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Racconti Erotici Etero

Bagno Giuditta – appuntamento al Plaza

By 11 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

‘Ma che stai dicendo, sei pazza?’ Fanny mi guarda di traverso rovistando nel beauty-case alla ricerca di una lima per unghie.

‘Fanny io devo decidere di smettere o dedicarci anche l’anima! Non posso pensare di fare la puttana d’alta classe e vivere ancora con i miei, ho bisogno di staccare la spina e magari poi decidere di fare la puttana e nient’altro.’

‘Ma tu la puttana non la devi fare, devi esserlo!’ Mi guarda come se stesse partendo uno sputo.

‘Appunto, io a quello che faccio ci devo credere fino in fondo. Ed ora ti giuro che ho paura di fare cazzate, magari abbandonare tutto e trovarmi nelle braccia di Luca vestita da sposa.’

Fanny si volta di scatto. I suoi occhi di odio mi trafiggono la pelle.

L’anticipo prima che la sua bocca si riempia di schifo.

‘Dai. ho esagerato! Non credo di arrivare fino a quel punto! Ma ti giuro che quando mi guardo nuda allo specchio, ho paura di non reggere. Ho paura che questa fica preziosa, possa un giorno dividere solo le cosce.’

Fanny s’avvicina e mi ficca il suo sguardo nell’unico dubbio ancora rimasto. ‘Ma dove volevi andare?’ Mi strappa la valigia dalle mani e mi fa sentire cretina, m’avvicina le labbra e m’invade un fremito che mi scioglie il respiro e m’annoda la gola.

I Bagni Giuditta sono ancora vuoti e mio padre già mi crede a Malpensa con destinazione primo volo internazionale in partenza. Mi ha solo domandato se avevo soldi abbastanza. Mia madre mi ha dato solo un bacio da lontano, intenta com’era a provarsi il suo nuovo vestito rosso fuoco che avrebbe sfoggiato la sera stessa ad una cena di vecchi amici dai nomi sicuramente inventati.

Stavolta davvero non riesco ad immaginare chi sarà il fortunato, chi a breve prima di salire qualsiasi scala, la tempesti di lo giuro per il gusto di vederla vestita in quel modo. Già la sento che s’illude d’essere padrona e sicura che domani ci sia ancora un altro letto, un altro strappo di calza da farsi baciare. E’ bella, bella da prenderla a schiaffi! Se solo avesse fatto il mio mestiere ora saremmo ricchi sfondati, se solo si fosse fatta pagare almeno metà delle volte non avrebbe quella faccia da eterna insoddisfatta, che cerca sesso di maschio perché le tante mazzate non le hanno mai fatto sperare null’altro.

‘Fanny ti amo. Non so se faccio bene ad ascoltarti, se non c’è altro posto nel mondo, migliore dei Bagni Giuditta. Ma io con te sto bene e sarebbe stato uno squarcio di cuore se tu m’avessi lasciata partire.’

Ma lei è già oltre, la sua faccia nel frattempo ha cambiato dieci volte espressione, fascino e pazzia. Mi ricorda la prima volta che la vidi, tre birre allo stesso tavolo dell’Angel Pub ci unirono più di un patto di sangue. Lei portava già i capelli flashati di viola e le unghie esperte, mentre la mia rabbia non aveva ancora una forma e tanto meno uno sfogo. Un po’ come adesso, convinta che il mondo è diviso in persone che hanno domande ed altre soltanto risposte.

Subito, senza pensarci due volte, mi offrì la possibilità di guadagnarmi il prezzo di questi stivali. Mi disse che ero bella, che sarebbe stato un peccato sprecarla dentro le mani inesperte di un qualsiasi coetaneo. Senza aspettare risposta mi porse il suo rossetto d’un rosso che non avevo mai visto.

Come tutte le cose che in apparenza non hanno un’origine casuale mi ritrovai nel bagno a scrutarmi allo specchio curiosa di sapere com’era una puttana, curiosa d’abbinare la mia bocca ad un concetto che finora avevo visto soltanto di notte per strada.

‘Aspetta, non devi fare nulla che aspettare.’ Mi disse guardando la porta alle spalle. Passarono meno di due minuti ed apparve un uomo grasso, tedesco, gonfio di birra e di voglia.

