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Beyond the White. Spettri e spade (3). Atto finale

By 17 Maggio 2020Maggio 29th, 2020No Comments

Due giorni prima.

Onde che flagellano la spiaggia. Onde che battono contro il bagnasciuga in moto perpetuo.
Le onde saranno ancora qui dopo che gli uomini, tutti gli uomini, saranno finalmente scomparsi, fagocitati dalla loro violenza, dalla loro idiozia. Dalla brama di autodistruzione.
Le onde flagellano la spiaggia dell’isola di Dayk, una piccola isola misconosciuta, sede di un vecchissimo istituto carcerario inglese. Riadattato in tempi più recenti come Black Site, gestito dalla Steelfang. Voli di solo andata per quel posto, guardie e staff disciplinati e spietati.
Nessuno va a Dayk di sua scelta, a meno che non sia pazzo. O fortemente motivato.
La rocca incombe sulla spiaggia, le vedette sorvegliano svogliatamente il bagnasciuga.
Un minuto al cambio. Una delle due impreca in yddish. L’altra gli rivolge uno sguardo gelido.
Il primo trooper se ne frega. Odio, rabbia e il costante desiderio di essere altrove.
Cambio. Rapidamente, i due abbandonano il parapetto. L’acqua ruscella loro addosso.
Pioggia, tempestosa, irruenta e incurante. Si affrettano a tornare al coperto della guardiola.
Tra le onde, qualcosa si muove. Se le sentinelle avessero atteso appena qualche secondo, forse l’avrebbero notato. Tinte grigie, mute da sub, bombole. Forme umane emergenti dal regno di Poseidone. Incubi giunti dalle profondità del mare. Incursori.

Primo a mettere piede a terra è James Crowain. Ex SBS, quel genere di incursioni sono il suo pane quotidiano. Valuta il perimetro con un colpo d’occhio. Gesto fulmineo in direzione di una formazione rocciosa. Significato evidente. Le altre due, tre sagome umane emergenti dagli abissi rispondono, recepiscono, agiscono. Movimenti rapidi sul bagnasciuga. Nessuna traccia visibile. Spostamento in diagonale verso le rocce. Copertura uno su uno.
Quando le nuove guardie arrivano, ormai è tardi: gli incursori sono svaniti, come se non fossero mai stati là.

Rimozione delle bombole, pinne e boccaglio. James Crowaine si toglie pure la muta, rivelando il battle-dress e la mimetica color sabbia. Getta a terra il sacco asciutto che si porta dietro.
Giubbotto tattico. Cinturone e spallacci. Nessuna placca in kevlar. Minimo ingombro.
Munizionamento e armi. M4 versione CQB. G18 con caricatore bifilare. Granate flash-bang.
Tutto il meglio del materiale da incursione lampo.
Anche gli altri incubi si rivelano. Nô Mitsutune apre la sacca impermeabile, estraendo un MP7 silenziato e una  Colt M45 CQBP. Neroko Tsubikome fa lo stesso, il viso inespressivo mentre monta il suo strumento di morte con rapidità e professionalità derivanti dall’estrema ripetizione, sin quasi all’ossessione. M39 EMR. Arma da tiratore scelto. Combattimento da medie a lunghe distanze. 780 metri di portata. Molti più di quanti serviranno, se tutto va bene.
Come arma secondaria, Neroko estrae la mitraglietta. Ingram silenziata. Arma da gangstar, da scontro furibondo. Estrema contingenza per eventuali complicazioni.
L’ultimo incubo rivela il suo volto. Capelli rossi, viso decisamente bello e occhi di fuoco.
Antonia DuLac. Baronessa caduta, baronessa in disgrazia, baronessa guerriera.
Anche lei avvolta dal battle-dress. Estrae dalla sacca un fucile a pompa Kei-Tec KSG.
Altra arma da sterminio a corto, cortissimo raggio. Decisamente atroce nel design quanto nel risultato. La DuLac arma il fucile. Passa alla pistola. Revolver Manurhin MR-73.
Un cimelio. Ma un cimelio capace di fare dei bei buchi, specialmente con munizioni 38. Special. Come in quel caso. Anche Antonia appese alla giberna granate. Cariche da irruzione e lame per tutti. Il gruppo comunicò a gesti. Nessun bisogno di parlare. Avevano studiato quell’incursione nei dettagli durante il viaggio per arrivare là.
Neroko Tsubikome prende posizione. Individua una delle sentinelle. Incuriosita da qualcosa?
Forse. Collima il mirino, livellandolo con il pomo d’Adamo del bersaglio.
È lontano dai suoi, il trooper. Non è neppure un trooper, in effetti. Nessun battle-dress o insegna. Mera manovalanza per compiti ingrati come l’assicurarsi che nessun sub o animale disturbi l’infernale quiete dell’isola di Dayk. No problemo, amigo!

Il non-trooper coi capelli lunghi e l’AK osserva, cerca di capire, scruta. È confuso. Non è sicuro.
E non sa, evidentemente, se fare rapporto e rischiare un rimprovero o ignorare il suo sospetto di aver visto qualcosa tra le onde. Neroko valuta il tiro. Vento favorevole, almeno per ora.
La sentinella osserva. Non capisce. Non può. E non capirà più nulla a breve.
Neroko spara. Soppresso dal silenziatore, lo sparo è un colpo di tosse soppresso.
Il non-trooper vola all’indietro. I commando restati avanzano. Arrivano rasenti il muro.
James Crowain annuisce. Capisce. Nessuna entrata se non il canale di scolo. Ma va bene.
Entrano da lì.

