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Erotici Racconti

Peter Pan e Wendy

By 21 Settembre 2007Dicembre 16th, 2019No Comments

La vera storia di Peter Pan e del suo amore per Wendy.

Tanto si &egrave scritto e detto sulle vicende di Peter Pan, quanti bimbi hanno sognato, prima e dopo di me, l’isola che non c’&egrave, le sirene, gli indiani, i pirati’ capitan Uncino, Sveglia, il coccodrillo’ quanti lo hanno amato, sognato, imitato.
Quanto l’ho sognato anche io, quante volte ho immaginato di essere lui, quanti giochi con una spada di legno e una montagna di fantasia’ io sono lui ancora oggi, in un certo senso mai ho accettato completamente di diventare adulto. Certo ci sono momenti che fingo di esserlo, ma in fondo al mio cuore sono e sarò sempre un ragazzino, un bambino, un Peter Pan.
Fu in una notte di luna piena che l’ho incontrato, si, a Peter Pan. Non ci credete?
Era rimasto impigliato fra i rami di un grosso ginepro vicino al Nuraghe di Serra Orrios, sentii la sua presenza, cercava di non far rumori, ma lo vidi, mi vide e lo liberai. Lui, poi, si mostrò davvero gentile con me, sapeva che credevo in lui da sempre’ lui sa tutto di tutti quelli che credono in lui e di quelli che non credono esiste, solo si addolora per quelli che non ci credono più. Mangiammo pane e formaggio, salsicce e prosciutto, bevemmo il forte rosso di Dorgali. Forse fu per quello che mi raccontò la sua storia, che adesso vi racconto.

