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Due ragazzine in cerca d’autore

By 6 Settembre 2012Dicembre 16th, 2019No Comments

Tornavo a casa ancora una volta, sconfitto.
Cioè, non era esattamente casa mia, era la casa a mare che avevo ereditato dai miei. Non l’avevo mai sopportata. Ogni anno, in estate, volente o nolente mi toccava andare con loro, in quella casetta di due camere vicino al mare, isolata. Il mare lì era splendido, ma anche solo per andare a prendere un gelato occorreva fare dei chilometri ed io mi annoiavo sempre terribilmente… Appena fatti quindici anni cominciai ad andarmene in vacanza per fatti miei con gli amici di scuola, mentre papà e mamma andavano sempre in quella casetta. Mai un viaggio, mai un minimo di curiosità per qualcosa di diverso, ogni estate un mese in quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini mentre io giravo col sacco in spalla per l’Europa.
Papà andò in pensione e loro presero a passare tutta l’estate, da maggio a settembre inoltrato, esiliati in quel microscopico e, ahimé, solitario angolo di paradiso, come una specie di isola deserta, collegata da un chilometro di sterrato con il mondo civile.
Poi papà morì. E qualche mese dopo la mamma si addormentò nel letto della casa al mare e non si svegliò più.
Dopo, quasi inconsapevolmente, non andai più nella casetta isolata. Era mia, ma ogni anno trovavo scuse per non andarci. Anche quest’anno, avevo programmato una bella vacanza con Barbara, la mia donna. Barbara, una bella e prosperosa divorziata. Per un mese il figlio sarebbe stato con il padre e io con lei, in giro, come mi era sempre piaciuto. Non è andata così, però: abbiamo parlato dello stare lontano dal figlio, ho detto qualche parola di troppo. Abbiamo litigato. Abbiamo litigato ancora. Rimandato la partenza, mentre il figlio restava con lei. Litigato ancora, una volta di troppo, le parole oltre quel sottile limite dove, contro la volontà di tutti, si rompe qualcosa. Un attimo prima affronteresti un drago con un punteruolo per lei, un attimo dopo non te ne importa più niente ed è finita.
E la vacanza era saltata. Avevo resistito per tutto agosto, mentre intorno a me si alternavano pallide partenze ed abbronzati ritorni dai volti distesi, fonti inesauribili di racconti di bikini, mari cristallini e conquiste durate lo spazio di una notte.
Avevo bisogno di riposo. Chiesi le ferie. Non avevo dove andare, ero solo.
E adesso, mentre il sole tramontava di fronte a me, ero diretto al posto che odiavo, al simbolo della mia sconfitta. Mi beavo della mia depressione e pregustavo il misto di meditazione zen e autocommiserazione che mi avrebbe atteso per le successive due settimane in quella specie di monastero di clausura alla fine dello sterrato, chiuso tra la pineta fitta e una piccola striscia di sabbia.
Non sapevo se essere sollevato o terrorizzato.
Un olivo nodoso sulla sinistra, svoltai con prudenza, la strada si fece brulla e sterrata, era peggio di come la ricordassi. Una volta all’anno andavo a dare una pulita, quasi un rito noioso. Di solito, al ritorno dalle vacanze.
Mentre la macchina sobbalzava alzando nuvole di polvere il sole tramontò, incendiando il pulviscolo che mi circondava. Mi fermai, attesi un attimo. Rimisi in moto, la strada faceva una svolta a destra, di fronte a me la forma scura della casa, familiare eppure…
C’era una luce accesa. E di sicuro non ero stato io ad accenderla.
Spensi i fari, incerto per un attimo se andare avanti o no. Feci un respiro profondo. In fondo non me ne fregava niente, ma… Ingranai la prima e mi rimisi in moto lentamente, molto lentamente. Ero quasi arrivato e fortunatamente c’era ancora abbastanza luce per vedere dov’era la stradina sterrata. Feci pochi metri e mi fermai, spensi il motore e cominciai a scendere dalla macchina. Mi fermai, riflettendo per un attimo, poi mi piegai verso il portaoggetti, lo aprii e presi la pesante torcia nera da autodifesa che avevo comprato, Dio solo sa perché, un annetto prima.