Il trooper sospira. Quello di pulire le latrine è un compito schifoso. Il fatto che oggi tocchi a lui gli fa solo desiderare di finire il turno in fretta. Entra nella latrina. Scavata di fretta e rozzamente nella roccia dell’isola, non è cambiata da quando quel posto era un carcere inglese. Si avvicina al cratere, disgustato. Si becca due proiettili in petto, crollando all’indietro.
James Crowain emerge dalla latrina. Aiuta Nô e Antonia a fare lo stesso. Afferra il cadavere e lo getta nel canale. Socchiude la porta. Nessuno in vista. Avanza. Corridoio fiocamente illuminato. Vuoto. Crowain segnala una porta. Avanza. Apre. Nessuno all’interno. Solo letti. Una camerata. Conta sette letti. Pochi. Ma non è tutto lì, sicuro. Antonia DuLac si avvicina alla seconda porta. Apre. Visuale sull’inferno. Sala di tortura. Il trooper che sta seviziando un poveraccio disteso su un tavolo operatorio pare un meccanismo demoniaco.
Antonia non esita: è una donna che ha visto il peggio, anche quella parte del peggio.
E sa che c’è un limite. Estrae il coltello. Lama da quindici centimetri in acciaio brunito forgiata in acciaio inossidabile. Piazzatasi dietro il torturatore, gli afferra il capo tappandogli la bocca e passa la lama sul collo. Lo getta da parte. Guarda il prigioniero. Non è ridotto per niente bene.
Nô si avvicina. Capisce. Spara un singolo colpo alla testa del sofferente. Un atto pietoso.
Gli incursori riprendono il corridoio. Altre porte. Celle. Prigionieri. Sono in condizioni orribili.
Dayk non è un carcere. È un luogo di tortura, dove la democrazia mostra il suo volto crudele.
Colpi di grazia silenziati. Pietosi, a loro modo. Avanzano ancora. Porta. Crowain apre, M4 in pugno. L’inserviente all’interno si volta. Cerca la pistola. Inutile tentativo di difendersi. Un colpo al petto mette fine a tutto. James analizza la stanza. È un deposito di prodotti igienici.
Nulla di rilevante. Ordina di procedere. Svolta nel corridoio. Altre celle. E una guardia. Il trooper alza l’arma. Fa per urlare. Il double-tap di Nô lo inchioda al muro. I prigionieri sembrano recuperare vitalità, per quel che importa. Sono messi male anche loro.
Altri rapidi colpi di grazia. Fino all’ultima cella.
L’uomo incatenato al muro non è debole. Non è piegato. Nonostante tutto.
Capelli biondicci, viso squadrato, occhi azzurri.
-Frank Horst?-, chiede Crowain.
-Lo sai che è il mio nome, lurido bastardo. Allora? Avete deciso che ora tocca a me, eh?-, chiede con voce da morituro. Il petto è segnato da cicatrici e tatuaggi rovinati. È stato torturato. 
Ma non per ottenere una confessione. E questo gli incursori lo sanno bene.
-James Crowain. Io e i miei soci abbiamo un’offerta che non vuoi rifiutare.-, risponde il commando. Con uno sforzo erculeo, Horst solleva il viso, mostrando una benda insanguinata attorno al capo. Gli copre un occhio, quello destro. O forse la mancanza dell’occhio.
-Chi cazzo siete?-, chiede.
-Spettri.-, risponde Antonia DuLac, -E tu…-, estrae dei tronchesi e trancia le catene, -Sei il motivo per cui siamo qui.-. Horst sussulta. La presa della donna è ferra. Non lo lascia cadere.
-Movimento.-, avvisa Nô, -Due uomini.-, dice.
-Ricevuto.-, risponde Crowain. Fa un cenno ad Antonia. La donna estrae una siringa ipodermica. Controlla l’ago e la soluzione. Inietta il tutto nel deltoide di Horst.
-Ricostituente.-, spiega, -Ora… Ce la fai a camminare?-, chiede. Lui annuisce.
-Posso anche combattere… credo.-, dice. Afferra la pistola che la Baronessa ha sottratto al torturatore ucciso. La stringe. Il solo gesto sembra dargli nuove forze. Afferra anche la maglia e i calzoni che gli vengono dati. Li indossa. Calza gli anfibi.

I due trooper arrivano ad armi pronte. Sanno che qualcosa non quadra, forse perché il loro collega non ha risposto. Nô abbatte il primo con una breve raffica.
Il secondo riesce a urlare qualcosa ma è il suo ultimo atto. Crowain lo fredda.
-Merda!-, esclama l’ex SBS, -Dobbiamo muoverci.-, dice. Incominciano a ritirarsi.
Nô piazza rapidamente una mina claymore. Regalo di addio. Mina anti-fanteria.

Neroko annuisce alle frasi dette alla radio. Inquadra. Spara. La sentinella sul muro crolla all’indietro colpita alla testa. L’altro fa per urlare. Si becca il secondo colpo al collo.
Oramai, i mercenari sanno dell’incursione. Tanto meglio. Un incauto cecchino si espone. 
Grave errore: Neroko lo sanziona con un headshot pressoché perfetto.
-Dove siete?-, chiede alla radio.
-Abbiamo trovato traffico.-, riferisce Crowain, -Ma stiamo arrivando.-.
Neroko annuisce. Spara di nuovo. Duecento metri più in là, uno degli ausiliari vola all’indietro.
Gli altri sbandano, cercano riparo. Il mercenario a capo del drappello fa lo spavaldo.
Si becca un proiettile in fronte. Il gruppo di tre ausiliari si sfalda. Fugge.

