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La Caduta, Atto diciottesimo. Del ricordare di Eria.

By 24 Febbraio 2023No Comments

Eria aveva passato la notte in meditazione, affilando le sue lame. I coltelli erano la sua arma d’elezione, ma per quella battaglia aveva optato per due spade corte, bilanciate e affilate come rasoi, identiche a quelle usate sotto le mura di Licanes.
“Un modo per chiudere il cerchio.”, pensò mentre controllava l’equipaggiamento.
I soldati di Calus le stavano lontana. La temevano. Non vedeva motivo di disattendere la loro percezione mostrandosi amichevole quando di fatto non li vedeva che come meri alleati temporanei, pedine insignificanti su una scacchiera di Kaish prossima alle mosse di chiusura.
Kaish… un altro ricordo di Licanes. Un gioco antico e dimenticato. Come troppe altre cose.
I pietosi discendenti di quell’augustea patria avrebbero pagato con sangue e venerazione la sua sapienza, il suo ricordo di quei tempi.
Di contro, Eria sapeva che avrebbe pagato molto di più per l’oblio, a volte.
Ricordava bene. Ricordava la sua infanzia tra i Licanei. Guerriera per elezione. Poi sorteggiata. Insieme a lei, altri. Uomini e donne. Veterani e giovani leve.
Erano stati scelti a caso, estratti a sorte dai membri del Consiglio di Licanes.
Cinquantamila tra loro. Scelti per un esperimento, un glorioso passo in avanti, avevano detto loro. Eria fremette mentre un antico terrore le afferrava la gola.
Pur sapendo che era solo un ricordo, riviverlo era semplicemente orribile.
Il liquido si agitava lento nella coppa d’argilla che le era stata messa tra le mani. Come lei, tutti gli altri parevano fissare l’elisir. Dubbiosi? Speranzosi? Esitanti, sicuramente.
Aveva visto Asclepia passare la coppa a un giovane. Erano rimasti a guardarsi un istante.
Suo figlio? Un figlio adottivo probabilmente? Forse.
Impossibile dire con certezza. Non sapeva. Si concentrò sulla coppa.
Nessun fregio, nessun ornamento. Per nessuno. Tutti loro avevano ricevuto coppe d’argilla.
Argilla. Il liquido all’interno pareva sangue. Secondo alcuni miti, tutto ebbe inizio quando una divinità impastò l’uomo con sangue e fango. Sorrise appena al simbolismo.
Il tramonto era prossimo. Il cielo fuori dalla sala in cui si trovavano si tingeva d’arancio.
Pensò al suo pasto, una focaccia con alcune verdure. Speziate.
Pensò a Jorius, un amico, un amico speciale. Aveva giocato a Kaish con lui. E aveva perso.
Pensò che l’avrebbe rivisto presto. Che avrebbero mangiato assieme l’indomani.
“Non c’è di che preoccuparsi. È un esperimento sotto il nostro totale e assoluto controllo.”, avevano detto loro. “Siate fieri! Servire Licanes così è il sogno di molti!”, avevano esclamato giubilanti al loro ingresso in quella sala.
La guerriera sospirò. Se tanto gli era caro tale onore, fossero loro a bere!
Ma dirlo non sarebbe servito a nulla. La giovane pensò ai suoi genitori, fieri e preoccupati per lei. A suo fratello, di stanza sulle mura. Lo sguardo le si annebbiò.
Aveva una brutta sensazione. Forse anche gli altri l’avevano.
Asclepia e gli Apotecarii li osservavano. Con loro c’erano altri uomini. Guardie. E dietro di loro, i maggiorenti di Licanes. Nessuna fretta. Attendevano.
Si guardò i piedi scalzi. Il pavimento della sala era freddo. C’erano altre sale.
Quante? Dov’erano gli altri? In quella, lei contava appena cinquecento di loro.
Scambiò uno sguardo col soldato accanto. Lui, un veterano brizzolato, si portò la mano destra chiusa a pugno sul cuore. “Patria e onore”, pensò lei.
Patria e onore. Tutto ciò che importava nella vita di tutti loro. Almeno, così cercavano di convincerli, e di convincersi. Licanes, l’ultimo bastione di civiltà in un mondo di barbarie, un luogo ameno da difendere ad ogni costo, con ogni mezzo.
La loro amata patria. L’onore della quale erano chiamati a salvaguardare.
La giovane sospirò. Faceva fresco. La tunica bianca che aveva indosso era leggera.
Perché le avevano tolto la corazza? Perché le avevano tolto le armi? Sicurezza?
Timore? Forse paura di una ribellione?
-Bevete.-, l’ordine giunse. Perentorio. Lei guardò la prima fila alzare la coppa, lentamente, con solennità e bere. Poi lo fece a sua volta. Ricordava le mani tremanti…
E gli spasmi di dolore che giunsero poco dopo. Un’agonia che le strappò il fiato dai polmoni, togliendole anche la capacità di urlare.
