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Racconti Erotici Etero

Blade’s royal flush

By 11 Giugno 2018Dicembre 16th, 2019No Comments

Per chi non mi conosce: salve!
Io sono Alexander Mirror, a.k.a Blade, un mutante con artigli e un fattore rigenerante, roba molto utile quando fai giocolieria coi coltelli.
Il lettore avveduto e informato sui racconti che mi riguardano può saltare le prossime righe.
Invece, il lettore che legge per la prima volta un racconto che mi riguardi può gustarsi questa breve presentazione.
Vivo negli States, nella Grande Mela (spesso marcia, direbbe qualcuno). Non lavoro (specialmente a causa del mio ottimo rapporto con lo S.H.I.E.L.D. che mi ha pagato gli ultimi favori fatti e, come ho detto, sono un mutante.
I miei due interessi nella vita sono le donne e le arti marziali, in quest’ordine.
Questo non vuol dire che io sia un completo ignorante!
Un’altra cosa: non mi considero un eroe, diciamo che cerco di fare la cosa giusta ma non di rado mi lascio tentare dall’usare le mie abilità per furtarelli, o almeno così facevo…
Comunque nel mio ultimo lavoretto per lo S.H.I.E.L.D. qualche tempo fa, una mutante capace di divenire acqua che risponde al nome di Flux mi ha riempito di botte. Me la sono legata al dito e dopo averla trovata e averle reso il favore alcune volte siamo finiti alleati (ed amanti). Nell’ultima missione insieme, Flux é apparentemente morta. Apparentemente, perché ha lasciato un chiaro segno della sua sopravvivenza qualche tempo dopo. Un segno di cui so unicamente io.

La sala era gremita di persone. Cinque tizi al tavolo oltre a me. Odore di birra, cibo fritto e nicotina.
Il tizio accanto a me trasuda nervosismo, ma non servirebbero sensi potenziati o chissà quale intuito per arrivare a capirlo. Semplicemente é pessimo a mentire.
Guardai le carte. Re di cuori e fante di picche.
Una buona mano d’inizio? Ce n’erano di migliori. Ma anche di peggiori. E restare in gara per ora non mi costava nulla.
-Cip.-, dissi. Nel poker il cip equivale al non fare nulla restando in gioco. Il tizio alla mia sinistra parve sussultare, colto da una scarica elettrica.
Sicuramente stava fantasticando su chissà quale mirabolante vincita conferita dalle ottime carte che sognava di trovarsi in mano.
Per ora il piatto piange. Ci sono solo dodici dollari a riempirlo. Una cifra magrissima.
-Allora, Bernard?-, chiede un nero che pare uscito da una fabbrica di steroidi. &egrave spazientito, il che mostra che anche lui ha un’enorme aspettativa su questa mano.
-Cip.-, disse Bernard. Il nero sorride mentre un barbuto lancia due dollari sul piatto. Un rilancio pre-flop nel Texas Hold’em é quasi sempre un bluff. Lo so per esperienza.
Un tizio lascia cadere la mano, prende e se ne va.
Non lo biasimo: é da due ore che sono qui e l’ho visto perdere tipo ottanta dollari. Dagli abiti che porta non sembra proprio ricchissimo.
Il nero sorride e vede la puntata, accettando di giocare.
Il tizio nervoso pare ancor più nervoso ma decide di richiare. Io, calmissimo, vedo.
Flop. Le tre carte sono un sei di quadri, un due di picche e un fante di cuori. Dentro di me calcolai che almeno una coppia c’era. Perfetto
-Cip.-, disse il tizio alla mia sinistra. Ecco, quello era un difetto di tanti, troppi giocatori: restare al tavolo, sperarci fino all’ultimo, non sapere quando era il momento di limitare i danni.
Uno che prima aveva passato lasciò e se ne andò con stizza. Fantastico.
Io non feci nulla, atteso che fosse qualcun’altro a rilanciare. E infine il tizio accanto a me rilanciò. Nervoso.
Cinque dollari sul piatto, in aggiunta ai ventidue già presenti. Un bel rilancio in ogni caso.
Annuii. Le probabilità erano con me: probabilmente quel tizio aveva solo una coppia, eppure era possibile avesse di meglio. Mi sforzai di leggere tra le righe, aperto a ogni segnale. Niente. Non aveva nulla, lo sentivo dal nervoso e lo vedevo dai tremiti delle mani. Tipico segnale di Bluff.
Ora, non serve essere esperti nel poker per capire che un simile dilettante non arriverà lontano ma quel tizio ci credeva proprio. Sguardo fisso, incurante dei segnali che altri davano, un’anatologia umana di idiozia d’azzardo.
Anche gli altri non dovettero sforzarsi molto per capire che quel tizio non aveva proprio nulla in mano: videro. Tutti a parte me. Io rilanciai. Di dieci dollari.
E fu la catastrofe: il nero e tutti gli altri lasciarono, imprecando sommossamente alla volta della dea bendata o del sottoscritto. Poi fu la volta del tizio che aveva osato rilanciare. Come una pecora decise di vedere. Un’altra carta fu calata. Un Re di fiori. Perfetto.
Ora avevo in mano una doppia coppia ma mi limitai a lasciare che fosse lui ad agire. E lui forse capì qualcosa, lo vidi dallo sguardo. Però decise ugualmente di rilanciare. Un idiota che tentava di giocare aggressivo senza averne la minima capacità.
Sorrisi. Vidi il rilancio di due piazzando due dollari nel piatto. Infine arrivò il river, l’ultima carta.
Due di quadri. Io vidi. Forse ora quel tale capiva in che casino si era messo. Ma decise comunque di rilanciare. Ben dieci dollari. Sorrisi e accettai.
E calai le carte. Doppia coppia: re e fanti.
Lui, sconsolato mostrò le sue. Un asso e un dieci. Non una pessima mano. In ogni altro caso sarebbe stata valida. Se fosse uscito un asso forse avrebbe potuto risultare veramente pericolosa ma anche in quel caso la doppia coppia mi avrebbe garantito la vittoria. Arraffai con calma misurata i soldi nel piatto.
-Cazzo!-, esclamò il pollo. Gli sorrisi.
-Se non riesci a vedere il pollo al tavolo, vuol dire che sei tu.-, disse il nero. Io annuii. Era persino meglio della battuta che pensavo di fare. Lui raccattò le sue cose e se ne andò. Io feci un’altra mano poi uscì. Erano le 22.31.

