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Racconti di DominazioneRacconti Erotici Etero

Di lei, si canta e non si sogna più.

By 26 Maggio 2023No Comments

Il titolo, i più attenti l’avranno capito, è una mezza citazione.
Gli altri, un po’ mi spiace.

Il racconto, invece, è dalla parte femminile, che insomma non è che mi venga naturale, ma mi ci sono divertito.

E’ un inizio, eh, che non so se andare avanti o cosa, che ho delle idee, ma insomma poi ne parliamo, eh?

Per le piogge d’aprile in ritardo che è già maggio, per i pensieri malinconici che non c’entrano con la primavera o anche solo per commenti, scaaty [at] gmx.com

***

Lo schiaffo arriva improvviso e secco sul mio culo, e un dolore breve ma violento mi attraversa fino alla base del collo.

Stringo istintivamente gli occhi, prendo fiato, mi volto indietro per quanto me lo permetta la posizione carponi, sorrido e sussurro “grazie padrone”.

Sento la punta del suo cazzo appoggiarsi al mio ano, sospiro e cerco di rilassare i muscoli dello sfintere il più possibile.

Lui spinge all’improvviso, forte, e lo sento entrare dentro di me.
Malgrado i miei tentativi di aprirmi per lui, sono chiusa e stretta, e come ogni volta il primo colpo è uno strappo, un dolore che ormai conosco bene.

Il mio culo è asciutto, e sento il suo cazzo sfregare contro le pareti, come se fosse coperto da carta abrasiva.

Gemo, non posso farne a meno.
Lui sospira, so quanto gli piaccia il suono del mio dolore.

Si ferma, è entrato il più a fondo possibile con il primo colpo, probabilmente sono solo pochi centimetri, ma per me è come se ci fosse un bastone enorme e lungo infilato nel mio culo e, come ogni volta, mi chiedo come farò a fare entrare il resto.

Resta fermo un istante, in attesa.

Con un brivido di terrore, mi riprendo, alzo la testa e guardando i suoi occhi nel riflesso dello specchio che ho davanti, dico ad alta voce “grazie!”.

Lui resta ancora fermo, e sono certa che sta decidendo se arrabbiarsi perché ci ho messo troppo tempo a ringraziarlo, o perdonarmi.

Lentamente estrae il cazzo dal mio culo – ho imparato che gli piace fare così, all’inizio, dopo ogni spinta uscire del tutto ed entrare di nuovo, perché sa che non sono ancora pronta e ogni volta mi fa male – e poi spinge di nuovo, con forza, e questa volta arriva più in fondo, lo sento infilarsi dentro di me, qualcosa fa male, là dove arriva, e di nuovo non trattengo un gemito sordo, ma non dimentico di guardarlo di nuovo e dire un altro “grazie!”.

Proseguiamo così, una spinta, il mio dolore, un ringraziamento, finché non sono del tutto aperta.

Per me è il momento migliore, una specie di breve tregua.
Il mio culo si è allargato e, in qualche modo, è quasi lubrificato, e lui spinge avanti e indietro; anche quando esce e rientra, ormai il mio ano è rilassato e sento solo come una piccola scossa. Non devo più dire grazie a ogni spinta; lo faccio solo quando mi sculaccia, istintivamente, senza pensarci.

Provo a estraniarmi, e anche se mi sembra che ormai il suo cazzo arrivi fino allo stomaco, riesco a non pensare, mentre il ritmo delle spinte aumenta con il suo respiro.

Sento il volume del cazzo crescere dentro di me.

Lo conosco, ormai, e allora stringo quanto posso i muscoli del culo per provare a farlo venire. Lo percepisce, e spinge con più forza.

All’improvviso tira con forza verso di sé il guinzaglio attaccato al collare che ho al collo, obbligandomi ad alzare la testa e inarcare la schiena.

Di nuovo un piccolo urlo mi scappa dalle labbra, messa così il suo cazzo mi entra dentro in modo diverso, e mi fa di nuovo male. Lui lo sa, gli piace.

Lo guardo nello specchio, e lui accenna un sì con la testa.
“ti prego padrone ti prego” inizio a gridare, a ritmo con le spinte del suo cazzo “ti prego padrone ti prego sborrami nel culo!”.

Lo grido e lo ripeto, guardandolo fisso e stringendo il più possibile il culo attorno al suo cazzo.