Si sentì sollevata da mani straniere e condotta altrove. Poi nella sua mente calò il buio.

Eria annuì. Ricordava assai bene.
La metamorfosi era durata ore. Giorni. Dolori lancinanti, spasmi. Assisteva a tutto ciò senza poter far nulla, come se il suo corpo non le fosse appartenuto.
E poi, d’un tratto cessò. Si ritrovò nuda sul pavimento della cella, rannicchiata in posizione fetale, le ginocchia strette al seno, rabbrividendo per la febbre, il corpo coperto di un sudore gelido e la vista sfocata.
Quando infine ebbe modo di alzarsi a sedere e poi in piedi, si guardò.
La sua pelle era mutata. Era divenuta nera, color pece. Ricordava le lacrime, il pianto irrefrenabile. La consapevolezza di aver sacrificato qualcosa di preziosissimo che non le sarebbe mai stato reso.
-Cosa mi avete fatto?!?!-, gridò. La sua stessa voce era mutata, cambiata.
“Mia madre… Jorius… Mio fratello…”, pensò dilaniata. Non l’avrebbero riconosciuta. Non avrebbero mai potuto conciliare quella creatura con l’immagine che avevano avuto di lei.
-Bastardi!!!-, ringhiò. Sferrò un pugno al muro. Un altro. Sentì le dita dolere.
-Maledetti bastardi!!!-, urlò. E la porta si aprì. Lei si voltò. Fu sorpresa della rapidità con cui si era girata. Fu ancor più sorpresa della rapidità con cui arrivò contro all’uomo. Lo buttò a terra di peso e gli strinse la gola in un raptus inumano.
“Maledetti! Maledetti! Possano gli Dei fare scempio delle vostre anime!”, aveva pensato mentre stringeva le mani al collo dell’uomo. Ferocia cieca. Ringhiava, i denti digrignanti e il viso contratto come una fiera. Poi lo guardò. Capì. E aprì le mani, sconvolta.
L’uomo tossì, riprendendo fiato, ritraendosi. Qualcuno urlò di chiamare un Apotecario.
Altri le puntarono le armi contro, da distanza di sicurezza. Ma non sarebbe servito a nulla.
Perché in quel momento, lei non era una guerriera, non era un’assassina.
Era una ragazza che aveva appena rischiato di uccidere a mani nude suo fratello.
-Calior…-, mormorò appena tra le lacrime, -Calior, perdonami!-.
Lui si rialzò. Lei affondò il viso tra le mani. Perché? Perché tutto era così…?
Così come? Non trovava parole per definirlo.
-Va tutto bene, Eria.-, mormorò lui, -Andrà tutto bene. Sono vivo. Sei viva.-.
Quelle parole. Una scheggia di luce fulgente nell’oscurità che sentiva stringerla.
-Perché? Cosa… cosa mi hanno fatto? Cosa sono diventata?!-, chiese lei. Si guardò le mani.
Mani che stavano per prendere la vita di suo fratello. Mani straniere… anche se sue.
-Sei esattamente quello che dovevi diventare.-, disse una voce femminile.
La donna era bionda, avvolta nelle vesti dei sapienti e degli adepti della medicina.
-Riflessi, padronanza motoria… Persino la capacità di reazione.-, la donna sorrise guardandola. Fiera, come un’artista che contempla una statua ben riuscita.
-Di che cosa stai parlando?-, chiese Eria. La sua voce fu un sussurro mentre sentiva il braccio di suo fratello cingerle le spalle.
-Del futuro, soldato.-, disse la bionda, -Del futuro di Licanes.-.
-Abbiamo gli ultimi dati.-, interloquì un servitore, -Circa il 62% degli inductii è vivo. Di questi, il 56% pare sufficientemente lucido da garantire disciplina e chiarezza d’intenti accettabili.-. Non capiva. Quelle parole non le dicevano nulla. Salvo…
-Il 62%…-, mormorò. Lentamente, capì. -Il 38 restante? Gli altri… Che fine hanno fatto?-.
La sua domanda incontrò gli occhi freddi della donna bionda. Superò le guardie che ancora la puntavano con le armi a energia con spavalderia notevole.
-Eria…-, sussurrò, -Non ti curare di questo. Tu sei viva. E sei un capolavoro.-.
-Mi hai reso un mostro…-, sibilò lei con rabbia. Sentì la stretta di suo fratello attorno alle spalle accentuata, come un segnale. Un invito alla calma. Che lei colse solo a metà.
-Se è così che la pensi, attacca pure. Uccidermi non ti dovrebbe essere difficile.-, la bionda aprì le mani e le braccia, come a offrirsi in sacrificio. Il sangue di Eria ribolliva di rabbia.