Rieccomi!
Dopo la mia avventura con la mutante Flux, la mia vita era andata avanti in un apatico susseguirsi di giorni.
Flux mi aveva, a suo modo, marchiato. Era stata capace di lasciare il segno. E non potevo negarlo.
Ma io ero deciso ad andare avanti e così, frequentai il Dojo di Maestro Uesagai, grande praticante di Ju Jitsu.
Lì avevo conosciuto Maria. Una giovane con ascendenze italiche. Bella e inesperta oltre che decisamente sexy nel vestire fuori dai tatami. Era cintura bianca, mentre io vantavo una cintura arancione.
E ovviamente, mi permisi di darle qualche suggerimento.
I miei suggerimenti portarono ad un gradevole frequentarci fuori dal Dojo. Un caffé, una cenetta.
E da cosa nacque cosa.
Ricordo distintamente il nostro primo bacio a Brooklyn e la successiva promessa di rivederci per approfondire la cosa. Dato che nonoscevo il suo punto di vista sui mutanti, decisi di evitare di affrontare l’argomento (o quantomeno posticiparlo a quando sarebbe stata disposta a darmi maggiore fiducia).

Il poker é invece una semplice passione minore. Non sono drogato di gioco d’azzardo come certa gente ma semplicemente non mi dispiace dilettarmici, considerando che mi é sempre piaciuto.
Che poi si vincano soldi, quella é un’altra questione.
Solo per dirne una, dopo essere uscito dal ritrovo avevo qualcosa come duecento dollari in più.
Ma ovviamente, per ora i soldi non erano un problema. Tra i guadagni dell’ultima missione per lo S.H.I.E.L.D. e i miei risparmi, sicuramente ne avevo abbastanza per un bel po’. Ma sapevo di dovermi farmi vedere troppo spesso nello stesso circolo: vincere una volta era niente, due ti rendeva celebre. A tre vittorie eri un campione. A quattro un invidiato e un sospetto baro e a cinque potevi finire molto male. Quindi, meglio evitare di vincere troppo spesso. A volte perdevo apposta. Manteneva i giusti equilibri tra giocatori. Era una sottile sfumatura diplomatica, una precauzione atta a impedire che qualche invidioso se ne uscisse con un coltello o una pistola e che ci scappasse il morto.
Mi era capitato già una volta e non volevo che si ripetesse.

Ovviamente, la conoscenza di Maria fu qualcosa di graduale ma entrambi sapevamo come sarebbe finita. Eravamo giovani e volevamo godere della nostra età.
Così, quando finii casa sua per bere un drink sapevo perfettamente cosa sarebbe accaduto.
In pochi istanti ci baciavamo avvinghiati come piovre. Maria sorrise, gli occhi brillanti e melliflui. Desiderio puro.
Anche io la volevo, la desideravo. Volevo perdermici.
Raggiungemmo il letto che già eravamo nudi. Lei glabra e con dei seni di tutto rispetto. Cademmo sul letto assieme mentre le sue mani scorrevano sul mio petto. Le accarezzai lentamente i seni, poi la pancia, la schiena, le natiche, le cosce, l’interno delle cosce e solo allora la vulva. Per allora, Maria era abbastanza pronta ma non intendevo passare subito a quella parte del rapporto.
Volevo di più. Volevo darle di più.
Così la leccai, lentamente, avvicinandomi con una tenerezza di cui raramente davo prova. Maria sospirò, gemette mentre mi avvicinavo sempre più al centro del suo piacere. Sentì di dovermi ripagare e prese ad accarezzarmi. scese sino al mio pube. Me lo prese in mano. Ero abbastanza eccitato.
Intanto la mia abnegazione aveva dato frutti. Liquidi.
Maria era pronta. Lo ero anch’io. Si mise in posizione.
Mi piazzai tra le sue gambe. E affondai dentro di lei.
Gemiti modulati, feromoni a palla, desiderio puro.
Il sesso era una cosa maginifica in quei momenti. Se fatto male era il più delle volte uno spreco ma in quel caso… era pura magia.
Lo facemmo lentamente, con me che volevo controllarmi, darle tutto ciò che potevo.
Quando alla fine godetti nel condom che avevo messo su sua gentile richiesta mi sentii bene. Ci sorridemmo, incapaci di dire alcunché ma consapevoli di essere in un momento e in uno spazio in cui le parole non servivano.