Mi avvicinai silenziosamente alla finestra illuminata, quella della sala da pranzo sul cui divano consunto io avevo passato tante notti d’estate. Sbirciai dentro, attento a non farmi scoprire.
I vetri erano sporchi, ma prima ancora di dare un’occhiata notai due cose. Si sentivano le voci di due persone; sembravano due ragazze, anche abbastanza giovani, e mi pareva parlassero italiano, anche se non riuscivo a sentire abbastanza da distinguere le parole e capire il senso della conversazione. L’altra cosa che notai era che dalla finestra filtrava un forte odore di marijuana. Molto buona, oltretutto.
Aguzzai lo sguardo, cercando di distinguere qualche particolare dai punti meno sporchi del vetro cercando nel contempo di non farmi vedere…
Si, erano due ragazze. Due ragazzine, per dirla tutta, sembravano tutte e due molto giovani. Una era una brunetta, capelli lisci lunghi, tratti delicati. Sembrava molto giovane, praticamente senza seno. Indossava una canottierina blu che le arrivava all’ombelico e il sotto di un bikini dello stesso colore. Lunghe gambe affusolate. L’altra era una rossa, più formosa, bel seno, anche lei in canottiera e mutandine, ma la sua canottiera sporgeva in fuori molto di più. Sotto i riccioloni rossi si intravedeva un viso carino, occhi grandi, labbra carnose. Stava tirando profondamente la canna, fece uscire uno sbuffo di fumo profumato e la passò all’altra.
Non sembravano pericolose e, se anche lo fossero state, con quello che si stavano fumando non sarebbero state in grado di far male a una mosca. Avrei potuto tranquillamente lasciarle stare, o anche farmi una risata con loro, essere gentile ed ospitarle, dormendo un’altra volta sul divano…
Ecco, fu proprio quell’immagine che mi fece scattare qualcosa dentro. Il ricordo delle tante notti passate su quel fottutissimo divano di pelle marrone tutta sdrucita a chiedermi perché diavolo non ero con i miei amici a giocare e dovevo passare un mese di quella galera. Già ero depresso, ma quella visione, quell’immagine dritta dalla mia infanzia, mi portò su un binario decisamente meno gentile. E più eccitante.
Perché le due ragazzine erano veramente carine e l’idea che stavo cominciando ad accarezzare sempre più intrigante… Spensi la razionalità, tirai fuori le chiavi dalla tasca ed entrai. Le due ragazze si girarono piano, istupidite dall’erba, gli occhi spalancati per la sorpresa e per la paura che, lentamente, cominciava a farsi strada dentro di loro. Accesi la torcia e l’alzai, puntandola verso di loro. Era molto potente, anche con la stanza illuminata sarebbero rimaste accecate e non avrebbero visto bene chi ero. Ne sarebbero state intimorite. Era proprio quello che volevo.
La brunetta si portò le mani alla bocca.
– Oddio… – disse a mezza voce. La rossa spense lentamente la canna che aveva in mano e la mise dietro la schiena, come per nasconderla. Davanti a sé, in una busta accanto al posacenere, almeno venti grammi di erba spandevano il loro profumo.
– Allora, che sta succedendo qua? – Fui sorpreso dal tono della mia stessa voce. Era una voce calda, misurata e profonda, scandivo le parole con cura. Per un attimo avrei pensato che mi sarebbe uscito un gracchiare stridulo. Avrebbe rovinato tutto.
– Guarda, – disse con un filo di voce la brunetta – la casa era abbandonata e noi…
La interruppi con un gesto della mano.
– La casa non è abbandonata, è mia. E voi non potete entrare qui.
– Ah, quindi non sei della polizia? – la rossa pareva sollevata, aveva persino sorriso – bel sorriso, per la cronaca – e dalla voce sembrava più tranquilla della sua amica. Era decisamente lei la furbetta delle due.