-Mi hai trasformata in una bestia!-, ringhiò. Calior si allontanò. Eria lo guardò.
Vide paura. E fu questo, più di tutto il resto, a spezzarla.
-Vendicati, Eria. So che vuoi farlo. Avanti! Prenditi la tua vendetta!-, la invitò la bionda. Fece un altro passo. L’odore della donna si mischiò a quello della cella.
Il cervello rettile della guerriera era carico di elettricità, pronto a farla scattare.
Vedeva anche dove colpire, come. L’avrebbero uccisa ma lei avrebbe ucciso quella troia.
Immagini sfrecciarono nella sua mente. Calior e lei da piccoli. I suoi genitori…
“Una vita che non tornerà mai più.”, pensò. Ma morire, se ne rese conto, non avrebbe migliorato nulla. Avrebbe solo posto fine.
-No.-, disse. -NO!-, urlò di nuovo. Abbatté il pugno sinistro a terra, sentendo le nocche al limite della frattura, -Io non diventerò questo!-.
-Ottimo.-, il sorriso della bionda era totale ora. Trionfante. -Procedete.-.
Calior annuì. Eria lo guardò, stupita. Era d’accordo con loro? Come poteva essere?
I suoi genitori? Anche loro sapevano? Accettavano?
-Calior…-, iniziò. Il bruciore al petto le impedì di continuare. Il giovane le aveva sparato.
Un dardo tranquillante sporgeva dal suo pettorale destro, poco sopra il seno.
-Calior…-, riuscì a proferire mentre crollava nell’incoscienza.

Eria annuì. Ricordava. Si alzò. Camminò sino al limite del campo. Non voleva vedere nessuno. Niente. Sapeva bene che doveva finire. Ricordare. Era un momento campale.
Finalmente avrebbe avuto pace. Spezzando il ciclo che aveva visto iniziare secoli prima.
“Qui, in questo luogo, una nuova era sorge. Soffia nella tua conchiglia, o Phratishavra.”.
Phratishavra, morto per mano sua durante quella battaglia. La prima da…
Dal suo cambiare. E la prima della stirpe dei Cimanei. Ricordava la fine della muta…

Ripresa conoscenza erano seguiti un pasto e una serie di test.
Corsa, test di forza, di resistenza. I risultati erano stati impressionanti.
Specialmente per lei. Osservò il suo corpo una volta ancora nello specchio.
Gli alloggi erano spartani, ma funzionali. Non erano solo suoi.
C’erano altri con lei. Uomini e donne. Nessuno aveva detto una parola. Nessuno aveva nulla da dire. Lei non li conosceva. E loro non conoscevano lei.
Neppure lei poteva dire di conoscersi onestamente. Non più. La figura nello specchio era slanciata, tonica e inquietante, la pelle nera quasi brillante da quanto era scura. I capelli erano una criniera scura, nera e maestosa. Ricadevano sciolti lungo la schiena. I denti erano normali, salvo i canini, che erano divenuti solo poco più lunghi di prima. Gli occhi verdi parevano infuocati di una ferocia a stento contenuta. Verdi…
“Erano marroni prima…”, pensò con sconforto. I muscoli avevano sostituito il fisico, ridotto il grasso al minimo. Strinse il pugno destro. Era mutata. Non era più Eria.
-Layla.-, sussurrò a nessuno in particolare, -La notte più oscura.-.
-Come dici?-, chiese un uomo. Lei si voltò, stizzita.
-Niente!-, esclamò. Si accorse di avere i pugni contratti, chiusi spasmodicamente.
-Bada…-, sibilò l’uomo. Era nudo. Come lei. Lo fissò senza timore. Snudò un sorriso arrogante e feroce, senza nessuna paura.
-Altrimenti?-, chiese. Lui la fissò, e basta. Pura volontà, dall’una come dall’altra parte.
-Basta!-, esclamò uno con i capelli grigi che spiccavano sulla pelle nero-pece.
Un veterano. Non ne erano rimasti molti. Eria ne aveva visti pochissimi.
Non voleva dire nulla ma… tutto lasciava presagire il peggio per loro.
-Non ci serve altro che azzannarci come bestie feroci per perdere tutto quel che ci è rimasto! Ma guardatevi!-, esclamò il vecchio.
Eria abbassò lo sguardo sul pavimento. Era vero. Non serviva a nulla attaccar briga tra loro. Ma la verità era ben diversa. Provava una rabbia, il desiderio di far male come mai aveva provato. Come non ricordava di aver mai provato in vita sua.
Il vecchio non distolse lo sguardo. Eria notò che aveva le gambe rinsecchite, e così anche il suo membro pareva prosciugato, atrofizzato come gli arti inferiori.
Effetti di quella mistura? Oppure era altro?
