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Racconti Erotici Etero

Eccentrica Alessandra

By 14 Agosto 2012Dicembre 16th, 2019No Comments

 

Sono sicuro che tutti voi, uomini o donne che siate, abbiate tra le vostre amicizie un personaggio controverso, inusuale, bizzarro. Qualcuno che trascende i confini solitamente rigidi della vita di tutti i giorni e che compie ogni azione in maniera, agli occhi di tutti, insolita. Sono persone solitamente scomode, dirette, senza peli sulla lingua, che probabilmente apprezzate per la loro sincerità nel commentare gli altri ma che disprezzate per il modo in cui tentano di attirare l’attenzione su se stessi, meretrici dell’attenzione, magneti della teatralità.

Nel mio gruppo di amicizie, già colmo di uomini e donne alieni alla norma che ci accomuna tutti, la persona che più rappresenta questo tipo di personaggio è certamente Alessandra.

Trasferitasi a Milano dal sud dell’Italia qualche anno fa, ed entrata nel mio giro di amicizie tramite un ex-fidanzato, mio amico, Alessandra è certamente una persona che rispecchia perfettamente il concetto di “eccentricità”.

Alta poco più di un metro e sessanta e con lunghi capelli mossi, sempre tinti di un rossiccio scuro, Alessandra, abituata a coprirsi di veli ed accessori sia d’inverno che d’estate, non aveva, prima che le vicende qui narrate avvenissero, mai lasciato vedere a nessuno gran che del proprio corpo. A dire il vero, il suo corpo risultava di scarso interesse per tutti, me incluso, dato che, prima di notare i suoi pregi o difetti fisici, chiunque avrebbe dovuto liberare i propri pensieri da decine e decine di pregi e difetti, estremismi e follie, appartenenti ad una personalità estremamente ingombrante. Rumorosa, pungente, sarcastica e per nulla inibita nel linguaggio, Alessandra non aveva certo paura di sfoderare le spade della banalità e della retorica per riempirsi la bocca, qualora una conversazione non avesse, anche per un secondo solo, lei come unica e sola protagonista. Sbraitava, se necessario, le peggiori oscenità pseudo-filosofiche, rese ancor più spiccanti da un accento marcato e al limite della comprensibilità, pur di spostare l’asse di una discussione verso di se. Ciononostante, Alessandra non poteva considerarsi una cattiva persona, ne una cattiva amica.

Da dietro i suoi occhiali piuttosto spessi, generalmente montati su una struttura di plastica colorata ed appositamente eccessiva, i suoi occhi marroni scrutavano ogni cosa con innegabile intelligenza e capacità di comprendere, abilità impareggiabile, in Alessandra, che lei indirizzava completamente all’evidenziare i difetti altrui, usando parole come una schermitrice avrebbe usato un fioretto, per infilzare amici ed avversari, mettendo a nudo i suoi difetti, pur di nascondere i suoi.

Già, Alessandra si conosceva bene, sapeva quali fossero i suoi più ed i suoi meno, conosceva ciò che di se era amato ed era disposta a nasconderlo pur di incuriosire, conosceva ciò che di lei non piaceva e sapeva usarlo come scudo, per nascondere ciò che di lei le faceva più paura, ciò che non voleva si sapesse, ciò che qualcuno come lei, se lo avesse notato, avrebbe usato per distruggerla. Il suo trucco aveva ingannato tutti, tra i miei amici, tutti tranne me.

Fermi, aspettate, o sventurati lettori, lungi da me è la volontà di farvi credere che io sia un eccezionale detective, un grande psicologo in grado di leggere la mente degli esseri umani. No, non è per questo che avevo scoperto il gioco di Alessandra ma per un motivo molto più semplice, sebbene meno narrativo. Io, per mia sfortuna, ero e sono esattamente come lei: una persona che si è vestita con abiti di un altra, per nascondere ciò che agli altri non vuole mostrare.

Sapevo quindi che Alessandra nascondeva qualcosa ma non sapevo cosa fosse, almeno non fino ad un torrido mercoledì di Agosto, poco meno di un anno fa.