Mi sono sempre domandata se un cesso avesse avuto la stessa funzione, ma tant’è che mi prese senza fiatare. Mi lasciai trasportare in un vortice che ancora oggi fa mulinello fino ad avere tra le mani un enorme sesso nudo e pensare ‘ora che diavolo ci faccio!’. Ma poi con l’istinto e Fanny vicina meritai quella cifra, Fanny mi prese la testa e mi spinse più in basso tanto che davvero credevo di strozzarmi, che le mie labbra non avessero ripreso una forma e un colore decente. Ci credevo come ora ci rido se penso quanto oggi con un po’ d’esperienza riesco a contenere qualsiasi voglia.

‘Fanny, mi senti?’ Ma lei non m’ascolta, sa che è il momento che deve abbracciarmi, come quella volta nel cesso del pub col tedesco che si riordinava la camicia. Eravamo alte uguali e i nostri seni fecero fatica a trovare la posizione.

Ma questa volta li sento più morbidi, meno volgari, come se davvero fossero riempiti d’amore o qualcosa che in lei sta lentamente cambiando.

La guardo, basta questo a convincermi che davvero sarebbe stata pazzia essere ora sul primo aereo in volo per Istanbul, che il mio mondo è lì tra l’odore di umido dei Bagni Giuditta, tra questi seni abbondanti di Fanny che in macchina per la prima volta mi concede ed avida non mi faccio pregare.

Ma non reagiscono e soffrono come un dovere, come se avessero capito d’essere l’unico appiglio per non farmi scappare, ma questa mano che mi accarezza i capelli, mi ripaga di tutte le volte che avrei voluto, di tutte le volte che esauste di uomini abbiamo visto l’alba spuntare.

‘Brutta stronza, tu l’avevi capito?’ Rido goffamente con un suo capezzolo nel naso, mentre mi tappa la bocca con l’altro.

‘Dai vediamo se sei all’altezza d’un uomo? Vediamo se ci riesci a farmeli diventare viola?’ Mi sfida ma io non raccolgo.

‘Dai Fanny partiamo! Andiamocene, prendiamo un treno, che ne so io, a Venezia o in qualche altra parte del mondo dove due donne per mano passano indifferenti. ‘Giurami che mi terrai la mano, che non ci sarà un misero uomo gonfio di soldi e di birra che ci distragga.’

Ma Fanny già non m’ascolta più, riordina il suo seno come una gonna piena di briciole. ‘Cara questa sera abbiamo un impegno!’ Dice fredda mentre mette la prima. Mi sento a pezzi, io per la prima volta mi ero dichiarata e lei mi aveva offerto il suo seno come una mamma che inzucchera un ciuccio. Altro che Venezia, i ponti, l’acqua! Stasera ha un impegno dove sicuramente non può andare da sola, dove sicuramente ci mette la fica come io il mio di dietro, lo stesso che lei non ha mai dato, che io offro per far la mia parte, come se fosse una chicca, un regalo, un compendio.

Mi guardo la faccia nello specchietto e assomiglio perfettamente al sesso che offro, un avanzo da prendere se proprio si vogliono fare stravizi, mentre lei disfa e dispone da protagonista, mi trascina e trascina le voglie come una cagna per strada che non ha ancora deciso.

Mi irrigidisco schiacciandomi contro lo sportello, ma Fanny non si cura della cosa perché ormai ha vinto, psicologicamente più forte dispone di me, sicura al punto di cambiare umore senza spiegazione. Guida e lo sa, fuma e ne era certa che se calasse di nuovo il vestito, sarei ancora lì a chiedere di tapparmi la bocca e strozzarmi il respiro, se solo scoprisse una tetta starei lì a piagnucolare che non mi sento capita, che il bene che mi offre è solo carne che lievita la mia amarezza.

Ma Fanny stasera ha le mani ostili come un foglio di via, femmina tutta nata per far la puttana. E’ una barca di clandestini stipati, un nido caldo e capiente di uccelli migratori, i suoi seni sono a forma di bocca di uomo. Ha le unghie lunghe e perfette del potere che affascinano qualsiasi uomo che se ne voglia privare.

