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Racconti Erotici Etero

Flux e Blade

By 17 Maggio 2018Dicembre 16th, 2019No Comments

Ok, se va fatto, facciamolo bene.

Il mio nome é Alexander Mirror.
O almeno, quello é il nome del giovane di venticinque anni che voi incontrate, che vi parla. Il ragazzo nullafacente che sembra un perfetto buono a nulla.
Certo. Nessuna professione, una misera abitazione in un loft, cittadino della Grande Mela, quasi più un verme a ben guardare, un parassita che cerca di ritagliarsi una patetica nicchia all’ombra delle grandi luci di una civiltà che appare sempre più chiusa e decadente.

Tutto questo ero, e in una certa misura, sono ancora.
Poi le cose sono cambiate. Enormemente.
Cosa fu a cambiarle? Un annuncio. Cercavano soggetti disposti a sottoporsi a esperimenti rischiosi. Roba non esattamente autorizzata dal codice etico e morale della medicina moderna.
Comunque, io accettai.
Avete presente Deadpool? Il mercenario che non sta mai zitto e rompe inutilmente la quarta parete ogni due righe? Ecco. Lui é divenuto così perché gli era stato iniettato qualcosa. Qualcosa appartenente a un’altro grande eroe mutante.
Io? Oh, a me é stata iniettata la stessa cosa.
E dopo cinque giorni in cui ho pensato che morire sarebbe stata un’ottima alternativa all’agonia che era divenuta il mio presente, sono diventato così.
“Così come?” direte voi. Così.
Un tizio normale, capelli corvini scamagliati, occhi color nocciola, corporatura nella media.
Fattore rigenerante tipo 2 e artigli ossei.
Sì. Praticamente sono una copia malriuscita di quel canadese tappo.
Prima che partano i meme da parte vostra, no. Non sono come lui, non ho il problema che ha lui con la rabbia e non intendo andare in giro a dire di essere il migliore a fare quello che faccio (che non é granché).
Fattore rigenerante di tipo 2, questo vuol dire che guarisco. Ma ci vuole tempo. Almeno la metà di quello di cui necessita un normale essere umano.
Gli artigli ossei invece sono solo due per mano, emergenti in corrispondenda del medio e dell’anulare.
Ecco, un buon motivo per non sposarmi.
Ora che ho descritto molto bene il mio campionario di abilità, vi chiederete quale cattivo io metta sotto.
Forse penserete che la storia s’intreccerà con personaggi come Wolverine, Punisher o gente di quel calibro, vero?
Beh, temo che rimarrete delusi.

Essenzialmente io sono uno scansafatiche, non lo nego. Ho sempre e solo avuto due passioni: le arti marziali e il sesso. Banale, direte voi.
Purtroppo i corsi di arti marziali costano e, a meno che sguainare gli artigli ogni due secondi non invogli le ragazze a saltarmi addosso, neppure le donne sono gratis. Intendiamoci, neanche quelle che non si fanno pagare lo sono davvero. Ci sono costi.
E i costi vanno coperti in qualche modo.
Eccomi qua. Sicario a tempo perso, ladro, fancazzista ed eventualmente lettore di vari generi di letteratura.
Non sono un fan delle pistole ma ho imparato a servirmene, tuttavia i miei strumenti ideali rimangono le lame. Quelle che posso stringere in mano e quelle che mi escono dalla mano. Da qui, il mio nome.
Blade.

Ovviamente i furtarelli sono per i poveri sprovvisti di poteri tosti. Io però non sono come loro.
Che é il motivo per cui la notte, mentre tutti dormono, qualche riccone si sveglia e scopre che metà della sua roba é sparita. Ultimamente però i sistemi di sicurezza mi fregano, quindi sono passato a colpi di altro tipo.
Assassinii, minacce, cose così. Vi avevo detto che ho lavorato anche con Punisher? No? Bene: non sarebbe vero in ogni caso. Mai visto il tizio col teschio.
Però, purtroppo ho visto altre spiacevoli personalità.
Magneto ad esempio, quando tentò di reclutarmi.
Incredibile quanto male qualcuno possa prendere un “no.”. Per farla breve, mi ha conficcato un paio di ferri in corpo. Sono guarito ma mi é costato qualche mese di attesa e riposo. Una pizza.
Io, non gli ho fatto praticamente nulla.
Un altro che ho incrociato é stato Peter Parker alias l’Uomo Ragno.
Dio, ho sempre odiato quel tizio. &egrave stato un piacere riuscire a tagliargli le ragnatele e costringerlo a concentrarsi sulla sua sopravvivenza.
Peccato che, pur avendo potuto godere di una vittoria morale, sono finito con lo spappolarmi una gamba sul marciapiede dopo qualche piano in caduta libera.
Ma mi é andata bene.
Ma l’incontro più importante é stato un’altro. Tempo fa.

Ero stato assoldato da qualche servizio segreto. Lo S.H.I.E.L.D., mi pare, per mettere sotto questi tizi.
Gente di un qualche culto che voleva fare esperimenti strani. Alcuni di loro erano pure mutanti.
Risultato? Dovetti giocare d’astuzia. Ne eliminai la maggior parte ad artigliate e fu lì che apparve lei.
Flux.
Dio, in quel momento non fu solo l’esito dello scontro a mutare. Anche tra i miei pantaloni mutò qualcosa.
Qualcosa di grosso.
Peccato che la gentil donzella dalla pelle scura (quasi blu, a doverla dire tutta) e dall’impressionante abilità marziale non la pensasse come me.
La ragazza mi trapssò un polmone, spezzò due costole, ruppe un braccio e spaccò tre denti. Io in compenso le feci probabilmente il solletico visto che ogni mio colpo la attraversava.
Perché? Perché quella maledetta aveva la capacità di divenire liquida. Cambiava concretamente stato.
Prenderla a pugni era inutile. Difendersi era inutile.
Quando quelli dello S.H.I.E.L.D. arrivarono, ore dopo, io ero ancora steso a terra e l’unica cosa in buona salute era il mio pene. Tutto il resto del mio essere, orgoglio incluso, aveva preso tante di quelle sberle da farmi sentire come se mi fosse passata sopra un’armata di corazzati.
Flux, e i superstiti del culto, se n’erano andati. Fuggiti via, per riprendere da qualche parte.
Il mio contatto nello S.H.I.E.L.D., Lisa Huntington, mi gratificò di 20’000 dollari e di un bel vaffanculo quando le chiesi se era libera per cena. Accettai la cosa e tornai a casa.
Con quei soldi pagai quasi tutti i miei debiti. Salvo uno: quello appena aperto con Flux.
Quella puttana mi aveva sconfitto e umiliato e chiunque altro avrebbe semplicemente voluto ucciderla nel peggior modo immaginabile o dimenticarsi della sua esistenza. Io no.
Io la volevo ritrovare. La volevo conciare per le feste e volevo sentirle gridare pietà, come io non avevo potuto fare a causa del trauma alle corde vocali che mi aveva procurato.

Flux era divenuta un’ossessione.
In poco tempo smisi di dedicarmi ai furtarelli, prediligendo la ricerca di buone fonti informative che mi permettessero di mappare la zona operativa di quella puttana allo stato liquido.
Spesi una fortuna per permettermi un arsenale degno di tale nome. Pistola mitragliatrice Ingram, silenziata.
Katana, Tanto ed esplosivi. Molti.
Ma soprattutto, cercai qualcosa che mi permettesse di strapparle il vantaggio che aveva. Richiese qualche mese ma trovai qualcosa. Un particolare siero.
Sparato da una pistola inucolatrice non più grande della mia mano, avrebbe inibito i suoi poteri per qualche ora. Andava bene.