Finalmente si blocca, tira il guinzaglio con forza – mi sembra di essere piegata in due, inchiodata dal suo cazzo e tirata indietro dal collare – spinge ancora più in fondo e finalmente urla e grugnisce e sospira e viene.

Non sento gli schizzi di sperma dentro di me, ma sento le pulsazioni del suo cazzo, e grido “grazie!, grazie!, grazie!” cercando di farlo coincidere con le contrazioni del suo orgasmo.

Mi spinge pancia in giù sul letto, si abbandona sopra di me – sento il suo sudore, il suo odore, il suo cuore –.

La sua barba mi sfiora l’orecchio destro.
“chi sei tu?”, mi chiede, e sono le prime parole che mi dice da quando è entrato nella stanza.
“la tua puttana, padrone”.
“e qual è la tua cosa preferita nella vita?”
“farmi inculare da te, padrone”

Sospira, senza dire nulla rotola sul fianco. Quando il suo cazzo, già molle, esce dal mio culo, mi sento svuotata e prima che tutto si richiuda sento l’aria fredda entrare dentro di me, e di nuovo ho l’impressione che arrivi fino al profondo del mio intestino.
Mi cerca con due dita.

Gli piace, ho scoperto, la sensazione del mio ano ancora molle e aperto.

Ci gioca per qualche istante, ci infila due dita. Poi mi prende la mano, la mette sotto la sua e mi fa sentire il mio culo con le dita, e di nuovo, come ogni volta, mi spavento, è come una voragine, una ferita spalancata, con i margini morbidi e caldi, e per un istante sono terrorizzata che sia pieno di sangue, e che non ritornerà mai come prima. Ma tutto dura un attimo, è già successo, e so che il dolore durerà qualche ora, il fastidio un po’ di più, ma poi tutto tornerà a posto; fino a quando lui non deciderà di rifarlo.

Senza dirmi nulla, si alza e si dirige verso il bagno.

Trattengo a stento un sospiro di gioia: deve essere davvero contento, se non mi ha fatto pulire il suo cazzo con la bocca.

Mi concedo un istante di calma, chiudo gli occhi e provo, semplicemente, a non pensare.

“schiava, devo pisciare” dice, con tono calmo ma urgente.

Salto giù dal letto e saltello veloce verso il bagno.

***

Una vita di merda.

Questo pensai, quella mattina, guardandomi allo specchio.

Avevo poco più di quarant’anni, ma ero certa di dimostrarne di più.

Ero sovrappeso – grassa? Qual è la differenza tra sovrappeso e grassa? – e anche mal distribuita, come si dice oggi. Gli slip bianchi di intimissimi mettevano in risalto l’eccesso di carne sul culo e le cosce, con l’inevitabile cellulite. I seni erano cresciuti di almeno una misura, da quando avevo messo su quei chili in più, ma erano anche più molli, pesanti e ingombranti.

Ci credo che non scopi da tre anni, dissi alla faccia stanca che mi guardava dallo specchio, decidendo se valesse ancora la pena di provare a truccarmi. E comunque non mi scoperei nemmeno io, sospirai.

In metropolitana mi chiesi come ogni mattina, stretta tra la puzza e i profumi da quattro soldi di quelli schiacciati accanto a me, se ne valesse la pena. Qualcuno, in qualche modo, mosse una mano che si appoggiò per qualche secondo al mio culo. L’istinto fu di provare a girarmi, gridare, mollare uno schiaffo. Ma poi. Non c’era spazio per respirare, figurarsi girarsi e far casino. E poi, se c’era ancora uno che voleva toccarmi il culo, forse avrei dovuto ringraziarlo.

La mia collega, l’unica con la quale non avessi litigato e che mi parlasse ancora, mangiava rumorosamente una cosa molle e puzzolente da un contenitore di plastica sporco che aveva portato da casa. Per fortuna non me ne offrì.

Ti passo il contatto, mi disse alla fine di quel pranzo fetido.

Era una specie di agenzia, offriva non so che lavoro, sembrava pagato quasi bene, per chi avesse potuto andare all’estero praticamente subito, con una settimana o poco più di preavviso.

Io? Mi rispose lei, no, io no, sai, il mutuo, il compagno con i figli dal primo matrimonio, qualche anno alla pensione, sti cazzi.