Non la rividi, per un po’. Durante le lezioni che frequentavamo eravamo ancora abbastanza distaccati ma la desideravo, un mondo. Ci rivedemmo. A volte fu semplicemente per una passeggiata, un caffé o un drink.
Altre volte era per buttarci tutto alle spalle.

Finché non accadde.

Erano le 23.02 di notte. Era una mano piuttosto consistente. Un piatto di quasi mille dollari. Al tavolo era arrivato un sbruffoncello figlio di papà che voleva farci vedere quanto i soldi potessero contare.
Per tutti gli altri aveva funzionato ma non per me. Io era ancora lì. Avevo visto la sua puntata e lui aveva strabuzzato gli occhi, sbalordito da una simile audacia e disponibilità finanziaria.
Accanto al piccino di padre decisamente ricco c’era una donna. Almeno sui trentacinque, procace, bionda. Inguainata in un vestito di Versace. Molto bella ma sicuramente un’accompagnatrice.
Sorrisi alla donna e poi fissai il mio avversario negli occhi. Avevo in mano un asse e un cinque. Pessima mano ma sul tavolo c’erano due assi, un re e un fante.
Se fosse uscito un’altro asse avrei avuto un poker d’assi.
Oppure, con un cinque, un full.
Attesi. Il belloccio puntò, fiduciosissimo.
Io sorrisi, nessuna simpatia. Quell’idiota era lì per vincere e credeva che i soldi gli dessero chissà quale immenso potere. Ignora il mio buonsenso che mi diceva di lasciarlo vincere e puntai a mia volta.
Ultima carta. Attimi di tensione. Se avevo letto bene la sua espressione, aveva anche lui qualcosa. Purtroppo il profumo di cui era ammantata quella tipa non mi permetteva granché di chiarezza.
Cinque di fiori. Full. Non sorrisi, niente. Attesi.
Il tizio sorrise. Poi, visto che nessuno puntava, scoprimmo le carte.
Io avevo un Full.
Lui una doppia coppia. Il suo sorriso si congelò. Vidi i suoi pugni stringere il tavolo e sbiancare. Incassai, calmissimo. Niente da dire. Avevo vinto. Fine.
Mi voltai per andarmene nel silenzio di quella bisca.
-Non finisce qui!-, esclamò il bellimbusto.
Io sospirai. L’avevano sempre detto. Probabilmente non l’avrebbero mai fatto. Probabilmente.

Maria non rispose al telefono e non si presentò al Dojo l’indomani. Mi fu detto che non aveva avvisato nessuno, come se fosse sparita nel nulla. A casa sua, niente segni di effrazione o nastri della polizia. Ma la verità mi apparve chiara, anche prima di arrivare a casa dove, infine trovai una lettera. La aprii, immaginandone perfettamente il testo. Scritta a computer, di fresco.
“Abbiamo la tua ragazza. Vieni a questo indirizzo alle 21.00, da solo.”. Sotto c’era l’indirizzo e un’ultima velatissima e banale ma serissima minaccia.
“Non fare scherzi o la ragazza é morta”.
Sospirai. Andava bene. Doveva andarmi bene.
Nessuna buon’azione resta impunita. Avevo colpito quel giovane nel punto più duro: l’orgoglio.
Ora evidentemente voleva la vendetta. Purtroppo per lui, io e la morte ci conosciamo bene. Meglio di quanto la gente ami credere. Presi la pistola. Un revolver vecchio ma affidabilissimo. Poteva sparare anche se restava troppo in ambienti umidi. Presi il coltello in foggia Tanto che avevo comprato tempo prima per puro svago.
Ero pronto.

Avrei riavuto indietro Maria. A qualunque maledetto costo. Non intendevo accettare che qualche stronzo pensasse di poterle far pagare i miei sbagli, anche quando sbagli non erano.

Le 21.00. Una zona di New York decisamente poco raccomandabile. Un postaccio frequentato dalla feccia.
A spiccare nel panorama di tossici e pusher erano due tizi in smoking con pistole chiaramente poco occultate sotto i vestiti. Naturale. In una zona così é giusto rendere evidente il rischio che altri corrono aggredendo chi é armato. Un dissuasore, un deterrente visivo prima ancora che reale.
-Sei Blade. Bene. Il capo ti stava aspettando.-, disse uno dei bodyguard. Io non dissi nulla. Avevo imparato che a volte tacere é un ottimo modo di rispondere: permette a chi sta parlando di credersi superiore, garantisce una lunghezza di vantaggio a chi tace.
E permette, in definitiva, di spezzare quell’illusione con la sola azione, prima che con una parola rivelatrice.
Entrammo in un magazzino. Odore di chiuso e stantio, e cannabis. I due Bodyguard si piazzano dietro di me.
Brutta scena. Da tutta l’idea di un esecuzione.
Attendo. Ancora qualche istante. Il Tanto é raggiungibile e la pistola pure ma gli artigli in questo caso sono molto più rapidi e garantiranno uno shock che farà perdere qualche istante al nemico.
Perfetto.
Guardai davanti a me. Il bellimbusto con l’abito perfettamente liscio e la bionda che lo accompagnava.
-Sta pensando che può batterci.-, disse la bionda.
“Cazzo! Quella é una telepata, sicuro.”, in tal caso…. Dovevo mantenere la mente sgombra, agire senza pensare. La donna sorrise. E anche lo stronzo.
-E così, pensi davvero di essere più furbo di me?-, chiese lui. Io tacqui. Lui sorrise ancora. Fece un gesto, intuì un movimento dietro di me. Non mi mossi.
Reagire lì sarebbe stato puro e semplice suicidio.
E uno dei bodyguard mi sparò un dardo nella schiena. Biascicai qualcosa poi tutto l’universo parve sfumare.
E divenne nero.