Ci eravamo riuniti al parco per una giornata tra amici, i soliti cinque o sei intimi, con l’intenzione di dedicare qualche ora alla corsa, al pallone, ed allo sport in genere. L’afa però, ci aveva presto costretti a fermarci, approfittando dell’ombra di un albero per sfuggire al sole implacabile di un pomeriggio fin troppo estivo. Sudato ed accaldato, mi appoggiai al tronco dell’albero per riposarmi, alla disperata ricerca di sollievo dall’inferno in cui mi pareva di essere precipitato. Il caldo ed io, temo, non andiamo molto d’accordo. Mentre annaspavo, seduto per terra, e gli altri uomini del gruppo facevano lo stesso, le ragazze presenti, tra le quali Alessandra, decisero di andare ad abbeverarsi presso una fontanella vicina la quale, seppur circondata da una folla di gente assetata, rappresentava l’unica sorgente di acqua fresca nelle vicinanze.

Già ardente e sicura di se, Alessandra si elevava a leader della spedizione, narrando di vicende epiche avvenute anni prima a Foggia, la sua città natale, quando aveva sbaragliato frotte di energumeni con il suo fascino, riuscendo a bere per prima in una giornata ancor più calda di quella che stavamo, nostro malgrado, vivendo. Erano frottole, questo lo avevano capito tutti, ma con quelle parole lei era riuscita ad incoraggiare le sue compagne ad andare con lei, a seguirla, fino quasi alla morte, nella sua crociata per la conquista dell’acqua. Le ragazze ci lasciarono quindi le borse, poggiandocele bruscamente ai piedi, e si proiettarono verso la fontanella, attorno alla quale la folla era cresciuta, nel frattempo, fino a divenire quasi degna di un parco acquatico in pieno agosto.

Con gli occhi chiusi e la testa poggiata contro il tronco, nel frattempo, faticavo ancora a ritrovare le forze e sentivo il cuore pulsarmi nel petto, quasi dovessi perdere i sensi da un momento all’altro, eppure, in quel momento, fui riportato in vita da un suono a malapena udibile, una vibrazione che proveniva dal terreno a fianco a me.

“Dev’essere il telefono” pensai, allungando la  mano verso il suono ed afferrando l’oggetto vibrante.

Socchiusi gli occhi e vidi il display, sfuocato, tra le trame delle mie ciglia, mostrarmi l’icona impertinente e lampeggiante raffigurante una busta chiusa. Un messaggio non letto. Feci scorrere le dita sull’apparecchio per visualizzare il messaggio, leggendolo, nella mente, mentre compariva lentamente tra le nebbie del mio cervello accaldato. “V…” “Vai…no…” “Vaffanculo?!?”

Di colpo i miei occhi si aprirono. Chi mi stava inviando messaggi tanto velati? E perché? Le palpitazioni del mio cuore ripresero a farsi vive nel mio petto ma, stavolta, non per il caldo. Cosa avevo fatto? Chi ce l’aveva con me? Domande di ogni genere rimbalzavano tra le mie sinapsi, sparando lampi elettrochimici da un neurone all’altro nel tentativo di comprendere mentre il nome del mittente prendeva forma, mentre le mie pupille si riabituavano alla luce ed il mio cuore, improvvisamente, sospirava sollevato. Il telefono non era il mio, era di Alessandra.

Alzando il pollice verso il pulsante che spegneva lo schermo però, mi soffermai un attimo soltanto sul nome del mittente e sul numero di messaggi ricevuti, bloccandomi immediatamente, paralizzato da pettegola curiosità, nel momento in cui lessi nome e quantità.

Messaggi ricevuti:

Marco (183)

Marco ed Alessandra si erano lasciati da sei mesi ormai, da quando, a suo dire, lui l’aveva tradita durante una vacanza. Non avevo mai avevo avuto l’opportunità di sentire la versione del mio amico, oramai divenuto un conoscente, allontanatosi dalle mie frequentazioni tra impegni di lavoro e piccole incomprensioni, ma, sempre a dire della mia eccentrica amica, i due non si sentivano dal giorno in cui si erano separati. Evidentemente, Alessandra aveva mentito anche su questo.