-Siamo ancora Licanei.-, disse il vecchio, -Siamo ancora soldati. E abbiamo ancora tutta la disciplina che serve a non diventare bestie. Non accadrà. Non sotto il mio comando. Chiaro?-, chiese. L’uomo annuì. Eria anche.
-Bene. Il mio nome era Molasius. Ora il mio nome sarà Molas.-, dichiarò lui.
-Eri un ufficiale?-, chiese l’uomo.
-Proprio così, ragazzo. Quindicesima Coorte, Prima Falange.-, dichiarò.
-Assaltatori.-, annuì lui. -I Diavoli di Cohria.-, aggiunse Eria.
L’attenzione dell’uomo si spostò sulla giovane. Eria notò che sebbene fosse nuda, Molas non degnò di uno sguardo il suo corpo, fissandola invece in viso.
-Esatto. I maledetti Diavoli. Ah, quale gloria fu quella vittoria. E ora ne porteremo altra a Licanes. In questa nuova forma, faremo ciò che va fatto!-, esclamò.
Attorno a loro intento si erano radunati gli altri. Uomini e donne. Erano tutti nudi e tutti pendevano dalle labbra di quell’uomo. Molas non pareva badarci.
-Ci hanno trasformati in questo. Ma siamo ancora umani. Il mio cervello funziona ancora, e così le mie braccia e le mie gambe!-, fece una pausa con un ghigno, -Nutro dubbi su ciò che pende tra esse, ma sono convinto che la cosa non valga per voi!-.
Timide risa, esitanti, rischiararono l’umore cupo dei soldati.
-Insomma, ciò che sto dicendo è che siamo ancora noi! Tu!-, esclamò puntando un dito verso una donna di qualche anno più giovane di Eria, -Cosa ricordi?-.
-Ricordo mio marito. Erminius. Ricordo mio figlio, Prius. Ricordo…-, la donna aveva le lacrime agli occhi nel ricordare. Molas annuì.
-Tu?-, chiese a un giovane in mezzo alla calca.
-Ricordo la mia fucina. E il mio addestramento.-, ammise lui, -Non avevo moglie ne figli.-.
-Tu?-, chiese al giovane che aveva poc’anzi importunato Eria.
-Ricordo mio padre, Mostaus. Ricordo l’Epopea di Lipenacdeo.-, disse. Molas annuì.
-E tu?-, chiese ad Eria. Lei ricordava. Molto. Ma la risposta le venne di getto.
-Ricordo mio fratello.-, disse. Prese forza. -Ricordo mia madre.-.
-Esatto!-, esclamò Molas, -Noi tutti ricordiamo! Noi tutti sappiamo! I nostri corpi possono cambiare, la vita può venirci strappata, ma la nostra è un’anima licanea! Come licanei sono i nostri cuori!-, la voce del vecchio era tonante, -E da licanei, faremo ciò che dobbiamo.-.
-LICANES!-, urlarono tutti. In quell’urlo vi era qualcosa. Una dignità rinnovata, ritrovata.
-Custodite come un tesoro i vostri ricordi! Perché saranno il nostro santuario!-, concluse Molas. -Licanes!-, urlò Eria, il pugno chiuso sollevato, in sfida al fato.

Eria sorrise appena. Il ricordo le era di conforto. Mai come in quel momento, aveva sentito la volontà di sovvertire il destino. Mai come allora, circondata da fratelli e sorelle.
Non era destino che durasse.

Furono lanciati all’attacco. Truppe d’urto, li definivano. Brandivano lame e mazze, archi e armi da lancio primitive. Armi infinitamente inferiori a quelle brandite dagli altri Licanei.
Il loro primo bersaglio fu il Re-guerriero Malshasi. Il suo esercito contava ben diecimila uomini ed era il flagello delle terre a oriente di Licanes.
Fra le armi da taglio propostele, Eria sentì di avere una particolare affinità con le lame.
Spade corte, o pugnali. Pugnali lunghi e bilanciati, dalle lame ricurve a goccia, così diversi dalle dritte lame dei Licanei. Ore di allenamento le avevano portato in dono la perizia.
Indossava l’armatura datale, schenieri e pettorale, sopra le sottovesti in tessuto.
Armature nere. Come loro. Armature da demoni, aveva detto Molas.
L’orda di Malshasi dovette pensarla così: furono attaccati dai duemila guerrieri di Molas all’imbocco di una gola montana. In marcia, l’armata dei predoni fu un facile bersaglio.
La mischia fu terribile. Ma stranamente, per Eria parve… facile.
Era facile muoversi tra lame e proiettili, tra amici e nemici. Era rapida.