Ero pronto. Ma nel frattempo avevo continuato a dedicarmi alle mie passioni, o almeno ci avevo provato. L’ultima ragazza che mi ero fatto risaliva a quasi una settimana fa e alla mia età il sesso era ancora qualcosa di rilevante.
La tipa, occhi neri capelli biondo tinto misto a castano, aveva saputo vedere le mie potenzialità. O forse era stato l’aver sborsato quasi cinquanta maledetti dollari per i drink… Beh, comunque, pochi minuti dopo eravamo a casa sua e ci stavamo dando dentro.
Ora, non ricordo se fu colpa mia, che mi scatenai, o sua che non mi avvertì quando mi graffiò la schiena ma un mio artiglio le graffiò leggermente la pelle.
Lei lo vide e cacciò un urlo tremendo.
-Sei un mutante!-, esclamò.
-Beh, sì.-, dissi. Lei aveva messo un po’ di distanza tra me e sé stessa ed ora eravamo in due punti opposti del letto, lei rannicchiata contro sé stessa, io seduto. Calmo. Esattamente come lei non sembrava proprio.
-Dovevi dirmelo! Cosa sarebbe successo se quell’affare mi avesse infilzato?-, chiese.
-Ok, numero uno: non hai detto che t’importava. Numero due: non sarebbe accaduto!-, esclamai.
-Cazzate! Hai perso il controllo! Lo so come succede: perdete il controllo e uccidete, ecco cosa fanno quelli come te!-, esclamò lei. Capì che il divertimento era finito. Sospirai. Non per la notte inaspettatamente in bianco ma per l’idiozia della gente.
-&egrave il maledetto 2000. Mi sembra sia molto facile per quelli come voi continuare coi pregiudizi! Ma guardati attorno! Quanti mutanti uccidono? Quanti? Se avessi voluto potevo sbrindellare te e metà degli idioti presenti a quel discobar del cazzo!-, esclamai.
Ero incazzato. Espirai. Due volte. Alla quinta ero già più calmo ma sapevo come sarebbe finita.
Calò il silenzio. Puro e semplice. Mi rivestii lentamente.
-Vattene. Ora.-, sibilò lei.

Non era la prima volta che assistevo a episodi del genere. I mutanti erano malvisti sin dalle prime apparizioni documentate negli anni ’40-’50.
Sapevo che Wolverine e un’altro tizio, Sabretooth avevano servito nell’esercito, così come anche il Cap e altri. Non tutti però erano eroi. Per esempio, c’era Magneto, che sicuramente non era uno stinco di santo. Oppure anche altri. In ogni caso, ormai il mondo era così.

Da quell’episodio era passato un po’. Ma quella bambinetta isterica indottrinata da gente anche più alienata e paranoica di lei non mi sfiorava più di tanto.
Perché stanotte sarei uscito, mi dicevo, e avrei preso Flux. “La notte é fatta per dormire. La notte é fatta per dormire e scopare. Nient’altro.”. Così mi dissero tempo fa.
Ma mentre attendevo furtivamente nell’ombra, pensavo a quanto non fosse assolutamente vero. La notte era valida quanto il giorno per agire. In quei casi anche di più. Nessuno si aspetta un attacco di notte e le guardie sono sveglie grazie a caffeina (o altre cose più tossiche che finiscono con -ina) e volontà.
Io invece mi tengo in piedi perché ho dormito nel pomeriggio. Fresco come una rosa.

In quel caso lo ero il doppio.
C’era anche il desiderio di scovare Flux e fargliela pagare. Avrei cancellato quel suo sorriso di superiorità da quella bellissima faccia da sgualdrina.
Ma prima, dovevo introdurmi là dentro.
Il “Là” era il quarto piano di un edificio. I cultisti sfuggiti al mio primo raid dovevano avere ottimi supporti economici per permettersi affitti simili. Il centro di NY non é a buon mercato. E neppure i tizi della sorveglianza. Gente attenta, forse con armamenti potenti abbastanza da rappresentare un problema serio. Peccato che gli artigli e un fattore di rigenerazione non siano stati i soli risultati dell’esperimento. Ho anche ereditato un certo olfatto.
Non esattamente ideale come dono, visto che spesso soffro di raffreddore. Ma in quel momento era perfetto.
-Simon, come va?-, chiese una voce sotto di me.
-Il solito, Roger.-, disse l’interpellato. Due tizi in giacca e cravatta, visibili tramite la grata dei condotti d’areazione. La mia infiltrazione aveva richiesto tempo, e soldi (molti) ma stava dando frutto.
I rigonfiamenti alla vita indicavano delle pistole. Bene. Armamento che potevo affrontare senza troppi rischi, ma non subito.
-Questo compito é una pizza. Potevo accettare quel contratto a Rio… Ma questo pagava meglio.-, disse Simon. L’altro, Roger, rise.
-Che vuoi che ti dica. Una volta finito questo contratto, andremo a Rio e ci svuoteremo i testicoli fino al collasso!-, esclamò.
Un po’ provai pena per loro. Non erano sicuramente degli idioti e il fatto che avessero sogni e speranze provava che non erano semplici quarti di bue da fare a fette. Purtroppo per loro erano sulla mia strada.
-Beh. Io continuo la ronda, ci si vede!-, esclamò Roger. Simon annuì, restando fermo. Poco sotto di me. Tempo di agire. Tagliai silenziosamente la grata con un altro gadget procuratomi al mercato nero.
E balzai di sotto. L’immobilità lasciò il posto all’adrenalina. Simon si voltò. E incassò due colpi al petto. Peccato, niente Cicha de Rio De Janeiro per lui.
Il silenziatore dell’ingram aveva funzionato alla perfezione. Adagiai il corpo in un angolo della stanza piena di cubicoli e uffici in cui mi trovavo e scattai in avanti, silente. Sentì qualcosa. Un passo.
Mi gettai in un angolo in ombra. Roger. Perfetto!
Roger entrò nella stanza, leggermente circospetto ma niente di che. Si voltò verso una finestra. Un istante di distrazione. Avevo estratto il coltello un secondo prima che entrasse. Due secondi dopo, Roger si trovò con me che gli puntavo l’arma alla gola.
-Silenzio. Voglio solo farti qualche domanda e se risponderai, forse potrai davvero andare a svuotarti i testicoli a Rio.-, dissi. Roger parve tremare.
-Quante guardie?-, chiesi.
-Altre cinque, ma non tutte su questo piano.-, disse.
Cooperativo. Bene. Non ho mai amato la tortura, anche se dovendo non avrei scrupoli ad applicarla.
La storia dell’eroe senza macchia e senza paura non é la mia. Il mondo affoga nel guano e la gente azzanna alla gola altra gente per tenersi a galla.
Same old story…
-Ok. Sto cercando una ragazza. Giovane, nera, capelli lunghi e capacità di divenire liquido. Dov’é?-, chiesi.
-Lei… mi ucciderà!-, esclamò lui.
-Oh, lei potrà farlo, ma solo se io non la uccido prima.-, dissi.
-Sei solo un uomo!-, sibilò Roger.
Snikt! L’artiglio dell’indice destro mi uscì dalla carne, abbastanza vicino agli occhi dell’uomo da ingombrare i tre quarti del suo campo visivo.
-Decisamente no.-, dissi. Ah, avrei voluto vedere la sua espressione. Di solito non lo faccio per puro diletto ma estrarre gli artigli mi spara in vena una botta di adrenalina pura. Sarà perché ogni volta che lo faccio mi ferisco da solo, o forse mi piace davvero tirarli fuori… Mah!
-Piano superiore! &egrave a fare la guardia al boss!-, cedette il povero Roger. Troppe emozioni per quel contratto così noioso. Sorrisi.
-Bene. Immagino tu abbia una ricetrasmittente.-, dissi.
Lui annuì.
-Chiama i tuoi amici. Di loro che hai riscontrato qualcosa che non va al piano inferiore. Digli che ti servono rinforzi. Sii convincente o finisci a spezzatino!-, sibilai io. Lui eseguì. Si finse agitato (cosa non difficile vista la situazione) ma fu preciso. Ricevette segnali di assenso dalla squadra.
Ottimo. Ora eravamo solo io, Fluxa e i tizi al piano superiore.
-Sorridi, Roger.-, dissi, benevolo. Gli diedi una botta col calcio della Ingram. Crollò svenuto in avanti.
-Se tutto andrà bene magari andrai davvero a Rio.-.