‘Vivo sull’Isola che non c’&egrave da quasi duecento anni, arrivai qui fuggendo l’idea di diventare adulto, non mi mancava nulla qui, l’isola &egrave ricca di ogni specie di frutta, di selvaggina abbondante e facile da cacciare, sorgenti di acqua limpidissima, piante che tolgono dolori e cattivi pensieri, col tempo ho imparato a viaggiare e ho portato dai miei viaggi altri bambini che non volevano crescere, esattamente come me, ma poi divenne sempre più difficile perché i bambini d’oggi smaniano per diventare adulti, non vedono l’ora di crescere.
Dopo qualche anno che stavo in beata pace sull’isola mi accorsi che mancava qualcosa alla mia perfezione, mi sentivo sempre più attratto dal laghetto delle sirene, passavo ore ed ore a spiarle mentre sguazzavano cantando melodiose canzoni, mi piaceva vedere le loro code larghe come quelle dei Lamantini, i capelli lunghi, gli occhi obliqui e indecifrabili’ ma quel che più mi attraeva era il loro petto così diverso dal mio, mi affascinavano quei due, come chiamarli’ gonfiori, che facevano spesso capolino fra le chiome e terminavano con quelle due deliziose ciliegine rosee che spiccavano sulle punte. Passavo giorni interi a spiarle e sognarle e a desiderare di potermi mischiare ai loro giochi. Poi un giorno mi feci coraggio e le raggiunsi volando con circospezione per non spaventarle. Fuggirono via schizzando e starnazzando come oche ma riuscii ad afferrarne una per i capelli. Dovetti convincerla con grande fatica che non le avrei fatto del male, che non erano cattive le mie intenzioni e alla fine si calmò’ mi raccontò chi era.
Vedere da così vicino il suo petto mi rendeva euforico e nervoso allo stesso tempo, volevo toccarlo e lo feci e lei tremò come una canna di fiume al vento, fu talmente piacevole sentire come si inturgidivano sotto le mie dita’ non capivo, non sapevo. Le annusai e lei tremò ancora quando le sfiorai col naso. Ricordo che sentii una sensazione stranissima proprio li dove si fa pipì.
Ritornai ogni giorno e ogni giorno ci appartavamo per giocare a quel gioco, io le toccavo il petto e lei tremava e a me si gonfiava sempre la stessa parte, come quando mi svegliavo alla notte, sucato e pieno di un’agitazione incomprensibile.
Più andava avanti la cosa e più mi piaceva, e mi si gonfiava anche se non ero con lei, bastava pensarla e quella sensazione mi coglieva togliendomi le forze.
Non ne potevo più, sentivo che mancava qualcosa a quel gioco, e più mi mancava quel qualcosa e più mi sentivo triste. Poi un giorno scappai da lei e vagai volando alto sull’isola planando di tanto in tanto con la voglia di atterrare e morire’ e poi lo feci ancora, sempre più spesso, e volavo sempre più lontano’ Fu una di quelle volte che mi spinsi nei territori degli indiani, territori pericolosi, sapevo che era meglio starci alla larga, come dalla nave di Uncino, ma fu quella volta che vidi quella strana creatura’ di sopra era come le sirene, soltanto i suoi capelli erano neri e raccolti da un nastro azzurro e ornati con una piuma rossa e perline colorate, ma di sotto era strana, aveva le gambe come tutti noi, quasi scoperte uscivano da una gonnella di pelle sfrangiata.
Mi nascosi per vedere meglio e lei si fermò al torrente, si svestì e si immerse in una pozza d’acqua. Capii subito quel che mancava alla sirena quando vidi il suo sesso coperto solo da un velo sottile di peluria nerissima e rada, lo compresi perché desiderai toccarlo più del petto della mia sirena. Quando mi scorse lo coprì con una mano e il braccio celò il suo petto’ faticai a farle capire che non avevo cattive intenzioni, solo che mi sentivo più duro del solito e lei, Raggio di Luna, arrossiva guardando la mia durezza ma non smetteva di guardare.
‘Cos’hai da guardare che così tanto ti interessa?’ le chiesi.
Mai la sirena m’aveva guardato con tanta insistenza.
‘La tua Canna di uomo &egrave enorme, nessuno al villaggio ha una canna così bella!’ rispose mentre la sua pelle arrossiva ancora di più rendendola ancor più deliziosa.
‘La mia canna di uomo? Io non sono un uomo” risposi seccato,
‘Io sono un ragazzo!’
Rise coprendosi la bocca con una mano e scoprendo per un attimo il suo petto.
‘Ma tu non puoi essere un vero ragazzo se voli nei cieli, e dovresti saper che non &egrave da ragazzi guardare le femmine nude, solo gli uomini adulti lo possono fare.’
‘Fare che cosa?’
Rise ancora e parve prendermi in giro.
‘Ma davvero non sai che cosa si fa per esser felici, per provare piacere?’ rise ancora e ancora copr’ le labbra e scopr’ il petto gonfio.
‘Certo che so, nulla mi manca, di niente ho bisogno oltre le cose che ho!’ ero seccato.
‘Ne sei davvero sicuro? E allora perché la tua canna si gonfia a tal punto che sembra che stia per scoppiare da un momento all’altro?’
‘Beh, questo mi sfugge, ma non &egrave perché non lo so bada, &egrave solo che’ solo che non ci ho ancora pensato!, no, non &egrave vero, sento che vorrebbe qualcosa, sento che’ ma non riesco a comprendere.’
‘Anche io non sono ancora sposa, anche io sento le stesse cose che senti tu.’ disse facendosi triste in un soffio di vento.
‘Anche a te ti si gonfia?’ risposi cercando di sbirciare sotto le sue mani che celavano il celabile.