Rinvenni qualche tempo dopo. In una gabbia.
Osservato da una figura che non distinsi subito.
La bionda mi osservava, curiosa e arrogante ad un tempo. Io la guardai.
-Piaciuto il sonnellino?-, chiese.
-Fanculo, stronza.-, le risposi con garbo. Lei rise.
-Divertente. Sprezzante anche davanti alla morte.-, disse lei. Io tacqui.
Era così? Sarei morto in quel buco cercando di salvare una ragazza che non aveva colpe?
-Non morirai qui.-, disse la bionda, -Non subito, almeno. Jeoffrey vuole prima vendicarsi e per farlo ti farà soffrire, parecchio. Ci teneva molto a vincere quella partita, anche senza il mio aiuto…-.
-Avrebbe dovuto evitare di fare il coglione e pensare, invece.-, ribattei io. Lei sorrise, di nuovo.
-Già. Lo pensi davvero.-, disse.
-Sai cosa penso?-, chiesi io premurandomi di immaginarmela in atteggiamenti degni di una pornostar. Lei mantenne quel sorrisetto del cazzo.
-Sì. E in parte avresti anche ragione. Jeoffrey non mi merita. Sono anni che ci prova. Suo padre, Anthony, lui é di un’altra pasta. Ma neanche lui mi merita. Tu?-, chiese. Pareva divertita. Io rimasi zitto.
-Ah, beh, puoi anche tacere ma secondo me ti piacerebbe. Un’ultima possibilità di godere della vita prima che ti venga strappata via.-, disse la bionda.
-Perché negarlo? Si vive oggi ma non é detto che si viva anche domani.-, ribattei io. Inutile mentirle.
-Ah, lo sapevo. Fiero. E non hai paura. No, la morte in battaglia non ti spaventa. Ma temi per Maria… Non temere. Lei é con noi, ora.-, il pensiero di Maria torturata e forse già morta mi fece salire una rabbia bestiale. Sguainai gli artigli senza pensare.
-Zitta!-, ringhiai. Inspirai, cercando di calmarmi.
-Altrimenti?-, chiese lei, -Affetterai l’aria?-.
-Se pensi che finirà così ti sbagli di grosso.-, ringhiai.
-Oh, Mi deludi parecchio, mio artigliato amico.-, disse lei, -Io non penso proprio che finirà così. Io penso che tu possa aiutarmi a uccidere quell’idiota di Jeoffrey e anche suo padre. Che te ne pare?-.
Ragionai. Non avevo modo di sapere se bluffava o no.
Potevo solo rilanciare. Rischiare di più, consapevole che avrei potuto perdere tutto.
-Accetto.-, dissi. La bionda sorrise.
-Il mio nome é Karen.-, disse presentandosi.
Io non le dissi il mio.
-Le tue armi e tutto ciò che avevi é in una stanza poco lontana. Siamo nei sotterranei della villa di Anthony. Il padre é fiero e sicuro di sé quanto il figlio. Ossia troppo.-, disse Karen. Io la guardai.
-E tu?-, chiesi, -Come sei finita in tutto questo quadretto?-.
-Io ero solo una ragazza con un talento che Anthony volle usare per divenire più potente. Per farlo, mi fece rapire e piazzò una microbomba nel mio collo. &egrave impossibile rimuoverla e se lui dovesse capire che io sono dietro a tutto questo… morirei in modo orribile.-.
I suoi occhi non mentivano.
-Capisco. Allora, cosa farai?-, chiesi.
-Per iniziare ti slegherò. Leggermente, abbastanza da permetterti un margine di gioco.-, disse lei.
Io annuii. Ormai era la sola possibilità che avevo.
Lei entrò. Il tacco dodici batté sul cemento davanti a me. Era bella, l’idea di farmela non era neppure troppo male. Ed era decisamente bastarda. Ma motivazioni a parte, avevo due ottime ragioni per sbudellare Anthony e figlio, ora. Karen si chinò su di me. Mi sfiorò le labbra con un bacio. Io risposi. Lei lo approfondì. Le infilai la lingua in bocca. E sentii qualcosa. Le mani erano più libere ora. Lei sorrise rialzandosi.
-Rimarrei ma verranno a prenderti tra poco, e non possiamo rischiare. Ti aspetterò nelle mie stanze, nell’ala est della Villa.-, disse. E si girò andandosene.

Ora, non sono uno sprovveduto. Immaginavo perfettamente che quella potesse essere la verità o una bella bugia ma sicuramente, in un momento del genere, scelte non ne avevo. O agivo o morivo.
Karen (posto che quello fosse il suo nome) mi aveva dato un’occasione di cambiare le carte in tavola.
Ma c’erano connessioni che sfuggivano. Cose che non quadravano, interrogativi irrisolti. Che però avevano scarsissimo peso nel presente. Sospirai.
Comunque la si mettesse, là dentro ci sarebbe stata una strage. La domanda che m’importava era: io e Maria saremmo stati tra le vittime?
Avrei fatto tutto il possibile perché la risposta fosse “no”.

