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Mi protendo sulla vittima. Non ricordo il suo nome, non ricordo neppure chi tra noi abbia fatto la prima mossa. Forse sono stato io. O forse, in barba a qualunque buonsenso, è stata lei.
Poco importa: ora siamo qui. E ci rimarremo finché non avrò finito, finché non mi sarò saziato di lei.
Lo sa? Lo sospetta? Le importa? Non lo so. Non m’interessa. La verità è che non m’interessa nulla.
Non ci fosse stata lei qui, ora ci sarebbe stata un’altra.
Non è chissà quale enorme vanto essere stata scelta, e forse anche lei lo capisce.
Cerca di respingermi. Le lego l’altra mano, l’unica rimasta libera.
Mi insulta, sputa. Una fiera. Morderebbe, se glielo permettessi, mi ha già graffiato.
Ho il torace pieno di graffi. I suoi abiti sono a brandelli, li ho strappati, tagliati a pugnalate, lacerati a morsi, fatti a pezzi. Lei non è stata da meno. Parte di me si domanderebbe come me ne andrò.
Se non fossi ciò che sono, se non fossi chi sono, proverei timore, preoccupazione, ansia.
Ma la paura è da tempo un’ospite sconosciuta dal territorio della mia mente.
-No… No…-, sussurra lei. Oh, tutte fanno così. I primi momenti sono i peggiori, ma poi tutte cedono.
Chi prima chi dopo, tutte si lasciando andare all’inevitabile.
-Silenzio.-, la mia parola è meno che un sussurro, appena un sibilo. Lei trema, emette un mugolio afono.
Tace. Io inspiro. Lecco oscenamente la pelle dello stomaco. Lei cerca di divincolarsi.
I calci che tenta di tirare sono deboli. È pronta. Scendo appena. Oh, conosco bene questo rito, ma con lei sarà diverso. Ed uguale a tutte le altre volte. Sospiro.
Sarà perché a cambiare forse dovrei essere io. Mi alzo, raggiungo il coltello.
Appoggio appena la punta sullo stomaco della donna. La pelle nera stilla una goccia cremisi.
-No… no… no…-, sussurra lei. Non osa muoversi. Ha capito che se facesse un solo movimento finirebbe.
E non bene. Ottimo: era ciò che volevo. Lecco la stilla rossa con voluttà. Sorrido.
-Non ti agitare.-, sibilo. Non ricordo il suo nome. So solo come appare: una donna nera, dalla carnagione scura, il fisico invidiabile, lo sguardo tagliente e animalesco, due occhi verdi come smeraldi, capelli lunghi riuniti in trecce che ora si sono sparse a raggera mentre giace e un corpo statuario. Legata come una preda. Pronta all’atto finale. Sorrido ancora. È bella. Ne ho avute altre, a milioni, ma non tutte erano così.
-Ti prego…-, mormora. Non capisce: ormai è tardi. Abbiamo superato la linea di confine.
Oltre di essa, nessun ritorno.
-Taci.-, sibilo, senza neanche sforzarmi di apparire tediato. Non ho voglia di star a sentire le sue suppliche. Non servono a nulla. Lei mi fissa, rabbiosa, oltraggiata. La rabbia cancella la paura.
Il mio pugnale scende piano sino al pube. Fuori è tempesta e pioggia, un tale clamore quasi il cielo voglia cancellare, impedire, fermare. Ma il cielo non fermerà proprio niente.
Passo la punta della lama sulle gambe, coscia, interno coscia, sino a sfiorare le attaccature delle gambe al tronco. Lei geme, sussurra qualcosa che non è percettibile. Prega? Implora? Maledice?
Ho sentito tutto questo tante volte. Tante da rendere l’intera commedia tediosamente nota.
Siamo arrivati qui dopo che i nostri sguardi si sono incrociati, è bastato poco.
Il fuoco nei suoi occhi, prima della promessa di lussuria del suo corpo è stato sufficiente a farmi scegliere lei. E lei lo sapeva. Quello che non aveva potuto prevedere era stato il resto.
L’ho spogliata brutalmente. Lei ha resistito, ma è stato vano. Sopraffarla così è stato facile.
Pensava di avere il controllo solo perché io sono un uomo? Illusa! Il richiamo della carne mi è noto.
Non ne sono immune, ma di certo è da molto che ho smesso di volerne essere succube.
Le allargo le gambe. Espongo l’intimità. Rosata. Aperta. Potrei iniziare da qui?