Incapace di fermarmi, passai i minuti successivi a ripercorrere i messaggi della mia amica a ritroso, leggendo scampoli di vita altrui sempre più interessanti ed originali, piccole perle di fatti non miei, segreti sorprendenti che ne Alessandra, ne Marco, avrebbero mai rivelato. Sorrisi, immerso nella lettura, nello scoprire cosa la ragazza nascondesse tra i suoi aneddoti e i suoi insulti, dietro a quella corazza di banalità e fandonie, compiacendomi di essere l’unico, a parte loro due, a conoscere la verità.

“Ma che minchia fai?!?!” Gridò Alessandra, coprendo a malapena il suono della sua mano che mi lambiva la guancia “Ti guardi il mio cellulare?!?!”

Preso. Con le mani nel sacco per giunta. Ero tanto compiaciuto di me stesso che mi ero completamente scordato di essere in compagnia della persona il cui cellulare avevo preso senza permesso e, nonostante avessi subito cercato di giustificarmi, fui immediatamente riempito di insulti ed imprecazioni, incapace di ribellarmi a un fiume di parolacce pugliesi a me completamente ignote ed indelicati ceffoni in faccia.

Accettai ogni insulto ed ogni schiaffo, me li ero pienamente meritati, fino a quando Alessandra non si fu completamente sfogata ed allora, e solo allora, mi scusai, restituendo il cellulare alla proprietaria, accertandomi di premere il tasto per chiudere la pagina dei messaggi mentre lo porgevo. Il danno però, era oramai compiuto e mi rendevo perfettamente conto del fatto che, dal mio sguardo, si evincesse facilmente che avevo letto qualcosa sul telefono della mia amica.

Passammo ancora qualche minuto sotto l’ombra dell’arbusto, prima di decidere che era tempo di tornare a casa.

“Tu ora mi accompagni pure, scemo!” Disse Alessandra, deridendomi ancora per il mio gesto “Così impari a farti i fatti miei!”

Così fu, accompagnai Alessandra alla mia auto e, salutati gli altri, la feci salire a bordo, accendendo il motore ed imboccando l’uscita del parcheggio, diretto verso casa sua nella speranza che l’argomento “cellulare” non sarebbe mai emerso. Cosa che puntualmente accadde appena le mie ruote posteriori lasciarono il parcheggio.

“Allora…” disse lei, improvvisamente seria “…hai letto tutto?”

Annuii con un movimento della testa, senza dire nulla e senza staccare gli occhi dalla strada.

“E mo’ quindi sai che mi ha lasciata lui.” Sospirò “…e il resto?”

Feci di nuovo cenno con la testa e lei non aggiunse altro.

Il resto del viaggio fu silenzioso, Alessandra non proferì parola ed io sguazzai nell’imbarazzante silenzio, felice di non dover continuare la conversazione. Parte di me si vergognava per quanto era accaduto ma il resto, malignamente, rideva, gioendo spudoratamente delle sventure altrui, di una verità, appena scoperta, piuttosto ridicola, in vero, ma che, in quel momento, mi appariva come immensamente divertente.

Quando mi fermai davanti casa sua, Alessandra sospirò nuovamente, guardandomi mentre giravo le chiavi per spegnere il motore. Era piuttosto abbattuta e, per la prima volta, la vedevo in difficoltà nel dover parlare.

“Va bè.” Disse dopo un lungo attimo di stasi “Ora lo sai che la mia vita è tutta una stronzata.”

La ragazza abbassò lo sguardo prima di continuare.

“Marco mi ha mollata perché non ce la faceva più a reggere le mie cazzate.” Disse “Tutti gli altri ragazzi di cui vi ho raccontato me li sono inventati. Non sono andata all’accademia d’arte, non ho mai fatto l’università e di amici ho solo quelli che c‘erano oggi al parco.”

Per la prima volta, da quando avevo letto i messaggi sul suo telefono, mi sentii veramente dispiaciuto. Alessandra voleva essere interessante, voleva avere una vita da raccontarci ma, in realtà, era solo una sfigatella, con pochi amici ed un solo ex. Si era costruita un mondo intorno fatto di bugie, bugie credibili abilmente nascoste in una trama di storie poco credibili, aneddoti irrealistici e racconti di pura fantasia. Come la più abile delle spie, Alessandra aveva nascosto il suo ago, anziché in un pagliaio, tra gli attrezzi di una sarta e la, in mezzo a tutti gli altri aghi, nessuno lo aveva notato. Ora però, l’unico testimone della sue piuttosto misera verità, aveva involontariamente ed accidentalmente svelato il suo segreto; era sola, triste ed insignificante.

