocandolo, sommergendolo con le idiozie che abbiamo continuato a dire, una dopo l’altra.

Accoccolata accanto al mio partner, le gambe sulle sue, ogni tanto ho cercato lo sguardo di Cesco, sorridendogli quando lo incrociavo.
Scambiare effusioni, di fronte a lui, con la speranza di farlo ingelosire, &egrave stata una cosa che mi ha sorpresa. Una cosa non da me. Credevo.

Siam stati a chiacchierare ancora per una mezz’ora abbondante per poi salutarci.
L’ho fatto senza alzarmi dal divano, lasciando a Paolo il compito di far gli onori di casa.
Francesco si sarà accorto dell’assegno nella tasca?
Spero che, nel caso, non si sia lasciato tradire da qualche espressione.

Non son debiti di gioco.
Ancora una volta, scaccio quel pensiero, distendendo le braccia quando Paolo ritorna da me, invitandolo ad avvicinarsi.
Lo fa, con quel nostro rituale consolidato da anni di frequentazione, di convivenza, prendendo posto non accanto a me, ma di fronte, inginocchiandosi tra le mie gambe.
Gli ho passato le mani sul capo, facendo scorrere le dita tra i capelli.
Quando l’ho conosciuto ne aveva parecchi di più.
Mi ha sorrisa, guardandomi dal basso verso l’alto e mi &egrave venuto spontaneo ricambiare il gesto.
Lo amavo.
Lo amavo?

In quel momento, credevo proprio di si.
In quel momento, ora, credo proprio di no. Chi ama, non nasconde nulla. Men che meno qualcosa di così importante.
Però mi son chinata, accostando il viso al suo.
Ogni coppia, credo, ha i suoi rituali. Le sue routines. O routine. Non ricordo mai se, per il plurale di questa parola, ci vuole o meno la s.
Noi le avevamo di sicuro.
Ho posato le labbra sulle sue, chiudendo al tempo stesso le mani a pugno, stringendo ciocche di capelli.
Forse un po’ troppo forte, perché ha reclinato il capo all’indietro. Ma non l’ho lasciato scostare, tenendo le labbra ben premute contro le sue, un po’ schiuse.
La lingua ha incontrato la sua e, quando ha iniziato a muoverla, assecondando la mia, mi son tirata indietro, lasciandogli andar la testa.
Mi son appoggiata allo schienale del divano e son rimasta così, in attesa.

Non servivano per debiti di gioco.

Non ho opposto la benché minima resistenza, quando ha armeggiato con le scarpe, sfilandomele lentamente.
E non ho opposto resistenza, quando mi ha sbottonata i jeans. Ho sollevato un po’ il bacino, per facilitargli il compito.
Mentre me li sfilava, ho guardato, per tutto il tempo, il soffitto. Ma lo sapevo, sapevo che mi fissava.
Ogni coppia, ha i suoi riti.

Ho sentito il suo respiro sulla pelle, nell’interno coscia. Poi il calore delle labbra.

Gli ho riposato le mani sul capo e, senza distogliere lo sguardo dal soffitto, l’ho premuto a me, abbastanza lentamente per lasciargli il tempo di scostarmi di lato l’intimo.

Forse non lo amavo come meritava.
La sua devozione in quei momenti, era qualcosa che ancora oggi mi fa sentire la sua mancanza. Anche questa.

Non &egrave passato tanto tempo che, al tocco della sua lingua, il mio corpo ha iniziato a reagire.

Ho provato a non mugolare, con be scarsi risultati.
L’ho sentito insinuare le mani sotto di me per andarle a sistemare sui miei glutei, stringendoli.
Gli ho dato il ritmo, accentuando e allentando la pressione del suo viso contro di me mentre nella mente mi riaffiorano le immagini di quella notte, sul divano.
Francesco che raggiunge l’orgasmo dentro di me, come io lo raggiungo, violentemente, sulla lingua del mio compagno.
Non si &egrave scostato, come non si &egrave mai scostato ma, al contrario, si preme maggiormente contro di me.
Ho contorto i piedi, involontariamente, arrivando a far schioccare le dita.

Urlo il suo nome.
E non lo sbaglio, visto che non era Paolo, il nome che avevo in mente.

Respiro a fondo, riprendendo fiato. Lo sento mettersi in piedi e, quando ho abbassato lo sguardo, l’ho visto in piedi, di fronte a me.
Si era già abbassato i pantaloni.

Ho sollevato le gambe, dopo essermi ripresa dall’orgasmo, accostando i piedi al suo pene, ancora coperto dai boxer.

Si &egrave scoperto, fissandomi e si &egrave avvicinato quanto basta perché il membro si andasse a posare tra i miei piedi.
L’ho stretto piano, tenendolo piano, saggiandone la consistenza.
Ne ho abbassato uno, posando le dita sui suoi testicoli, mentre l’altro gli preme il pene contro il ventre.

Muoviti.

Ha aspettato quell’unica parola, quel permesso.
Quell’ordine.
E l’ha fatto, muovendo il bacino al ritmo che gli ho dato io, seguendo quello che gli davano le dita sui suoi testicoli.
Raggiunge l’orgasmo in un attimo.
Lo sento, sul collo del piede, sulla caviglia, sulla gamba.
Ogni coppia ha i suoi rituali.

Non gli servono per debiti di gioco.

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