Arrivarono a prendermi. In due. Un tizio smilzo e magrolino e un nero che aveva una ridicola pettinatura afro. Li fissai, inespressivo. Dovevo aspettare che si avvicinassero ancora un po’.
-Bene, é arrivato il tuo momento, bastardo!-, esclamò il nero. L’altro stava zitto. Molto intelligente.
Sguardi rapidi. Armi nelle fondine, che però erano slacciate e pronte all’estrazione.
-Dovreste aiutarmi ad alzarmi.-, dissi. Uno dei Bodyguard sorrise e mi prese per un braccio facendomi alzare. L’altro, quello attento, era a meno di un metro da me, pigramente appoggiato alla gabbia.
Un errore fatale. Erano alla distranza giusta.
Snikt. Gli artigli uscirono e le corde caddero. Quello che mi reggeva fece la cosa più stupida che poteva: un passo indietro. Non due, tre o quattro. Ma uno.
Che mi diede lo spazio per trapassarlo con gli artigli della mano sinistra mentre la destra fendeva l’aria e poi la carne del petto del tizio che si era incautamente avvicinato. Due in meno.
Presi le pistole. Armi dozzinali ma a sentire Karen le mie armi dovevano essere da quelle parti… Telecamere nel locale non ce n’erano. Ma sicuramente ce ne sarebbero state. Dovevo essere rapido. Abbattere l’accoppiata padre e figlio e trovare Karen. E capire che fine avesse fatto Maria.
Perché non si era accennato che minimamente a lei?
Perché Karen non ne aveva quasi parlato? Era già morta? Oppure non l’avevano mai presa.
Per ora non serviva inseguire le divagazioni della mente. Ciò che avevo bisogno di fare era agire.
Ora.

Corridoio. Nessuna telecamera. Lo attraversai rapidissimo. Perlustrai le cantine. Bottiglie di vino, un garage sotterraneo con tre macchine e due guardie che liquidai rapidamente e col minimo rumore possibile. Infine eccogli armadietti. Perlustrai la stanza e trovai il mio Tanto. Lo rimisi alla cintura.
Ora potevo andare a farli fuori.
Avevano commesso un errore credendo che uno come me si potesse comodamente catturare ma io non ero il tipo da lasciare impuniti errori simili.
In più conoscevo abbastanza bene il tipo.
Jeoffrey e Anthony erano quel tipo di persone che pensavano che i soldi fossero tutto e dessero potere su tutto. Sbagliatissimo oltre che stupidissimo come modo di vedere le cose.
Qualcuno avrebbe dovuto farglielo capire. E purtroppo per loro, quel qualcuno ero io.
Uscii dalla stanza. Non so chi avesse progettato la villa. Ma immagino si fosse ispirato a quelche villona italica o roba del genere.
Gli attuali proprietari, facoltosi oltre ogni mia maledetta immaginazione, avevano provveduto ad arredare quell’abitazione con quadri delle più svariate correnti artistiche. Il tizio che mi sbucò davanti sulle scale, pistola in pugno ma decisamente sorpreso lo fece parandosi davanti a un quadro di Picasso. Un quadro che, ancora spero ardentemente fosse falso. Sparai senza pensare.
Il tizio crollò all’indietro col petto trapassato e il quadro di Picasso ora esibiva un bizzarro tocco di cremisi alla Jackson Pollock e un buco di perfetta rotondità geometrica. poco lontano dal centro del dipinto.
Non m’illudevo che tali inappropriate modifiche potessero aumentare il valore del quadro, né che oramai Anthony e il pargolo non sapessero che stavo arrivando visto il casino fatto. Salii le scale.

