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Un incontro di pugilato? Ma sei matto? – esclamo contrariata. Tutte le riserve di madre si affacciano alla mia mente.
Mio figlio mi ha appena rivelato questo folle progetto. E’ una proposta fattagli dalla palestra dove va ad allenarsi 3-4 volte settimanali. Che è appunto una palestra di pugilato. A parte che non ho gran piacere che passi ore della sua giornata in quello squallido sotterraneo puzzolente di sudore, trovo che un conto sia l’allenamento pugilistico, con tanto di qualche scazzottata sul ring con un compagno di allenamento, un conto sia il combattimento vero e proprio, con i round, il pubblico vociante, ecc ecc.
– Mi dicono che ho un bell’allungo – si giustifica mio figlio, stando lì impalato in mezzo alla cucina.
– Non so cosa sia questo allungo – gli rispondo (veramente un’idea ce l’avrei, è molto snello e dinoccolato, dipenderà da quello) -ma non è certo una buona ragione per andarsi a prendere dei pugni in faccia. Non capisci che questi incontri convengono solo al tuo allenatore e alla tua palestra? Tu cosa ci ricavi? –
– Ma è appunto per loro che lo faccio, e poi… –
– E poi? – Lo incalzo io.
– E poi a me va. È un’esperienza che volevo fare –
Che dirgli. È maggiorenne. Sarà un’esperienza e va bene, mi dico. Ma l’idea che il volto di mio figlio venga colpito da pugni, che altri ne possa ricevere sul torace, nello stomaco, mi è francamente inaccettabile.
– Fa’ come vuoi – sospiro.
Gli giro le spalle ritornando a sfaccendare nel lavello. Meglio dedicarsi alla pentola da lavare, c’è una macchia di bruciato in fondo che non si è tolta.
– Verrai a vedermi? – esordisce improvvisamente lui.
A momenti la pentola gliela tiro in testa. Così mi metto avanti con lavoro, visto che vuole fare esperienza di bernoccoli. In testa, e su quel sorriso scanzonato che gli colgo sul viso mentre mi giro. – Questo te lo scordi! – lo aggredisco – vai a farti ammazzare se vuoi, ma lontano dai miei occhi! Ci siamo capiti? –
Il giovedì sera di quella stessa settimana, siedo angosciata su una panca dentro il capannone della cooperativa dove è stato allestito l’incontro, maledicendo la mia cedevolezza.
Mio figlio non è l’unico che combatte, ovviamente. Gli incontri sono una decina, di tre round ciascuno. Il suo è il terzo. Attorno a me siede e si aggira un sacco di gente vociante, buona parte del vicinato, tra i quali probabilmente i genitori dei ragazzi che si esibiranno questa sera e anche volti sconosciuti, amici, amichette degli atleti. Tutti quanti eccitati per la serata, dal riso facile e un po’ isterico. Qua e là anche alcune donne, sul viso delle quali mi pare di scorgere l’ansietà di madre, e anche padri, seduti in punta di seggiola, anch’essi col sorriso un po’ troppo facile, forse preoccupati di dover vedere il figlio fare brutta figura. L’unica seria e silenziosa sono io. E forse anche l’unica sotto sotto divertita di quella situazione grottesca nella quale mi sono fatta incastrare.
– Mah! Vedremo anche questa! – Penso. E mi predispongo a passare una brutta serata.
Iniziano le gare.
Il primo incontro finisce tra i fischi, perché i due, a quanto pare, non si sono menati abbastanza.
Il secondo, per converso, è un massacro. Persino l’arbitro interviene a calmare gli atleti che, a quanto pare, l’hanno presa troppo sul serio. Intanto però si sono fatti dei bei lividi ed hanno fatto contenti tutti. Se ne vanno tra le ovazioni.
Ecco il turno di mio figlio. L’altoparlante scandisce i nomi tra generici applausi di accoglienza. Ma io nulla posso più vedere, essendomi alzata dalla panca e fuggita via. Proprio non ce l’ho fatta a rimanere lì. Incapace di andarmene definitivamente, sosto appena fuori, appoggiata al muro del capannone, e ascolto.
All’interno il gong risuona solenne, sancendo l’inizio del combattimento. Ecco i primi tonfi dei guantoni, accompagnati da sparute grida di incitamento.
Quando i tonfi diventano più fitti e potenti, anche dal pubblico sorgono brevi scoppi di entusiasmo, seguiti quasi sempre da lugubri mormorii di delusione.
Di nuovo il gong. Primo round finito. Dalla sala proviene di un vocio indistinto, nel quale si distingue la voce del venditore di pop corn. Mi immagino mio figlio seduto all’angolo, sudato e ansimante, mentre l’allenatore gli urla consigli vicino all’orecchio.
Viene il secondo round.
Stavolta le grida di incitamento aumentano, il pubblico si va scaldando. Anche i colpi scambiati si fanno più copiosi e decisi.
D’improvviso un urlo unanime della folla mi fa trasalire. I colpi si susseguono a ritmo sostenuto.
Un altro urlo.
Un altro ancora.
A un certo punto il clamore si eleva assordante, quasi a far scoppiare il capannone. Pare non voler finire. Che è successo? In quel frastuono inarticolato un uomo, scandendo bene le parole, urla: – dieci,nove,otto … –
A quel punto tutto si fa buio attorno a me e il clamore della folla, i tonfi dei pugni, la voce che conta alla rovescia si fanno lontane lontane.