‘Ma che dici, io sono una femmina e tu sei maschio’ da quello che, posso vedere. Alle femmine non si gonfia”rise ancora, ‘ Magari si, ma non come voi e noi lo nascondiamo”
‘Maschio? Femmina? Ma cosa vai raccontando, siamo tutti bambini”
Mi interruppe e mi chiese di levarmi le vesti, l’accontentai solo per esser gentile. D’altronde ero nel suo territorio’ Lei spalancò gli occhi nel vedere la cosa dalla quale facevo pipì, mi confessò che poche volte aveva visto la canna di un uomo, e mai così dritta. Mi sentivo strano, volevo toccarle il petto e le chiesi il permesso, lei ci pensò un momento e mi disse di fare, e io le accarezzai le sue colline dolci e sode che parevano creta quasi dura, sentii ancor più forte la parte mia farsi più dura e lei mi confessò veloce quanto era bello ch’io toccarsi le sue tette’
‘Le tette?’
‘Si, le tette!’
Ma mentre le accarezzavo con mano tremolante e mente inferma lei si distrasse e lasciò al mio sguardo vederla fra le gambe, forte mi colse all’improvviso un sgomento repentino e forte, lei non aveva la canna, non era stata una svista quella di prima, davvero fra le gambe lei mancava della canna. E s’accorse che li fra le sue gambe guardavo istupidito, che li mi perdevo in mille e mille interpellanze.
‘Vuoi toccarla?’ mi chiese sussurrando le parole. Come se avesse afferrato al volo il mio pensiero unico e pressante.
‘Ma tu da dove fai la pipì?’ le domandai sbigottito cercando intimorito di deviar discorso.
‘La faccio da qui.’ rispose con voce tremolante e languida cedendosi mollemente ad allargar le gambe indicando la rosea fessura magica che le solcava dritta e fiera il posto della’ pipì.
‘Dai, prova, accarezzala e sentirai quanto &egrave morbida e calda.’ disse con voce roca e sguardo strano, ‘ Io spesso lo faccio, sola nelle notti insonni l’accarezzo e solo se sono tranquilla. Su coraggio, non aver timore non morde mica, avanti bel bambino, bel ragazzo uomo che vola con la canna al vento.’
Io, più per dimostrarle che non temevo niente e nessuno, allungai una mano e la toccai per un momento. Aveva ragione, era la cosa più morbida e calda che avessi toccato, solo il fuoco del bivacco era più caldo ma, questa novità lontana era dal bruciare anzi’quando le mie dita la sfiorarono Raggio di Luna si contorse e credetti di averle provocato dolore. Ritrassi la mano ma lei mi implorò di seguire la mia carezza. Giocai con qual nuovo’ come dir non so’ sentendo montare più forte il mio gonfiore, sentivo pulsare la canna sentivo intensamente quanto volesse trovar qualcosa.
Quasi non m’accorsi quando Raggio di Luna la prese fra le mani, solo sentii una scossa violenta e mi commossi in un brivido denso e caldo da morire, ritrasse le mani impaurita chiedendomi perdono ma, la implorai di proseguire e la acquietai spiegando che non provavo dolore alcuno ma una gioia immensa e mai provata prima’ e continuammo a trastullarci dentro quel gioco insolito e totale che si faceva ad ogni attimo più bello e più virile. Più lei si sfregava e più mi sentivo io galleggiar fra cielo e terra e più mi strofinava lei e più la carezzavo io, e più la sfioravo io e più era lei che mi sfregava, e più io la sfregavo più si contorceva chiedendone ancora un po’. Poi tutto s’annebbiò di colpo come in un eclisse, come un’eclisse si, non come tramonto, come venisse notte all’improvviso ma non ne ebbi alcun timore, solo mi sgomentò non poco solo veder schizzare a fiotti quel liquido denso e corposo, non era pipì quando non la puoi più trattener ma qualche cosa di molto meglio, qualcosa di assai più sconvolgente, qualcosa di assurdo stava succedendo mannaggia.
Raggio di Luna mi guardò schizzare fino all’ultima goccia con aria serena e rilassata s’accosciò fra le mie gambe e, con la lingua prese a leccare la mia canna ancora gonfia a dritta come una bandiera. Credetti di sognare di morire dal piacere, leccava lei con fare serio ed incosciente. Ed ora più bello ancor trovai quel nuovo passatempo, più dolce assai, più capriccioso, si, lo decisi in quel momento’ la lingua sua e le sue labbra al posto delle mani e le carezze carezza furono più intense e volli schizzare di nuovo quel liquido un po’ più chiaro e dopo, dopo ch’esplosi nuovamente fu lei che implorò la bocca mia, chiese senza parlar le labbra mia, ed accostai la bocca e vide e allargò le gambe, chiuse gli occhi, sospirò e mi tuffai come assetato per bagnarmi in un laghetto splendido e appartato, dentro il suo sesso mi tuffai, dentro di lei immersi la mia lingua… Sapore divino profumo di fiori e miele, aroma di cannella e spezie profumate, ostriche sgusciate, sapevo d’aver scoperto qual’era il sapore vero dell’Ambrosia bevanda degli Dei, era bagnata da mille gocciole eccitanti.
Mi librai leggero quasi senza volar staccai la terra sotto i miei piedi’ quella fessura magica continuai a baciare, leccare, a sugger come un affamato vitellino. Ero tremante, frastornato e magico mi parve quel momento, volavo immobile nell’aria succhiando e leccando quel tesoro carico di umori, baciavo quelle nuove labbra piccole e tremanti, soffiando tenerezza e suggendo piano i suoi piaceri, ruotavo in aria il corpo mio disgiunto dal suolo ma attaccato a lei, leccando e succhiando l’accompagnai nel godimento.