Il condotto di scolo è una fogna. Più di prima. Due ausiliari sono riusciti a comprendere in qualche modo che gli incursori sarebbero potuti fuggire da lì. I due non sono sopravvissuti.
Antonia DuLac ha fatto cantare il fucile a pompa. Scorta Horst verso l’uscita, Crowain in testa e Nô in retroguardia. La giapponese lancia un fumogeno nel condotto mentre escono. Neroko spara. La sentinella sul muro dietro di loro incassa all’addome.
-Andiamo!-, esclama il giapponese. Secondo sparo. Uno degli ausiliari indigeni pare convinto di essere invincibile. Punito con un centro al petto.
-Via!-, esclama Crowain. Viene superato da Antonia e Horst. Spara. L’M4 emette il classico rumore di arma scarica. Estrae la pistola. Finisce il caricatore e ripiega. Ricarica.
Spari da dietro. Nô e Antonia coprono la ritirata. Horst aiuta. Abbatte persino uno dei mercenari. Neroko spara altri due colpi. Cambia caricatore rapidamente.
Poi lo vede. L’elicottero è un Little Bird. Un residuato di guerre dimenticate.
Ai comandi però c’è una persona attuale, anche troppo, un veterano.
Jhon Kingsword attiva le minigun poste sotto i pattini. Disegna una linea tra i suoi commilitoni e i nemici, come a sfidarli a sorpassarla. I mercenari esitano. Temono. È palese che non vogliono morire e che non vengono pagati a sufficienza per quel lavoro.-
L’elicottero si posa sul bagnasciuga. Rapidissimi, James Crowain, Nô, Neroko, Horst e Antonia salgono a bordo. Sparano ancora mentre si risollevano verso il cielo.
-Tutti a bordo. Missione compiuta.-, esclama Jhon Kingsword.
-Dieci minuti di azione.-, dice Antonia, – Salvo per i nemici superstiti, è stato perfetto.-.
-Già. Comunque non importa: quelli saranno troppo impegnati a cercarsi un altro lavoro.-, risponde Neroko, -Oltre al fatto che non so quanti di loro vorranno restare ad addossarsi la responsabilità.-.
-Tutto molto bello.-, Horst ha le labbra screpolate e pare quasi febbricitante, nonostante ciò tiene duro. -Ma mi spiegate chi diavolo siete e cosa volete?-, chiede.
James Crowain annuisce. Sicuro. Confidente. Persino affabile.
-Siamo i buoni, Frank. E tu hai un conto aperto con la Steelfang.-, dice, -Un conto che vorremmo aiutarti a chiudere. Molto, molto presto.-. Frank Horst annuisce.
-Beh, siete i benvenuti. Ma immagino che la cosa non si limiti alla Steelfang, vero?-.
-No. Ma non temere.-, James estrae qualcosa dalla giberna. Lo getta al liberato.
Lo sguardo di Horst diviene liquido. Soldi. Una mazzetta da cinquantamila dollari.
-Sei assunto, Frank. A tempo indeterminato.-, dice James. L’altro sorride.

 

Giorni più tardi.
Esercizi. Addominali, crunch obliqui, flessioni. L’uomo si tiene in forma, come lama da affilare.
È un’affilatura continua, implacabile, assoluta, fino al giorno in cui la lama si spezzerà, o non dovrà più vedere battaglie. Ma sino ad allora, la lama va mantenuta in perfette condizioni.
Pausa. L’uomo inspira. Espira. È a torso nudo e i pantaloni 5.11 sembrano incongrui in una simile situazione. In realtà sono solo la conseguenza di una rapida trasferta. Nigeria, Marocco e infine Spagna. Viaggio rapido, atterraggio a Gibilterra. Hotel riservato sotto falso nome.
Tutto programmato, tutto pronto, tutto già preventivato da prima che la missione in Nigeria avesse inizio. Tutto eseguito con professionale puntualità.
La porta si apre. Miryam Goldmann sorride, avvolta nella camicetta in lino e i jeans.
Lei si è cambiata, più che altro per assicurarsi che nei dintorni non ci fossero nemici o eventuali osservatori. L’uomo la vede entrare. Sorride.
-Niente da segnalare.-, dice l’israeliana. L’uomo annuisce. Capisce.
-Marco dovrebbe contattarci tra meno di un’ora.-, dice la giovane. L’uomo annuisce. Stavolta c’è qualcosa di più sul suo viso, qualcosa che Miryam vede, intuisce.
-Abbiamo tempo.-, dice lui. Lei sorride. Capisce. Si siede sui talloni accanto a lui.
-Vuoi veramente vedere di cosa sono capaci le israeliane?-, chiede.
L’uomo sorride. Lei non aspetta risposta. Lo bacia. Lui risponde. Le mani dell’uomo le cingono la vita, sollevano la camicetta. Lei geme mentre la sua lingua disegna arabeschi liquidi sul suo collo. Si toglie la camicetta, rimuovendo anche il reggiseno. Si alzano in piedi.
Neanche una parola, solo emozioni leggibilissime, sguardi infuocati e bramosia.
L’uomo si fa avanti, stringendo appena uno dei seni di Miryam. Sente le mani di lei sui calzoni, nei calzoni. Li sente cadere insieme ai boxer. Risponde abbassandole i jeans e il tanga.
Nudi, uno davanti all’altra. La mano di Miryam cala sul membro dell’uomo. Lo ghermisce.
Lui introduce una mano tra le sue cosce, trovandola umida. Affonda un dito con lentezza esasperante tra le grandi labbra. L’israeliana sussulta, geme, il viso incorniciato dai capelli castani sciolti è un’espressione di desiderio.
-Nessun pregiudizio verso chi non è circonciso, vero?-, chiede l’uomo scherzosamente.
Lei s’inginocchia e, per tutta risposta, fa sparire i tre quarti del membro di lui, già bello eretto, in bocca. Lavora magnificamente di lingua. L’uomo sospira. Miryam smette la fellatio. Lui la fa rialzare. S’inginocchia tra le sue cosce, lasciando che lei si adagi sul suo viso mentre affonda la lingua nel suo sesso rorido. La lecca piano. Trova il clito e lo tormenta con rapide leccate alternate a passaggi lunghissimi e intensi. Miryam geme. Sta godendo? No. Non ancora. Gli spinge il capo tra le cosce. L’uomo la sente. Ora sta godendo. Le infila un dito tra le natiche, forzando lo sfintere. Lei sorride. Lo guarda.
-Sbattimi.-, sussurra. Si distende sul letto king-size. L’uomo si lancia su di lei, affondandole dentro. Non resisterà a lungo e lo sa, ma va bene così. Tormenta i seni della giovane mentre le affonda dentro. Myriam accoglie le sue spinte graffiandogli la schiena e il petto, imprigionandolo dentro di sé con le gambe, avvinghiandolo come una piovra. Geme e mormora oscenità in inglese e in ebraico ma il tono è internazionale e lui non abbisogna di incitamento alcuno. Le affonda dentro di nuovo. È prossimo a venire.
Improvvisamente, un rumore si aggiunge alla cacofonia del sesso. Un rumore inatteso.
La suoneria di un cellulare. Miryam e l’uomo si bloccano. Capiscono. Decidono.
Il piacere può, e deve aspettare. Il dovere chiama. L’uomo si sfila da lei, raggiunge il telefono.
-Pronto?-. Non guarda neppure il numero: sa chi è.

-Riunione operativa tra quindici minuti.-, dice la voce, -Istruzioni a seguire.-.
-Ricevuto.-, dice lui. Si concentra per diminuire l’erezione mentre chiude la chiamata.
Miryam sospira appena. Si alza recuperando il perizoma e indossandolo con somma disinvoltura. Nessun commento, solo la consapevolezza che la ricreazione è già finita.