Quando rinvengo, un cerchio di sguardi sopra di me mi circonda preoccupato (io ero scivolata a terra) ma nasce un mormorio di sollievo perché mi vedono rinvenire. Un signore, che poi si rivelerà l’allenatore di mio figlio, piegato su di me, alacremente agita un asciugamano sul mio volto.
– E’ la madre, è la madre – sento mormorare attorno. Mi aiutano ad alzarmi.
Ma subitamente un’angoscia mi stringe il cuore: – come sta mio figlio? – chiedo, già timorosa della risposta.
Mio figlio aveva vinto. E, del tutto ignaro di quel che èera accaduto a sua madre, stava tranquillamente facendosi la doccia. A cadere, poi subito rialzatosi, era stato quell’altro.

– L’allungo- mi dice poi l’allenatore, come se quell’espressione servisse a motivare l’universo intero
– l’allungo è stato determinante – ripete, non senza una certa fierezza – l’ha preso d’ incontro – con gli occhi che gli brillano di soddisfazione.
Stupisce quando dico che me ne voglio tornare a casa.
Ma come, non rimango a festeggiare? Io proprio non me la sento , mormoro qualche parola di ringraziamento e giro i tacchi, allontanandomi in fretta da quella bolgia.
Branco di cretini. Loro, l’allenatore, e mio figlio in testa. Mai, mai più andrò ad un incontro di pugilato.
Cammino nella notte, sola, per rincasare. Il quartiere mi scorre accanto lentamente, coi suoi piazzali, i suoi palazzi, le sue luci lontane.
Che figura. Chissà mio figlio, quando lo saprà. Dirà che sono una donnetta fragile e indifesa. Che è la realtà, del resto.
Ma che ci posso fare. Il suo corpo è come il mio corpo. Sentire i tonfi dei colpi scambiati semplicemente mi inorridisce.