– La posso chiamare anche subito. – calmo, la voce sempre bassa. Bravo. Misi la mano in tasca mentre con l’altra spostavo la luce della torcia dal viso della brunetta a quello della rossa. Lei chiuse gli occhioni azzurri, accecata, poi li riaprì. Decisamente erano tutte e due molto, molto carine… e giovani.
– Saranno felicissimi di trovarvi qui. Soprattutto con tutta… – Puntai la luce sul sacchetto pieno d’erba. La brunetta ebbe un singhiozzo, come se stesse per piangere. Mi sorpresi a pensare che mi sarebbe piaciuto da matti se lo avesse fatto.
– Oddio… – disse, la voce rotta da piccoli singhiozzi – Per favore non lo fare, non chiamare la polizia, ce ne andiamo subito…
– Stai zitta.
La rossa la interruppe, perentoria, la voce decisa. Sorrisi. Sapevo con chi dovevo trattare. E sapevo chi era il loro punto debole.
Mi trovai sotto lo sguardo della rossa, uno sguardo tranquillo, quasi di sfida. Continuavo a sorridere, ero certo che se ne fosse accorta, aspettava la mia mossa.
– Se chiamo la polizia finite nei guai, questo è poco ma sicuro. Ma se non la chiamo…
Aspettai, pausa ad effetto. la rossa sospirò, chiuse gli occhi. Credo avesse già capito cosa avevo in mente, mentre la sua amica mi guardava ancora senza capire, perplessa.
All’improvviso la rossa fece una minuscola risatina, quasi un accenno. Sollevò la testa sorridendo apertamente, non guardava me ma la brunetta. Sembrava divertita da qualcosa, non capivo cosa.
– Cosa vuoi per non chiamare la polizia?
– Mi sa che tu l’hai capito.
Di nuovo quella risatina, a stento trattenuta adesso. Lo sguardo fisso sull’altra ragazza che la guardava senza capire.
– Eh… – disse – Capire l’ho capito ma… Mi sa che qui c’è un problema.
– Che hai capito Clarè?
– Stai zitta che è meglio. Vabbé, io sono Clara, ma tutti mi chiamano Claretta. Questa scimunita qui è mia… – si fermò, di nuovo quella risatina, come se stesse preparando uno scherzo e non riuscisse a trattenere l’ilarità. Ero curioso, e incuriosito. – Sorella Martina.
Martina, Dio solo sa perché, si fece tutta rossa, avvampando vistosamente, e mi guardò con gli occhi spalancati. Claretta riprese a parlare, la voce un po’ rassegnata, anche se ogni tanto lanciava degli sguardi d’intesa alla sorella:
– Martina, stammi a sentire, questo qui la polizia non la chiama. Però dobbiamo dargli qualcosa in cambio, hai capito Martina?
La ragazzina guardò prima me, poi la sorella…
– Ma che significa?
– Martina bella, e significa che ce lo dobbiamo scopare, hai capito?
La brunetta, da tutta rossa che era, sbiancò in un battito di ciglia. – Ma io non l’ho mai fatto!
– E pazienza Martina, per tutto c’è una prima volta, vuol dire che così magari ti schiarirai un po’ le idee…
E scoppiò a ridere.
Due sorelle. Due ragazzine. Una era una puttanella sfrontata, l’altra una verginella mezza scema. Non potevo credere alla mia fortuna. Sentivo che avrebbero fatto tutto quello che avrei chiesto loro. La sensazione di potenza scese dal cervello lungo la spina dorsale, come un brivido, dritta sul cazzo. Sentii che diventava duro dietro i jeans. Era ora di riprendere il controllo della situazione.
– Smettila di ridere e vieni qua. In ginocchio. – mi avvicinai alla bruna, la patta all’altezza del suo viso. Lei mi guardò, il viso pallido, la bocca mezza spalancata. Inutile sperare che quella verginella sapesse cosa fare. Mi sbottonai i jeans e tirai fuori l’uccello dalle mutande.