Non era infallibile, ma era brava. Subì ferite. Un taglio alla coscia destra, uno al braccio sinistro, uno al viso… Ricordava bene la ferocia. Urlava e ringhiava come una fiera, mulinando le lame. I suoi compagni non furono da meno. L’armata di Malshasi tentò di ripiegare, di uscire dalla gola e riposizionarsi, per sfruttare il vantaggio numerico.
Trovarono le truppe licanee ad attenderli. Il fuoco delle armi energetiche mise la parola fine al signore della guerra e alla sua schiera.
Ma i morti erano stati molti. Di duemila guerrieri, solo seicento circa sopravvivevano.
Eria non ascoltò l’elogio da parte del Conestabile di Licanes. Non ne volle sentire.
Trovò il corpo di Molas tra i morti. Lo compose con tutti gli onori. Poggiò le sue armi al fianco del caduto affinché continuassero a servirlo nell’aldilà. Posò due monete sui suoi occhi, affinché il Traghettatore ricevesse il compenso che gli era dovuto.
Altri si unirono alla cerimonia. E altri ancora. Anche i Licanei lo fecero.
Il giorno dopo, le ferite di Eria erano già quasi guarite. Merito dell’elisir, le fu detto.
Poi giunsero gli altri nemici. Signori della Guerra e regni avversari.
Fu prima una battaglia notturna che Eria decise.
Per allora, la disciplina era quasi interamente scomparsa dalle loro fila.
Dipinse la propria pelle con pitture di guerra. Un’usanza barbarica e primitiva.
Ma fu una sua scelta. Quando un soldato, il giovane Maius che già l’aveva interrotta a suo tempo, sopraggiunse, lei aveva terminato di prepararsi.
-Che cosa fai?-, chiese. La sua voce era bassa, gutturale.
-Pitture di guerra.-, rispose lei.
-Non siamo barbari, Eria.-, ribatté Maius.
-Non è più il mio nome.-, rispose la giovane. Lui annuì appena.
-Eria è morta. È morta da molto, quando suo fratello le ha sparato.-, disse lei
-Immagino valga lo stesso per Maius.-, concordò l’uomo.
La guerriera lo guardò. Non era brutto: come gli altri era muscoloso e tonico, ma la sua mutazione erano gli occhi. Rossi. Eppure, nonostante sembrassero demoniaci…
-Come ti chiamerai, dunque?-, chiese lui. La sua voce era bassa, minacciosa.
-Layla.-, rispose lei, -Come la notte più scura. L’ora prima dell’alba.-.
-Poetico.-, ghignò lui. Mosse appena una mano per toccarle il viso, dove la pittura non aveva preso bene. Lei gli strinse il polso, ferrea.
-Non osare.-, sibilò. Lui sorrise.
-Non lo vuoi?-, chiese. Layla sospirò. Si vedeva? Si vedeva che la rabbia non era la sola cosa? Quella mistura aveva annichilito gli inibitori. Negli ultimi mesi aveva visto molti altri divenire bestie. Pressappoco. Alcuni avevano preso ad ornare la armature con trofei di vario genere. Altri si davano alla bisboccia o alle licenziosità senza alcuna remora.
Anche lei, in parte, sentiva quegli impulsi, ma li aveva sempre negati. Mangiar carne era stato un passo obbligato. Ma iniziava e finiva lì. Cacciare era il solo modo per mantenersi indipendenti dalle esigue scorte elargite dal Licanes.
Licanes. La patria che non avrebbero mai più rivisto. Layla ne era certa.
La loro gente li aveva abbandonati, gettati a combattere una guerra dopo l’altra.
A immergersi in una distruzione dopo l’altra. A corteggiare l’annientamento.
-Non…-, si fermò. Decise. -Non sono una bestia. Sono una donna di Licanes.-.
-Non riesco a pensare a nulla di più umano, Layla.-, disse il giovane.
-Che vuoi dire?-, chiese lei. Lui sospirò. Lasciò cadere la mano.
-Domani potremo essere morti.-, disse, -Molti altri lo sono già. Eravamo in ventimila e ora siamo in sedicimila. Non credo che riceveremo rinforzi.-.
-Cosa vuoi dire?-, chiese Layla. Non le piaceva dove stava andando a parare.
-Licanes ci sta usando. Tu lo sai bene. E anche io. Dobbiamo spezzare questo giogo.-, concluse l’uomo. La guerriera scosse il capo. I capelli neri ondeggiarono come una criniera.
-Ribellarci è fuori questione.-, disse.
-Ci uccideranno tutti! Ci faranno combattere le loro sporche guerre sino…-, il giovane si fermò, -Sino a che non saremo morti. O forse ci uccideranno loro.-.
-Tradiremmo tutto ciò che siamo!-, esclamò lei, adirata.
-Cioè schiavi?-, chiese l’uomo, -Maktor. Così dovrai chiamarmi, Layla. E non intendo essere schiavo di questi vigliacchi che dalle loro torri d’avorio decidono della nostra vita o della nostra morte.-.