Salii lentamente, perquisendo metodicamente ogni angolo. Arrivai al piano superiore. Poco mobilio. Una sala col biliardo e una cucina. I membri di quel culto non si facevano mancare niente.
Ma era pur vero che forse non erano più loro…
Una luce attirò la mia attenzione. Una guardia.
“Cazzo!” Mi gettai in una stanzetta attigua. E ora?
Accesi una piccola torcia tattica che tenevo in tasca.
Porca troia!
Droga. Non robetta ma oppiacei a pacchi!
Cavolo, ecco, forse sarebbe stata una buona idea incenerire quella merda. In effetti potevo. Posizionai l’esplosivo. Impostai il timer su due ore. Per sicurezza.
La guardia intanto era entrata nella sala del biliardo.
Alzai l’arma e sparai. Centro perfetto alla nuca. Crollò in avanti. Sul tavolo del biliardo.
Uscì dalla stanzetta e andai dalla parte da cui era venuta la guardia. Un corridoio. Nulla di particolare.
Poi mi trovai davanti una guardia. Uno di colore, calvo. Margine d’azione?
Un istante. Troppo poco per pensare. Snikt!
Gli trapassai il petto. Dannazione, il brutto degli artigli era che non cauterizzavano le ferite ergo, il più delle volte, c’era sangue a fiotti in giro. Come in questo caso. Per non parlare del sangue che macchiava i miei vestiti. Ormai…
Appoggiai il corpo da qualche parte e continuai.
La sala successiva era più piccola. Una sorta di sala riunioni. E poi la vidi.
Flux. Esattamente come la ricordavo.
Era accanto a un tizio che pareva uscito dalla pubblicità di una vodka. Un biondo con gli addominali.
Un coglione, ma un coglione importante a giudicare dall’abbigliameto e dal fatto che lei stesse qualche passo in avanti, come a proteggerlo. Il capo.
Sparare a Flux sarebbe stato troppo poco, me ne resi conto subito. Ma uccidere il tizio per cui lavorava…
Livellai l’arma. Sparai. Il proiettile della Ingram centrò il bastardo al mento scagliandolo indietro.
Flux mi vide. Io lasciai cadere l’Ingram.
-Sono qui per te, troia!-, esclamai.
-Ah. Non ti bastava l’ultima batosta?-, chiese lei.
Canzonatoria. E decisamente incurante del fatto che il suo capo fosse morto. Cosa che mi diede da pensare.
-Diciamo che sono lento a capire.-, dissi.
-Allora stavolta farò sì che ti entri in testa qualcosa.-, disse lei. Non c’era altro da dire, lo sapevamo bene.
Sguainai la katana. Portarmela nei cunicoli d’areazione era stato difficile ma ne era valsa la pena.
Flux sorrise, invitandomi con un gesto a farsi avanti.

Mi gettai verso di lei. La ragazza schivò un fendente con una caduta all’indietro eccezionalmente ben fatta. Arrivò accanto a una parte e strappò una spada dal suo appoggio.
-Sicura che sia affilata?-, chiesi con un ghigno.
-Vediamo!-, esclamò la nera. Attaccò in Jodan Gamae. Evitai il fendente e cercai di colpire i suoi polsi da sopra. Lei piroettò e si trovò sul mio fianco. Pugno. Le costole destre accusarono il colpo.
-Uno a zero.-, disse lei. Ieratica e altezzosa.
-&egrave solo il primo tempo!-, ringhiai. Attaccai dal basso, schivò. Poi colpì dall’alto. Parò e io feci la mia mossa.
Pistola inoculatrice livellata col suo petto, sparai.
Fu con soddisfazione orgasmica che sentì il suo gemito.
-Che cazzo é?-, chiese Flux.
-Qualcosa che t’impedirà di usare i tuoi poteri per un po’.-, dissi, -Quanto basterà per permettermi di darti una lezione.-. Poi attaccai. Fendente al collo. Schivato. Continuai con una giravolta e cercai di colpirla al fianco esposto. Si salvò in extremis.
Solo allora mi resi conto che lei si era mossa secondo un piano preciso. Era arrivata all’Ingram che avevo lasciato a terra. Raccolse e sparò.
Mi gettai a terra. Cinque proiettili centrarono i quadri di Picasso (copie, molto probabilmente o almeno così credevo). Flux non perse tempo. Mi tirò l’Ingram.
Altro dolore. Stavolta alla gamba destra. Schivai il suo fendente che taglio il bordo del tavolo.
-Due a zero!-, esclamò lei. Pareva persino lieta di quello scontro. Come se vivesse per momenti simili.
“Ok. Allora…”.
Mi gettai in avanti con un Kiai degno di un samurai.
Flux parò il fendente ma non schivò l’artigliata che arrivò dopo. La sua spalla destra fu trapassa, quasi fino all’osso. Sofferenza sul suo viso.
-Quanto vale?-, chiesi ghignando.
-Bastardo…-, sibilò lei. Mi sferrò un sinistro. Schivato.
Calcio ai gentiali. Ouch. Sofferenza pura. Un witheout di dolore che avrebbe potuto rivaleggiare con l’agonia di cinque giorni che avevo subito per diventare quel che ero. Caddi a terra. Rotolai fuori dalla sua portata prima che un fendente mi potesse centrare decapitandomi. Mi rialzai. In tempo per vedere una guardia sopraggiungere. Cinese, donna. Urlò qualcosa. Furono le sue ultime parole: le scagliai addosso il tanto e la centrai in pieno petto.
-Solo tu ed io.-, esalai.
-Già…-, sussurrò lei. Era bella, non potevo negarlo.
Se ci fossimo conosciuti in altre circostanze, forse…
“Concentrati, cazzo!”. Ma il mio, di cazzo, non sembrava dello stesso avviso. E questo mi costò caro.
Flux attaccò. Fendente a una mano. Parato. Atemi alla gola. Dolore, sensazione di soffocamento.
Calcio alle gambe. Cazzo!
Crollai a terra. Lei si preparò a finirmi.
La sgambettai. Crollò anche lei. Cercò di colpirmi con la spada, parai. Ci rialzammo solo per affrontarci di nuovo. Urla. Il mio kiai e il suo. Perfetti.
In quell’istante capì che forse alla fine la rispettavo, o la amavo. Ma l’avrei uccisa comunque.
Parata del suo fendente. Jab ascendente al mento. Lei barcollò indietro, colpita.
Calcio da parte mia. Fendente. La mia gamba subì una lacerazione leggera, per fortuna.
-Come ci si sente…-, chiesi, -A non poter più evitare i miei colpi?-. La domanda sottolineò un colpo ad artiglio di tigre al petto. Flux retrocedette.
-Non pensare di avere vinto!-, ringhiò.
-Aw, la tigrotta!-, sussurrai io, canzonatorio. Lei urlò di rabbia e mi attaccò. Ecco cosa volevo!
Volevo che si sentisse impotente. Che capisse che ero il migliore. Volevo che sentisse la stessa cosa che avevo sentito io. E volevo che perdesse il controllo.
I suoi attacchi aumentarono di forza ma persero di cordinazione e ritmo. Un mio fendente le ferì la mano con cui impugnava la spada. La sua arma cadde lontano. Flux si mise in posa da combattimento.
Affrontare una donna disarmata con una katana in pugno? Nah, sono tante cose ma non un simile bastardo. Piantai l’arma nel parquet.
-Ad armi pari.-, sibilai. Lei ghignò.
Calcio lungo. Parai. Mi avvicinai. Pugno doppio al mento, uppercut. Lei deviò. Un destro e un sinistro. Evitati. Era brava, non potevo dire niente a riguardo.
Flux sorrise improvvisamente.
-Pensi di avere vinto?-, chiese.
-Non voglio vincere.-, risposi, -Mi basta non perdere.-.
La sua faccia strabiliata fu spettacolare, ma mai quanto la sua successiva frase.
-Almeno in questo siamo uguali.-, disse. L’ombra di un sorriso passò sul suo volto. Poi mi sferrò un pugno micidiale. Colpì allo stomaco. Ero impreparato e mi piegai in due mentre il fiato mi usciva in rantoli dolenti.
-Allora?-, chiese lei estraendo un coltello e puntandomelo alla gola, -Vogliamo vedere quanto ci metti a morire?-, chiese.
-Divertiti!-, sputai. Poi accadde.
Il timer doveva essere difettoso, oppure avevo sbagliato a impostarlo. In ogni caso l’esplosione fece tremare il palazzo, per qualche istante. Distrazione al massimo grado e io ne approfittai. Deviai il coltello, estrassi gli artigli e trapassai la gamba sinistra di Flux. La nera urlò. Sorpresa e dolore.
-Mai distrarsi, dilettante!-, esclamai. Il suo fendente alla cieca mi lacerò un braccio. Il mio fendente invece affondò nel liquido.
“Cazzo!” L’effetto di quel siero che annullava i poteri era già finito. Porca troia!
Fedele al suo nome, Flux fluì poco distante, ricomponendosi in forma umana. Il suo coltello e altri gadget erano caduti ma i vestiti no.
-Ora come la mettiamo?-, chiese.
Sospirai. Era una battaglia persa ma ne avevo già combattute altre così e se mi fossi ritirato non sarei più risucito a guardarmi allo specchio.
In lontananza sentii le sirene della polizia. Ci mancavano solo loro. Flux doveva pensarla come me a giudicare dalla sua faccia. Sicuramente non pensò a lungo. Estrasse una pistola dal corpo del boss (accanto a cui era) e sparò tutto il caricatore contro il vetro della finestra. La vetrata crepitò ma non venne giù. Io sorrisi.
-E ora?-, chiesi. Lei mi rispose con quella che definirei una perfetta faccia da schiaffi. Stronza fino in fondo.
Ma il mio tipo di stronza.
-Adios!-, esclamò. Si liquefece davanti a me, filtrando attraverso il buco che aveva aperto nell’edificio.
Fuggita. “Cazzo!”
-Al nostro prossimo incontro.-, dissi.
Non avevo tempo di stare a calcolare dove e come fosse atterrata. Dovevo trovare alla svelta una via di fuga. Ora, non ero come lei ma quello era solo il quinto piano. Andava bene. Mi gettai di sotto infrangendo la vetrata con il mio peso.
Volai di sotto. L’aria mi sbatté in faccia. Atterrai su di un tetto, qualche piano dopo.
Polsi e metacrpi spappolati, gambe fratturate, fratture multiple in aggiunta a tutto quello che Flux mi aveva inflitto. E per cosa?
Stocazzo! Quella puttana era ancora viva e libera.
E io avevo fallito. Forse non totalmente ma sicuramente avevo fallito.
-Scusi signore, &egrave pericoloso stare sdraiato su un tetto…-, disse una bambina. Io le sorrisi, rassicurante.
-Sì, piccola. Ora mi alzo.-, dissi.