Lei sobbalzò, riprendendo a singhiozzare, gli occhi sbarrati. Clara era arrivata e, senza che le dovessi dire niente, prese in mano il mio pisello e lo baciò. Poi, lentamente, cominciò ad ingoiarlo. Mi gustai la sensazione di umido calore che mi stava circondando il cazzo. Si staccò e sorrise, sempre tenendolo in mano.
– Bel cazzo.
Piccola troia senza pudore.
Guardò la sorella, che fissava il tutto come istupidita, l’attirò a sé e la baciò. Poi le avvicinò la testa alla mia cappella.
Sempre ridacchiando disse:
– Cazzo, questa è Martina. Martina, questo è il cazzo. Gran bel cazzo, tra l’altro. Spero che questo sia l’inizio di un lungo e proficuo rapporto.
Quella specie di cerimonia mi fece ridacchiare, ed eccitare. Mi spinsi in avanti, la cappella sulle labbra virginali. Chiuse, ma non serrate. Spinsi un po’, la bocca si schiuse, Sentii il calore e la morbidezza della lingua sulla punta dell’uccello. Spinsi. Più a fondo. E ancora. Una serie di colpi, in pratica le stavo scopando, a fondo e con costanza, la bocca.
Claretta fissava il tutto estasiata, il sorriso stampato sulle labbra. Una mano era sotto la canottiera della sorella, le accarezzava le tette minuscole. Con l’altra faceva lo stesso con se stessa, confortata da un seno ben più cospicuo.
Tolsi il cazzo dalla bocca della bruna e lo passai alla rossa. Non ci fu bisogno di scoparle la bocca, lei se lo ingoiò tutto, ebbe un paio di conati e lo risputò, prendendo aria vistosamente. Si tolse la canottiera. Avevo ragione, aveva un gran bel paio di tette, a prima vista naturali e morbide…
Telepatia, o forse si accorse di come le guardavo. Se le prese in mano e mi circondò il cazzo, poi cominciò a muovere il busto su e giù, prima lentamente e poi sempre più veloce. Io cominciai a godere come un pazzo, quelle morbide tette che circondavano il pisello mi stavano facendo impazzire. La fermai. Non volevo venire troppo presto. Le piantai il cazzo in bocca, accarezzando la testolina della sorella.
– Sarebbe ora di far godere un pochino questa verginella, non trovi?
Sentii un gorgoglio intono al cazzo, mi ritrassi. Claretta mezzo rideva e mezzo sputava.
– Mò sò cazzi tuoi Martì… – disse.
Martina la guardò, l’espressione sempre più stupefatta, senza muoversi. Lei, per tutta risposta, le tolse la canottiera. Si, Martina era praticamente senza tette. Ma i due capezzolini erano meravigliosamente duri…
Claretta si abbassò, con fare solenne… – E ora… – disse – Sorpresa! – E abbassò gli slip alla sorella.
Un cazzo. Un cazzettino piccolo, minuscolo, di quelli che uno si aspetterebbe di trovare su un bambino di due anni. Ma pur sempre un cazzo.
Alzai lo sguardo, fino ad incontrare il visino pallido e spaventato.
– Martin… – ero indeciso sul finale. – a?
Claretta si piegò e prese in bocca, con delicatezza, il cazzettino della… Sorella? Succhiò un paio di volte, poi disse:
– Martina è mio fratello. O mia sorella. Ancora non ha deciso se gli piacciono i maschi o no. Per schiarirsi le idee ha deciso di farsi quest’estate vestito da donna, comportandosi da donna.
Carezzando i capelli neri della… Sorella minore fece scendere la mano lungo la sua schiena. La seguii con lo sguardo. Arrivo fino al culo, lo carezzò un po’, poi inarcò il medio e lo fece scivolare lentamente nel buchino. Martina emise un piccolo gemito, di piacere appena accennato.
Se per un momento non avevo saputo che fare quel piccolo gemito mi illuminò la strada. Decisi che Martina era Martina e non Martino, e che me la sarei fatta, minuscolo cazzettino o no.