-Maktor…-, iniziò lei. Lui le mise una mano sulla spalla. Lei emise un verso di frustrazione.
-Ascoltami! Pensi davvero che la nostra patria ci accetterà? Guardaci!-, costrinse la guerriera a girarsi verso i campi. I fuochi degli accampamenti erano bassi. I guerrieri, “Cimanei” come si erano battezzati, dal villaggio di Cimanes, luogo di nascita di Molas, vagavano tra le tende, assorti nei loro affari.
-Siamo barbari. Non vedo licanei tra noi. Neppure medici o ufficiali logistici. Nessuno. Non possiamo usare i loro mezzi, non possiamo usare le loro armi. Ci hanno lasciato solo armi primitive. Da selvaggi…-, Maktor la lasciò. Layla non si mosse.
-Non ci curano se ci ammaliamo. Ieri Othra è morta. Infezione.-, disse, -Nasio ha perso una gamba. Si è impiccato all’alba. Non ci seppelliscono. Nessun rito funebre, lo capisci? Solo Molas e pochi altri hanno avuto questo pregio, ma noialtri no. Siamo reietti, Layla.-.
Layla espirò. Non poteva essere… Eppure era. La verità era incontestabile, e rendeva le parole di Maktor pesanti come massi e macigni…
-Maktor… Tu stai proponendo una rivolta. Una guerra contro la nostra patria! La nostra gente ci si rivolterà contro!-, esclamò.
-No! Li combatteremo! Li vinceremo. E rivedremo la nostra gente unita, come doveva essere.-, disse l’uomo. La guerriera scosse il capo.
-Non esiste! Ci vedranno come mostri!-, disse lei.
-Forse lo siamo. Ci hanno resi tali.-, disse lui. Si sedette a terra, ai piedi di Layla.
Lei si mise a sedere accanto a lui. Non indossavano corazze. Non era ancora tempo.
-Allora forse dovremmo avere la forza di fare ciò che va fatto. Esporre la verità.-, disse lei.
-Il popolo non ci ascolterebbe.-, rispose Maktor.
-Proprio come tu ora non ascolti me?-, chiese Layla notando che lo sguardo dell’uomo virava verso il suo seno, orgogliosamente eretto e sodo.
Colto in flagrante, Maktor sospirò. -È ben difficile non distrarsi, o musa.-.
Musa… Una parola figlia dell’arte. Quanto rara era stata negli ultimi mesi!
-Maktor…-, iniziò lei. Lottò contro il desiderio. L’uomo non le spiaceva.
-Sì?-, chiese lui. Lei si sforzò. Non cedere. Non subito. Prima doveva finire.
Sentiva però una parte del suo essere attirarla verso di lui. Quasi senza rendersene conto si accorse di essergli appiccicata, semi-sdraiata sull’erba, come lui.
-Noi… non possiamo ribellarci a Licanes. Non senza crescere di numero.-, disse infine.
-Allora cresceremo.-, rispose lui. Le sfiorò il viso. La pittura di guerra si rovinò.
Lui passò la mano sul proprio viso. La stria rossa che vi disegnò era… sensuale.
Il cuore di Eria accelerò. Lo sentiva battere rapido e forte. Come quello di Maktor.
-L’elisir…-, sussurrò. Risposta e domanda. Non riusciva a pensare lucidamente.
Il desiderio le intorbidiva il sangue, facendole bramare quell’uomo come un’assetata avrebbe bramato l’acqua.
-Lo prenderemo. Lo produrremo…-, disse lui. Le afferrò la nuca, -Ma prima…-.
Layla non resistette. Il bacio fu vorace, feroce. Le mani di Maktor scivolarono sul suo corpo, andando a impiastricciare e distorcere le pitture di guerra che vi aveva applicato.
Layla non si oppose. Cercò e trovò il sesso dell’uomo, grosso e turgido.
Montò a cavalcioni di lui, guidandolo dentro di sé. Non era stata la sua prima volta: quella era avvenuta prima, prima dell’elisir.
Maktor le strinse i seni con brutalità. Ansimava, come lei. Layla gli affondò le unghie in petto, quasi a volerlo trapassare. Lui la rovesciò sotto di sé.
Non durarono molto: lei voleva godere e lui non intendeva certo lasciare che lo facesse da sola. Sagome nere nel nero della notte, continuarono a muoversi incuranti di chi poteva guardare o commentare. Cambiarono posizione di nuovo, con la giovane che troneggiava sull’uomo. Estrasse il sesso di lui, rapida. Si toccò sentendo una nuova onda di piacere.
Emise un verso gutturale mentre godeva, persa nell’estasi.
-Perché?-, chiese l’uomo.
-Perché non voglio restare incinta.-, chiarì lei, -E perché, credimi, è meglio di no.-.