Tornai altre volte a fare quella cosa finché, un giorno sentii per la prima volta la mancanza, volevo una nuova posizione, gia, ma quale? Ormai ogni esperienza era stata fatta, ogni angolo di noi era stato esplorato dalle nostre mani e dalle nostre labbra e lingue. Domandai se lei sapesse la risposta e lei, Raggio di Luna non seppe darmi spiegazione alcuna, mi disse solamente che anch’ella provava, sentiva, sapeva, pensava, intuiva che qualcosa di diverso, qualcosa di più intenso ancora doveva esser scoperto ma che, di quel nuovo e più bel trastullo tutto ignorava, gia, ma cosa?…
Si era tanto bello donarci il piacere in quella situazione, sapevo che qualcosa sarebbe andato oltre ma ignoravo ancora quanto sublime sarebbe stato provare la canna dura dentro la di lei fessura.
E tornai allago delle sirene e ci appartammo con la mia diletta, ma era diversa, lei non aveva quella fessura bagnata e profumata, aveva solo bellissime tette, aveva un corpo stupendo ma incompleto, o almeno così mi parve dopo Raggio di Luna, volli insegnarle quel gioco, le succhiai le labbra e le piacque, rotolai la lingua nella sua bocca e le piacque, le succhiai i seni e le piacque, le concessi la mia canna e le piacque, provò il piacere succhiandole le tette’ e mi donò piacere succhiandomi la canna, ma non bastava, c’era qualcosa d’altro. Era come se, arrivato a un passo dal tesoro, il tesoro intero svanisse dietro un velo di foschia.
Non sapevo più che fare, le mie visite giornaliere al villaggio degli indiani e al lago delle sirene diventarono fonte di piacere ma anche sempre più tristi, giorni di dubbi sempre più intensi ed opprimenti.
Una notte me ne stavo seduto sullo scoglio delle balene a pensare di capir cosa mancava ad arrivare alla perfezione, ero più sgomento del solito, ero immerso in questi pensieri quando fui attratto da un punto di luce irreale e instabile sul mare, volai a vedere, e fu la prima volta che vidi Trilly, volava anche lei, era la prima volta che vedevo qualcuno volare oltre che me.
Mi nascosi dietro un cespuglio giovane di Sicomoro, quel punto di luce emanava un alone dorato, una nebbia fatata di polvere d’oro’ quando mi vide fuggì spaventata lasciando una scia colorata nell’aria salmastra, e io la seguii, volavo schivando gli intoppi fissando lo sguardo curioso su lei, e lei disperata volava cercando di fuggire, fuggiva si!, da me scappava. Entrò dentro una grotta sperando di non esser vista, ‘non sa dove andare, non può più scappare’ pensai, entrai e la presi.
Mi morse la mano coi dentini aguzzi, urlava con tutto il fiato cha la piccola voce sua poteva, ma poi le dissi per rassicurarla:
‘Non voglio recarti dolore, neppure sofferenza, chi sei? Sei tu una fata? Sei tu soltanto visione?’ e lei fu più docile e tranquilla in un istante.
‘Che bella voce hai, chi sei?’ mi chiese incuriosita’
Bastarono poche ore per diventare amici, Ttilly era alta non più d’un coniglietto appena uscito dalla tana, stava seduta sul palmo della mano, aveva belle gambe ed ascoltava le mie storie, e mi narrò la sua. Un tempo non era così piccina, era una fata normale, ma un giorno divenne amante dell’amante della fata più grande e quella la fece così piccina e la scacciò dalla foresta.
‘Amante? Cos’&egrave un amante?’ le chiesi.
E lei mi raccontò ridendo quell’aspetto dell’essere donna. E mi erudì nell’arte d’esser maschio.
Credetti per qualche tempo che quei racconti potessero avere su di me il potere di lenire la mia pena, lei raccontava storie sdraiata mollemente suo mio petto, soli io e lei, a notte nella tana, narrava lei di cose assai piccanti ed io lasciavo libere le mani di corteggiarsi sulla canna, a volte Trilly voleva partecipare, si rizzava sui piedini e camminava sul mio ventre fino ad abbracciare quel bastone duro ed eretto, dritto verso il cielo, lo prendeva fra le braccia e mi aiutava a scatenare la cascata. Per qualche tempo pensai che nulla più mancasse al tutto. Raggio di Luna, la mia Sirena, Trilly’ ma, mi sbagliavo.
Trilly amava raccontarmi di cosa fanno maschi e femmine, narrava di amplessi, di canne immerse dentro al Fiore della donna, di come si prende una fata senza età ne colpe, di quanto si gode se uno entra nell’altra e l’altra &egrave penetrata’ mi mostrava come fare, mi insegnava, e io ripresi a sentire che quella cosa a me mancava, certo non potevo farlo con Trilly, troppo minuta e neppur con la sirena, troppo assente la fessura meta delle mie brame’. E così, volai nell’aria una mattina all’alba a trovare l’indiana e lei m’accolse come ogni volta ignuda e pronta a prendersi piacere e darne e mentre la succhiavo come sempre e lei leccava con gusto e con passione la mia canna tentai l’impresa ambita d’introdurre il mio bramoso pezzo di carne turgido e voglioso nel di lei fiore dischiuso e fradicio di voglia’ ma lei me lo impedì spaurita, dolente e dispiaciuta.
‘Non puoi! Se sapesse mia madre che sono gia una donna, se sapessero i rudi guerrieri sanguinari e fieri che non sono più bambina’ nessuno vorrebbe di me fare sua sposa!’
Serrò di scatto le sue belle cosce lasciandomi andare in bianco a farmi una sega triste e solitaria.
Oh dolore.oh sofferenza atroce’
Fuggii la notte stessa senza meta vagando triste e vagabondo i cieli, volai per giorni interi vedevo città senza alcun senso, guardavo la sotto paesi e cittadine brillare inutilmente nel buio delle notti, finestre chiuse ed appannate, barlumi di vita vissuta da altre persone, risate pacate di bimbi felici, spiai nelle case di gente comune’ Vidi Mamme raccontavano fiabe, vidi le figlie che imparavano ad essere mamme, e vidi i padri distratti e freddi seduti su poltrone, sedie e seggioline, vidi camini fumanti, vidi frammenti di quadretti di famiglie umili e comuni.