Un’immagine si forma nella mia mente. Mordere, strappare. Dilaniare.
I miei occhi sono cambiati. So che lo sono. Accade quando sono in questo stato.
Lei freme quando sente il mio fiato sulle sue carni più intime.
Basterebbe pochissimo.
Abbasso la testa. Non se lo aspetta. Affondo la bocca, i denti, il viso, nel suo sesso.
Geme, freme, non riesce a urlare. Non ci riuscirebbe neppure volendo. È da quando ci siamo visti, in quel ridicolo club che l’ho fatta mia. È la mia schiava, e ora sarà il mio pasto, che le piaccia o no.
Non riesce a dire nulla mentre la consumo. Vado avanti incurante degli spasmi sempre più forti, poi più deboli, mentre le forze la lasciano. Ignoro il fatto che sia riuscita a slegare una mano e cerchi di spingere lontano la mia testa, sforzo vano.
Quando ho finito, la sento gemere, a lungo. È venuta. Sorrido e solo a quel punto alzo il viso.
E tocca a me. Ho il sesso turgido. Mi sfida ancora, come se potesse realmente dirsi padrona di sé.
Si tocca appena, aprendo le labbra delle vulva con la mano.
-Scopami.-, sibila. Percepisco appena il suo Potere. È infinitesimale. Rido. Le mostro il mio.
I suoi occhi mostrano terrore, paura. L’espressione del suo viso cambia. Fa per chiudere le gambe.
La fermo. Sono esattamente lì, a pochi centimetri dalla sua intimità ardente e grondante.
-Non sfidarmi.-, le ingiungo. Nessun bisogno di dire altro. Lei annuisce. -Fai quello che vuoi.-, mormora.
Speravo di sentirglielo dire: non avrebbe avuto proprio alcun senso imporle la mia volontà. Avrei potuto, volendo, riempirla di una tale brama di soddisfarmi da renderla docile e mansueta. A suo tempo ne avevo approfittato non poco, ma era da molto che simili trastulli non mi procuravano più alcuna reale gioia. Una schiava è solo un oggetto, dicevano i greci antichi. Io ho conservato tale veduta: la schiavitù svilisce l’uomo, né inibisce l’intrinseca poesia.
-Ciò che voglio…-, sussurro mentre sfioro la sua intimità, -Sei tu.-. Lei geme.
-Prendimi…-, sussurra lei. Sento ancora la sua volontà. È pronta a difendersi anche se sa che non ci riuscirebbe. Orgogliosa. Mica male. Per una della sua generazione è un vanto.
In realtà, uno dei due. Se io fossi qualcun’altro, potrebbe ancora essere una bella sfida, ma non lo sarà.
Spezzare la sua volontà mi richiederebbe uno sforzo infinitesimale. Se volessi.
Ma non intendo farlo. Carezzo i seni, la sua mano mi sfiora il pene eretto, cerca di prenderlo.
Le torturo i capezzoli, lei si morde il labbro. I suoi occhi verdi mi inchiodano.
Oh, ne ho vedute molte così, ma ogni volta è bello vedere un simile sforzo.
Affondo dentro di lei senza distogliere lo sguardo. Mi accoglie in una guaina rovente. Geme, artiglia il materasso, e la mia pelle. Emette un verso animalesco. Stabilisco il ritmo.
Accoglie le mie spinte, mi stringe, si protende verso di me, come a cercare di fondere i nostri corpi.
Anche le nostre anime? Le abbiamo, delle anime? O non esistono? Forse non sono mai esistite.
Affogo quegli interrogativi molesti nell’amplesso mentre sento le unghie di lei graffiarmi la schiena, il petto, vorrebbe dilaniarmi e forse potrebbe. Percepisco il suo pensiero, la sua ambizione, anche se si sforza al suo massimo di nasconderla. Sorrido. Prima che trasformi il pensiero in azione, le mando appena un monito. Lei recepisce. Non vuole morire, anche se sa che poche, pochissime hanno mai avuto una possibilità simile. D’altronde, se sapesse il resto…
L’eccitazione di un simile evento, di una comunione simile mi sprona. Continuo. Lei ringhia, io affondo i denti nel suo collo. Mordo. Succhio. Lei mugola. Io sussulto. Il piacere di un simile momento trascinerebbe chiunque altro oltre il limite, e lo porterebbe a uccidere questa creatura. Ma non io.
Mi stacco. Sul suo collo ora ci sono due puntini rossi nell’incarnato d’ebano. Lei mi sorride.
