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Erotici Racconti

Deserto guarneri

By 14 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

…tante pietruzze

formano un quadro…

Non spirava un alito di vento.

Il caldo avvolgeva tutto. Il selciato della strada deserta era infocato. Le mosche ronzavano impazzite. alla ricerca d’acqua, di qualcosa, anche d’un frutto marcio, da cui suggere un liquido qualunque.

Il rivolo puzzolente, che di solito scorreva nel solco nero, al centro della via, era solo una striscia secca e scura.

Le case, basse, sembravano disabitate.

Le finestre non mostravano segno di vita: o chiuse con le imposte verdi e scorticate, o riparate da rozze tende che penzolavano fuori. Immobili.

Nella camere, sui letti umidicci, corpi discinti. Qualcuno dormiva, supino, braccia e gambe allargate. Altri cercava di farsi fresco, con un ventaglio, un cartone, o qualcosa d’altro.

Le mosche casalinghe cercavano refrigerio sul recipiente di terra cotta dov’era conservata l’acqua.

Dallo sgabuzzino dov’era il cesso che scaricava nel pozzo nero, malgrado ogni accorgimento, filtrava un odore nauseante.

Sarebbe stato così, più o meno, fino a quasi il tramonto, quando il vaccaro si sarebbe fermato al portone e avrebbe picchiato, col piccolo battaglio di ferro, nel solito modo. Poi avrebbe atteso la donna col recipiente nel quale avrebbe munto il latte dalla mucca che conduceva con sé. E sarebbe andato via rinnovando il grido: ‘latteeeee’.

Di lì a poco, sarebbe apparso il lampionaio, con il suo lungo bastone in cima al quale ardeva lo stoppino, e avrebbe acceso i lampioni a gas. Una luce bianca, lunare, avrebbe attratto gli insetti, che a sciami si sarebbero immolati contro il vetro rovente.

Qualche finestra s’illuminava. Poche di rossastra luce elettrica.

* * *

Dal portoncino giunsero tre colpi, secchi, appena distanziati.

Marta andò sul piccolo pianerottolo che conduceva in casa e tirò la corda che azionava l’apertura.

Il portone s’aprì, comparve la figura d’un uomo, malamente rischiarata dalla lampadina fioca ch’era sullo stipite. S’udì lo scatto della serratura che si richiudeva. Poi un passo leggero che saliva le scale. Quando raggiunse Marta le sfiorò le labbra con bacio.

‘Vieni’ -disse Marta- ‘mamma é intenta a preparare la cena ed Elsa sta finendo di vestirsi’.

Lo fece entrare nella sala da pranzo, non molto vasta, con mobili non nuovi ma ben tenuti. Nel centro, un tavolo quadrato, già apparecchiato. Alle pareti, il ‘buffet’ e il ‘controbuffet’, un divano ricoperto di lampasso, dei vecchi quadri a olio d’autore ignoto.

Il balcone era aperto, e riparato da una tenda a cannucce.

I giovani andarono a sedere sul divano.

Mamma Teresa entrò sorridente.

Renato si alzò e le andò incontro, lei lo baciò affettuosamente.

‘Siedi, Renato, siedi. Fra un momento porterò la cena, poca roba, paesana, senza pretesa alcuna. Con questa temperatura credo che non valga la pena preparare cose calde. A parte il dover sfornellare e assaggiare, sudando a più non posso. Ho preparato quella che noi chiamiamo l’acqua sala: friselle di grano duro bagnate nell’acqua e ben sgocciolate con sopra pomodori freschi e basilico, il tutto generosamente condito con l’olio speciale delle nostre parti. E poi la scamorza fresca. Nella cisterna ho messo un’anguria e il vinello bianco che a te piace.’

Renato allargò le braccia.

‘Ma é una cena da re, Mamma Teresa !’

Elsa entrò con aria annoiata. Aveva quasi diciassette anni, e passava ore ad acconciarsi dinanzi allo specchio. Era alta, con un personale non scultoreo ma piacevole, e il volto che esprimeva infastidita insoddisfazione. Come sempre. Fece un cenno di saluto a Renato e andò a sedere a tavola.

Riapparve mamma Tersa con il grosso piatto dell’acqua sala.

‘A tavola !’

Marta e Renato raggiunsero i loro posti.