Ci vollero due ore perché potessi anche solo pensare di alzarmi. E altre tre perché le mie mani si riformassero in modo da permettermi di apparire guardabile. Dopo sei ore su quel tetto, pensai di potermi muovere e, a dispetto delle ossa scricchiolanti e dei legamenti che rischiavano di spezzarsi a ogni passo, ci riuscii.
Sostanzialmente avevo fallito. Flux era fuggita (non indenne ma poco importava), io avevo perso quasi tutto l’equipaggiamento, salvo la pistola inoculatrice (vuota), la pistola silenziata, il Tanto che avevo recuperato e alcuni esplosivi. Bella merda.
Quandi finalmente vidi un TG seppi che la polizia aveva arrestato i membri di un’organizzazione criminale bella grossa il cui leader era stato ucciso (da me) prima del loro arrivo. Poco importava.
Flux era ancora in circolazione. Le avevo dato una lezione ma, semplicemente, non era servita a niente.
Un pareggio. Puro e semplice. Rivincita a data da definirsi. Gran bell’affare visto che nemmeno sapevo come trovarla e difficilmente avrei avuto i soldi per ritrovarla. Pensai che, se la polizia avesse trovato qualche traccia dell’accaduto, forse avrebbe accusato Wolverine. Mi sarebbe dispiaciuto alquanto. Dopo quanto accaduto con la Mano e compagnia bella, quel tappetto ne aveva passate parecchie.
Mi trascinai a casa.

Due giorni di assoluta e totale attesa.
Infine guarii e potei uscire di nuovo. Pensai di prendermi un periodo di vacanza da Flux e dalla mia ricerca di lei, visto l’utlimo incontro. Quindi decisi di tornare alla mia solita vita.
Non andava neanche tanto male. Avevo rapinato un grassone che campava vendendo computers e in quel momento mi stavo bombando alleggramente un’italiana. Tipa simpatica e per una volta era filato tutto liscio senza spendere troppo.
Poi, mentre lei era sopra di me accadde qualcosa.
Mi venne di nuovo in mente. Flux.
“Cazzo! Quella mi é entrata in testa!”.
L’italiana intanto mi cavalcava con foga ma io ero presente a metà. Quando infine venni dentro di lei, non provai neppure soddisfazione.

Decisi: dovevo ritrovare Flux.
Anche se ormai non ero più neppure sicuro del perché. La fuga fu facile.
Il dono di poter divenire acqua era semplicemente fantastico per quelle situazioni e Flux aveva appreso come sfruttarlo alla perfezione. Scese cinque piani alla svelta.
Arrivò al suolo senza farsi nulla, beatamente ignorata dai passanti. Schivò gente che correva, che camminava o che semplicemente stava ferma a guardare.
Il più era fatto.

Decise di passare per le fogne. Non vista s’infilò in un tombino. Non che nuotarci le piacesse era solo la via meno trafficata. Sicuramente però era la più schifosa.
“Appena a casa farò una lunga doccia.”, pensò.
In verità sapeva di non doversi preoccupare. Lo schifo non le restava appiccicato addosso. Al cambio di stato se ne andava. I vestiti erano un’altra questione. La sua era una tuta speciale, capace di seguire il suo cambio di stato. Le armi… beh, quelle generalmente le lasciava. Erano solo un peso. Il più delle volte.
Comunque, arrivò a un punto della rete fognaria che sapeva essere abbastanza lontano da zone troppo popolose. Uscì, riprendendo temporaneamente il suo aspetto normale e si mise a camminare.

Ci mise due ore buone ad arrivare a casa e il primo pensiero fu appunto la doccia.
Una doccia lunga, calda e rilassante che si concesse senza riguardi per niente e nessuno al di fuori di sé stessa. Ci voleva.
Si lavò lentamente, indugiando sulle zone erogene il tempo necessario, sosprendendosi di quanto le mancasse il sesso. Non che le mancassero i pretendenti ma non intendeva concedersi al primo che passava. Anche prima di divenire Flux, aveva sempre avuto un certo criterio nello scegliersi i compagni di letto.

Prima di essere Flux lei si chiamava Neela Mourne.
Era figlia di un padre domenicano e madre indù.
Il risultato di tale incrocio era stato un mix di razze dalla bellezza eccezionale: capelli neri lunghi fini, occhi neri ma con una screziatura particolare che stupiva chiunque vi posasse lo sguardo, viso cesellato dai tratti lievi ma dal bellissimo aspetto. Un seno florido che sfidava la gravità e un colorito scuro, più di quanto normalmente avrebbe dovuto essere.
Ma, e quello era il problema, poi si era manifestata la sua mutazione. Era successo a sedici anni.
Per allora, suo padre era morto e sua madre… beh, tirava avanti nei modi peggiori. Neela frequentava la scuola, le organizzazioni ecclesiastiche e talvolta anche la gente che non avrebbe dovuto conoscere.
Il risultato fu che, quando assunse una droga particolare descritta da un suo amico come “il top”, il suo corpo reagì. Il suo braccio destro divenne acqua pura. Eppure l’arto c’era ancora. Lo sentiva presente. Si sforzò e, dopo qualche minuto tornò normale.
Il resto lo scoprì dopo: un bruto le tirò un pugno, un giorno. Dopo qualche ora era passato, come se niente fosse stato.
Fu allora che comprese. Fanculo le droghe e quella vita dappoco. Lei voleva di meglio. Lo esigeva.
Commise il primo omicidio due anni dopo. Per allora aveva imparato a usare quei poteri. Poteva divenire acqua completamente, o solo parzialmente.
Era fantastico e, qua e là aveva imparato qualche trucco. Vivere in quell’ambiente particolare che era Hell’s Kitchen forgiava la gente in modo da renderla spietata. O la spezzava per sempre.
Neela faceva parte della prima categoria. Entrò nella villa del riccone che doveva uccidere trasformandosi in acqua e gli piantò un punteruolo in petto.

Da lì le cose furono più semplici: teppisti uccisi, pusher rivali di altri pusher morti, cose così.
Tutte morti perfette, senza impronte digitali. La polizia non sapeva che pesci pigliare e lei se la cavava praticamente sempre. Perfetto.
Ormai aveva venticinque anni e quella vita si prospettava ancora come la migliore alternativa.
Allora perché si sentiva improvvisamente come se qualcosa non andasse?
Ignorò la cosa, sgranocchiò qualcosa e andò a letto.

Il giorno dopo si svegliò presto. Esercizi, pilates, cose così. E ancora la sensazione di inadeguatezza che la coglieva all’improvviso. Ancora.
Espirò, cercando di calmarsi e fece una corsetta mattutina di quasi due chilometri. Al ritorno a casa, tutto uguale. La sensazione non spariva.
Altra doccia. Cibo. Pranzo fuori. Incontro di lavoro.
Tuttto normale. E niente in ordine.