“Mi spiace.” Dissi, come sempre impacciato nel mostrarmi interessato ai problemi altrui. “Se vuoi parlarne…”

Alessandra accennò un sorriso ed aprì la portiera.

“Sali và.” Mi disse, facendomi cenno con la testa mentre scendeva dall’auto.

Ci ritrovammo ben presto nel bilocale, eccentricamente arredato, che Alessandra chiamava casa. Ella mi fece sedere al tavolo della cucina, versandomi un bicchiere d’acqua fresca per poi ritirarsi in camera.

“Mi cambio un attimo.” Annunciò nel suo forte accento pugliese “Sto tutta sudata.”

Sorseggiai il mio bicchiere di minerale fino al suo ritorno. Si era messa un paio di pantaloncini ed una canotta bianca. Non era nulla di speciale, si trattava dopotutto di abiti da casa, ma, per la prima volta, vidi qualche scampolo del suo corpo. Non era male: aveva delle belle gambe e, francamente, non avevo mai notato che avesse un seno di rispettabili dimensioni. Al momento però, non ci feci troppo caso. Particolarmente in quanto, non appena fece il suo ingresso, la ragazza mi passò alle spalle, passandomi un braccio intorno al collo e mostrandomi, mentre mi stringeva la gola, un coltello da cucina che teneva nell’altra mano.

“Figlio di puttana che sei!” mi imprecò contro, stringendo la presa, conscia del fatto che la lama che stringeva tra le dita era sufficiente a tenermi immobile. “Adesso scommetto che vuoi raccontare i cazzi miei a tutti!”

Cercai di parlare ma riuscivo a malapena a respirare, feci cenno di no con la testa, sentendola poggiare contro i suoi seni, cosa che, in quell’occasione, trovai poco eccitante. Parte di me sapeva che non avrebbe osato farmi del male ma, ciononostante, la paura di fare qualsiasi cosa che potesse avvicinare la punta del coltello al mio corpo mi pietrificava.

“Se parli stronzo…” continuò lei “…io t’ammazzo, hai capito?!?!?”

La sentii tremare mentre pronunciava quelle parole. Non so se fosse terrore o follia, non ho idea se fu l’ira a farla tremare o se fosse la coscienza di non essere in grado di fare ciò che diceva, il mio istinto lo interpretò come una debolezza e, finalmente, presi coraggio.

Afferrai le braccia di Alessandra e, tenendole fermamente tra le mie mani, le allontanai l’una dall’altra, aprendole e girandomi velocemente, in modo da non darle più le spalle. Lei fece resistenza ma, tra noi, c’erano almeno venti centimetri ed una trentina abbondante di chili di differenza. Inoltre, la coscienza che ferirmi non fosse nelle sue vere intenzioni diveniva sempre più forte in me, ridandomi la determinazione per fronteggiarla, spingendola con violenza contro il muro alle sue spalle e li immobilizzandola, a braccia aperte, premendole il corpo contro la parete con il mio petto.

La sentivo ansimare, guardandola negli occhi a pochi centimetri da me, spaventata, confusa, colma di adrenalina, mi fissava domandandosi cosa avrei fatto ora che il potere era nuovamente tra le mie mani. Sentii il suo seno strusciare nuovamente contro il mio corpo mentre si dimenava. Questa volta si, era eccitante sentirlo, sentire le sue forme toccare le mie, ora che la mia vita non era più in pericolo. Sentivo il suo stomaco contro il mio, le sue cosce sode e lisce muoversi intorno alle mie gambe. Per tenerla ferma le spingevo sul pube con un arto inferiore, sentivo il suo calore mentre le spingevo contro. Ben presto, sentii l’eccitazione prender possesso del mio organo, così come lei lo sentì indurirsi, i miei jeans fermamente a contatto con i suoi.