‘Marta’ -disse Teresa- ‘fa togliere la giacca a Renato.’

Il giovane si alzò, tolse la giacca e la dette a Marta che andò a porla sulla spalliera d’una sedia. Teresa aveva cominciato a riempire i piatti dinanzi ai commensali.

‘Si fa caldo’ -disse Renato- ‘forse più di quand’ero in servizio militare in Africa.’

‘Ci sei stato molto ?’ Chiese Elsa.

‘Circa tre anni, poi sono stato trasferito in Italia, proprio alla vigilia della guerra. Ma qui era un’altra cosa. Noi, Ufficiali del Genio, avevamo le ampie mantelle azzurre che ci avvolgevano, e facevamo la nostra bella figura.’

Elsa spilluzzicava svogliata.

Teresa guardò il fidanzato senza particolare interesse, come si guarda un estraneo.

Lui sarebbe partito tra qualche giorno, per raggiungere la nuova sede alla quale era stato assegnato. Una romantica città del settentrione, ma lontana dalla sua terra. Sarebbe tornato tra un mese, per sposarla e condurla con sé, tra gente sconosciuta che aveva usi e costumi sconosciuti, che parlava un dialetto a lei ignoto.

Del resto, la mamma le aveva fatto considerare che il destino della donna era sposarsi e andare col marito. Renato era un giovane gradevole, con un posto fisso e sicuro, e loro erano tre donne, col padre lontano che non si curava della famiglia, e con scarse risorse economiche.

Si, Renato era gradevole, parlava bene, raccontava tante cose. Non era proprio il suo principe azzurro, ma non se ne discostava eccessivamente.

Lei era una bella ragazza, dal volto regolare, piacevole, e un personale ben proporzionato per i cinquatasei chili di peso.

* * *

Tutto era andato per il meglio. La cerimonia in Chiesa, il suo bell’abito bianco, il ricevimento servito dai camerieri del Caff&egrave Grano.

Mamma Teresa aveva ben controllato la propria emozione, Elsa aveva scosso la testa commentando in sé che tutto era troppo modesto, a cominciare dallo sposo.

La sera avrebbero dormito nel migliore Albergo della città, l’indomani sarebbero partiti per andare a casa di lui.

La prima notte fu tutt’altro che spiacevole per Marta. Renato era dolce e premuroso, delicato, comprensivo, e ci sapeva fare ! I vent’anni di Marta svelarono l’appassionato temperamento che lei stessa ignorava.

E così fu durante la visita a casa di Renato. La luna profuse il miele a piene mani.

Tornarono da Mamma Teresa.

Elsa andò a dormire con la madre e cedette agli sposi la camera che aveva diviso con la sorella.

I due lettini erano stati uniti, e le reti, in quei giorni e soprattutto in quelle notti, cigolarono insistentemente. Musica soave per gli sposi, contentezza soddisfatta per Teresa, stridore insopportabile per Elsa, che nascondeva il capo sotto il cuscino stringendo nervosamente le gambe.

Erano trascorse tre settimane dalle nozze quando i giovani partirono per il loro piccolo nido lontano. Solo una camera, ma tutta per loro.

Prima di salire sul treno Marta strinse forte Teresa e le sussurrò: ‘Mamma, credo che tu sia nonna!’

* * *

Che città strana, come diversa da quella che aveva lasciato.

E che parlare nuovo. La gente sembrava quasi cantare. E quanti inchini, cerimonie, salamelecchi. Strade pulite, illuminate da fanali con lampade elettriche. Il latte dovevi andarlo a comprare dal lattaio o fartelo portare a casa, in una bottiglia, dal garzone della bottega.

Le donne guardavano sfacciatamente Renato, senza abbassare gli occhi. E al mercato una le chiese se quel bel moretto fosse il suo sposo.

‘Così’ -l’aggredì Marta quando il marito tornò dall’ufficio- ‘ti fai chiamare bel moretto. Ma sta attento che ti cavo gli occhi.’

Quella sera si era proposta di non fare l’amore, anche se ne aveva una gran voglia. Dapprima si voltò con le spalle al marito, poi si mise supina prese la mano di lui e se la portò sulla pancia.

‘Senti, credo che si muova… no… più giù… più giù…’

E il proposito fu rinviato.

* * *

Gli anni erano trascorsi lentamente.