Ora mi faccio guidare, Fanny entra in un locale fumoso ed io la seguo come il suo cane, lei è il mio sostentamento il mio latte materno, la vedo che parla con due tizi pieni di anelli mi spaventa solo l’idea d’avvicinarmi, di scambiarmici il fiato dentro una macchina appannata, ma per fortuna la sento che parla di altri, di una cena stasera a base di pesce. Tratta un prezzo senza scontargli neanche mezzo euro. Loro parlano semplicemente di due donne in affitto, ad un certo punto mi guardano e danno il loro assenso.

Fanny esce, saltella e mi bacia con il malloppo in tasca, sono una barca di soldi offerti da due macellai di qualche valle bresciana venuti da queste parti per sfatare il mito di due bocche emiliane. Sono disposti ad aggiungere altri soldi per due vacche che oggi non devono squartare.

L’appuntamento al Plaza è alle dieci vestite da sera senza nessuna stravaganza tranne un rossetto spalmato a secchiate per vederlo d’incanto sparire durante la cena, per ritrovarlo più fresco quando la sera non può offrire di meglio.

In albergo il portiere ci indica la stanza. Lo sa che siamo due troie, lo sa che queste tette che s’intravedono appena e sembrano timide tra poco si offriranno per essere munte. Lo sa che andiamo a calare le patte e respirare bassi fondi di macellai bresciani nonostante parliamo un italiano perfetto ed i nostri capelli vaporosi ondeggiano aggraziati come signore per bene.

Saliamo e mi precede lungo le scale. Sbircio le sue gambe da sotto la gonna. E’ lei la troia! Solo lei l’oggetto dove gli uomini desiderano entrare, dentro l’anima in mezzo alle cosce dove nessun essere, uomo o donna che sia, finora è riuscito a farci un piccolo nido o qualcosa di simile che sappia d’amore.

Mi chiedo per quanto ancora potrò approfittarne, per quanto ancora mi darà l’illusione di poterla sognare e poter accettare quello che faccio, mentre ai Bagni Giuditta mi cercano, ridono e fanno attrito. A volte mi chiedo se dentro di me c’è una parte di lesbica che ancora non conosco, che lo sono senza saperlo, ma dentro m’offende soltanto a pensarlo, peggio di quando allo specchio mi chiamo puttana e voglio farmi del male, peggio di quando m’infilano le voglie ed io non li vedo.

Ma io l’uomo lo conosco e lo giudico solo tra le cabine del Bagno Giuditta, solo dalla consistenza che spero ogni volta non mi lasci bruciore, lo conosco per i respiri che mi fiata sul collo, per tutte le volte che mi paragona a qualsiasi altra troia, a sua moglie, a sua madre, che mai penserebbe distante da questo mare che almeno per una settimana non avrei voluto vedere.

Saliamo ed ancora la fisso. Non ci pensa nemmeno che il suo atteggiamento mi fa diventare più piccola, che ora vorrei un guscio di noce per raccogliermi dentro, se fosse possibile, magari le sue mani che m’accarezzano il viso e mi rimboccano la coperta, per proteggere i sogni e non farli scappare.

Perché altrimenti davvero scappo, riparto, altrimenti li dipingo più belli in qualsiasi altro posto. Non importa dove, non importa se c’è il mare, se ci sono gabbiani che vengono a riva perché tra poco sarà pioggia, sarà temporale. Mi basterebbero davvero i suoi occhi incollati sull’unica parte di me ancora intatta che batte e mi tiene sospesa d’emozioni e di fiato, che muoio dalla voglia di scambiarlo col suo.

Poi farei tutto, come ora sto facendo, come ora ho obbedito ai suoi capricci ispidi e salgo le scale, per poi vivere un giorno di rendita, per comprarci scarpe e vestiti. Non importa che siano belle, soltanto che facciano invidia, proprio ieri ne ho visto un paio con il laccetto alla caviglia col tacco a spillo che t’arriva in gola, o più semplicemente nei buchi degli uomini che baratterebbero mogli solo per farci l’amore, quando s’incunea nel piacere della trasgressione dove mi chiamano figlia, e subito dopo, mentre molli gocciano parole, sono pronti a giurare che quel nome non chiama nessuno.

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