 

Giorni dopo, San Francisco.

-Devi proprio?-, chiede la donna. È bella, sotto qualunque aspetto, quasi perfetta. Quasi troppo. Scuote il capo, ignorando il fatto che il cibo davanti a lei si sta raffreddando spietatamente in fretta. È affranta. L’uomo sospira. Si alza. Si abbottona la camicia.
-Riunione d’emergenza tesoro. Sai anche tu quanto sia importante…-, dice. Gli dispiace.
Sa quanto sua moglie ci tenga a quella cena, a quell’anniversario di vent’anni di matrimonio.
Di felice matrimonio, peraltro. Una rarità nel suo campo, lo sa bene.
-Lo so… ma proprio oggi?-, chiede lei. Lui annuisce. Purtroppo ci sono cose che non si possono rimandare. Come quella. Va in bagno, controlla i capelli. Prende la valigetta che tiene pronta alle trasferte urgenti. Prende lo zaino con il necessario per una permanenza minima all’estero.
-Non puoi davvero evitarlo?-, chiede sua moglie. È stizzita. Non arrabbiata, solo profondamente irritata. L’uomo si ferma la fissa.
-Maureen, è necessario. Assolutamente necessario che io ci sia. Sono… sorti dei problemi.-.
-Che tipo di problemi?-, chiede lei. Lui sospira. Glielo deve.
-Lavori andati male. Si parla di milioni persi. Contratti rescissi.-, spiega.
-E dunque?-, chiede lei. Maureen non è una contabile. È una top model. Ex reginetta di bellezza, ex vincitrice di alcuni concorsi abbastanza prestigiosi, candidata a Miss America 2017. Scartata ma tra le prime cinque. Una bellezza rara. Padre americano, madre colombiana.
Aveva preso il meglio da entrambi i parenti. Capelli castano-ramati, occhi verdi e pelle ambrata. A ciò si aggiungeva la palestra che frequentava giornalmente, la chirurgia plastica che le aveva rimodellato seni e natiche e un gusto nel vestire decisamente ben coltivato. Eppure, nonostante ciò, Maureen Esmeralda Lopez non capisce. Non può capire. Non capirà. Ed è meglio così. Ma ora, l’uomo deve fare sì che lei capisca, almeno in parte. Glielo deve. Anche se farà male.
-Maureen, da dove pensi che vengano i soldi per l’affitto di questa villa, per lo stipendio di Chun, di Elena e di Paco, eh?-, chiede menzionando il cuoco, la domestica e il giardiniere, -Da dove pensi che escano i quattrini che ti permettono di frequentare le palestre migliori, di fare la lipo, di farti rifinire i glutei e tutto il resto?-.
-L’ho fatto per te!-, esclama Maureen. Ora è furiosa. L’uomo si avvicina di un passo. La accarezza. Lei gli stringe la mano, non esattamente in modo tenero. Lui non cede.
-Lo so.-, dice, -Ma capisci cosa sto dicendo?-, chiede. Lei annuisce.
-Stai dicendo che se non vai a questo meeting del cazzo non ci saranno più cene così, nonostante il saldo del nostro conto in banca possa sostentarci per i prossimi due anni.-, dice.
Lui sospira. No. Non è solo quello. Non sarà mai solo quello. Ma anche questo, Maureen non lo può comprendere. È fuori dalla sua portata e l’uomo spera lo rimarrà in eterno.
-Sto dicendo che il nostro benestare economico dipende da questo, sì.-, conferma lui.
Maureen sospira. Pare assolutamente rassegnata. Lui si accorge improvvisamente di quanto gli dispiaccia, di quanto si senta maledettamente male a doverle dare buca proprio in quella sera così speciale. Vorrebbe dirle che gli dispiace, che rimedierà. Vorrebbe dirle tante cose.
Si limita ad abbracciarla. Lei ricambia. E lui capisce che non è tutto perduto.
-Possiamo sopravvivere.-, dice lei. Ma lui sa che è una menzogna.
-Ci riusciresti davvero? A rinunciare al lusso e alla pompa concesse da queste entrate?-, chiede, scettico. Il suo sospetto è fondato. La risposta tarda. Poi lui sorride.
-Non mentire, Maureen. Tu vuoi tutto questo. Ma se lo vuoi, questo è il prezzo.-, dice.
Lei annuisce. Capisce, almeno in minima parte. Lo bacia. Piano, lentamente, una mano di lei arriva a ghermire il membro dell’uomo attraverso i pantaloni. Voglia? Tantissima.
Ma il tempo è poco, tirannicamente poco. L’uomo sorride. Lascia che Maureen glielo prenda in bocca, lavorandolo lentamente, con assoluta lentezza, fino al godimento.
Una sorta di regalo di commiato. Una promessa.

 

Stesso momento, Roma, una villa sulla Via Appia.