Sono ancora dentro di lei, piantato come un piolo, ma il sesso ora ha perso di significato, almeno per lei.
-Potevi finire…-, sussurra. Lo pensa davvero? Scuoto il capo. Le accarezzo una guancia, scendo sino al morso. Al mio bacio. Sorrido con sincero disappunto.
-Sei molto meglio da viva.-, dico. Lei mi prende la mano, piano. La appoggia sul petto, poco sopra il seno.
Silenzio. Nessun battito. Il suo cuore, come il mio, non batte.
-Siamo vivi?-, chiede. Io sospiro. Il suo sangue mi ha nutrito. Posso fingere meglio di lei.
Ma ha ragione. Non lo siamo. Non proprio. Ci sono cose che lei non sa, ma…
Ma la verità ha un prezzo. Un prezzo enorme.
-Mordimi.-, dico. Espongo il collo. Lei mi accarezza.
-Prima non volevi.-, nota. Spingo contro di lei, affondando di più. Lei sussulta. Non smette di guardarmi.
-Prima volevi prenderti tutto. Ora ti prenderai solo quello che IO deciderò di donarti.-, chiarisco.
Lei annuisce. Sa che non le conviene rischiare. Snuda i canini. È bellissima.
-Non so nemmeno il tuo nome…-, dice.
-Lo sai. Lo sai da molto.-, ribatto io. Lei si ferma. Mi guarda, riflette. La vedo persa.
Ha un viso molto bello che ora è increspato di dubbi e perplessità.
-Non sei americano.-, dice. Bene, almeno fin qui ci siamo.
-Neanche tu.-, rispondo io. Lei pare elaborare.
-Sei antico. Lo capisco.-, dice. Ovvietà. Non mi spreco a rispondere.
-Dal tuo potere… e da come ti sei controllato… direi…-, si protende, come ad annusarmi. In realtà sento che mi sta sondando. Il suo Potere s’agita, cerca di capire. Strabuzza gli occhi quando percepisce, di nuovo, il mio Potere. Lei è una fiammella tremula. Io sono una colonna di fuoco.
-Almeno terzo secolo prima di Cristo.-, dice infine. Beh, non mi aspettavo certo che andasse più in là.
-No. Molto prima, tesoro.-, dico. Lei sospira, muovendo appena il bacino. È eccitata, ma non solo per il sesso, è proprio quel gioco, il gioco della conoscenza, a piacerle.
Poter dire di aver vissuto una cosa simile la renderà una celebrità, persino per chi non discende dalle Grandi Casate Originarie. I Figli della Notte onorano chi ha avuto l’onore di incontrare un Antico Vivente e sopravvivere all’esperienza. Ma lei… Lei ha avuto una fortuna immensamente maggiore.
-Chi sei?-, chiede. I suoi denti sono bellissimi. Come tutti quelli della nostra stirpe sono fatti per permetterci di nutrirci della linfa vitale degli umani, ma anche dei nostri simili.
Contrariamente a chi crede che la nostra stirpe sia unita e solida, il tradimento e il parricidio sono situazioni molto comuni. Ma ora… Ora farò sì che finisca. Così come vi ho dato inizio.
-Caino.-, sibilo. Lei si blocca, improvvisamente. Se avesse un curoe funzionante, ora salterebbe un battito.
-Caino.-, ripete, -È uno scherzo?-, chiede. Io protendo il collo, di nuovo. Lei si avventa.
Non è una dilettante: lo vedo, l’ho visto anche nel suo sangue. È brava. Succhia dopo aver morso.
Una, due, tre. La sento bramare di più, agitarsi contro di me, il suo sesso che pare contrarsi nel godimento. La lascio assaporare, ma so di doverla fermare ora, prima che esageri e mi consumi.
Lancio un impulso, breve e deciso. Lei si stacca, improvvisamente, come se scottassi.
Ora lei brilla di più. Ha bevuto. E ha visto. I suoi occhi mostrano stupore, venerazione.
-Io… non potevo immaginare…-, sussurra. China il capo, una goccia di sangue le macchia il labbro inferiore e cade sul petto scuro. Le sollevo la testa, portandola a fissarmi.
-Ora sai.-, dico. Lei mi fissa, confusa, stupita.
-Cos’hai visto? La morte di Abele? La caduta di Ninive? La caduta della torre? Ti è piaciuto?-, chiedo.
-Perché?-, chiede lei. Una domanda legittima, ma immensa. Io sorrido. Deve essere più precisa.