Il coltello le cadde finalmente dalla mano e le sue labbra si unirono alle mie. Sentii la sua lingua invadermi e le lasciai chiudere le braccia, che lei avvolse intorno al mio collo, stavolta per stringermi, piuttosto che per strangolarmi. Alzò le gambe e le avvolse intorno alla mia vita, ancora compressa contro il muro. Era leggera, le sue forme sensuali improvvisamente si rivelarono, mie, da stringere, da toccare. I nostri ventri sfregavano l’uno contro l’altro e, dopo poco, fu lei a staccare le labbra per prendere fiato, lasciandosi sfuggire un piccolo gemito di eccitazione.

“Oh cazzo…” esclamò sussurrando “…cazzo prendimi…”

La posai nuovamente a terra ed, ancora una volta, le aprii le braccia, mettendola a croce contro la parete in un gesto violento ed immediato. Lei gemette ancora una volta, con lo stesso tono di una tennista che sferra un colpo di racchetta. La guardai, ora il suo sguardo era differente, da dietro gli occhiali vedevo che rabbia, follia ed indecisione l’avevano lasciata, ora, il desiderio la possedeva come mai prima.

Afferrai la canotta per la scollatura, premendo, con i pugni chiusi intorno alla stoffa, il petto di Alessandra all’indietro, mi piaceva sentirla grugnire ed ansimare in quel modo e, dai suoi versi, capivo che essere presa in quella maniera la eccitava altrettanto. Feci appello alla mia forza e, con la medesima delicatezza usata fino a quell’istante, strappai la stoffa, aprendo l’indumento sul davanti e lasciando che il reggiseno nero, a fascia, della ragazza, mi comparisse davanti. La guardai, finalmente testimone di quel bel seno che era sempre stato nascosto, e strinsi i palmi delle mani intorno alle due fiere mammelle, giocandovi, mungendole, massaggiandole fino a liberarle dalle coppe, facendo scivolare l’intimo appena più in basso. Lei, ricambiò il gesto infilandomi una mano nei pantaloni, toccando la mia intimità da sopra i boxer di sottile cotone.

Ci fu un nuovo, lungo bacio, durante il quale lei trovò bastante destrezza per sfilarmi i pantaloni e la maglietta, interrompendo per pochi millesimi di secondo le nostre effusioni ed assicurandosi di toccare ogni millimetro della mia pelle nel farlo. Infine mi spinse via, afferrandomi con ambo le mani un polso e trascinandomi nel salotto e spingendomi sul divano.

Ancora una volta, Alessandra si fece avanti e mi baciò, assicurandosi che i suoi capezzoli toccassero il più possibile il mio corpo. Poi, quasi senza che me ne accorgessi, mi sfilò i boxer neri, prendendo, con le labbra ancora fermamente attaccate alle mie, a menarmi il membro con la mano destra, mentre la sinistra si strofinava sensualmente tra le sue cosce, sopra il cotone dei suoi pantaloncini.

Quando si staccò nuovamente da me, ero sul punto di impazzire, la volevo più del mio prossimo respiro. Eppure, il suo spettacolo non era che cominciato. Mi portò la mano destra al pene, lasciando che fossi io stesso a prendermene cura e, lasciandomi li, sul divano, si mise in piedi al centro della stanza, guardandomi mentre mi masturbavo, alludendo con ogni movimento alla sua voglia di avermi, infilandosi le dita in bocca ed assaporandole come avrebbe voluto, senza ombra di dubbio, assaporare me.

Ho sempre trovato le cose semplici migliori delle cose inutilmente complesse. Un reggiseno classico, ai miei occhi, è molto più eccitante di un corpetto di pizzo e l’immagine che avevo davanti agli occhi ne era, incontrastabilmente, la prova certa. Alessandra, in piedi, davanti a me, i suoi seni che sporgevano sopra il reggipetto a fascia, un paio di pantaloncini corti e niente altro, solo lei, il suo sguardo, i suoi occhiali insolitamente provocanti, le sue mani, a premere i suoi seni e le sue gambe, che volevo sentire intorno mentre la prendevo. Ciò che seguì mi fece quasi esplodere.