-Abbiamo bisogno di numeri, hai detto.-, mormorò Maktor, confuso.
Il sesso nella mano di Layla non accennava a rammollirsi. La giovane lo strinse appena.
-Sì. Ma io sono una guerriera. E se permetti, sono anche brava. Lo sai. Non puoi permetterti di vedermi mancare dal campo per partorirti un figlio che richiederà anni per divenire un guerriero.-, rispose lei.
-Allora cosa dovrei fare? Ingravidare delle donne normali? Le sfiancherei e lo sai. Non sono neanche sicuro di poter ancora procreare. L’elisir… su alcuni ha questo effetto.-, replicò lui. Eria annuì.
Mosse appena la mano lungo il membro di Maktor sentendolo reagire.
-Ci servono numeri. Ma non possiamo permetterci di perdere guerriere nel generarli.-.
La risposta di Layla fece sprofondare il suo partner nel dubbio. Poi annuì.
-L’elisir. E dei prigionieri.-, disse con voce riflessiva.
-Oh. Vedo che non tutto il sangue è affluito al bassoventre.-, rispose con un ghigno Layla.
Si chinò sul sesso dell’uomo. Lo avvolse con la bocca. Fu troppo: Maktor le premette il capo sul proprio sesso mentre si svuotava in lei. Layla si rialzò, furente.
-Non osare mai più farlo. Chiaro?-, chiese con furia. L’uomo annuì.
Lei si rasserenò. Trovò dell’acqua e si sciacquò la bocca.
-Ora alzati. Abbiamo una battaglia a cui prepararci. Spero tu sia in forze.-, la giovane recuperò la ciotola con la pittura e cercò di ridipingersi adeguatamente il corpo. Impresa disperata. Le manate di Maktor e le sue avevano sparso pittura ovunque.
-Ti aiuto.-, disse lui. Lei sorrise appena. Accettò. Poi fece lo stesso con lui.
Quando la notte arrivò al suo apice, caricarono il nemico. Vinsero

Eria annuì. Ricordava Maktor. Non era stato il suo unico amante, ma era stato il primo da quando era mutata. Tra tutti, era stato forse il secondo tra i Cimanei a mostrare lungimiranza. Ma non fu l’unico, né il più fanatico verso la loro causa.

Vinsero. La città nemica cedette. I Cimanei catturarono numerose donne, diversi uomini e bambini. Diedero loro una scelta: unirsi ai loro ranghi oppure venire uccisi.
La maggior parte accettò. Inizialmente furono usati come servitori, uomini e bambini addetti al mantenimento di armi e provviste. Le donne invece…
Layla ricordava bene le preghiere benauguranti di alcuni dei loro quando giovani guerrieri andavano ad accoppiarsi con le donne che avrebbero dovuto portare in grembo la loro progenie. Ma il risultato non fu incoraggiante. In poco tempo, i Cimanei compresero che l’elisir li aveva resi quasi interamente sterili. Pochissimi amplessi videro una gravidanza.
Al che, la decisione di Maktor, di Ulhar e di Layla fu semplice.
L’elisir andava somministrato. Per farlo andava prodotto. E dunque andava ottenuto.
La scienza presso i Cimanei era primitiva. Non sapevano nulla di chimica se non ciò che avevano appreso per esperienza diretta e osservazione.
Ma la caccia, quella la conoscevano bene.
Attirarono un gruppo di Licanei comprendente un Apotecario in un punto desolato, segnalando un’anomalia nel comportamento di alcuni dei loro.
In poco tempo il gruppo di militi fu decimato e l’Apotecario, un vecchio barbuto, preferì parlare e ottenere una fine rapida che patire un supplizio immane.
In poco tempo, i Cimanei produssero il loro elisir. Lo somministrarono ai prigionieri.
Inutile negare che molti non sopravvivevano e numerosi altri mutavano in modi strani o grotteschi. Ma con il tempo, il loro numero crebbe. Gli osservatori di Licanes tentennarono davanti a tale scoperta e si prepararono a reagire, ma ormai i Cimanei erano un’orda.
Layla ricordava Licanes, ma ora mangiava carne, arrostiva animali allo spiedo, dipingeva pitture di guerra con la calce e ascoltava gli indovini divinare il futuro dagli auspici.
Il suo presente erano loro, i Cimanei. Ed erano pronti.
Quando affrontarono Re Phratishavra erano un numero notevole.
L’armata del Re fu sconfitta. Maktor ne raccolse la conchiglia da guerra come trofeo.
E procedette al suo discorso. Layla, in prima fila, esultò.
Nessuno si oppose: erano ormai due anni che Licanes usava tutti loro come carne da cannone e mastini di guerra. Ora era giusto che pagasse pegno.