-Perché io? Perché qui? Perché… questo?-, chiede. Io le sorrido di nuovo.
-Tu avevi qualcosa in più. Sapevo che eri una di noi, una che è in giro da un po’. Una senza casato. Una Rinnegata. Qui perché qui ti ho trovata… E questo…-, accennai alla stanza che pareva un campo di battaglia tutt’altro che placido, -È solo ciò che anche tu volevi.-.
-Ma… ora?-, chiede lei. Il sesso è scivolato in secondo piano. Siamo ancora allacciati, io dentro di lei, ma non ci muoviamo neppure. Non ne abbiamo motivo.
-Secondo te, Anansi?-, chiedo. Il suo nome. Lei s’incupisce. Non sa. Non capisce.
-Io ho vissuto a lungo, Caino. Ma tu…-, sussurra, -Sei il padre di tutta la nostra schiatta, e sei qui, a scoparmi come l’ultima delle troie, a offrirmi il tuo sangue, a prenderti il mio… È questo che non capisco.-. Io annuisco appena. Sì. È normale che non capisca.
-Scopiamo perché volevamo farlo. Non ci vuole un genio. A generarti è stato Jean Jacques De La Croix. Vista la sua natura, ciò che sei ora è un risultato interessante, considerando anche che non è più tra noi per vederti giungere alla gloria.-, spiego. Lei annuisce. Almeno non nega. Ha ucciso il suo progenitore.
-L’ho prosciugato con piacere. Ero schiava. Puttana…-, sibila con odio, -Mi chiamavano Night.-.
-E ora sei libera.-, dico. Lei sorride. Quello sguardo arrogante fa capolino.
-Tu però non eri schiavo, vero Caino? Eri l’assassino di tuo fratello.-, osa. Annuisco.
Tutti i secoli e i millenni mi hanno donato un’immane pazienza davanti a simili asserzioni. È vero.
-Mio fratello fu preferito dal cielo, così disse. Io lo uccisi, solo per far capire a lui e a tutti gli altri che il cielo è vuoto. E gli uomini forgiano il destino. Ma pare…-, ammisi, -Che io mi sia sbagliato.-.
-Errore comprensibile. Ma guarda a cos’hai dato inizio. Siamo milioni.-, sussurra lei suadente.
Mi accarezza il viso e scende sul petto. Sfiora vecchie cicatrici, ferite antiche.
-E siamo condannati a un ciclo continuo di odio e vendette.-, sussurro.
-E vuoi porvi fine?-, chiede lei.
-No. Mento. È da anni, secoli, che mento. Siamo condannati e lo sappiamo.
Semplicemente, è questa la nostra condanna. Nulla più nulla meno. E nessuna possibilità di fuggire, neppure per il figlio che nascerà da questa notte. I vecchi Casati si sono dissanguati e le linee di sangue nobile sono talmente diluite che Rinnegati o i Senza-Casa sono divenuti la maggioranza tra noi.
E io assisto al declino della mia pietosa progenie… Da millenni.
Il peggio è che, anche volendo, non potrei morire, né lasciarmi morire. La verità è molto più crudele e semplice: uccisi mio fratello perché il cielo aveva scelto, a detta sua, d’ignorare le mie offerte. Non era stata forse degna la mia offerta di primizie? Perché? Perché?! La rabbia mi fa dimenticare dove e con chi sono. A ricordarmelo, è Anansi.
-Caino?-, chiede. Non c’é soggezione. Non più.
-Sì?-, chiedo io tornando in me. Sono sdraiato sul letto, nudo, con lei. Abbiamo fatto sesso.
E nulla è veramente cambiato.
-C’é la possibilità che finisca?-, chiede lei. In questo momento mi appare stanca. Quanto me.
-Forse, Anansi, forse un giorno.-, dico. Sento, lontana, la fame.
-Ma ora, come forse immaginerai… sento il bisogno di uno spuntino.-, dico.
Lei mi guarda, a metà tra lo spavento e il sollievo come se il sapermi ancora affamato fosse una conferma della mia normalità. io sorrido.
-Andiamo a caccia?-, chiedo.
-Oh, ho visto una bella giovane. Una bionda… È così simile alla figlia di alcuni miei ex-padroni…-, sibila Anansi, -Sarebbe perfetta.-.
Lo sarebbe per lei, casomai. Ma non rispondo. Una vale l’altra.
In attesa che Anansi partorisca mio figlio, ridando alla stirpe della notte la dignità che necessita.

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