Vagai per giorni, arrivai ad una grande città fatta di case di pietra e giardini curati e strade linde e un fiume largo al centro, vidi una grande torre con uno strano cerchio luminoso che segnava il tempo. Nel buio della notte fui catturato dalla luce tenue di un lucernaio illuminato, scesi planando piano e mi nascosi restando sopra il cornicione, mi sporsi a spiare circospetto a spiarci dentro.
Illuminata da una lampada ad olio la vidi, bellissima. Capii.
Il cuore prese a sbattermi nel petto come il tamburo di guerra degli indiani, forse più forte ed ebbi forte la paura che anche lei potesse percepirlo, la testa mi esplodeva in mille lucciole ronzanti e colorate. Guardavo quella femmina radiosa, non ancora adulta. Si, era in bilico fra l’infanzia e la maturità, in quell’età dove il gioco sta per lasciare il posto alla responsabilità, e soffrii per giorni vedendola, spiandone le movenze, ascoltando le sue parole e il canto. La vedevo crescere ogni giorno, e per giorni non seppi cosa fare per strapparla a quel crudele destino che tutti afferra e ruba l’infanzia e li costringe a diventare grandi e lei sarà una donna, presto.
Nella grande camera il camino ardeva diffondendo luce calda e chiaroscuri tenui, Wendy era il suo nome.
Dormivano con lei due splendidi marmocchi e lei rideva e raccontava storie inventate, meravigliose e magiche. I miei occhi erano solo per lei, mi coglieva forte la gelosia quando nel letto si rotolava coi bambini, ‘io vorrei esser li!’ pensavo e la desideravo ma come non sapevo.
Poi sempre cantava una canzone, melodia dolcissima per farli addormentare, sorridente, sempre più piano cantava la sua voce fino a lasciare posto al suo silenzio e ai suoi pensieri, e quando il sonno li carpiva dal viso della bella giovinetta la gioia scompariva. Ed io soffrivo, mi dolevo per ciò che le accadeva.
Diventare grandi &egrave un grande peso. Lei lo sapeva, di nascosto senza singhiozzar piangeva.
A volte si levava dal suo letto a notte fonda e camminava, quando passava davanti alla luce del camino la tunica leggera si dissolveva ma era un attimo. Per un istante vedevo il suo corpo come coperto da nebbiolina leggera e trasparente, vedevo i fianchi modellati, le belle gambe affusolate, il collo ben tornito, vedevo i seni piccoli e appuntiti eretti e sodi protendersi all’ignoto, vedevo il centro delle gambe e, il raddrizzar della mia canna mi riportava a terra.

Raggio di Luna ormai veniva raramente al fiume dei nostri segreti convegni, la sirena non mi bastava, neppure se ora anche due sue amiche partecipavano ai nostri giochi fatti di sapori e sfregamenti ma, non mi sarebbero bastate neppure tutte quante le Sirene delle acque della terra, e Trilly’ Trilly tutto per me faceva’ si toccava si strusciava, mi solleticava la canna con il frenetico vibrare delle sue ali, si ma, non bastava’ lei mi disse cosa fare, pianse per non potermi aiutare, a volte si aggrappava a me, abbracciava alla mia canna e con il suo frenetico battere di ali il piacere mi donava. Pazza era di me ed ora era gelosa delle mie assenza, ma pur sapeva che mai dentro di lei sarei potuto entrare. Per quel gioco finale ed appagante, quel che mi mancava con tanta nostalgia.