Il momento fu topico: un maggiordomo con un fucile a pompa mi spuntò davanti. Poco spazio di manovra. Mi gettai a terra ma la bordata di pallini mi soffiò in viso, strappandomi brani di pelle dalla faccia.
Uh, questa era vicina. Sparai da terra, parzialmente al coperto da dietro il basamento di una statua. Il maggiordomo volò all’indietro sparando un ultimo colpo che sbriciolò parte di una Venere di Milo.
“Quanto poco rispetto per l’Arte, diamine!”
Altro tizio in uscita da una porta al pianterreno. Sparai.
Mancato. Si riparò dietro un mobile ad angolo che doveva essere del ‘700. Spari in risposta. Armi di piccolo calibro. Da due direzione. Uno era il tizio sopracitato. L’altro era un nero in marsina che sparava con un’Ingram manco fosse stato al mercato. Se ne stava sulle scale, leggermente abbassato.
La Venere di Milo incassò altri due colpi fatali. Una dipinto dietro di me, credo l’Abbraccio di Klimt, fu traforato. Poco male, l’avevo sempre ritenuto splendido ma terribilmente banale.
Sparai a mia volta. Il nero si beccò un piombo in testa.
Inzaccherì di emoglobina una tela di Rembrandt.
“La ragazza con l’Orecchino di Perla ha appena cambiato nome”, pensai. Sparai e il tizio dietro il mobile incassò allo stomaco. Il mobile incassò un piombo che sarebbe arrivato più o meno alla coscia.
Scattai in avanti, attentissimo agli angoli.
Puntai la pistola alla testa del moribondo.
-Jeoffrey. Dov’é?-, chiesi.
-Fottiti!-, esclamò lui. Io mirai al ginocchio sinistro.
-Uno.-, dissi. Lui scosse il capo.
-Due.-, l’altro continuò a fare cenni di diniego, quasi disperatamente.
-Tre!-, BLAM. Il ginocchio esplose. E quegli occhi si arricchirono di una nuova connotazione di dolore.
-Allora?-, chiesi.
-Di sopra!-, esclamò lui. Annuii. Colpo in testa di grazia. Salii le scale. Mi trovai davanti un piano superiore vasto tipo due volte il mio appartamento. In metà delle stanze che perquisii non c’era nessuno.
Trovai un uomo armato nella stanza del Poker. Lo uccisi prima ancora che potesse alzare l’arma.
Infine trovai Jeoffrey. Se ne stava seduto su di un biliardo, Aks74U in mano. Decisamente fatto o brillo.
O entrambi. Poco importava.
-Sicuramente non sei arrivato qui da solo… Qualcuno deve averti aiutato.-, disse.
-Oh, sicuro. Ma puoi smettere di farti domande. &egrave stata Karen.-, dissi.
-Karen?-, gli occhi di Jeoffrey si aprirono di stupore.
-Già.-, dissi, -Ora, se mi permetti di riavere Maria, forse potrai persino uscirne vivo. Con la casa devastata e la servitù decimata, ma vivo.-.
Jeoffrey mi sorrise. Un sorriso canzonatorio.
-Ho l’arma più grossa.-, disse, -Ho già vinto.-.
-Non impari mai, vedo.-, ribattei.
Lui sparò. Caprioleggiai in avanti e mi riparai dietro un mobile. Feci per sparare. Clack!
Fine delle munizioni. Nel momento peggiore, ovviamente. Estrassi il Tanto. Gettai la pistola oltre il riparo. Udii la risata folle del biondino.
-Ti vengo a prendere, figlio di troia!-, esclamò.
Idiota. Sapevo perfettamente da che parte stava arrivando e anche cos’avrebbe fatto. Così, mentre avanzava, decisi. Modificai la presa sul Tanto.
-Che cosa si prova?-, chiese. Io mi alzai.
Praticamente gli spuntai davanti. Jeoffrey ringhiò. E il ringhio divenne un rantolo quando il Tanto gli si piantò nel collo per tutti e quindici i centimetri di lunghezza della lama. Lo sfilai. Sangue a turbina pompato su un altro importante dipinto. Poco importava.
Superai il giovane morente dopo averlo alleggerito dell’Ak. Ora dovevo trovare il re del castello.
Due guardie entrarono. Mi gettai a terra. Loro spararono alto. Io no. Raffica ad altezza delle anche. Caddero urlando. Colpi di grazia alla testa.
Chirurgicamente preciso. Presi una delle pistole.

Se l’erano cercata, l’avevo già detto e l’avrei ribadito con ogni colpo di pistola, fendente o respiro sino alla fine. Se l’erano cercata spinti dalla convinzione che non avrei osato reagire. Karen mi aveva aiutato ma anche se così non fosse stato, probabilmente sarebbe andata in modo molto simile.
Semplicemente quella gente non riusciva a concepire l’idea che qualcuno ben inferiore al loro ceto potesse realmente batterli. Semplicemente, quando si erano arricchiti avevano scordato le loro radici, quello che erano davvero. E dimenticandole, avevano pensato che ora, da ricchi, sarebbe stato tutto più facile. Falso.
Io ero lì semplicemente per Maria.

Attraversai due sale. Non c’era più nessuno. O quasi.
Poi lo vidi. Il capostipite. Anthony. Sedeva alla scrivania con un bicchiere di vino in mano. M’invitò a sedermi. Scossi il capo.
-Sto in piedi.-, dissi. Non puntai l’Ak, che per altro era praticamente a secco, non alzai la pistola. Attesi che parlasse e basta. Anthony mi sorrise.
-E così Jeoffrey é morto, eh? Povero idiota.-.
Fine dell’elogio funebre per il biondo.
-Ha creduto di poter fare ciò che voleva solo perché era ricco? &egrave il problema di molti.-, ammise.
-Non il suo?-, chiesi io.
-Forse.-, ammise il vecchio. Era grassoccio e quasi calvo. Indossava un abito abbastanza ricercato.
-Vuoi del vino? Non capita tutti i giorni di bere col proprio assassino.-. L’offerta fu quantomai garbata.
-No, grazie.-, risposi. Non capivo. Dove diavolo voleva andare a parare? Cercava di salvarsi? Forse.
Il vecchio mi sorrise. Fu un sorriso triste, malinconico.
-Due anni fa mi hanno diagnosticato un tumore ai polmoni. Metastasi aggressive. Si é già espanso fino all’esofago. Sono ancora grasso perché ho mangiato parecchio prima di scoprirlo ma ora… Io sono un morto che cammina.-, prese a raccontare.
Annuii. Capivo. Ma francamente me ne importava davvero poco e niente. Volevo solo ritrovare Maria e andarmene da quella villa di merda.
-Quindi capisci che, ora come ora, l’idea di morire consumato da un tumore, soffrendo il triplo di quanto soffro ora…. Non é esattamente la miglior cosa.-, disse Anthony. Annuì. Sì. Capivo.
-&egrave per questo che mi accoglie così. Vuole che io la uccida.-, dissi, finalmente comprendendo appieno.
Era per questo che non aveva chiamato polizia o rinforzi. Ed era per questo che non era armato.
“Un’atto di pietà”. Sì, potevo farlo.
-Prima che tu prema il griletto… &egrave stata Karen a liberarti?-, chiese. Io annuì.
-Ah.-, un sospiro che sapeva di comprensione di pezzi che vanno al loro posto. Di improvvisa rivelazione.
-Immagino sia il suo ultimo dono a me.-, disse.
Quella frase mi suonava strana. Non era ironica.
E improvvisamente, il fantasma di un notevole quantitativo di interrogativi si fece largo nella mia mente. Indizi, ragionamenti. Possibilità sopite.
Aveva senso? Poteva essere davvero così?
Rapire Maria solo per avere la possibilità di vendicarsi? O c’era dell’altro che non avevo considerato. Forse non ero che un burattino…
Ma non importava. Alzai la pistola.
-Fallo.-, la voce del vecchio mi giunse calma. Sparai.
La detonazione mi parve attutita dal suono dei miei ragionamenti. Il vecchio sorrise mentre il proiettile gli trapassava la fronte e lo scagliava indietro, sulla poltrona. Il vino si rovesciò sulla scrivania in mogano.
Il Re di quella casa era caduto. Ora dovevo cercare la donna. E capire.
Perché quello che avevo visto sino ad ora mi aveva dato modo di dubitare.