“In che senso “”schiava?””
“nel senso di schiava”
“non capisco”
“il dottore, il nostro cliente, si trasferisce per almeno un anno in un paese lontano, con una religione diversa e molto rigida, e siccome avrà un ruolo molto importante, non può andarci con una donna che non sia sua moglie – ma non è sposato… – quindi vuole essere accompagnato da una donna che presenterà come una specie di, come dire, mezza cameriera, mezza segretaria, ma in realtà lui vuole una donna che faccia tutto quello che lui vuole. Possiamo trovare altre parole, se vuole, ma per me – e per il dottore – quella più calzante è proprio schiava”

“voi siete matti” dissi, alzandomi e prendendo la borsa

“duecentomila netti per un anno, cinquanta anticipati appena arrivati nel paese, e naturalmente tutte le spese coperte”

Non riuscii a non fermarmi, in piedi, davanti a quella scrivania.

“possibilità di andarsene quando vuole dopo i primi 10 giorni” aggiunse “avrà un biglietto open in business class a suo nome, c’è un volo via Dubai e uno via Doha ogni giorno”

Lo guardai fisso, per un attimo.

Com’era la frase? La sciagurata rispose?

“trecentomila, cento subito”.

Non dissi niente a nessuno. Anche perché non avevo nessuno. Genitori morti, uno da tanti anni, l’altro da meno, ma insomma. Una zia da qualche parte che non sentivo da almeno vent’anni. Diedi le dimissioni, certa che nessuno dall’ufficio si sarebbe mai chiesto dove fossi o come stessi.

Nessun amico, solo dei conoscenti con cui uscivo ogni tanto, sempre meno; quelli con cui non avevo litigato avevano famiglie, figli, o semplicemente preferivano vedere altre persone. Non riuscivo a dargli torto.

Insomma, sparii, e a nessuno interessò niente.

Ci fu un altro incontro, all’agenzia, in cui firmai in mucchio di carte (non legga niente, tanto se le va bene è così, se non le va bene se ne può andare subito), e feci le domande che mi ero preparata.

Qual è il paese? Non glielo posso dire.

Cosa dovrò fare esattamente? Obbedire. Il dottore le darà gli ordini, e lei dovrà obbedire, sempre.

Parliamo anche di sesso? Immagino di sì. Se il dottore vorrà, certo.

E che cosa…? Guardi, non lo so e non mi interessa. Se posso formulare un’ipotesi, comunque, poiché sarete solo voi per un anno, e a causa delle problematiche religiose il dottore non potrà avere relazioni sessuali fuori dalle mura di casa né, in generale, con nessuna donna in tutto il paese, propendo per l’ipotesi che sì, il sesso avrà una certa importanza nel vostro… rapporto professionale.

Non avevo mai volato in business class.

È questo il benessere, mi dissi, mentre guardavo gli altri passeggeri seduti vicino a me, a loro agio nelle enormi poltrone, con il calice di champagne di benvenuto in mano, che discutevano in varie lingue.

Mi chiedo, oggi, perché non abbia avuto nemmeno un dubbio, un ripensamento.

A mente fredda, la risposta è semplice: qualsiasi cosa, piuttosto che affondare lentamente nella mia vita.

Mi sembrava di sapere già tutto, della mia vita: sapevo come sarebbe andata avanti, e come sarebbe finita; e morivo di paura.

In quel momento, avrei accettato qualsiasi cosa per sfuggire a un destino che vedevo inevitabilmente intriso di tristezza, resa, solitudine e lenta disperazione.

Non posso negare che, malgrado tutto quello che è successo, quel volo in business class resta ancora una dei ricordi più emozionanti della mia vita.

***

Conosco il dolore.

Nel senso che conosco i vari generi di dolore.

Conosco l’intensità, del dolore, e so cosa posso sopportare, e quanto a lungo.
So quando il dolore significa solo dolore, e quando, invece, significa che sta succedendo qualcosa di brutto.
Conosco le mani.
Conosco le diverse fruste, oh sì, quelle lunghe, e quelle flessibili, quelle con tante punte e quelle sottili, e riconosco i vari sibili, e il rumore che fanno sulla schiena, sul culo, sulle cosce e sui seni.
Conosco la canna, e il bastone.
Conosco l’elettricità, la fame e la sete, il buio, la mancanza di sonno.

Il padrone – ci ha messo meno di 24 ore ad “addestrarmi”, come dice lui, a chiamarlo solo così – ha usato tutti i metodi che conosce per convincermi – sorride sempre, quando usa questo termine – a obbedire a ogni suo ordine.