Neela non si faceva illusioni. Il lavoro era lavoro. E quel lavoro era semplice: uccidere un poliziotto che aveva ucciso il figlio di un boss.
Roba normale. S’intrudusse nella casa passando sotto la porta. Riassunse la sua forma umana.
La casa era composta da pochi locali. Un bagno. Una cucina. Stanza da letto e sala.
La stanza da letto era occupata da due persone.
Il poliziotto e la moglie.
Flux procedette. La maschera della tuta salvaguardava il suo anonimato. La coppia nella stanza doveva averci dato dentro, a giudicare dai vestiti sparsi. E improvvisamente, Flux si accorse che la donna non era la moglie dello sbirro. Tanto meglio. Si avvicinò con lentezza. Era Pronta. Il poliziotto si girò nel sonno. Per un istante ebbe la faccia del tizio che aveva pestato il giorno prima, la stessa faccia…
“No!”. Perse un istante. Poi si riprese.
Non era lui! Non poteva esserlo, punto e fine. Quel tizio doveva morire. Prese il coltello da cucina e gli tagliò la gola con rapidità subitanea mentre gli tappava la bocca. Appoggiò il coltello alla sponda del letto e, riassunta la sua forma liquida, fuggì.
Lavoro finito.

Era stato un lavoro schifoso.
Oh, da un lato puramente tecnico era stata eccelsa, come suo solito. Dal lato emotivo… Cazzo!
Quello stronzo l’aveva umiliata. Le aveva strappato il suo potere, anche solo per qualche istante ma quello poco contava. Peggio di tutto quanto, di ogni cosa, le aveva fatto perdere la faccia e un lavoro.
E Neela Mourne, alias Flux non era famosa per accettare passivamente le umiliazioni.
Né niente del genere.

Quindi gli avrebbe dato la caccia e stavolta avrebbe finito quel che aveva iniziato. Sono una persona semplice: se qualcosa mi ossessiona, cerco di venirne a capo, spesso gettandomi a corpo morto sull’oggetto della mia ossessione.
Così feci anche con Flux.

Passò qualche settimana durante le quali feci qualche lavoretto per gente non troppo raccomandabile, uccisi qualcuno (tre persone, di cui due che per certo meritavano di morire) e mi portai a letto qualche ragazza.
(Ci fu una tipa in visità dal Congo che fu spettacolo: finimmo a letto e passammo la notte quasi insonne. Tra leccate, baci, conversazioni spinte e non e poi il puro e semplice amplesso, lo facemmo per due volte, cosa che per uno col fattore rigenerante non é una grande difficoltà, ma in genere mi astengo dal fare troppo sesso, può afflosciare il fisico in più di un senso). Sostanzialmente e apparentemente la mia vita proseguiva come sempre. Tranne per Flux, ovviamente. Non c’era giorno che non pensassi a lei. Non c’era istante che il suo viso non balenasse tra i miei pensieri.

Mi immersi nelle notizie, dedicando alla ricerca sui dettagli quanto più del mio tempo libero possibile (che non era poco). In breve tempo giunsi a conoscenza di alcune cose interessanti riguardanti quella tipa.
1) Flux accettava contratti anche da gente dubbia.
A differenza mia che cerco, per quanto possibile, di mantenermi sul lato giusto della legge, Flux non si faceva scrupolo ad accettare anche compiti moralmente discutibili. Questo avrebbe reso la ricerca più difficile, da un certo lato.
2) La ragazza non pareva avere armi preferite, anzi, semrbava quasi non curarsi di esse in quanto le abbandonava spesso e volentieri sulle varie scene del crimine. Cosa logica. Assolutamente. L’acqua non può impugnare alcunché. Quindi ogni sua arma era puramente occasionale e transitoria.
3) Flux parlava correntemente almeno tre lingue.
Inglese, Francese e Hindi. Secondo fonti poco attendibili studiava il Cinese semplificato.
4) Flux aveva una residenza ma nessuno aveva mai capito dove fosse. Quella ragazza era un mistero:
arrivava colpiva e svaniva. Semplicemente.
Se avessi capito dove viveva avrei potuto colpirla nel posto in cui era più vulnerabile. Certa di essere al sicuro…
5) Non era mai stata arrestata.
6) Non aveva mai sbagliato un colpo.
Oh cazzo. Ok, quella era la ragione per cui ci saremmo sicuramente rivisti.
Non solo l’avevo umiliata ma le avevo anche fatto fallire un incarico per la prima volta in assoluto.
Cavolo, non mi sorprendeva per nulla che mi odiasse.
Fissai attonito lo schermo del PC mentre rileggevo le conclusioni tratte una ad una.
-Ok.-, dissi, -Vuoi un’occasione per farmi fuori? Aspetta e vedrai. Aspetta e vedrai.-.

L’occasione giunse un maledetto mese dopo, periodo in cui mi addestrai strenuamente.
Sapevo che un tale Wu Hansen era arrivato in città.
Un cinese che lavorava per conto delle Triadi o roba simile. Chissà, forse veniva da Madripoor…
Comunque, Flux aveva avuto la stessa soffiata e aveva deciso di ucciderlo oppure era stata ingaggiata per farlo. Ergo, io avrei fatto in modo di esserci e chiudere i conti con quella troia.

Il posto era la Chinatown di New York. Un posto che tendevo anche a frequentare, a volte. Principalmente per rispolverare il mio Tai Chi Chuan.
Wu non era ricchissimo, ma doveva essere abbastanza importante. Girava con un’auto nera che pareva chiaramente antiproiettile, oltre a una bella scorta di guardie. Quattro per l’esattezza. Quando lo vidi, stava tornando a casa ed era mezzanotte passata. E poi accadde. Una mitragliata colpì l’auto su un fianco. Nessun danno particolare ma le guardie si diressero verso gli spari. Io invece andai dall’altra parte. Ed ecco Flux. Un rivolo d’acqua che avanzava verso l’auto a velocità preoccupante.
“Bingo!”. Agire ora? Perché no? Balzai giù dalla scala antincendio di un condominio e lanciai la molotov.
La fiancata dell’auto prese fuoco. Flux retrocedette, riprendendo la sua forma di donna.
-Tu!-, ringhiò.
-Io.-, dissi io, calmissimo e sorridente come a un appuntamento galante. Alzai la pistola.
-Vattene, o stavolta giuro che ti ammazzo!-, esclamò lei. Io sorrisi, divertito dal fatto che dopotutto, ora i nostri propositi fossero gli stessi.
Un tizio cercò di uscire dall’auto. I Bodyguard tornavano. Sparai, senza quasi smettere di fissare Flux negli occhi. La testa di Wu Hansen esplose tipo melone. I Bodyguard rimasero fermi un momento, poi fuggirono. Evidentemente non erano molto pagati.
-E ora?-, chiese Flux.
-Ora? Ora ci spostiamo in un punto dove saremo solo noi. Dove potremo regolare i conti una volta per tutte.-. Dissi quelle parole con una calma assoluta.
Ma non potei celare una certa sorpresa quando Flux annuì. Sbattei appena le palpebre.
Le bastò: avanzò, mi tirò un calcio, schivai e sparai il dardo della pistola inoculatrice. Poi sparai con l’altra pistola. Flux crollò in avanti, con un buco di qualche centimetro nella schiena.
-Maledetto bastardo!-, schiumò attraverso un’espressione di sofferenza indicibile.
-Sempre lieto di sentire la verità.-, dissi io.
Lei si avventò su di me. Ferita e disarmata oltre che incapace a trasformarsi era uno scontro impari.
Infatti le prese non poco. Arcata sopraccigliare sinistra tumefatta, pugno al costato, rottura di una rotula.
Io? Per una volta l’unico colpo di Flux che arrivò a bersaglio su di me fu un pugno di scarsa importanza al petto. Trascurabile.
Lei invece era a terra. Avrebbe avuto bisogno di tempo, tempo che non intendevo darle.
Estrassi di nuovo la pistola. Lei spalancò gli occhi, consapevole che non avrebbe potuto evitare il dolore. Strizzò il viso in un espressione di odio e disprezzo che mi colpì.
Puntai alla testa. Non aveva un fattore rigenerante come quello di Wolverine. La distruzione del centro del sistema nervoso avrebbe comportato la morte.
-Sayonara.-, dissi. Premetti il grilletto.
Click! La fottuta pistola si era inceppata. Flux sorrise.
E mi tirò il dardo addosso. Persi un istante a schivarlo.
Mi fu addosso. Lasciai cadere la pistola.
Sguainai gli artigli. A quella distanza erano letali ma a lei non sembrava importare. Schivò un primo attacco e percosse un punto di pressione sotto la mia ascella.
Dolore e il braccio sinistro che divenne un’appendice inutile. Contrattacco a destra. Flux incassò il pugnò tempestandomi di colpi alla ceca. Jab ascendente veticale. La mia testa scattò all’indietro. Fesi l’aria alla ceca davanti a me. Carne dilaniata, caldo, sangue.
Urla. Le mie e le sue.
Un combattimento quasi animale. Quasi.
Perché sapevo bene che quella troia stava solo temporeggiando. Una volta finito l’effetto del siero si sarebbe trasformata e sarebbe fuggita, ancora.
A meno che… Sospirai. Rinfoderai gli artigli e presi a colpirla con colpi cortissimi. Lei mi morse un orecchio.
-Cazzo!-, ringhiai. Tirò indietro portandomene via un bel pezzo. La gratificai con una testa. Crack!
Il setto nasale di Flux cedette. Le avevo rotto il naso.
Sorrisi. E con mia sopresa sorrise anche lei.
La vidi cambiare stato.
-Ah no!-, escalmai. Sparai a una pozza d’olio vicina a lei. S’incendiò. Flux deviò in extremis.
Ah, quindi aveva paura del fuoco, eh?
Bene. Lasciai che fuggisse.
-Al prossimo incontro, Flux.-, dissi. Sorrisi.
Questa volta avevo vinto. Poi sentii qualcosa che, nel furore dello scontro non avevo potuto sentire.
Sirene. Pompieri. E polizia.
Non feci una singola mossa per fuggire. Non ero un santo, sicuro, ma non ero neppure un criminale (almeno non totalmente). Gli sbirri mi arrestarono con mille cautele mentre la folla di curiosi che si era goduta il mio scontro con Flux si disperdeva.