Meno lentamente era andata crescendo l’ disillusione di Marta. Dapprima sorda, poi sempre più invadente.

Insoddisfatta di cosa ?

Non lo sapeva.

Cosa avrebbe voluto ?

Non riusciva a stabilirlo.

Inappagata, perché ?

C’erano certamente mille motivi, ma non riusciva a identificarne nemmeno uno.

La vita scorreva come per tutte le altre famiglie che conosceva, e forse in modo migliore, ma era scontenta. Un malumore che la rendeva aspra, aggressiva, intollerante, sospettosa; che la inaridiva sempre più.

Aveva eletto Renato suo nemico massimo, causa di tutto, responsabile di tale insopportabile stato di cose. Non conosceva il motivo della scelta , ma Renato le era tanto comodo per sfogarsi.

A letto, però, le serviva, aveva bisogno di lui, per sfamarsi, per possederlo assatanatamente, quasi a volerlo svuotare perché poi avrebbe potuto accusarlo di non soddisfarla, ma lui era inesauribile e lei, sfinita, gli giaceva accanto, affranta, ansante, odiandolo perché sentiva che dipendeva da lui anche per questo.

Era impulsiva, a volte diveniva violenta. Come quella volta che aveva colpito Pierino, appena decenne, con un pugno, e non troppo leggermente, urlandogli di star fermo, perché si muoveva un po’ mentre lei gli accomodava la cravatta. Il giorno della prima comunione.

I figli erano due, dopo Pierino era giunto Mario.

E poi non riusciva a comprendere il motivo che spingeva Pierino, tanto vivace e chiacchierone con gli amichetti, a rifugiarsi in un angolo della casa, tutto solo, a leggere un libro.

La colpa imperdonabile e imperdonata che imputava a Renato era di averle mentito. Lui il mantello azzurro degli ufficiali del genio lo aveva indossato una sola volta, ma era quello del suo tenente. Lui era caporale.

Marta aveva sempre da ridire. Su tutto e contro tutti.

Accompagnava il marito fino al pianerottolo solo per rimproverargli qualcosa.

Pierino socchiudeva la porta della sua camera e guardava la scena. La madre che parlava concitatamente e il padre, con le mascelle strette, il volto cereo, che si avviava al lavoro, a fare due ore di straordinario per migliorare l’economia familiare, la sera, dalle nove alle undici. L’indomani avrebbe ripreso l’orario normale.

Quella sera Renato non aveva potuto mangiare quasi nulla. La scenata di Marta era stata più violenta del solito. Giunto dinanzi alla porta di casa ebbe come un sussulto, stramazzò come un sacco vuoto, cercò di alzarsi, si aggrappò alla cassapanca, vi si sedette sopra. più bianco che mai. Marta lo guardava sprezzante.

Prese il fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e si asciugò la fronte, le labbra. Si alzò barcollando, aprì l’uscio, si avviò a passi lenti, incerti, lungo le scale.

Pierino corse al balcone. Il padre camminava lentamente, appoggiandosi ogni tanto ai muri delle case, girò l’angolo, sparì. Lui aprì la porta di casa, senza richiuderla si precipitò per le scale, uscì dal portone, corse per la strada; oltre l’angolo scorse Renato. Gli si avvicinò correndo, lo raggiunse, gli prese la mano e col volto rigato di lacrime lo guardò sorridendo.

‘Vengo con te, papà.’

Il Guarneri del Gesù

Era un negozietto che passava inosservato, nella piccola strada piena di botteghe artigiane dove si riparava tutto, dalle bambole alle vecchie pendole. Nella vetrina, accanto alla porta, una vecchia scritta, in oro su vetro nero: ‘Strumenti musicali’. In bella mostra un violino in un astuccio di legno con un cartoncino: ‘Hope’ e sotto ‘vera occasione’.

Quando aprii la porta a vetri tintinnò un campanellino e dal retrobottega apparve un vecchietto con gli occhiali sulla punta del naso.

‘Desidera?’

‘Vorrei sapere quanto costa il violino in vetrina, la vera occasione.’

L’uomo andò verso la vetrina, prese l’astuccio col violino e lo poggiò sul bancone. Estrasse lo strumento dalla custodia e me lo porse.

‘Lo provi, senza impegno, senta la musicalità. Avrà almeno un secolo. Di questi non ne fanno più. Lo provi.’