Fu quello il giorno. L’inizio della Guerra tra Licanei e Cimanei. L’inizio del ciclo.
Ovviamente non fu così semplice: Licanes tentò di rimediare all’errore. Inviò mezzi e forze a cercare di porre fine ai Cimanei con ogni mezzo. Sforzo valoroso, ma vano: Maktor e i suoi uomini avevano a lungo studiato come condurre quella guerra ed avevano determinato come agire.
Sfruttarono ogni vantaggio. Il terreno, le coperture, la guerra battereologica, doppi giochi e attacchi suicidi o diversioni. In una parola, tutto.
Col tempo però, Layla capì: la redenzione, la riunione con Licanes, non era più il loro scopo. I Licanei si erano rivelati decisi a estirpare i loro figli degeneri, i quali non avevano fatto mistero di un altrettanto forte volontà di distruggere la loro patria traditrice.
Quello che era iniziato come un conflitto idealista degenerò nella barbarie e nell’efferatezza. Il peggio per Layla fu lo sguardo di suo fratello e di suo padre, schierati sulle mura. Lo sguardo che le riservarono fu quello che si usava riservare ai nemici.
E lei ricambiò con l’odio. L’odio per Licanes. Per l’elisir. Per la crudeltà del mondo e persino per sé stessa. La notte pregava gli dei che qualcosa cambiasse.
Maktor e gli altri brindavano alla vittoria, facevano piani, si contendevano le attenzioni delle donne, lei no. Lei vedeva quella guerra come un mero esercizio di scherma.
I Licanei erano deboli nel corpo a corpo. Annullata la distanza, spesso erano preda del panico e dell’incapacità. Rammolliti dalla loro tecnologia.
Ma non significava che non fossero pericolosi. Layla perse molti amici e compagni di battaglia durante quei mesi sotto le mura, più di quanti ne avesse persi prima di raggiungerle.
Poi, come aveva pregato, così accadde. Qualcosa cambiò, ma non come lei si era aspettata.
Incrociò le lame con un guerriero. Un licaneo chiamato Janus.

-Janus!-, ringhiò Eria. Il ringhio si perse nella notte. Vento sulle braci della sua ira.
Janus era stato il solo Licaneo degno di considerazione. Onorevole, retto, coraggioso.
Se fosse nato tra i Cimanei… Eria serrò i pugni, affondando le unghie nella carne.
-Janus.-, sibilò con odio. Era nato tra i Licanei. E infine…

Infine s’incontrarono. L’altare di un tempo diroccato, luogo di tregua. Una tregua di tre giorni all’inizio, per i funerali di ambo le parti. Poi altri due giorni di tregua.
Un gioco di specchi: Layla aveva ricevuto ordine di carpire informazioni dall’uomo, proprio come lui avrebbe dovuto fare con lei. L’ironia della cosa divertì entrambi.
Ma l’attrazione tra loro era evidente. Layla non aveva più avuto nessuno e Maktor era troppo assorto nella sua guerra per farsi distrarre da lei.
In più, onestamente, Layla aveva maturato una certa attrazione per Janus, e intuiva di essere ricambiata.
Amore? O era solo libidine? Importava? No. Come a lui non importava che lei fosse stata il nemico della sua gente. Si amarono. Per giorni. Dopo la tregua si incontrarono di nuovo là, quel tempio diroccato e quell’altare in rovina furono il loro talamo.
E tutto finì quando Maktor venne a sapere la verità. Sfruttò la cosa a suo vantaggio, usando il passaggio usato da Janus per giungere dentro Licanes.
Misero a ferro e fuoco la città. Layla stessa uccise l’Apotecaria bionda a capo del progetto dell’Elisir. Fu una catarsi. Giustizia fatta. Ma nulla più.
Privi di uno scopo, i Cimanei si sfaldarono. In molti partirono per altri rivi.
In troppo proponevano di dare la caccia agli esuli di Licanes. Fu Layla a imporsi.
Uccise Orlak nel sonno dopo averlo sedotto, pugnalò Mihai dopo averla drogata. Solo Maktor fu da lei sfidato, ma il tempo e le ferite decretarono la sua morte per mano della guerriera.
Massacrò i capi Cimanei per poi guidare quel popolo attraverso un pellegrinaggio spietato.
Sino a un luogo che aveva visto nei suoi sogni. Dove, come per volontà degli Dei, ritrovò Janus.
Pareva il finale di una favola. E lo fu, finché non fu defraudata di un’ultima gioia. Relegata a un vuoto ruolo di orpello. L’ira le divorò il cuore.
E da allora, furono solo le sue lame a parlare.

-Janus…-, mormorò con rabbia e dolore Eria. Era, non Layla.
Layla era morta quando lei aveva affondato la lama cercando la carne di Maghera ma trovando quella di Janus. E ora, avrebbe concluso l’opera.

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