Marco Pariziano, insospettabile operatore bancario sospira mentre ascolta la chiamata.
La situazione si é complicata. Sa che sarebbe potuto accaduto. Chiude la chiamata.
Si rivolge alla giovane assistente. Bionda, capelli moderatamente lunghi, seno gradevole.
Nella media. Ma decisamente inadatta a soddisfare ben altre necessità Fortunatamente, Pariziano é ricco. Benefici della partecipazione alla Steelfang. Benefici che includono obblighi.
Come quello che si profila all’orizzonte ora.
-Anna, per favore, prenotami un biglietto per la svizzera. Andata soltanto.-, dice.
-Sissignore. Posso fare altro per lei?-, chiede la giovane. Lui sospira.
Sa che lei vorrebbe, desidererebbe il suo sesso tra le labbra e le cosce.
Sa che lo farebbe solo e unicamente per l’enorme attrazione che il suo fascino gli permette di emanare. A cinquantasei anni, Marco Pariziano è ancora un bell’uomo, moderatamente in forma, ben curato, di cultura e tutto il resto. I capelli appena ingrigiti sono ben pettinati e gli occhi marrone nocciola esprimono volontà conferendo ulteriore nobiltà al viso volitivo.
È comprensibile che la giovane lo brami. Ma purtroppo per lei, il sentimento non è reciproco.
Non che Marco sia gay, semmai bisessuale. Comunque non è così disperato da volere le attenzioni di quella ventiseienne a malapena passabile nonostante le sue ottime referenze lavorative. No. Per quel genere di cose, Marco si rivolge alle amiche, alle mogli di svariati clienti, alle amanti, alle professioniste e persino a quelle che i suoi colleghi di un tempo definivano “donne con una marcia in più”.
In realtà Marco Pariziano è una persona semplice e senza grilli per la testa, ma è arrivato dov’è ora solo grazie a una qualità: l’estrema flessibilità morale.
La Steelfang aveva avuto bisogno di un bancario, uno capace di giocare sporco, di muovere masse di capitali enormi facendole sparire e ricomparire. In una parola, di lui.
L’offerta era stata subitanea e irresistibile. All’epoca, Marco Pariziano stava scontando una condanna per frode ai danni di un ente pubblico-statale, un affare finito male. I legali della Steelfang lo fecero uscire rapidamente e senza clamore. 
Gli procurarono una nuova identità e gli proposero il patto.
Non gli era neppure passato per la mente di rifiutare: l’attrattiva di quel lavoro consisteva nell’enorme libertà e nel poter fare ciò che gli riusciva meglio da quando andava alle superiori: fottere il sistema. Il fatto che da allora guadagni qualcosa come sei volte un normale consulente bancario è quasi più extra che altro. La consapevolezza che un suo rifiuto avrebbe potuto tradursi in un proiettile in testa non l’aveva minimamente sfiorato, anzi.
Marco ha sempre avuto quasi tutto ciò che voleva dalla vita, ma non può negare di aver anche dovuto affrontare numerose difficoltà. L’ultima in ordine temporale era stato un problema interno alla Steelfang. Un paio di mercenari avevano deciso di farsi i conti in tasca da soli.
Unitamente a ciò, un buon elemento aveva improvvisamente sviluppato una coscienza.
Marco aveva risolto la cosa: i due truffaldini erano finiti in fondo al Ceresio, in Svizzera.
Il bastardo coi rimorsi invece era finito su un’isola, molto distante. E Marco si sarebbe assicurato che ci sarebbe rimasto.
-La sua valigia è pronta, signore.-, gli fa notare George, il suo maggiordomo. Marco annuisce.
-Grazie, George.-, risponde prendendo il trolley. Va verso il taxi che lo aspetta all’entrata della villa. Lo aspetta un viaggio veloce e una riunione decisamente difficile.
“Risolviamo questa grana e poi, vacanza alle Fiji.”, pensa mentre sale sul taxi e ordina di portarlo all’aeroporto. Pensa al suo amico Arturo, proprietario di un localino niente male da quelle parti. Andrà a fargli visita presto. Magari con qualche accompagnatrice esperta per entrambi e qualche pastiglia di ecstasy sottobanco, per una rimpatriata coi fiocchi. 
Già. Dopo quell’incarico si prenderà una vacanza, decide.

 

Nel seminterrato l’atmosfera si era fatta pesante ma Marco Poretti non se ne curava: navigava nel Cyberspazio con una rapidità inudita, violando password e abbattendo difese.
Era il re di quella dimensione, l’invisibile predone dell’internet.
Shaibat, seduta accanto a lui, stava lavorando su altri dati.
Interi tera di dati processati in pochi secondi, l’etere vagliato, violato. Marco sorrise, pensando che la guerra, quella vera, iniziava da quella scrivania. Dal suo PC.
-Ci siamo. Fowler ha riservato un volo per Zurigo.-, comunicò infine.
-Ottimo. Pare che anche Pariziano sia in viaggio.-, rispose Shaibat.
-Eccellente.-, replicò l’uomo alle loro spalle. Marco Poretti riuscì a reprimere un sobbalzo.
-Dannazione, vedi di non spaventarci in questo modo!-, sbottò.
-Devi sviluppare la percezione dei dintorni, Marco. E non lasciarla.-, altra voce. Di donna.
-Perché la mancata percezione può uccidere. Sempre.-, Christine Buenariva parve emergere dalle ombre con passo felino. Bella, come altre donne della squadra. 
E irraggiungibile. Forse più di tutte le altre.
Marco si era fatto un paio di filmini mentali ma sapeva, intuiva, che quella giovane dalla pelle color ebano era decisamente e completamente diversa dagli altri, in modo inquietante.
Sebbene non fosse sicuramente ostile c’era qualcosa in lei, attorno a lei, una sorta di vibrazione negativa che scoraggiava grandemente Marco dall’idea di provare anche solo a dialogare con quella femmina sicuramente attraente ma decisamente inquietante.
Poteva collaborare con lei, quello sicuro, ma nulla più.
-Tra quanto sarà possibile agire?-, chiese l’uomo.
-I voli che hanno preso dovrebbero atterrare a breve.-, rispose Shaibat, -Penso sia ora che anche noi ci muoviamo.-.
-Assolutamente d’accordo.-, disse Christine.
-Il tuo compito sarà un altro, lo sai vero?-, chiese l’uomo.
-Sono l’unica che può farlo.-, sorrise la giovane.
-Esatto. Ma questo significa che sarai anche sola.-, gli ricordò lui.
-Lo sono quasi sempre stata.-, rispose la nera.
Marco sospirò. Riprese la parola.
-Arlecchino, la Baronessa e Horst sono già in posizione. Tu e Miryam li raggiungerete a breve, suppongo.-, l’uomo annuì in risposta. Shaibat si alzò dalla workstation con un movimento fluido. Marco la guardò. Anche lei era bellissima. E forse persino accessibile. Forse.
-Io verrò con voi. Le informazioni custodite dai capi della Steelfang potrebbero vendersi molto bene. È nel nostro interesse, no?-, chiese sorridendo.
-Assolutamente sì.-, rispose l’uomo, anticipando la reazione di Marco. L’informatico pensò che la cosa non gli andava, ma che non aveva scelta. Alla fine la decisione non era sua.
-Allora direi che non c’è altro. Vi ho prenotato un volo per l’aeroporto di Klöten.-, disse.
-Tempo alla partenza?-, chiese Myriam. Lei Marco l’aveva sentita entrare ma l’israeliana aveva volutamente scelto di farsi annunciare dal rumore dei propri passi. Gentile da parte sua.
-Poche ore. Troppo poche. Recatevi all’aeroporto.-, disse l’hacker, -Arlecchino e Antonia vi raggiungeranno in aeroporto.-. L’uomo annuì Miryam Goldmann anche.
Svanirono tra le ombre della sala insieme a Shaibat, lasciando Marco e Christine.
-Per quanto riguarda te…-, iniziò lui. Lei sorrise. Un sorriso che mischiava divertimento e ferocia. Marco Poretti ebbe paura, una paura insensata, primordiale.
-Dimmi pure.-, disse la nera. La paura che lei gli induceva lo privava finanche dell’erezione dovuta alla sua vicinanza. Per un istante pensò di parlargliene. Poi capì che non avrebbe avuto senso, anzi, che forse avrebbe potuto essere un errore, una riprova di debolezza.
-Avevi ragione dicendo che eri l’unica a poter svolgere questa missione.-, disse.
Prese a spiegarle. Christine non interruppe, non fece domande, si limitò ad ascoltare.