Cercai di schernirmi.

‘Ma sono solo un modesto dilettante…’

‘Lo provi.’ Insisté il vecchio.

Portai il violino alla spalla, impugnai l’archetto e lo feci scorrere sulle corde, sol… re… la… mi. Il suono era purissimo, melodioso. Provai qualche nota, un leggero pizzicato, la suggestione del basso, l’acuto del soprano.

‘Si, é veramente un bel violino’ -dissi- ‘ma non credo che potrò permettermelo.’

E lo riposi nell’astuccio.

‘Glielo do a metà prezzo di uno strumento usato ma fatto in serie. Io so che lei lo conserverà con cura, non cercherà di rivenderlo per lucro.’

Il prezzo, effettivamente, era molto conveniente.

Uscii dal negozietto, orgoglioso, con l’astuccio sotto braccio.

* * *

Lo portai a casa come una reliquia.

Quando lo vide, mi si parò dinanzi inquisitoria.

‘E questo cosa sarebbe?’

‘Un grosso affare, un desiderio che ho sempre avuto.’

‘Cioé?’

‘Un violino…’

‘Ci mancava solo questo. E dove credi di poterlo riporre?’

‘Un posto lo troveremo.’

‘Certo, glielo trovo io, sta sicuro.’

Voltò le spalle e se ne andò in camera.

* * *

Le poche volte che riuscivo a strimpellarlo, veniva di corsa a chiudere la porta. Non riuscivo a trovare un posto per riporlo, dopo aver suonato. Le dava fastidio dovunque lo mettessi. Decisi di portarlo in cantina. Ogni volta dovevo scendere per prenderlo e riscendere per rimetterlo a posto.

Per fortuna la cantina era fresca, non umida, pulita, illuminata.

Suonare il violino mi faceva tornare indietro nel tempo.

Avevo cominciato con un ‘mezzo violino’, poi ero passato al ‘tre quarti’ e quindi all’intero.

Il Maestro Paoli veniva a casa tre volte la settimana, mi faceva solfeggiare e quando avevo cominciato a saper muovere le dita e usare l’archetto, mi faceva ripetere all’infinito gli esercizi fino a quando, secondo lui, non li eseguivo senza errori. Il ‘tempo’, poi, era la sua fissazione. O forse aveva proprio ragione. Ogni tanto batteva la sua corta bacchetta sul leggio: ‘il tempo… il tempo, senza parlare dei diesis e dei bemolle.

Poi v’erano state le esibizioni in Chiesa, in parrocchia, soprattutto con l’Ave Maria di Gounod. Più tardi ero riuscito a suonare, in ultima fila, in Teatro, con attori veri, in un’orchestra vera, nella Carmen. Durante le prove ero stato attentissimo. Del resto le note che dovevo suonare erano veramente poche.

Ma quello che mi faceva dimenticare la realtà che mi circondava era Sibelius, le sue note struggenti che volavano lontano, nel cielo infinito, a raccontare la profonda tristezza del cuore.

‘Hope’, il vecchio, caro violino, mi comprendeva.

* * *

Ero stato fuori diversi giorni, per lavoro.

Tornare a casa era stato bello.

Ancora con la famiglia, intorno al tavolo, a raccontare qualcosa del viaggio, della città dov’ero stato, del lavoro.

Le piccole cose che avevo portato a ciascuno erano state gradite. Almeno così mi avevano detto.

Poi, quando tutto rientrò nella routine, scesi in cantina per prendere il violino: non c’era. Certo lei mi aveva fatto una sorpresa, lo aveva fatto portare su, gli aveva dato un posto, sapendo di farmi cosa grata, anche per evitarmi quell’inutile andirivieni.

Rientrai sorridendo. Era nel tinello, intenta a leggere un giornale illustrato.

‘Dov’é il violino, cara?’

Non alzò gli occhi.

‘L’ho buttato.’

‘Buttato?’

‘Certo, l’avevano mangiato i topi, era completamente rosicchiato. Che idea mettere il violino in cantina.’

‘Ma come sono entrati i topi nell’astuccio, era chiuso a chiave, ed era di legno durissimo.’

‘Non sufficientemente duro per i topi. Del resto era un violino senza alcun valore, non hai certo perduto un Guarneri del Gesù.’

‘No, ho solo perduto Hope. La speranza!’

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