-Alexander Mirror.-, disse l’ufficiale di polizia.
-Già.-, dissi io. Nessun timore.
Non ero nuovo ai guai con la legge. Ma non mi spaventavano, c’era di peggio. Molto di peggio.
-Hai ucciso un uomo, scatenato un combattimento in una via cittadina rischiando di coinvolgere diverse persone. Vandalismo. Omicidio, premeditato credo.
Zuffa. Tentato omicidio (ancora da stabilire)…-, il poliziotto si passò una mano sulla testa quasi completamente glabra, cercando di calmarsi.
-Ce ne sarebbe abbastanza da buttarti dentro per trent’anni o più. Fosse esclusivamente per me, ti pianterei un proiettile in petto e la finiremmo in fretta.-, disse. Io rimasi zitto. Inutile dirgli che, salvo ferite alla testa serie, ogni altro danno fattomi sarebbe guarito.
-Quella tipa… Flux…-, disse lo sbirro.
Era chiaro che voleva chiarimenti.
-&egrave un’assassina, una pistola al soldo. E ho un conto in sospeso con lei.-, dissi.
-Mh.-, fece l’agente senza alcuna particolare convinzione. Io lo fissai.
-Mi ascolti. Io so di non essere un grandissimo esempio di cittadino modello ma stavo cercando di fermarla.-, dissi.
-Dopo aver ucciso Wu Zeitan?-, chiese l’altro, scettico.
-Wu Hansen era ricercato dall’Interpol da due mesi. Viaggiava sotto falso nome. Fate un controllo del DNA.-, ribattei, esortandoli a farlo con un gesto.
-Già fatto. Ed effettivamente é quello di Hansen. Tante grazie, considerando che l’hai ucciso in pubblico, causando danni notevoli e uccidendo anche l’autista.-.
-L’autista?-, chiesi.
-Ying Shiesen, trentacinque anni, incensurata.-, disse il poliziotto, -&egrave morta per arresto cardiaco ma potremmo imputarlo a te.-.
-Potreste. Oppure potrebbe essere stata Flux quando ha sparato sull’auto per attirare le guardie di Hansen dalla parte sbagliata.-, ribattei io.
Il poliziotto picchiò una mano sulla scrivania con rabbia. Io sobbalzai.
-Basta con questa commedia!-, esclamò.
-Già, sono d’accordo.-, dissi io, -Facciamo che mi faccio le mie quarantotto ore di servizio pubblicamente utile e tutto va in pari, ok?-.
Lo sbirro addentò nerovsamente una ciambella coperta di glassa ai pistacchi. Il profumo dolciastro mi fece star male. Era un pessimo abbinamento per me.
-Ti credi furbo, eh?-, chiese protendendosi verso di me. Io lo fissai trattenendo il disgusto quando si rimise a parlare a bocca piena e pezzetti della ciambella mi arrivarono in faccia. “Bleah! Un po’ di decenza!”
-Stavolta farai una settimana di lavori socialmente utili. Sgarra un singolo istante e finisci dentro. Sei fortunato che il giudice abbia deciso per una pena minore in virtù del tuo essere quasi incensurato e del fatto che hai eliminato un pericoloso criminale.-, disse.
Io annuì.

Lavori socialmente utili. In altre parole, spaccare pietre. Non feci altro. Al sole o sotto la pioggia.
Gli altri che erano lì avevano commesso roba ben peggiore di quella per cui ero stato condannato.
Ma la legge é uguale per tutti, anche se a volte, la giustizia non lo é.
Presi a picconare sul minerale in questione e improvvisamente sentì il mio orecchio ricrescermi. Leggermente, lentamente. Un centimetro alla volta. Uno strato alla volta. Cartilagini, carne, pelle
Il lobo del mio orecchio si riformò dopo quasi tutta la settimana. Ma non ci feci caso, come non feci caso a nient’altro, se non a una singola cosa.
Accadde al secondo giorno che ero lì a picconare.
C’era una pozza d’acqua. Minuscola. La guardai. Non aveva piovuto così di recente. Si mosse, come a salutarmi. Come ad avvisarmi. Un guanto di sfida.
Sorrisi. Espirai lasciando cadere tutto tranne quel messaggio, quella velata promessa.
Flux mi teneva d’occhio. E presto ci sarebbe stata la resa dei conti. Fissai l’acqua e sorrisi.
-Alla prossima.-, dissi. Ignorai i rimproveri dei sorveglianti e mi girai a picconare.
La resa dei conti.
Solo quella contava.

Sarei stato pronto. Dopo la fuga, Flux aveva provato emozioni contrastanti.
Per la prima volta, le certezze della giovane avevano subito uno scossone considerevole.
Quel bastardo l’aveva quasi battuta. Ferita e col fattore rigenerante ai minimi, aveva atteso in un punto delle fogne che il suo corpo iniziasse a riprendersi, almeno un po’. Poi, lentamente, aveva preso la strada verso casa.
Ma stavolta aveva un pensiero. Un chiodo fisso.
“Perché quel tipo ha ucciso il mio bersaglio?”.
La frase le rimbombava nell’anima senza pietà.

Inizialmente aveva creduto l’avesse fatto per puro spregio. Più che probabile ma sembrava ancora troppo poco. No. La spiegazione più probabile era che l’avesse fatto solo e unicamente per avere campo libero. Per poterla affrontare senza distrazioni.
Il che era la spiegazione più logica.
Comunque, arrivata a casa, la mente di Neela aveva spostato l’interezza della riflessione su un altro e ben più pressante interrogativo.
“Perché ce l’ha tanto con me?”.
Era semplice. Una domanda dalla risposta quasi ovvia. Ma proprio non riusciva a spiegarsi il fatto che quel tizio si fosse spinto a tanto per fargliela pagare.
Ucciderla non gli sarebbe bastato: l’aveva percossa, ferita e costretta alla fuga, dopo aver constatato il suo punto debole: la paura per il fuoco.
Era sempre stata un suo terrore, sin da quando si era ustionata da piccola…
Ma al di là di ciò, la domanda seria era:
“Perché ce l’ha tanto con me?”.
Nemmeno una lunga doccia poté cancellarle quei dubbi. Andò a dormire. Si svegliò dopo qualche ora.
Non riusciva a dormire. Sognava quel tizio!
Dannazione, le era entrato in testa.

Accese la TV, cercando di capire se quel tizio fosse stato beccato dalla polizia, ne dubitava ma…
E invece sì: quel tizio era stato arrestato.
Poco male. Eppure… Eppure le restava in mente.
Chiamò un suo socio, un informatore di quelli bravi.
Gli chiese di trovare quanto più possibile su quel tipo, dopo averglielo descritto nei minimi particolari.
Poi si dedicò al cibo. Mangiò qualcosa, cercò di ragionare sulla situazione e decise.
Avrebbe atteso notizie. Andò a letto.