 

Poche ore più tardi.

Il volo fu rapido, ultra-rapido. L’uomo, Miryam e Shaibat sbarcarono a Klöten, accolti dai loro compagni. Horst ha un aspetto decisamente migliore ora.
A parte il vestiario, che è decisamente adeguato alla stagione ventura e gli occhiali da sole, il mercenario si è fatto crescere i capelli, tingendoli di un castano convincente. Anche la barba.
Gli occhi sono rimasti azzurri ma, nascosti dietro agli occhiali, chi li nota?
-Spero che il volo sia stato piacevole.-, esordisce Arlecchino con un sorriso.
-Prendi per il culo?-, domanda Miryam con un ghigno che è scherzoso solo a metà.
-Il cibo è pessimo come ricordavo. Prima regola, gente. Mai, mai e poi mai, mangiare in volo.-, sottolinea l’uomo, -Comunque ci siamo.-.
-Già. Seguiteci. Abbiamo parcheggiato poco distante.-, dice Antonia DuLac. La Baronessa è impeccabile nel suo abito e i capelli ramati le corrono lungo la schiena come una colata.
È bella e sa di esserlo, ma non ne approfitta, pare. Almeno non con loro.
L’uomo si sofferma a riflettere che quel gruppo di disperati, di guerrieri indomiti, alla fine è la cosa più vicina che possa dire di avere a una famiglia. La morte di Oleg è stata spiacevole, ma loro debbono andare avanti, fino in fondo. Il mini-van che hanno noleggiato li porta sino a Zurigo. È un viaggio silenzioso. L’uomo rimane immerso nei suoi pensieri.
L’albergo a Zurigo è un quattro stelle. Una preparazione obbligata alla partenza verso la baita di montagna dove i loro bersagli terranno consiglio, secondo Marco e Shaibat.
Camere singole per tutti. L’uomo entra nella sua. Non ha granché di bagaglio, giusto il necessario per giustificare un breve soggiorno. Si sdraia sul letto, chiude gli occhi.
Ripensa a tutti i passi fatti, a tutti i morti ammazzati, amici e non che hanno marcato ogni suo singolo passo su quella via dolorosa ma necessaria che ancora percorre.
“Quanto ancora?”, si chiede. Sa già la risposta. “Fin quando servirà.”.
Qualcuno bussa alla porta. L’uomo va ad aprire. Miryam Goldmann entra come un ciclone.
L’uomo sorride. La bacia. Nessun bisogno di parole. Hanno un affare in sospeso. E potrebbe non esserci tempo in futuro. Potrebbe non esserci un futuro, chiudono la porta.
La giovane si spoglia e lui fa lo stesso. Si stende sulla branda sfiorandosi. Un muto invito.
Lui le entra dentro. È già duro, adamantino. E stavolta intende arrivare sino in fondo.
Miryam lo accoglie. Calda, bagnata e desiderosa. Si lasciando andare. Lui su di lei, lei su di lui.
Il tempo scorre e non scorre, un istante vale l’eternità. Continuano, così frenetici da quasi farsi male, così bramosi da non voler rallentare. Da non poterlo fare. Miryam gode. L’uomo si sfila.
Lei lo ghermisce. Si porta alla bocca il sesso di lui, rorido del suo piacere. Succhia, piano e in modo semplicemente stupendo. Succhia fino in fondo, lasciandolo affondare nella sua bocca fino alla radice. Poi, quando lo sente venire, lascia che lui esploda sul suo seno.
L’uomo sospira, schizzandola del suo seme, assapora il presente.

 

Antonia DuLac ricorda l’epoca in cui ancora non era ciò che ora é. Il tempo lieto, forse incosciente, sicuramente felice della fanciullezza. Eppure, già allora sapeva, sentiva che qualcosa stava cambiando, che una lama ineluttabile stava calando a separarla da tutti e tutto.
Quando le fortune della sua famiglia erano calate e la caduta si era rivelata inevitabile, una parte di lei che lei stessa mai aveva voluto riconoscere come tale si era sentita libera, senza vincoli. Antonia si sorprende ancora al pensiero che forse, quella nobiltà e l’agio alla fine non fanno per lei. E che questo mondo, il mondo delle legioni sotterranee, dei demoni fatti di carne e sangue, degli scontri tra le ombre, alla fine è più suo di quello da cui proviene.
Decisa a mettere fine a quei pensieri, Antonia DuLac si spoglia. La doccia è d’obbligo. Apre l’acqua e s’infila nel loculo da doccia. Spazioso quanto basta per due persone.
Per un istante, Antonia pensa a Shaibat. È bella, diafana. Una ninfa. E pensa anche a Christine. Quell’amazzone nera aveva qualcosa di simile a lei, di atrocemente simile. Si sfiora piano il seno, scendendo con le mani lungo il corpo, sino al petalo del suo piacere, sollecitandone i punti sensibili con sapiente abilità. Dopo un po’ comincia ad ansimare, a gemere, l’acqua che le ruscella addosso. Occhi socchiusi, immagina che quella mano sia di una delle due giovani che conosce, o magari anche di Miryam Goldmann. Non le dispiacerebbe affatto. Affonda le dita dentro di sé, le muove piano, poi freneticamente..
Gode, appoggiata al vetro della doccia, travolta dallo scrosciare mentre dentro di lei altre acque si agitano e debordano. Sorride. Ma è un sorriso breve. Destinato ad altri tempi, e non al futuro prossimo.