Quando arrivò la stagione calda Wendy si fece più inquieta, vagava per la stanza lentamente, il fuoco non venne più acceso nel camino di pietra ma le sue vesti si assottigliarono sempre di più, quando i bimbi si addormentavano si levava la vestaglia e restava quasi nuda, solo una leggerissima camicia di seta trasparente bianca celava le sue forme senza celarle e io impazzivo.
Una notte lasciò la finestra accostata. Forse era quello che aspettavo, forse avevo paura che succedesse ma successe. Scostai le imposte e volai all’interno, Wendy dormiva ignara adagiata sul suo letto, i capelli d’oro formavano un alone, erano come un’aureola sul cuscino, la camicia leggera sollevata mi regalava la visione delle sue bellissime gambe chiare, la vedevo bene pur nella semioscurità della stanza illuminata solamente dai riflessi argentei e complico della luna e mi parve ancor più bella. Mi sdraiai senza peso accanto a lei.
Potevo ascoltare il suo respiro e sentire il suo odore. Era una miscela di profumi più intensa di quelli delle foreste, più completa di quelli del mare, nessun fiore poteva uguagliare l’aroma che emanava il suo corpo, era una strana fusione di fragranze di donna e di bambina, di animale. Odorava forte di femmina.
Nel sonno la spiavo e inalavo quelle sensazioni, ero preda di un’inquietudine che andava oltre l’immaginabile, lo sforzo che dovevo sostenere per non toccarla mi spossava, dovetti frenare le mie mani con tutte le mie forze e anche con la magia, da molto tempo ascoltavo di nascosto le fiabe che narrava ai suoi fratelli, e quella notte tornarono al mio ricordo distorte e incomprensibili. Di tanto in tanto Wendy si muoveva nel sonno, si voltava scoprendo qualche porzione del suo corpo, emetteva un lamento come chiedesse aiuto ma non sapevo che fare, mi concentrai a tal punto che entrai nel suo pensiero, dentro il suo sogno’
Era distesa sulla sabbia nel punto dove il fiume si regala al mare, coperta soltanto da un velo di seta trasparente e sommessa piangeva. Chiamava qualcuno che non andava da lei.
Da quella notte passai il tempo nell’attesa del crepuscolo e volavo nel cielo aspettando il suo dormire, poi scivolavo leggero accanto a lei e aspettavo’ cosa non so eppure l’aspettavo.
La sesta notte parve più inquieta del sempre, il grande orologio della torre batté tre tocchi, Lei si voltò e rimase così supina, le gambe scostate leggermente, posò la mano ignara e addormentata sul suo sesso, nascosto dal pudore. Guardavo quella piccola mano posata leggera nel centro di lei stessa, osservavo quelle dita nervose a fremere ignare e appena abbandonate, leggere e arcuate le sue dita sfioravano il cotone delle immacolate mutandine le ritraeva poi come provasse eccitazione che non si può ottenere. Impazzii guardando, la canna mi scoppiava come costretta dentro un alveare inferocito. Mi feci coraggio, le presi la mano leggero come l’aria e la spinsi piano verso il basso. Non ebbi il coraggio di sfiorarla io e soltanto ne guidavo il cammino e impedivo delicato che la ritraesse. Per molto tempo resistette nel sonno profondo, poi cominciò a cedere pian piano’ soffiavo leggero il fiato che le conservava il sonno, e la sua mano piano piano resistette sempre meno alla mia offerta finché alla fine del tragitto si poggiò decisa e diligente sul suo fiore delicato. Era indecisa, ignorava cosa dovesse fare, tentennava fra il pigiare e il dare il segnale della ritirata, poggiai le dita sulle sue come in una pianola e suonai una melodia piacevole e dolcissima. E lei suonava con me la sua fessura ancora chiusa, allieva docile e dormiente di cose mai pensate, mai sperimentate. E mentre suonavamo assieme il suo corpo come un’organo vibrava, e mentre spingevo piano tremava la mia allieva, sospiri leggeri le sorgevano da dentro, e intanto tremavo forte sentendo lei tremare. Le sue dita presto furon pronte e docili al piacere, divenne presto una pianista divina, lasciai la mia pressione terminare e la mia allieva proseguì da sola diligente quella nuova melodia, seguì a suonare quell’assolo, compose il suo concerto primo col suo dolce fiorellino che ancora era un bocciolo. Da quella notte Wendy diventò musicista provetta. Dormiva e suonava, vibrava e dormiva nell’opera c’era stata prima’ conobbi lo schema, conobbi il suo piacere sentendo e vedendola godere nel sonno leggero:
Triste’ Adagio’ piano’ Andante non troppo, allegro, epilogo fra sospiri e gocce di sudore e sorrisi rilassati e complici, ignari. E quando lasciavo la sua mano libera di carezzarsi afferravo la mia canna e la suonavo con violenza, con veemenza, con rabbia e con trasporto, disperazione. Quando raggiungevo il culmine lei lo raggiungeva, si rilassava in un sorriso dolce ma io no! Mi mancava, mi mancava, mi mancava qualcosa.