Attraversai le sale. Una donna, forse una cuoca, aveva tentato di fermarmi. Aveva anche avuto fortuna: mi aveva centrato allo stomaco. Il mio fattore rigenerante mi avrebbe permesso di guarire in… qualche ora. La casa era un mattatoio e se non me ne fossi andato in fretta, forse qualcuno sarebbe arrivato a far domande.
Arrivai nell’ala est. Ero stanco, sembravo uscito da un film splatter e ormai, come unica arma avevo il Tanto. E gli artigli. Mi sarebbero dovuti bastare se Karen avesse deciso di non rispettare la parola data.
Sempre che non fosse stata abbastanza accorta da corrompere qualcuno della sorveglianza per farle da bodyguard. Sempre che non intendesse usare Maria come ostaggio per garantirsi l’assenza di indesiderate sorprese. Ma ne dubitavo. Al punto a cui ero arrivato dubitavo quasi di tutto.
Per la verità, alcuni tasselli stavano iniziando a formare un disegno nient’affatto piacevole a vedersi.
Ma mi mancava ancora qualcosa… Un trait d’union che non riuscivo a identificare.
Qualcosa di sfuggente. Come un suono in sottofondo.
Poi la sentì. Musica. Lady Gaga che cantava Do What You Want. Decisamente uno dei brani che non amavo ascoltare. Mi fermai. Questo era stupido.
A meno che Karen non capisse perfettamente che avevo sensi di una certa portata, sicuramente non avrebbe messo una colonna sonora simile per… altre ragioni. Mi sforzai di ascoltare, di capire.
E poi lo sentii. Modulato, appena percettibile nella voce di Lady Gaga. Un gemito finito con un “Sì” particolarmente lungo e trascinato. Il genere di gemito che una donna emette quando qualcuno la fa godere.
Karen stava festeggiando anticipatamente la fine della sua schiavitù? Oppure…
Seguii il rumore sino a una porta in ombra, socchiusa.
Altri gemiti, sottili. E la musica che continua. Poi la canzone finì, improvvisamente.
E i gemiti rimasero. Inequivocabilmente di Karen.
-Oh, sì, continua… Leccala tutta!-.
Evidentemente il mio averla immaginata come una gran puttana non era esattamente sbagliato.
Sospirai. Restare ad ascoltare e cercare di capire o entrare? Entrare. Anche solo per andare a vedere il bluff. Tanto più che ero abbastanza eccitato.
Entrai. Non in modo così sottile: la porta cigolò.
Karen, completamente nuda e decisamente discinta e splendida, voltò la testa, fissandomi per un istante. Sorridendo. Poi picchiettò sulla spalla della giovane nuda e mora che (ora era chiaro che fosse una donna) che le stava leccando servilmente l’intimità.
Se avessi avuto dubbi, se mai ancora ne avessi avuti, ora furono annientati.
La giovane che leccava la vulva di Karen si fermò. Alla luce fioca dell’abat-jour la vidi.
Era Maria. Mi sorrise.
-Ciao Alex. Ce ne hai messo di tempo.-, disse.
-Immagino tu abbia finito con Jeoffrey e Anthony.-, la voce di Karen mi arrivava a tratti. Molteplici pezzi andarono al loro posto.
Nessun’effrazione a casa di Maria.
Il fatto che non si fosse accennato a lei se non minimalmente.
Il vecchio Anthony che pareva aver capito tutto.
Lo stupore di Jeoffrey che inizialmente mi era parso solo sorpresa ma che ora, rivedendolo, capii che nascondeva un’ombra di vero e proprio dolore.
Tutto divenne atrocemente chiaro.
-Era tutto programmato.-, dissi.
-Già.-, cinguettò Karen. Si toccò i capezzoli più per svago che per altro, -Erano anni che volevo prendere il comando. Maria, mia cugina di terzo grado, mi ha decisamente aiutato suggerendo te come… possibile aiutante.-. Maria, seduta a gambe incrociate era impudica quanto quella strega.
-Sei stata tu a suggerire a Jeoffrey di venire in quella bisca?-, chiesi. Mi sorprese la calma del mio tono.
-No. Ma vederti lì mi ha dato modo di concretizzare l’idea di Maria. La cara Mary, qui é sempre stata molto furba. Ben più del non compianto Jeoffrey. Quel tizio era un idiota. Gli dissi di non giocare contro di te e lui lo fece. Poi é bastato offrirti ciò che volevi e una storia strappalacrime ed eccoti qua. Congratulazioni, hai fatto un ottimo lavoro.-, le parole di Karen mi parevano melassa. Ero stanco ma soprattutto disgustato.