Feci piegare Martina, mettendole i gomiti a terra, il dito nella sorella che gli massaggiava a fondo il buchino. Era tutta depilata. Mi portai dietro di lei. La bocca di Claretta era lì, semiaperta. Le piantai il cazzo in gola e lei succhiò, leccò, inumidì per bene l’uccello lubrificandolo con la saliva.
– Vediamo di chiarire le idee a Martina… – dissi. Teatrale e inutile, lo so, ma la situazione mi stava eccitando all’inverosimile. Guardai il mio cazzo. Era gonfio e violaceo, lo sentivo teso all’inverosimile. Accarezzai il culetto vergine di fronte a me. Un bel culo rotondo, femminile, il buchino stretto e rosato. Ci appoggiai la cappella. Spinsi. Per un attimo pensai che era la prima volta che lo mettevo nel culo a un maschio, poi cancellai l’idea, aiutato da lungo e femminile mugolio che Martina emise quando, con una seconda spinta, la cappella si fece strada attraverso il suo sfintere e il cazzo cominciò a farsi strada nel suo culo.
Spinsi ancora, sentii quel budello strettissimo che cedeva, si allargava, faceva spazio al mio cazzo che, un colpo dopo l’altro, andava sempre più a fondo. Con un barlume di coscienza sentii che Claretta era dietro di me, mi stava leccando le palle che sbattevano contro il culo della sorellina vergine…
… O meglio, non più vergine. Decisamente. Spinsi con forza, sentii di averla inculata fino alla radice, aspettai un secondo o due per farla abituare e poi cominciai a muovermi. Uno due, uno due, fuori e poi di nuovo dentro, sentii che la morsa di carne che mi aveva stretto quasi con disperazione l’uccello si stava allentando, ingentilendo. Mentre per Martina lentamente, molto lentamente il dolore si stava trasformando in piacere il suo culo me lo comunicava adattandosi al mio cazzo, accogliendo le mie spinte con gentilezza e rilasciandolo con riluttanza.
Claretta, quella piccola troia, mi fece lentamente scivolare un dito nel culo. La sentivo massaggiarmi la prostata dall’interno e succhiami le palle mentre inculavo a fondo e metodicamente la sorellina. Ondate di piacere mi arrivavano come cavalloni al cervello, facendomi godere come un matto… Sentivo Martina mugolare, ed era un mugolio di puro piacere, col culo riempito dal mio cazzo che vibrava tutto per le ondate di pura goduria che le davo con ogni colpo.
Se le idee le si stavano schiarendo allora un carriera da piccola troietta vogliosa le si stava spalancando davanti.
Avrei potuto godere in ogni momento, riempiendo il culetto vergine di quella zoccoletta in erba e facendola urlare mentre il mio sperma le scaldava l’intestino, ma non era questo che avevo in mente. Un po’ a malincuore strinsi le chiappe, sentii che il dito di Claretta mi aveva lasciato e uscii fuori dal culo della sorella. Mi voltai e lei era lì, il viso ancora sorridente. Si avventò sul cazzo e lo succhiò.
La spinsi via, la feci stendere e le sollevai le gambe.
– Non credevi certo di cavartela con due succhiatine, vero?
Lei mi guardò. Le appoggiai la cappella tesissima sul buchino, volevo il suo culo. Spinsi. Cazzo, era stretta. Spinsi ancora. Strettissima. Peggio della sorellina vergine… Spinsi decisamente e sentii lo sfintere che si allargava, la cappella accolta in quell’antro bollente, mentre l’anello di carne mi stringeva in una morsa le pareti del cazzo.
Continuai con la mia spinta, entravo lentamente e in maniera costante in quel culetto strettissimo. Claretta aveva la bocca aperta, un urlo muto le si era come mozzato in gola. Un piccolo e fievole gemito, appena udibile, sembrava venire più dalla sua gola che dalla sua bocca.
Continuai a spingere.
Claretta cominciò a tremare tutta, gli occhi sbarrati, il seno abbondante che ballonzolava, sempre quell’urlo muto. Sentivo il suo culetto vibrare mentre spingevo sempre più a fondo, il mio cazzo un tronco di carne nel suo intestino.