Fu svegliata un imprecisato tempo dopo dal trillio del suo cellulare. Rispose.
-Pronto?-, chiese.
-Sono io.-, l’informatore, -Ho quello che volevi.-.
-Parla.-, ordinò lei. Non vedeva l’ora di saperne di più.
-Il vero nome é Alexander Mirror, nonostante usi il soprannome Blade. &egrave un mutante e un freelance, oltre che un ladruncolo di serie Z.-, disse l’informatore.
Lei bevve quelle parole, fece connessioni mentalmente. Tutto quadrava. Ma…
“Cosa diavolo ha a che vedere con me?”.
-Ha lavorato anche per lo S.H.I.E.L.D. durante l’annientamento del Culto di Smedi.-, disse l’informatore. Quella frase cancellò tutto il resto.
Neela aveva lavorato per quel Culto e ora ricordava. Aveva pestato un tizio. L’aveva lasciato a terra credendolo morto, invece… Invece quel tipo che aveva decimato il Culto era lui!
-Pronto? Ci sei ancora?-, chiese l’informatore.
-Sì… Solo… trovami dove abita questo tipo.-, disse lei.
-Detto fatto.-, disse l’informatore.
Lei appese e si sdraiò sul divano.
“Cazzo!”, per un istante si sentì furiosa.
Quel tipo le aveva rovinato non due ma tre lavori, in definitiva. Peggio ancora, ne era uscito vivo. La prima volta per sua distrazione, la successiva per sua scelta e l’ultima a causa della sua abilità.
Non ci sarebbe stata una quinta volta: la quarta sarebbe stata l’ultima mano, da concludere con la morte di uno di loro due, decise.

Al ritmo di una canzone che nemmeno si era data la pena di ascoltare davvero, Flux si decise.
Voleva dargli un avvertimento. Quando seppe dove si trovava, decise di mostrarsi.
In fin dei conti era giusto che sapesse cosa lo aspettava.

Lo vide spaccare rocce in tuta arancione insieme ad altri carcerati. Stando alle sue fonti, aveva una settimana di lavori socialmente utili da scontare.
Era pur vero che un po’ se l’era cercata ma probabilmente aveva pensato che fuggendo le conseguenze sarebbero state peggiori. A suo modo, aveva senso. Attese pazientemente che fosse lui a notarla, a guardarla. A capire. Lui sorrise.
Per la prima volta, Flux avrebbe desiderato sorridere di rimando, anche solo per potergli far capire…
Poi sparì. Aveva ottenuto ciò che voleva.

I lavori successivi furono pochi. Di tutti quelli che le vennero proposti ce ne fu uno solo che lei si degnò di accettare. Per il resto si allenò, strenuamente. Decisa ad essere al meglio della forma fisica per quello scontro finale.
Ogni tanto usciva al bar. Beveva qualcosa. E c’era sempre qualcuno che ci provava. Flux solitamente si concedeva una scopata ma niente più. Nessuna relazione più lunga. Affezionarsi a qualcuno l’avrebbe solo fatta soffrire. Lei lo sapeva bene e aveva scelto.
Il sesso era una cosa, l’amore era un’altra.
Con tutti i suoi amanti, lei era sempre stata perfetta, decisa a darsi al massimo. Ma, coi tempi che correvano e i pregiudizi sui mutanti non aveva mai osato realizzare una sua fantasia. Con nessuno.
Chissà, forse un giorno qualcuno le avrebbe chiesto di scorrergli addosso come acqua di fiume, mutare forma e posizione in modi umanamente inconcepibili per portare l’eros a un livello tanto elevato da far impallidire i migliori scrittori…
Ma sino ad allora, quella sarebbe rimasta una sua fantasia, confinata in un angolo della sua mente.
Sospirò. bevve e uscì.
In attesa dello scontro finale.

Il telefono la distrasse da un’ennesima sessione di esercizi fisici. Lo afferrò.
-Dimmi.-, disse. Sapeva già chi fosse.
-Ho l’indirizzo.-, disse l’informatore.
Flux sorrise. Showtime.
-Oggi dovrebbe finire anche la sua settimana. Ce ne hai messo di tempo.-, disse, non senza reale irritazione.
-Non era esattamente un tipo facile da reperire.-, puntualizzò l’informatore.
Neela sospirò. Ok. Poteva concederglielo. Ed era inutile stare a rimproverare un povero cristo che aveva sempre fatto il suo lavoro.
-Capisco. Dunque?-, chiese lei.
L’informatore le disse l’indirizzo. Lei se lo annotò.
E si preparò a entrare in scena per quell’ultimo atto. Normalmente i secondini e i sorveglianti tengono d’occhio la gente che fa la furba. Ma io, come ormai avrete capito, ho una spiccata propensione alla furbizia e so quando alzare la testa e quand’é meglio evitare di farsi notare…
Ergo, me ne stetti in silenzio, feci il mio dovere (forse anche di più) e pagai il mio debito con la società (anche se ingiusto, sotto più punti di vista) nel tempo previsto.
Tornai a casa. Ero esausto? No. Il mio fattore rigenerante mi preservava abbastanza da simili possibilità ma sicuramente ero desideroso di due cose:
Una sana scopata e una bella bevuta.
Non necessariamente in tale ordine.

Ma prima di dedicarmi a tutto ciò avevo bisogno di mangiare qualcosa. Arrivai al frigo e schiaffai in padella due uova con del burro. Le uova sfrigolarono e presto furono pronte. Vi aggiunsi nel mentre delle patatine e un po’ di bacon. Mangiai con gusto.
Bene, ora potevo tornare a concentrarmi sulle cose importanti, includendo in esse anche Flux.
Flux… mi aveva tenuto d’occhio per un po’. Sicuramente aspettava la rivincita su di me.
Lo scontro finale, quello da cui uno solo di noi sarebbe uscito sulle proprie gambe.
Sarei stato lieto di accontentarla. In realtà non c’era molto che potessi fare per ritrovarla. Avevo finito i soldi e i miei contatti non intendevano esporsi per me più di tanto. Avevano già fatto molto.
Per ora mi toccava attendere, aspettare che fosse lei a fare la prossima mossa.
Socchiusi gli occhi, pensieroso.
Sapeva dove abitavo? Sapeva come mi chiamavo?
Tutte domande a cui non avevo risposta. Non ancora.
Poi, improvvisamente la vidi. Acqua. Sulla porta. In attesa. E tutte le domande smisero di avere una qualunque importanza.
-Ciao Flux.-, dissi balzando in piedi. Lei riassunse la sua splendida forma umana.
Pelle d’ebano, occhi neri e profondi, sguardo deciso. Viso cesellato e sottile, senza grossezze di sorta. Perfetto, come il corpo su cui poggiava. Longilineo e alto, coperto da una tuta iperaderente nera, con un seno di discrete dimensioni e…
“Dannazione, devo concentrarmi!”.
Non che fosse così semplice: era bellissima.
Il prototipo della tipa che avrei voluto farmi.
-Abbiamo un conto in sospeso.-, disse lei.
-Già. Ce l’abbiamo.-, dissi io. Inutile tergiversare.
Lei era lì per quello ed io francamente ero stufo di aspettare ancora. Quella caccia si sarebbe chiusa. Oggi.

-Mi sono chiesta perché, sai? Perché hai continuato a interferire e finalmente l’ho capito.-, la voce di Flux attraversava la distanza tra me e lei. Il mio appartamento in disordine sarebbe stato il teatro dell’ultimo scontro.
-Interferivi perché ti avevo umiliato una volta. Lasciato pesto e sanguinante a terra. Ora siamo pari. E a me non piacciono i pareggi.-, disse lei. Io captai le sue parole. Odori diversi mi giunsero. Le uova, l’odore ferino e sottile della ferocia, l’odore tipico del mio appartamento e dello smog. Un vicino doveva star fumando parecchio o forse era qualcos’altro.
Tutto si appiattiva. Nulla aveva importanza.
Salvo il presente.