-E da quando ti sarebbe venuta quella bella idea, Maria? Prima o dopo, eh?-, chiesi.
-Ma ovviamente già quando ti vedevo in palestra. Eri il candidato perfetto. In più io lo sapevo che eri un mutante. Avevo trovato una tua foto su un sito. Sei un po’ come Wolverine, solo più controllabile. Più facile da ingannare.-, eccola la verità. Quella che volevo e che ora, purtroppo avevo ottenuto.
-Mary, penso che il nostro Alexander voglia qualcosa di più di meri ringraziamenti… Certo forse, ringraziamenti più… concreti, potrebbero piacergli.-, disse Karen. Protese una mano ad accarezzarmi il cavallo dei calzoni. Io rimasi immobile. Sentivo la mia eccitazione. Le volevo. Ma non sarei stato il loro strumento. Non così. Non più.
-Oh, ora fa il timido riottoso! Divertente. Forse gli ci vuole un po’ di incitamento…-, disse Maria.
Si alzò e mi baciò sulla bocca. Sentì la sua lingua nella mia bocca. Dio, la volevo.
Ma c’era un limite. A tutto.
-Mi avete usato…-, sibilai.
-Esatto. Ma ora ti stiamo ricompensando. Sai quanti uomini vorrebbero essere al tuo posto?-, chiese Karen. Si era sdraiata ed esponeva impudicamente la vulva mentre si toccava. Gemette appena mentre un dito affondava appena tra le pieghe del suo piacere.
Maria intanto si era chinata. Inginocchiata davanti a me. A lavorare con la zip dei miei pantaloni.
-Grosso come lo ricordavo. Chissà se regge abbastanza da soddisfarci tutte e due?-, chiese. Mi prese il pene. Prese a succhiarlo.
-Puttana.-, sibilai, -Brutta troia doppiogiochista!-.
Lei se lo tolse di bocca. Mi sorrise.
-Troia finché vuoi, ma a te piace. Non negarlo.-.
Karen sorrise. Scese dal letto.
-Questo é quello che vuoi. Non negarlo. Ricordati che ti posso leggere come un libro aperto e leggo perfettamente che tu vuoi quello che ti stiamo offrendo.-, disse. Mi accarezzò la guancia. Le sue dita sapevano di lei. Karen rise in modo sottile.
Maria continuava a succhiarmelo, occhi socchiusi, espressione da porca. Io sorrisi.
-Non lo nego.-, dissi. Accarezzai la testa di Maria.
Lei sorrise. Pompò di più. La fermai.
-Aspetta…-, dissi.
-Cosa?-, chiese lei.
-Il letto é più comodo.-, dissi io. Lei sorrise. Si alzò. Anche Karen sorrise. Io pure. accarezzai il petto di entrambe. Notai appena una linea di preoccupazione, un’ombra di dubbio sul viso della telepate.
Ma Karen non era sicuramente Jean Grey o Frost.
Era solo una povera idiota nata con un dono e aveva creduto che quel dono le avesse garantito chissà quale potere. In realtà, il suo potere si poteva ingannare. Lo avrebbe capito subito.
Immediatamente chiusi gli occhi. Strinsi un seno di Maria e uno di Karen. Poi sorrisi. La bocca della bionda si aprì un avvertimento che non arrivò alle labbra. Gli artigli uscirono. Trapassate.
Lo sguardo di Maria fu di assoluto stupore. Quello di Karen era odio puro ma era tardi: gli artigli avevano letteralmente spaccato il cuore delle due streghe.
Movimento alla mia sinistra. Complici i pantaloni fui in difficoltà. Raggiunsi il Tanto. Lo lanciai. Il tizio di colore che doveva essere stato l’ultima risorsa di Karen, un bastardo con in pugno un pugnale militare cadde in avanti, trapassato alla gola.
-Scala reale.-, dissi. Letteralmente. Re, Donna, Fante, Asso di picche e il dieci che doveva essere il tizio.
C’erano tutti.
Mi ricomposi. Presi una giacca di quelle di Jeoffrey. Erano quasi della mia misura. Presi una pistola ancora carica. Sparsi benzina in giro per la villa. Bruciasse tutto. Disattivai l’impianto antincendio.
E spedii all’inferno tutti loro. Poi m’incamminai verso casa. Era quasi l’alba. Sorrisi.
Ma nel mio sorriso c’era una nota stonata. La consapevolezza di essere stato usato e tradito ma anche di essermi rifatto.
Andava bene.

Arrivato a casa caddi sul divano.

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