Muovendo il ventre come una sensuale ballerina, Alessandra si portò le braccia alla schiena e, lentamente, slacciò il reggiseno, lanciandolo poi nella mia direzione, poi, ella si voltò, piegandosi in avanti mentre si sfilava i pantaloncini, mostrandomi il suo sedere, portando le dita a sfregare contro le mutandine nere. Infine, la ragazza si rialzò e, con passo sensualmente felino si fece avanti, sfilandosi le mutandine e lasciandole cadere per terra in un unico, fluido gesto. Salì a piedi nudi sul divano, facendomi ammirare la piccola aiuola di peli appena sopra il suo punto più dolce, esortandomi a toccarmi ancor più freneticamente, poi, fece un passo avanti ancora ed, afferrandomi per i capelli, mi portò il volto tra le cosce.

Presi a leccarle la figa immediatamente e, non appena cominciai, ella mi spinse ancor più tra le sue gambe, gemendo ed ansimando di piacere, toccandosi i seni e perfino allargandosi con le dita, onde agevolare il mio compito. Il suo respiro si fece più intenso ed i suoi umori iniziarono a scivolare giù dalle sue cosce.

“Leccami…leccamela così!” mi disse con la voce soffocata dal piacere ed io obbedii, sentendola scaldarsi sempre più, fino ad iniziare un leggero tremolio.

Poco dopo Alessandra si girò, appoggiando le gambe allo schienale del divano e riuscendo, pur tenendomi saldamente il viso tra le cosce, a chinarsi in avanti, scivolando su di me. Sentii i suoi seni rimbalzarmi sullo stomaco e le sue labbra, finalmente, assaporare la punta della mia carne, affondandomi presto nella sua gola per unire ai suoi mugolii di piacere, i miei.

Continuammo a succhiarci ed a leccarci sempre più intensamente, oramai persi l’uno nel sapore dell’altra, il nostro atto di piacere reciproco interrotto soltanto da piccoli gemiti, di tanto in tanto, sfoghi piacevoli di un momento paradisiaco. Sentii il suo tremolio farsi più intenso ed il suo respiro più pesante, portai le dita laddove già la mia lingua stava operando e, sapendola vicina al piacere, ne infilai un paio dentro di lei, prendendo a muoverle ed agitarle, portandole ritmicamente e velocemente dentro e fuori di lei.

“Aaaaah!” si lasciò scappare lei. Un gemito più intenso, più forte, seguito da un altro, ed un altro ancora, la sua mano mi prese il membro ed iniziò a farmi una sega, incapace, in quel momento di grida di piacere, di prenderlo in bocca. Iniziò ad agitarsi, gemendo sempre di più, con maggiore forza ed intensità e muovendosi al ritmo delle mie dita con crescente rapidità e fervore.

“Godo! Porca troia godo!” disse, portandosi le dita alla vagina mentre i suoi umori ne fuoriuscivano, evocati dal fluido e rapido movimento delle mie falangi fino a quando, tremante di piacere, ella non si lasciò andare, cedendo all’orgasmo, cadendo su di me, finendo col corpo inerme, appoggiato al mio ed il volto, affondato tra le mie gambe, ansimante di piacere ed intento ad assaporarmi le palle in un paradisiaco momento di raccoglimento post orgasmico.

Ritrovando le forze, Alessandra scivolò verso il pavimento, ove, ben presto, la vidi posizionarsi a carponi, il suo sedere tondo e voglioso puntatomi contro, le sue dita intente a penetrarla, dandole rinnovato piacere. Si girò e guardandomi da dietro le lenti, dopo essersi passata la lingua sulle labbra, ella mi chiamò a se.

“Fottimi…” disse “Riempimi del tuo cazzo…sono tua…”

Mi avvicinai a lei e, piegando le gambe, mi abbassai, poggiando il glande sulla sua figa, aperta, bagnata e pronta ad accogliermi.

“Si…” squittì quasi lei, sentendomi infilare la punta “…scopami!”

Sentii la sua carne bagnata farsi infilare e subito, il turbine di gemiti e grida riprese. Il mio pube prese a muoversi, accelerando dolcemente i suoi movimenti. Alessandra mi chiamò a se, voltando la testa e guardandomi e, con il viso preda del piacere, mi portò le mani ai seni, incoraggiandomi con il movimento delle sue dita a mungerla mentre la montavo. Accettai volentieri e presi a massaggiarle i seni, usandoli per darmi ulteriore spinta ed entrare in lei con più voracia.