È a questo che penso, non so perché, mentre mi sta venendo in bocca, e mentre lo fa tengo la sua cappella proprio sopra la mia lingua: lui non vuole che il suo sperma vada direttamente nella mia gola, vuole, come dice lui, che io possa “gustarlo”. I fiotti caldi mi riempiono la bocca, mentre succhio piano, facendo attenzione a non ingoiare nulla, tenendo lo sguardo fisso verso l’alto, nei suoi occhi che mi osservano attenti.

Quando finalmente, lentamente esce dalle mie labbra, dice “fammi vedere”.
Apro la bocca il più possibile sperando che il suo sperma sia ben visibile.

Annuisce.

Sempre con la bocca aperta e la lingua impastata di sperma, biascico come posso qualcosa che dovrebbe assomigliare a “padrone, ti prego, fammi bere la tua sborra”.
“ti piace il mio sperma?”

Lui può usare questi termini.
Io, devo usare solo quelli volgari perché, come ho imparato presto, e dolorosamente, sono una puttana e devo parlare come tale.

“moltissimo, padrone!” rispondo entusiasta.
“e vivresti solo del mio sperma, se potessi?”

Lo guardo un istante.
Sono due giorni che non mangio e non bevo.

È uno dei suoi “giochi”.

Lo ha usato subito, all’inizio, per addestrarmi a supplicarlo per avere il suo sperma. Potrai mangiare e bere, aveva detto, solo dopo aver ingoiato il mio sperma.

Non lo farò mai, piuttosto muoio, avevo gridato, mentre chiudeva la porta della mia cella.

Tre giorni dopo ero nuda, in ginocchio, davanti a lui, con le lacrime agli occhi per i crampi della fame e della sete, e lo supplicavo disperata chiedendo che mi concedesse l’onore di bere la sua sborra.

Da allora, ogni tanto, smette di nutrirmi fino a quando non lo “convinco”, come dice lui, di avere disperatamente voglia del suo sperma.

“padrone”, dico, guardandolo negli occhi, con la lingua e la bocca impastate “se potessi, berrei e mangerei solo la tua sborra”.

Sospira.

Io attendo, con la bocca spalancata e il suo sperma che si mescola alla mia saliva, e il sapore e l’odore mi invadono la gola.
“va bene, puoi ingoiare”
Obbedisco subito, nel timore che cambi idea, e apro immediatamente la bocca per fargli vedere che non c’è più niente “grazie padrone, la tua sborra è la cosa migliore che abbia mai assaggiato”

“hai fame?” mi chiede
Mi blocco un istante, non so cosa rispondere, dopo due giorni che non mi da da mangiare, lo sa che ho fame.

“povero animaletto” mi dice, avvicinandosi “mi sembra quasi di sentire la fatica del tuo cervellino che cerca di ragionare…” quando è di fronte a me, mi porge la mano, con il dorso verso di me, e io immediatamente inizio a leccarla, come farebbe un bravo cane.

“allora, hai fame?” ripete, e io senza esitazione, tra una leccata e l’altra, rispondo “sì, padrone”
“vieni, allora” dice, e si dirige veloce verso la cucina, mentre io lo seguo a quattro zampe.

Le ginocchia mi fanno un male cane, ma anche questa è una delle cose a cui mi sono abituata: alla fine, è più il tempo che passo carponi che quello che passo in piedi.

Quando arriviamo in cucina, lo vedo che prende le mie ciotole – ho due ciotole, una per il cibo, una per l’acqua, tutte e due di metallo lucido, con inciso sopra “schiava” – e in una versa una specie di crocchette di pane, che sono uno degli elementi principali della mia dieta, e nell’altra dell’acqua dal rubinetto.

Mentre io scodinzolo, cioè, agito il culo con forza, come se avessi una coda e la stessi agitando dalla gioia – anche questo, ho imparato presto a farlo come voleva lui, per evitare i colpi di frustino che ricevevo ogni volta che non era soddisfatto – lui fa per appoggiare a terra le ciotole, poi si blocca, mi guarda e dice “li vuoi così, o con un po’ del tuo condimento preferito?”

Deglutisco, e a fatica trattengo un singhiozzo di pianto, poi rispondo “come preferisci tu, padrone…”, e lo guardo sperando che percepisca la supplica nei miei occhi.

Inutilmente.

Lui appoggia la ciotola del cibo sul tavolo e, tenendo l’altra in mano, si abbassa la cerniera dei pantaloni e tira fuori il pene, socchiude gli occhi e ci orina dentro.