 

Shaibat vaga lungo i portali telematici. Planimetrie, orari, curricula. Dati.
Linfa e dannazione della civiltà umana contemporanea. Sua personale croce e delizia.
Marco Poretti invia altri files. Dati biografici, anagrafici, finanziari.
Steelfang. Castello di menzogne, tempio d’iniquità commesse in nome del dio denaro.
Black Sites gestiti su pagamento, i mercenari di quella compagnia erano a contratto con non meno di cinque governi, tra i quali quello statunitense e quello italiano.
Prigioni private dove i terroristi o presunti tali venivano gestiti, torturati e spesso uccisi.
Il tutto senza alcun rispetto per la Convenzione di Ginevra o per i Diritti Umani.
Edificante vedere che Guantanamo ha avuto modo di fare scuola…
Quello il pensiero di Shaibat. La giovane clicca su un altro file. Apre.
Bilanci. Soldi. Spostamenti bancari iperprotetti. Anche troppo. Un meccanismo a prova di hacker. Già il fatto che Marco ne abbia scoperto l’esistenza è un piccolo miracolo.
Movimenti di denaro decisamente consistenti e assolutamente difficili da tracciare.
Connessioni. Della Steelfang con diversi enti, legali e non. Connessioni difficili da capire.
Ma esistenti nondimeno. Shaibat apre un altro file.
Traffici di droga. Afghanistan e Colombia. Oppio e coca. Profitti provenienti dal Cartello di Gustavo Nuez, dai signori della guerra delle Aree Tribali del Pakistan.
Shaibat sospira. Nulla di nuovo. Per ora. Sa che da quel traffico la Steelfang ha fatto parecchi soldi e che, contemporaneamente, migliaia di persone hanno iniziato a morire o a drogarsi.
Ora si capiva come l’oppio afghano e la coca colombiana arrivavano in Europa e America…

Un traffico notevole, sicuramente uno dei più insospettabili. Shaibat clicca ancora.
Cerca connessioni, scava nelle notizie, sviscera siti congetturali, volando di traccia in traccia.
Cerca, instancabile, insensibile al trascorrere del tempo.
Trova ciò che cerca poche ore dopo. Un nome. Un volto.
Alexander Abbès.

 

Miryam Goldmann torna nella propria camera, appagata. Soddisfatta. Chiude la porta.
Inizia a spogliarsi, sapendo che una doccia è d’uopo. S’interrompe quando sente battere sulla porta. Qualcuno bussa.
-Avanti.-, dice rimettendosi la camicetta.
-Disturbo?-, chiede Shaibat. L’israeliana scuote il capo.
-Assolutamente no.-, dice.
-Bene. Perché si dà il caso che io abbia bisogno che tu faccia una cosa.-, risponde la thailandese. Incomincia a spiegare importanti dettagli.
Miryam capisce, annuisce, comprende. E infine, accetta che il suo ruolo è appena cambiato.

L’indomani all’alba si muovono. Ognuno verso la sua missione.
Miryam lascia il gruppo, partendo verso Ginevra. Gli altri proseguono.
Il piano è pronto. L’ultimo atto di quella recita che li ha visti colpire in più punti del pianeta, minare il potere della Steelfang per esporne il capo, pronto al fendente conclusivo.

 

Il set della scena finale. Il ristorante Wunderberg. Un posto gradevolissimo, ristorante per pochi. Quel giorno ancor più esclusivo: Ed Fowler se ne accorge quando vide che eccetto per una cameriera, due camerieri e una sommelier di chiare origini orientali, il locale è interamente vuoto. Il ristorante mostra il suo lato migliore. Gli altri membri del Consiglio Direttivo della Steelfang hanno già preso posizione, nella saletta appartata a loro riservata. Massima discrezione, nessuna interferenza dai camerieri e nessuna possibile falla nella sicurezza. A riprova degli agganci della Steelfang, è stata anche indetta una no-fly zone su quella zona. Un dispiegamento notevole. Ed Fowler sorride. Quello è potere, quello vero.
E i suoi complici, due uomini e una donna, sono l’estensione del potere, i detentori di esso.
Marco Pariziano, camicia aperta sul petto, viso piacente e fisico decisamente ancora in forma.
Non pareva dimostrare la sua età. Il secondo uomo è Bogden Lutrov, un russo. Oligarca, o ex oligarca. Decisamente un riccone nonostante la pancia strabordante e il viso flaccido. L’opposto di Pariziano. Oltre a ciò, Bogden era rozzo e volgare. Un contadino del cazzo.
Ed lo odiava, ma sapeva anche che purtroppo gli agganci del bastardo con Mosca erano vitali.
-Signori.-, esordisce Ed Fowler con un sorriso di circostanza.
Bogden si limita a un vago cenno del capo. Pariziano è più espansivo.
-Ah, Fowler. Lieto che tu sia arrivato. Possiamo iniziare.-, dice. Ed sorride.
Pariziano non gli dispiace. È uno in gamba, capace in quello che fa e sicuramente di buon gusto. Fowler sa che questi aggettivi non si applicano a Bogden, la cui presenza alla riunione è dovuta solo ai pochi e precari agganci nella politica e nella maffya moscovita.
-Sì, credo sia il caso.-, voce di ghiaccio. Accento difficile da identificare. Ma la voce basta.
Paralizza tutti, terrorizza tutti. Ling Yi. Femmina alpha. Vietnamita, senza un filo di trucco. Capelli lunghi raccolti in uno chignon trattenuto da due spilloni. Viso duro e occhi freddi.
Una donna con cui fare i conti. Una delle pochissime donne, (straniere per giunta), a poter vantare l’entrata nelle Triadi cinesi. Contatti in tutto l’Oriente, da Vientiane a Seul. Traffici a migliaia. Eroina, Oppio, crack e altro. Soprattutto connessioni, tantissime connessioni.
Finché l’antidroga non è entrata in gioco, e Ling Yi ha usato i suoi contatti e i suoi capitali per fondare la Steelfang, insieme a Fowler e a Bogden. Pariziano era stato aggiunto dopo.
Le connessioni di ieri non sono del tutto inutili: Ling Yi pressa, corrompe, ottiene.
La Steelfang si fa improvvisamente un nome sulla scena medio orientale.
E da lì, gli affari veri iniziano. Ling Yi è il cervello. Ed Fowler è il sistema immunitario, Marco Pariziano il sistema circolatorio della Steelfang e Bogden… Bogden Lutrov è l’intestino crasso.
È lui a far sparire i corpi dei traditori. È lui a occuparsi delle problematiche minori. 
Sacrificabile. Questo pensa Ed Fowler. E sicuramente lo capisce anche Bogden stesso.
-Signori.-, esordisce Ling Yi in ottimo inglese, -Siamo in una situazione critica. Abbiamo due fallimenti. Due missioni abortite con perdite atroci tra i nostri effettivi. Come se ciò non bastasse, il nostro black site sull’isola di Dayk è stato violato.-. Silenzio assoluto.
Occhiate taglienti come lame, una cappa di tensione pesante come piombo.
-Sappiamo chi è stato?-, chiede prudentemente Bogden.
-No.-, risponde Pariziano, -Gli incursori su Dayk non hanno lasciato nulla di tracciabile. Un lavoro certosino. Da commando.-. Bogden mangia alcuni antipasti. Soffoca un rutto.
Un barbaro. Ma nessuno gli bada.
-Fortunatamente per voi ho qualche amico a Mosca. Potremo riaprire uno di quei black site in Siberia.-, dice, -Non ci saranno problemi. Per quanto riguarda le due missioni andate male… beh, ho anche qualche contatto con reduci delle guerre balcaniche. Gente che sa il fatto suo.-.
“Tagliagole, ladri e stupratori.”, pensa Ed Fowler. Lo pensa anche Pariziano, si vede.
Ling Yi invece sembra concentrata, valuta la proposta. Infine sospira.
-Non abbiamo molta scelta.-, riconosce, -Ma sarà una soluzione temporanea.-, dichiara poi.
Bogden sorride, compiaciuto del fatto che il suo aiuto sia apprezzato, seppur minimamente.
È il suo momento di gloria. Patetico ma legittimo: Fowler lo sa bene.