“Di più..” la sentii dire, ed accelerai, stringendole i capezzoli con le dita. La sentii gemere nuovamente e percepii i primi, nuovi tremolii del suo corpo. L’orgasmo l’aveva resa più sensibile ed ora, era in preda al piacevole moto del nostro atto piacevolmente impuro.

“Ancora…” insistette “…ancora più veloce…” ed iniziai a sentire il suono piacevole dell’urto tra i nostri corpi, mentre il mio cazzo prendeva a sfondarla con sempre minore indugio “Fammi tua…lo voglio tutto!”

Le parole di Alessandra, dette in quell’accento solitamente fastidioso, mi accesero. La cadenza le rendeva, in qualche modo, più volgari, più vogliose, più eccitanti. Presi a spingere con più forza, usando il mio peso per montarla, come si farebbe una cavalla e più lo facevo, più la udivo gemere e tremare, chiedendomi di farla mia, di mungerla ancora più forte e di farla godere. Sentivo anche il mio culmine avvicinarsi mentre la scopavo, stringendole saldamente le tette, guardandola godere come una porca del mio corpo. Fu allora che lei mi guardò ancora.

“Più forte cazzo!” esclamò, facendo seguire alle due parole un gemito incontenibile “Fottimi ancora più forte! Dammelo tutto, voglio il tuo cazzo!”

L’adrenalina mi esplose nel corpo e nella mente, il nostro atto, in quel momento, si mutò in una furiosa stretta di piacere mentre io, oramai schiavo del mio cazzo, la fottevo con tutto me stesso e lei, china su se stessa, con i seni stretti e munti dalle mie mani, si faceva scopare, ragliando di piacere come una bestia, gridando oscenità eccitanti quanto impronunciabili in preda ad un culmine orgasmico fatto di tremolii e violenti gemiti, scanditi dai colpi intensi della mia verga che sbatteva in lei senza sosta.

“Vengo! Cazzo godo! Cazzo sono tua!

Ancora una volta, in preda all’orgasmo, Alessandra crollò, cedendo stavolta ai miei colpi mentre la schiacciavo a terra, penetrandola incessantemente tra i suoi mugugni e squittii. Oramai anche io ero sull’orlo del piacere estremo e, prima ancora che potessi rallentare, fu lei ad invitarmi a liberare tutto me stesso. Sfilandomi da dentro di se, ella si girò e mi fece mettere su di lei, accogliendo il mio cazzo tra i suoi seni e stringendolo, invitandomi a muovermi su di lei, portando avanti il viso per prenderlo in bocca quanto poteva. Alternò alle sue morbide e sode mammelle il calore intenso della sua gola, lasciando che la sfondassi, soffocandola di piacere, succhiandomi e stringendomi con tutta se stessa, giocando con il mio ano, massaggiandomi e leccandomi i testicoli e toccandomi il perineo.

“Vieni…sborrami in faccia!” mi disse, prendendolo ancora tra le tette “Docciami!”

“Si! Godo!” esclamai subito dopo, ed il mio seme schizzò sul suo corpo, sui seni, sulle sue labbra, docciandola e coprendo i suoi occhiali, cornice eccitante del suo volto voglioso. Lei si lasciò docciare, continuando a menarmi e succhiarmi fino a quando ogni goccia non fu esaurita. Poi, finalmente, ambedue crollammo, uno accanto all’altro, esausti, sconvolti, soddisfatti.

Me ne andai qualche ora più tardi, trotterellando felice verso la porta con lei che mi accompagnava, altrettanto contenta, alle mie spalle.

“Non mi smerdi con gli altri vero?” chiese.

“Non lo avrei fatto comunque.” Risposi “Ma se vuoi tenermi quieto è meglio farlo così che usando un coltello.”

“Allora torna quanto vuoi che ti tengo buono io.” Disse lei ridacchiando “Mia madre mi diceva sempre che i bambini si tengono buoni meglio con la cioccolata che con le sculacciate. Tu non preoccuparti che la cioccolata te la do tutte le volte che vuoi.”

Sorridendo, mi voltai e sentii la porta chiudersi alle mie spalle.

 

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