Poi, ripete l’operazione con la ciotola del cibo.

Appoggia a terra le due ciotole, mi guarda, in attesa.
“grazie, padrone” sussurro, con gli occhi fissi sulle due ciotole.

Lo stomaco brontola di desiderio, alla vista del le ciotole con il cibo e l’acqua.
I bisogni dello stomaco prevalgono su qualsiasi ragionamento razionale, l’ho imparato presto.

“buon appetito”, mi dice, sorridendo “mi raccomando, non lasciarne nemmeno una briciola o una goccia”
“no, certo, padrone”, rispondo, e abbassandomi sui gomiti, e tenendo il culo in alto, come piace a lui, inizio a leccare l’acqua mista a urina nella ciotola.

***

Appena scesa dall’aereo, venni chiamata da una donna, completamente vestita di nero, con uno scialle sempre nero che le copriva la testa e il volto, liberando solo una fessura per gli occhi.

“mi segua”, mi disse in un italiano stentato; “metti questo”, aggiunse, porgendomi un lungo pezzo di stoffa nero, che io mi avvolsi attorno alla testa come meglio riuscii.

Seguii la donna in una stanza, dove un funzionario in divisa, senza mai guardarmi, fece una fotocopia del mio passaporto, sulla quale mise due timbri, restituendo alla donna sia il passaporto, sia la fotocopia, che lei mi consegnò.

Non feci caso al fatto che non avevo nessun timbro di ingresso sul passaporto.

La donna mi accompagnò in un parcheggio, dove salii su un pulmino nero, dentro al quale trovai i miei bagagli.
I finestrini erano oscurati, e una tendina mi separava dall’autista.
Provai a dirgli qualche frase nel mio inglese stentato, ma non mi rispose.
Il viaggio durò quasi due ore, finchè il pulmino non si fermò e la porta si aprì.
Ero in un grande garage. Nessuno mi disse nulla, quindi dopo qualche secondo di attesa, sbuffando, scaricai i miei bagagli.
Lo sportello si chiuse automaticamente, e il pulmino uscì dal garage, verse intravvidi una specie di vialetto assolato. Appena si fu allontanato, il portone del garage si chiuse.

“benvenuta” disse una voce dietro di me, e quasi urlai per lo spavento.

L’uomo era alto e magro, sui cinquant’anni, con una corta barba sale e pepe, occhi chiari e capelli castani. Indossava una camicia e dei pantaloni di cotone chiaro.

“porta dentro la tua roba” disse, e girandosi si incamminò su per le scale, dietro la porta attraverso la quale era arrivato.

***

Ogni tanto mi trovo quasi a rispettarlo, o ad ammirarlo.
Non nel senso vero e proprio, no.
In realtà, lo odio con tutte le mie forze.

Ma ogni tanto non posso non stupirmi della sua capacità di far diventare umiliante, doloroso o insopportabile ogni cosa che mi ordina di fare.

E il sesso, oh, il sesso alla fine, quella è forse la cosa più facile da sopportare, perché è quella è la parte di lui più semplice da capire.

Ha una incredibile capacità di intuire cosa non mi piace, cosa mi fa vergognare, cosa odio, e come di infilarcisi, piano piano, fino a che sembra che tutto il mio mondo, quasi la mia stessa vita, dipenda dall’accettare proprio quella cosa.

Come le campanelle attaccate alle pinze che mi fissa ai capezzoli, prima di mettermi nuda a correre sul tapis-roulant, per “tenermi in forma”, come dice lui.

Nuda, mi fa correre su quel maledetto tapis-roulant – io, che dall’ultima volta che ho fatto esercizio fisico saranno passati dieci anni… – davanti a uno specchio, mentre i miei grossi seni sballonzolano di qua e di là, e al dolore si aggiunge l’umiliazione delle campanelle che tintinnano, mentre lui mi colpisce con il frustino sul culo e sul dietro le cosce, appena gli sembra che rallenti.

Di tutto questo, la corsa nuda, il dolore ai seni, la frusta e gli insulti che mi rivolge ridendo per quanto sono grassa, per quanto sudo, per come saltello quando mi colpisce, di tutto questo, non so per quale motivo, i campanelli sono la cosa peggiore.

Lui lo ha capito quasi subito, e prova un piacere evidente quando me li applica ai capezzoli, e sorride felice.

***

“metti la tua roba là dentro” disse, indicando una stanza.

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