Una notte di luna piena, mentre Wendy si esercitava ignara e sensuale una grossa nube s’addensò improvvisa rendendo quasi nulla la mia vista. Potevo soltanto sentire il suo respiro svelto accordato al piacere che si procurava, certo, io ero sempre il suo maestro che la iniziava alla sinfonia ma lei era l’allieva diligente che eseguiva la marcia trionfale, la chiusura finale. Un tuono improvviso seguì la luce violenta del lampo, Lei si drizzò, si mise seduta sul letto, ebbi soltanto il tempo di volare precipitosamente fuori dalla finestra, Wendy credette di avere sognato, corse veloce alla finestra, guardò il giardino, volse lo sguardo a destra e a manca, cercò d’intorno, non mi scorse solo per un caso, chiuse le imposte e ritornò dentro il suo letto.
La vidi pensierosa guardarsi fra le gambe, la vidi esitante sfiorare il suo punto interno, toccava leggera il monte di delizie, sfregava il candido cotone con mani tremanti ed impazienti, con occhi serrati riprese a masturbarsi: Triste’ Adagio’ piano’ Andante non troppo, allegro, epilogo fra sospiri e gocce di sudore ma non dormiva, adesso era ben desta e ciò mi rese folle’ l’allieva aveva imparato ormai e io ero fuori lontano da lei, provai persino dolore nel cercare di procurarmi piacere’ quel giorno’ e mentre terminava il suo concerto, la giovane donna, m’accorsi che la mia ombra era rimasta la dentro. Vagava sui muri spiando la scena, giocavano le sue mani d’ombra con la sua canna d’ombra e voltava e spiava e saltava sui muri e pareva impazzita.
Il giorno appresso la pioggia cadeva copiosa, la finestra restò chiusa, e così per altre due notti e poi, finalmente, il tempo cambiò e ritrovai le imposte socchiuse’ prima però di distendermi accanto a Wendy frugai dappertutto e scovai la mia ombra nascosta dentro un cassetto, quasi ripiegata fra biancheria intima della ragazza’ se ne stava nascosta inebriandosi degli aromi di Wendy in attesa di ripetere le scorrerie delle notti passate. Cercai di afferrarla, ma il sapore della libertà l’avevano avvelenata, la inseguii volando veloce finché l’afferrai ma nel farlo avevo creato un certo rumore e, quando l’ebbi fra le mani, m’accorsi che Wendy mi stava guardando in silenzio seduta sul letto. Divertita, serena, come se tutto fosse scontato, come fosse del tutto naturale vedermi svolazzare la dentro.
Mi disse di sapere chi ero, mi disse sussurrando che mi aveva sognato per tutte le notti passate, da mesi, parevano anni’ mi disse che in sogno io le raccontavo ogni notte la storia dei bimbi che non vogliono diventare grandi, mi disse che tutte le notti sognava che io le prendevo la mano e che’ non proseguì, arrossì e cambiò discorso. Volle sapere mille cose, ascoltava rapita senza accorgersi che la camicia le lasciva scoperte le gambe, beveva le mie parole senza badare al mio sguardo che la frugava in ogni suo centimetro, solo la punta dei suoi piccoli seni rotondi guizzava al mio sguardo.
‘Che buffo,’ mi disse indicando il mio pacco esplosivo,
‘I miei fratellini non l’hanno così, non &egrave tanto grande, e neppure papà’ perché?’
‘Perché ti desidera e non sa come fare!’ rispose una voce che pareva non mia.
‘Come sarebbe? Perché dovrebbe volermi? e in che modo?’
Cambiai discussione, le dissi delle meraviglie dell’Isola, le narrai dei pirati e degli indiani, delle sirene e della mia grotta. Wendy prese poi del filo e cucì la mia ombra, e ascoltava sedotta le storie poi fummo d’accordo.
‘Domani verrai con me!’

Passai la giornata a contare i secondi, rubai una manciata di polvere di fata a Trilly mentre dormiva e volai da Wendy. Sparsi la polverina dorata che fermava il tempo poi volli che Wendy si afferrasse alle mie spalle e prendemmo il volo.
Si stringeva alle mie spalle e guardava felice la terra lontana, volammo sui mari e sui fiumi, solcammo la rotta fin sulle montagne, planammo lagune e scendemmo sui boschi.
Sentivo il suo corpo, sentivo le cosce aderire ai miei fianchi, sentivo le punte dei seni, sentivo le mani sul petto artigliate, ascoltavo il suo cuore pulsare. Ero felice, ero rinato, ero il più grande.
L’Isola ci apparve poco prima dell’alba, le mostrai le cose essenziali. Atterrammo nel bosco accanto al grande albero di quercia fra le cui immense radici era la grotta, la mia casa.
Così entrò per la prima volta nella mia dimora. Mangiò frutta, si riposò un pochino e poi mi chiese dove poteva lavarsi’ ‘lavarsi?’,
‘noi non abbiamo bisogno di lavarci.’ dissi.
Poi ricordai che Wendy non era ancora dei nostri e l’accompagnai alla sorgente. Mi chiese di voltarmi, ne spiai comunque il riflesso in una pozza d’acqua, si sfilò la sottile veste, e s’immerse nel laghetto, poi si tolse le mutandine e le lavò con cura, mille alveari assalirono la mia testa pungendomi rabbiosamente la canna.
‘Perché non vuoi che ti veda nel prendere il bagno?’ le chiesi deluso.
‘Perché sono nuda e ciò non &egrave bene.’ rispose.
‘Mi sembra ben strano, sei nata così, soltanto più tardi ti hanno vestita.’ replicai.
‘Ma tutti non amano farsi vedere senza le vestiti!’ rispose perplessa.
‘Le sirene no, le indianine neppure, Trilly poi anche se &egrave minuscola adora se la guardo senza vesti!’ protestai.
‘Davvero? Ti prendi gioco di me!’ sussurrò arrossendo.
‘No, dico sul serio, Raggio di Luna, al fiume, mi mostra tutto ciò che c’&egrave da mostrare!’ aggiunsi.
‘Ma cosa fate dopo che la guardi?’ spiò con un filo di voce.
‘Giochiamo!’
‘A cosa?’
‘Ti faccio vedere se vuoi, ma prima ti devo guardare”
Mi voltai lentamente, Wendy stava coi piedi nell’erba, il sole si insinuava fra la sua veste e la sua pelle, la sagoma del suo corpo si stagliava nitida contro il cielo chiaro, il minuscolo triangolino di peli chiari e sottili si intuiva sotto il tessuto bagnato.
‘Appoggia le tue dita al centro delle tue gambe!’
Arrossì ma lo fece.
‘Usa le dita come dovessero suonare su di uno strumento di musica!’
Arrossì ancora ma ubbidì.
‘Credo di saper quel che intendi, &egrave un sogno che ho fatto sovente negli untimi tempi.’ disse, e prese ad accarezzarsi con innocenza.
La guardai giocare col suo sesso per molti minuti sentendo le api ronzare furiose al di sotto della mia calzamaglia. E intanto Wendy si abbandonava sempre più nel ritmo di quella sensuale melodia, passò dall’adagio all’andante al brioso e poi si fermò.
‘Ma tu caro Peter, cos’hai fra le gambe? Sembra che voglia scoppiare! &egrave grave?’
Mi sentii sprofondare,
‘Nulla! Non &egrave nulla, diventa sempre cosi ma poi passa,’ risposi.
‘Come nulla?, sembra che ti abbiano punto due sciami di api infuriate’ Posso aiutarti?’ disse.
‘Magari!’ Le sirene mi aiutano, si sgonfia ma non dura per molto’ La squaw mi aiuta ma non mi passa il gonfiore, Trilly si da veramente da fare ma non basta a lasciarlo quieto, &egrave come se mancasse qualcosa, mi sento’ mi sento incompleto.’
‘Anche a me succede da tempo, &egrave come un prurito, un soffio di caldissimo vento, sognavo di farlo ma dopo’ mi manca qualcosa! Fammi vedere, io guarisco spesso i piccoli mali dei miei fratellini, ma mai gli &egrave successa una cosa’si, strana”
Mi feci coraggio e indugiai per un poco, seguii la sua mano riprender la danza, e poi, impacciato e tremante le feci vedere la canna.
‘Cos’&egrave? Cos’&egrave quella cosa talmente diversa da quelle dei bimbi?’ mi disse arrossendo e fissando la cosa.
‘La canna dell’uomo, e si gonfia per Te!’
‘Ma quella non sembra per nulla una canna, piuttosto un bastone nodoso e assai grosso!’ mi disse con voce tremante agitando la mano.
‘Che strana illusione, percezione pressante che ho fra le gambe, il fuoco’ mi pare di avere cioccolata bollente che scorre’ li dentro.’
‘Se voglio guarire la devo agitare, la canna, il bastone. O comunque si chiami il mio coso”
Così dicendo presi a far scorrere le mie dita lungo l’asta ancora asciutta.
Wendy mi guardava imbambolata, attenta e curiosa senza smettere di solleticarsi le fessura, adesso bagnata. Ora col palmo, ora con la punta delle sue splendide dita d’arpista.
‘Posso aiutarti?’ le domandai speranzoso.
‘Un maschio non dovrebbe neppure guardare una ragazza della mia età fare queste cose; così poco vestita, ma ti confesso che lo vorrei tanto, al solo pensiero il calore mi aumenta’ senti, facciamo così: io ti permetterò di carezzarmi’ li, ma tu in cambio mi farai fare quello che stai facendo con la mano’ Vabbene?’
Mi accostai, con mani impazienti e tremanti le sollevai il tessuto umido sino ai fianchi, mi persi nella visione della sua patatina quasi implume, la sfiorai e lei sussultò come presa da una scossa.
Cominciai ad accarezzarla come avevo imparato a carezzare Raggio di Luna, ma Wendy tremava molto di più, si mordeva le labbra, si contorceva aprendo e chiudendo le gambe al ritmo delle mie carezze, teneva gli occhi chiusi e sospirava forte quando la sua manina trovò il bastone e lo afferrò saldamente per la punta. Stringeva e soppesava, palpava la parte rotonda, esplorava la verga fin sotto le palle. Lisciava e scorreva la mano nell’asta, precisa e cortese fin quando sentì le mie dita inzupparsi dentro la sua deliziosa fessura, aperse gli occhi sgranati perché volle meglio vedere, si fece più accanto, più acuta, mi feci più accanto al suo fiorellino odoroso. Sentivo l’odore di muschio e di mare, di alghe, di erbe portate dal vento, la testa doleva, il cuore impazziva, la mano di lei scivolava sul membro portando con se godimento e sconcerto, le dita frugavano parti bagnate, la bocca si sporse a succhiare i suoi umori, e volle provare a succhiare anche lei’ succhiava e impazzivo, leccavo il suo solco ed usciva di senno.
Il primo piacere la colse mentre soltanto le carezzavo la vita del sesso, il secondo quando la leccavo’ più forte ed intenso, più serio, la fece guaire, ululare, belare.