Eccomi di nuovo a casa, alla luce rassicurante della cucina, tra quelle mura dove, pochi giorni or sono, io e mo figlio ci siamo stretti, incuranti del mondo, e abbiamo fatto quello che fanno un uomo e una donna. Quella notte fatidica, mio figlio è poi tornato a dormire nel proprio letto e il giorno avanti non avevamo fatto parola dell’accaduto. Ma io ricordavo la sua stretta sul mio corpo, il suo respiro rovente, e le mie gambe attorno ai suoi fianchi.
La sera dopo, seduti in cucina a guardare la televisione, senza dire una parola, lui mi aveva attirato sulle sue ginocchia portandomi un braccio attorno alla vita.
Rimanemmo rimasti così, in silenzio, godendo dei minimi movimenti delle dita, del nostro respiro, del nostro calore. Poi siamo andati in camera e lo abbiamo rifatto.
Questa volta mi sono abbandonata senza più timore. Abbiamo goduto entrambi e alla fine un calore vischioso è andato allargandosi sul mio ventre. Mi sovvengono queste cose con tale intensità da obliare le più recenti vicende pugilistiche.
Sono appunto assorta in questi pensieri quando lui rincasa.
Ha un bell’occhio nero, il disgraziato, e nel contempo un espressione divertita dipinta su tutto il viso. Segno che gli hanno raccontato tutto.
Decido di giocare d’anticipo.
Guardandogli imbronciata l’occhio tumefatto: – e così avresti vinto? – l’apostrofo
– Ebbene sì – risponde lui ridanciano, e avanza nella cucina
– picchiava forte, ma io mi sono difeso e poi… –
– Sì lo so, l’allungo – lo interrompo esasperata.
– Cosa ne sai? – mi chiede lievemente stupito.
– Me lo ha detto il tuo allenatore. –
– Ah già è vero, che vi siete conosciuti – sorride – il signor Mario ha avuto un gran daffare stasera – e sorride ancora, canzonatorio.
– Ho creduto che fossi tu quello andato a terra – gli rispondo sempre più imbronciata.
Lui si fa serio: – già, per fortuna no. –
Poi , come parlando a sé stesso: – l’ho colpito al mento e lui è andato giù. Ma è stato praticamente un caso. Credo che altrimenti mi avrebbe battuto. Sono stato fortunato, ecco. Il pugilato non diventerà il mio mestiere – ride – Non credo farò mai più un incontro –
– Meno male- rispondo con sollievo, dandogli le spalle.
Mio figlio approfitta per avvicinarsi. Una mano mi accarezza i capelli.
– Stai bene ora? – mi fa con tono improvvisamente premuroso
Un’onda di calore scende per la mia schiena – ho avuto solo un mancamento, adesso sto bene. –
– Il signor Mario era molto preoccupato per te, – prosegue – mi ha fatto rincasare il più in fretta possibile. –
– Il signor Mario è un uomo premuroso, ma sarebbe bastato non far salire mio figlio sul ring – ribatto – per evitarmi dei problemi. –
Il suo viso si immerge tra i miei capelli. Vi alita: – mi dispiace mamma, che tu sia stata male per me.-
Combattendo la dolcezza che mi inonda, butto lì: – che cosa è un allungo? – Come previsto mio figlio si distanzia un poco.
– E’ un pugno molto esteso, mamma, io ho le braccia lunghe e mi riesce abbastanza bene. –
– Lo avevo immaginato –
– E allora perché me lo hai chiesto? –
– Così, so così poco di te, ormai. –
Lui va a sedersi al tavolino, facendomi sentire l’aria della cucina improvvisamente fredda.
Appoggia le spalle e la testa al muro. Chiude gli occhi.
-Ma cosa vuoi che ci sia da sapere – il suo tono è amaro, stanco
Mi giro verso di lui: -mah, sei tanto in giro, qualcosa farai no? –
– Sì, qualcosa, giusto qualcosa – gli occhi rimangono chiusi.
– Sì, qualcosa faccio certo, – ripete – ma non è un granché, sai. –
– Di questo non ne dubito – gli dico con un tenue sorriso – ho già avuto modo di dirtelo. Tuttavia – proseguo – anche se non sarà granché, come tu dici, e come anch’io penso, qualche cosa farai, e io non ne so nulla. Posso solo immaginarlo, ma nemmeno tanto, in fondo. E anche se sono contraria, e lo sai, vorrei lo stesso sapere che cosa sono, queste cose che fai, che sono comunque parte della tua vita. –
– La mia vita, la mia vita…- ripete lui ancora assorto in se stesso. Il tenue sorriso sarcastico si spegne d’improvviso. Spalanca gli occhi, mi guarda come folgorato da un’idea meravigliosa – perché non vieni con me, una notte? –
– Chi, io? Ah no! – e scuoto la testa.
I suoi occhi non mi mollano: – così vedi in prima persona –
– Ah, no – ripeto, povera di argomentazioni, – sarebbe bella anche questa! –
– E perché no? – prosegue implacabile – anche stasera se vuoi. – Uno sguardo all’orologio della cucina: – che ore sono? –
– È tardi –
– No, è presto –
– È tardi –
-E’ l’ora giusta. – conclude entusiasta. E si alza.
– Non credo… –
– Mettiti le scarpe da ginnastica – fa lui – sbrigati! –

Un quarto d’ora dopo, scendo circospetta le scale buie del condominio preceduta dalla sagoma scura di mio figlio. Per la seconda volta in questa giornata, sono proiettata in esperienze che mai mi ero sognata di fare. Con scarpe sportive, jeans, e una felpa spessa.
Non abbiamo acceso la luce delle scale, naturalmente, nessuno ci deve vedere. Una luce azzurrina scende dai finestroni semi-opachi del palazzo.
Eccoci sul piazzale deserto. E’ vero non è molto tardi, ma già le finestre sono chiuse e le strade vuote. Solo le luci assorte dei lampioni fanno la guardia ai lati del deserto urbano.
– Dove andiamo? –
– Beh, ci sono i campi di spaccio o i locali della centrale termica. Dove vuoi andare prima?
– mah, non saprei –
– Lascia fare a me – mi prende per mano e ci allontaniamo nella notte.

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