Martina, che era rimasta in posizione fetale… Ma infilandosi due dita nel culo, si rialzò. Si mise a cavallo della sorella e, senza togliersi le dita dal buco, le infilò il minuscolo cazzettino nella bocca spalancata. Feci in tempo a vedere che era duro, ma sempre minuscolo. Claretta cominciò a succhiare. Io arrivai in fondo.
La sentivo stringermi e vibrare, sentivo il suo calore attorno all’uccello. Cominciai a muovermi. Era strettissima, mi sentivo stringere, provavo quasi dolore. Poi mi mossi un po’ più in fretta, sentii che scorrevo più facilmente, godevo come un pazzo a sentire quello stretto budello che mi strizzava il cazzo mentre io spingevo a fondo. Claretta emetteva piccoli gemiti mentre succhiava il cazzo alla sorella. Allungai la mano, scostai la mano di Martina e infilai due dita nel suo culetto caldo. Martina fremette tutta. Spinsi nel culo di sua sorella, lei succhiò ancora più forte. Sentii tutti e due i culi fremere, uno col cazzo, l’altro con le dita.
Mi venne un’idea.
Uscii da quel culo stretto e voluttuoso. C’era un po’ di sangue che imbrattava le chiappe di Claretta. Tirai a me Martina e tastai la consistenza del suo cazzettino. Minuscolo, ma durissimo. Si poteva fare.
Lo feci accomodare tra le cosce della sorella. Si voltò a guardarmi, incuriosita più che impaurita. Guidai il suo cazzetto nella fica della sorella. Era fradicia.
Martina cominciò a muoversi, dentro e fuori. Claretta aveva ripreso a mugolare, adesso non rideva più, ma godeva con piccoli gemiti. Appoggiai il cazzo al buchino di Martina, spinsi, e fui di nuovo dentro di lei.
Cominciai a muovermi lentamente e decisamente, poi le sparai un colpo di reni poderoso nel culo. Sentii il buchino che si contraeva. Claretta diede un piccolo urlo. La feci di nuovo. E di nuovo. Ogni colpo che davo, oltre ad aprire ancora di più il culo di Martina, che ormai doveva assomigliare ad una voragine, si ripercuoteva nel suo cazzetto saldamente piantato nella fica della sorella, facendola sobbalzare e godere. Proseguimmo un po’ con quel trenino, con me nella parte della locomotiva.
A un certo punto Claretta cominciò a tirare fuori dei piccoli urletti, tremava di nuovo. Sentii il culetto di Martina tremare all’unisono, massaggiandomi il cazzo in maniera sublime.
Claretta venne lanciando piccoli urli e artigliando la schiena della sorella.
Martina venne nella fica della sorella, inondandogliela.
Io venni nel culo di Martina. Dapprima lentamente e poi come una cascata le riempii il sedere di sperma bollente. Non potevo credere a quanto ne stessi buttando fuori. Uscii dal culo della ragazzina e lo misi in bocca alla sorella, che succhiò con avidità le ultime gocce di sperma che fuoriuscivano dalla cappella.
Martina si rovesciò su un fianco, il cazzettino ancora duro, il buco del culo una voragine aperta da dove colava il mio sperma. La sorella era abbandonata sulla schiena, le gambe spalancate, la fica circondata da radi peli rossastri da cui colava il bianco rivolo del seme della sorella. Mi leccava il cazzo con maestria e talento e me lo ripulì tutto. Fino all’ultima goccia. Poi crollò, esausta.
Sorrisi. Mi girai e presi la busta d’erba. Feci un filtro, preparai un cannone bello carico e lo accesi. Feci un paio di tiri. Lo passai a Claretta, che si tirò su e fece un tiro profondo.
– Se volete – dissi – potete rimanere qui. Fino a quando vi pare.
Claretta sorrise di nuovo e fece un altro tiro.
Mi voltai. Martina era ancora su un fianco ma adesso sorrideva anche lei.
– Passa ‘sta canna. – disse.
E la cosa più bella era che per la prima volta nella mia vita mi stava piacendo stare in quella fottutissima casa isolata in riva al mare.

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