Forse anche Bogden se ne rende conto. Ha segnato un punto a suo favore ma se ha un minimo di cervello, (E nessuno in quel circolo ristretto considera quest’ultima possibilità come assoluta certezza dettata dall’evoluzione umana), avrà anche capito che non gli serve.
È sacrificabile. Totalmente e assolutamente. Forse non oggi ma presto.
-Allora è deciso.-, dice Ling, dichiarando con assoluta calma il termine della riunione.
-Garçon, una bottiglia di vino, di ottima annata, prego!-, esclama Bogden.
E lì, improvvisamente, il quadro cade. Ed se ne accorge, ne ha una conferma quando i camerieri, uomo e donna, ignorano l’ordine ed estraggono due pistole silenziate.
Walter PPK. Roba da professionisti. I visi della coppia sono duri e decisi.
-Frak Horst…-, riesce a proferire Pariziano, sorpreso quanto gli altri.
-Esatto, Marco. Non volevo lasciare ai miei nuovi soci il piacere.-, risponde lui con un ghigno.
-Un piacere vederla, Ling.-, dice la voce della donna. Capelli ramati tagliati corti, viso duro.
Ling Yi non capisce. Ling Yi non sa. La donna sorride senza gioia.
-Non ricordi? Siete stati voi, tu e i tuoi mercenari, a uccidere mio figlio.-, il tono della donna vibra di dolore, rabbia e vendetta. Ed Fowler capisce, intuisce, che è finita.
Non rivedrà mai più Maureen. Non farà più nient’altro.
-Quanto vi pagano per questa porcata?-, chiede Bogden, -Possiamo darvi cento volte tanto.-.
-Plauso al tentativo.-, dice una terza voce. La giovane dai lineamenti asiatici appare, simile a una fata maligna. Impugna a sua volta una pistola, -Ma come capirete non sono i soldi a interessarci.-, dice puntandola sui commensali.
-Shaibat…-, sussurra Ling Yi. Ling Yi ora capisce.
-La partita si chiude qui, Ling. Sei sfuggita troppo a lungo. E ti sei lasciata dietro troppi sacchi per cadaveri pieni.-, la voce di Shaibat è acciaio vibrante.
-Non ne uscirete vivi…-, sussurra Marco Pariziano, -I nostri alleati ci vendicheranno.-.
-Abbiamo un certo vantaggio.-, sussurra un uomo. I capelli scuri e il viso anonimo gli fanno gioco. Nessuno lo riconosce, -Vedete… A differenza vostra, noi siamo morti. Da parecchio.-.
Alza la sua arma, un revolver Ruger decisamente letale puntandola su Ed Fowler.
-I morti non conoscono perdono. Non riposano in pace.-, sussurra l’uomo.
Le armi sparano tutte assieme.

 

Alexander Abbes entra nel club. Il postribolo è di lusso, come tanti a Ginevra. Discosto dalle strade più battute ma di classe. Il giusto compromesso. Il nero individua subito possibili compagnie. Il suo sguardo però viene attirato da una in particolare. Capelli neri, viso armonioso, sguardo luminoso. Bella. E anche tremendamente in forma. Senza neppure un filo di grasso o un ritocco estetico.
-Come ti chiami?-, chiede avvicinandosi con un baciamano. La giovane sorride.
-Esther… Vengo da Israele.-, dice. Oh… La sola voce fa affluire il sangue ai lombi di Abbes.
-Non ci sono mai stato. La Terra Santa dev’essere particolare.-, dice lui,
-Di santo è rimasto poco, laggiù. Qui almeno c’é… il piacere.-, dice lei. Gli appoggia una mano sulla patta dei pantaloni in tessuto di alpaca, constatando che non è per nulla indifferente.
-Bisognoso di un pellegrinaggio?-, chiede lei, sussurrandogli all’orecchio. Abbes accetta. Lei annuisce. Prendono l’ascensore.
Escono al piano uno, lei prende una tessera. Entra in una stanza e chiude la porta.
Abbes sorride. Fa per baciarla. Il pugno che si becca lo manda k.o.

 

Il Wunderberg chiuse due giorni più tardi quando i corpi dei dirigenti della Steelfang furono trovati. Nessuna prova, bossolo o impronta. Notizie in merito agli affari criminosi affondarono la società nel giro di pochi giorni, facendo cadere diverse teste in più paesi.
Alexander Abbes non fu mai più ritrovato. I soldi della Steelfang furono dispersi in mille rivoli, dati in beneficienza, per la maggior parte. Solo un’altra storia di spettri e spade.

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