Ci rilassammo, nonostante io non fossi arrivato mi distesi accanto a lei paziente, l’abbracciai tenero come un germoglio ma ancora duro come una radice di quercia. La serenità emanava dai suoi occhi, il bel viso rilassato, mi guardava teneramente, poi s’accorse del mio immutato stato e chiese ancora cosa potesse fare per sgonfiarmi. L’abbracciai e le insegnai l’arte del bacio.
Esplorai le sue labbra, la lingua ed i denti, succhiai la saliva dolcissima e densa, e imparò a succhiare anche lei, a sputare, a baciare, a giocar con la lingua.
Improvvisamente cambiò posizione e mi prese, sentii le sue labbra, sentii la sua bocca sentii la sua lingua a leccarmi la canna’ la verga’ il bastone nodoso.
Per più di mezz’ora succhiò con dovizia, succhiava e leccava finché ci riusciva. Non era allenata, non era avviata. Mi disse:
‘Mi arrendo, non riesco a parlare da tanto succhiare ho dolore alla bocca!’
Prese il bastone con entrambe le mani e cominciò a lisciarlo sempre più velocemente, intuiva che sarebbe successo qualcosa, che solo così mi avrebbe aiutato. Ma nonostante i suoi sforzi, malgrado il suo impegno non riuscivo a schizzare. Dopo qualche ora si arrese sfinita, mi abbracciò domandando scusa, mormorando perdono.
Ci sedemmo l’uno di fronte all’altra, io potevo vedere la sua patatina gonfia e rosea e lei non staccava gli occhi dal mio enorme pacco.
‘Ma cosa possiamo fare?’ chiese quando tutto sembrava ormai impossibile.
‘Forse dobbiamo unire i nostri piaceri.’ le dissi
‘Sarebbe bellissimo, ma come potremo fare?’
‘Con l’indiana, con le sirene, con Trilly’ ho fatto molte volte questo gioco, ma mai ci siamo spinti oltre, sempre mi &egrave piaciuto, sempre &egrave piaciuto anche a loro ma, credo che, ci sia qualcosa di meglio, di più, qualcosa che sta più lontano, più in cima, non so se mi spiego’Credo che sarebbe bellissimo se il mio bastone entrasse dentro di te’ cio&egrave, voglio dire, nella tua fessura.’
Wendy si drizzò entusiasta battendo le mani.
‘Si, dai, dev’essere bellissimo, e poi tu lo farai scorrere dentro la mia patatina come’ come se, come se fosse la mia bocca’ o le mie mani”
Sapevo che ero a un passo dal compiere quello che mi mancava ma, guardavo il mio pezzo di carne rigido e la sua fessura stretta, sentivo la mia possanza e capivo la sua fragilità, dubitavo che la sua patatina sarebbe stata in grado di accogliere il mio bastone anche per un pezzetto, troppo grosso, di certo le avrei fatto del male. Espressi con sgomento questa mia perplessità.
‘Tu prova, fai piano però, se sento dolore dovrai fermarti. Anche io temo che se non entrerai dentro di me rimarrò per sempre’ a metà, come fra le sponde di in fiume, in mezzo ad un ponte’ dai, su, coraggio e fai piano!’
Così dicendo si distese con la schiena appoggiata sulla sabbia, diede un ultimo sguardo alla mia carne gonfia e pulsante, chiuse gli occhi e allargò dolcemente le gambe. Mi avvicinai fino ad appoggiare la punta arrotondata e viola al suo solco magnetico. Fu come la scossa dopo un fulmine, un lampo. Wendy si appese al mio collo e io cominciai a spingere piano, lasciai che la cima indolenzita da tanto gonfiore guizzasse su e giù lungo la tenera fessura senza spingersi oltre, la spingevo a scorrere e proseguivo poi premendo forte l’asta fino a sentire il suo calore e poi la riabbassavo nuovamente. Spinsi ancora un poco leggermente, la punta si fece strada nella carne aprendola un pochino, entrò appena e lei serrò le mani attorno al mio collo, spinsi ancora e Wendy gridò. Mi fermai ma lei mi implorò di andare avanti, sospinsi un pochino ancora, sussultò nuovamente, mi fermai e mi invocò ancora, pigiai un altro poco, sentivo la sua carne calda e scivolosa allargarsi, la sentivo dischiudersi ogni volta un tantino di più e allora spinsi più forte e Wendy gridò più forte, piangeva ma mi supplicava di non fermare la mia avanzata. Ora sentivo le sue mani stringersi sui miei glutei. Sentii qualcosa di teso, di molle, di caldo. E spinsi e quel qualcosa si ruppe e l’urlo fu forte, mi parve straziante ma, le dita di Wendy restavano salde a fermare la mia ritirata e spinsi più in fondo e vidi le gocce di sangue.
L’asta mi doleva, ma bastava soltanto la dolce pressione dell’involucro sacro che la stava ospitando per calmare le punture di api, proseguii a penetrarla con calma e dolcezza. La mente mi spingeva a fare in fretta, il cervello urlava di spingere forte e non curarmi d’altro che del mio bisogno ma, il cuore mi obbligava a fare più piano possibile. I lamenti di Wendy non erano solo di dolore adesso erano di anche voglia’ quante volte lo aveva sognato, mai lo aveva neppure immaginato, quante volte avevo sognato e mai neppure immaginato’
‘Si’ &egrave un sogno!’ mi disse fra gemiti e sospiri come avesse letto il mio pensiero,
‘Non ti fermare Peter, continua a guidarmi in questo sogno!’
‘Non &egrave un sogno Wendy,’ le sussurrai piano,
‘Vorrei soltanto non farti troppo male!’
‘Sta passando, ora sento solo te dentro di me, continua, succeda quel che deve succedere, a me nulla m’importa più. Adesso credo di esser donna!’
Oramai ero arrivato alla fine del viaggio, tutta la mia asta era dentro di lei. Mi fermai ad ascoltare le mille sensazioni che da li arrivavano ingigantite e lei non protestò, attese nel mio stato d’animo l’epilogo di quel momento ma capii ch’era pronta. Sentivo il suo interno contrarsi e ascoltavo il suo respiro farsi più acuto. Ripresi a muovermi in lei, il bastone scorreva adesso nel suo sesso senza reticenze, spinsi le reni in avanti affondando come nel burro fuso, mi ritrassi in un risucchio, affondai nuovamente come nel miele, estrassi e ritornai dentro come nel latte, uscii e rientrai nella grotta di panna montata e poi mi immersi di nuovo nel sesso arrossato di vergine persa e Lei cominciò una danza di spinte e torsioni, di balzi e pressioni finché non m’accorsi che stava godendo e allora lasciai che la verga emettesse lo sperma.
Mai avrei pensato a quella cosa senza Wendy, mai sarei stato capace di immaginare quanto dolce &egrave montare una donna, mai avrei scoperto l’arte della seduzione profonda.
Wendy piangeva e io la consolavo stringendola forte ma, non erano lacrime di dolore le sue, neppure di pentimento, e neanche di vergogna, erano solo lacrime di felicità pura.
Piansi anche io e la baciai’ Un bacio lungo una notte fu per noi quello.
Ci addormentammo stretti, avvinghiati l’uno all’altra, stretti in un abbraccio totale, unico.
Rimasi con la canna dentro di lei e la bocca contro la sua, le mani sui suoi fianchi, sui suoi seni acerbi, fra i suoi capelli.

Quando ci svegliammo stavamo ancora li, lei s’era voltata e giaceva sopra il mio corpo, il bastone ancora saldamente conficcato nel suo corpo. Ci baciammo ancora e ancora facemmo l’amore perché appena sentì le sue labbra riprese vigore.

Ma una sua frase echeggiava celata fra le pieghe della felicità nella mia testa confusa senza volersi lasiare afferrare, e poi, quando vidi quelle impronte mi destai dal torpore’ erano impronte di un pirata non v’era dubbio alcuno.
Ma come?, chi?, chi ci aveva traditi?

Capitan Uncino

No’ Wendy non vuole Capitan Uncino!

Continuerà?

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