-Sto pensando che se sei qui é perché allora ce l’ho fatta.-, dissi, con studiata lentezza. Flux digrignò i denti. Assunse una posizione di guardia.
-Scegli le tue ultime parole con attenzione,-, mi avvisò, -Saranno le ultime che dirai.-.
Sorrisi. Mai stato bravo a scegliere le mie parole.
Soprattuto con chi mi minaccia.
-Sai, ho un debole per quelle che mi minacciano.-.
Ebbi a malapena il tempo di concludere la frase che Flux annullò la distanza tra noi e colpì.
Calciò all’inguine ma non mi trovò: mi ero già spostato. Atemì alla tempia. Lei parò. Evitai la presa. Jab destro. Con soddisfazione lo sentì impattare sul suo zigomo sinistro. La soddisfazione divenne un vento rosso di dolore quando il suo ginocchio destro mi centrò i testicoli. Ringhiai.
Avrei voluto sguainare gli artigli. Ma no. Non subito.
Vincere così non serviva a nulla.
Volevo vincere per i miei meriti di uomo, non per quelli dell’animale che sembravo.
La distrazione mi costò un pugno al petto. Poco o nessun dolore. Il braccio di lei divenne acqua, sfuggendo alla mia presa.
Lei mi tirò un secondo pugno. Stavolta riuscì a metterla in leva. Si liberò liquefacendo il braccio ma non riuscì a evitare il calcio basso alla caviglia.
Le afferrai i capelli, lunghi.
Lei urlò, dolore e rabbia collusi.
-Figlio di puttana!-, esclamò.
-Troia!-, ringhiai io. Pugno in pancia. Dolore. Lasciai la presa. Caddi all’indietro e rirpresi la posizione di guardia. Ero vicino all’angolo cucina. Lanciai il coltello più vicino a me. Come previsto, lei si liquefece.
E mi arrivò addosso. Ma la mia ritirata era stata ragionevole e calcolata: mi aveva portato accanto all’armadietto in cui tenevo le fiale di siero annullante.
Quando Flux si ricompose dietro di me, pronta a spezzarmi l’osso del collo, le piantai una delle fiale in una gamba. Non pago, sferrai una testata all’indietro. Crack! Ancora il suo naso che si rompeva. Un peccato, essendo così bello il suo viso.
Mi librerai dalla presa, afferrai la padella vuota e le tirai un fendente con quella. Bloccò. Me la strappò via.
Mi centrò con un fendente. Stelle, dolore. Ma anche furia. Se avessi sguainato gli artigli…
Sarebbe stato facile… No!
Sarebbe stato troppo facile!
Parai il colpo successivo, entrai nella sua guardia e la tempestai di colpi corti al petto. Conclusi con una spazzata alle caviglie. Flux cadde.
Non persi tempo ma lei ne perse anche meno e mi sgambettò caddi. Incominciammo a pestarci da sdraiati. Lei mi balzò addosso. Mi morse selvaggiamente una mano. Un pugno la costrinse a mollarmi.
-Muori!-, esclamò afferrando un coltello che mi doveva essere caduto. Mi trapassò al petto.
Ecco il polmone destro che fa ciao con la manina…
Ma non mi feci fermare. La trapassai io col coltello. Una e due volte, all’addome. Il genere di ferita che non augurerei a nessuno. Pure per quelli come noi non é il massimo.
Mi rimisi in piedi proprio mentre lei si rialzava. Nessuno di noi fu esattamente aggraziato o fluido nei movimenti.
Ero messo male. Il polmone destro mi stava collassando ed ero una massa unica di dolori.
Ma neppure Flux pareva esattamente in buono stato.
Ferite multiple, respirazione affrettata. Eravamo pronti.
L’ultimo atto dell’ultimo atto.
Ci fissammo negli occhi. Lessi rispetto nei suoi.
E sapevo che ce n’era anche nei miei.
Inspirai nonostante il collasso polmonare.
Espirai e mi sforzai di attaccare. Le piantai il coltello in petto. Flux gemette. Collassò. Sangue. Mio e suo.
Crollammo sul divano e per un istante fui consapevole di quanto quella vicinanza mi eccitasse.
Poi lei parve avere un mancamento. Svellai il coltello.
Piazzai due dita sul collo, cercando il battito cardiaco.
C’era.
Era finita. Avevo vinto.
-Uccidimi, maledetto bastardo! Vai fino in fondo!-, esclamò lei. Mi sfidava. Ancora. Le piantai negli occhi uno sguardo che non credevo possibile avere.
-Io non uccido le donne. Soprattuto non quelle belle come te.-, dissi. Flux lesse tra le righe.
-Piuttosto piantami quella lama in testa.-, disse.
E avrei anche potuto. Trapassando il palato avrei potuto colpire il cervello. Endgame.
Flux sarebbe divenuta storia.
-Non prima di due cose.-, disse. Lei fece per divincolarsi, temendo chissà cosa. La immobilizzai salendole sopra. Avevo un’erezione bestiale ma mi costrinsi a pensare logicamente.
-Uno: tu lo sai per chi lavoravi vero?-, chiesi.
-Il Culto Smedi pagava bene!-, esclamò la giovane.
-Già-, dissi io, -E trafficava in organi umani.-.
Vidi nei suoi occhi lo stupore. Forse un po’ di coscienza là sotto c’era, tutto sommato.
-E due?-, chiese.
Nessuna trepidazione né ansia. Solo una grande rassegnazione. Era pronta a morire. Come me.
Due? Cos’altro potevo… Ah, già!
Fulmineo le bloccai la testa. Fece per divincolarsi.
-Questo.-, sibilai. La baciai. Durò solo un istante.
-Figlio di…-, sibilò lei.
-Senti, non so se lo sai ma io so qualcosa: so che tu non sai. So che quei bastardi sono ancora attivi in Belize. So che sono molto più tosti dell’ultima volta che li ho affrontati e so che mi servirà aiuto per abbatterli una volta per tutte.-, dissi.
-Perché dovrei aiutarti?-, chiese lei, dissimulando la sorpresa. Feci per argomentare ma improvvisamente, svenni. Troppo sangue perso…

Un indeterminato tempo dopo mi ripresi. La prima cosa che vidi fu Flux sopra di me. Vestita. Con il coltello in pugno. Puntato al mio mento.
-Non una mossa o sei morto.-, disse. Ci credevo.
-Perché dovrei aiutarti?-, chiese.
Evidentemente non aveva dimenticato o sottovalutato la mia offerta. Scelsi le mie parole con attenzione.
Per una volta.
-Perché sono la tua migliore possibilità di fare a pezzi quei bastardi e perché lo S.H.I.E.L.D. paga bene chi li aiuta.-, dissi. Vidi il viso di Flux assumere un’espressione pensosa. Attesi.
-Potrei comunque piantarti questo coltello nel cervello e andarmene.-, disse la giovane.
-Se l’avessi voluto veramente l’avresti già fatto.-, dissi.
-Magari volevo godermi la tua espressione mentre morivi.-, sibilò lei. La pressione si accentuò. Epidermidi lacerate, battiti cardiaci in aumento.
Ero a pochi passi dalla fine. Dal nulla.
-O magari sai quello che ho capito io.-, dissi.
Lei inarcò un sopracciglio. Sorrisi.
-Quelli come me e te hanno bisogno di qualcuno. Un rivale, un nemico, ma non uno qualsiasi. Un nemico talmente simile a loro, talmente determinato e deciso da divenire la loro ombra. Una necessità. Abbiamo bisogno di qualcuno che non sia l’amichetto ma il nemico, l’avversario e allo stesso tempo altro.-, dissi.
Flux parve ponderare le mie parole. Per il tempo necessario, quantomeno. La mia mano destra scattò. Artigli in estensione. Trapassarono il braccio della nera come fosse stato burro. Lei urlò. Il coltello cadde. Mano sinistra in presa. Afferrai il coltello. Feci leva su Flux e cademmo sul pavimento. Ansimanti. Dolenti.
Odori. Sangue, sudore, feromoni, i miei e i suoi. Rabbia e dolore.
Ma anche altro. Qualcosa che non avrei mai creduto.
Ci guardammo. Occhi negli occhi. I miei artigli piantati nel suo braccio e la sua mano sinistra che mi stringeva la gola.
Il mio coltello era alla sua gola ma sapevo che lei avrebbe potuto franumarmi la trachea se fosse stata abbastanza forte.
Parità. Lo scontro finiva in pari.
Io lo sapevo e forse anche lei l’aveva capito.
-E ora?-, chiesi. Indecisione. Forse aveva capito che non ci sarebbe stato un vincitore.
Forse non voleva ce ne fosse uno e neppure io.
Silenzio. Infine la sua mano cedette. Io lasciai a terra il coltello. Non ritrassi gli artigli. Non ancora.
-Ora cosa? Abbiamo fatto tutto questo casino per che cosa?-, chiese. Io sorrisi.
-Ne valeva la pena per averti così vicina.-, sussurrai.
Ecco che mi mettevo a fare il galante. Flux mi guardò con rabbia ed esasperazione.
-Sei un idiota.-, disse.
-E tu una grandissima stronza.-, sibilai io. Sguardi, ancora. Odori. Anime e intenti in comunicazione a livello basilare. La baciai. Stavolta non si oppose, anzi, la sua lingua prese a esplorare la mia bocca.
Ci staccammo.
-Puttana.-, dissi. Non annoiato, solo divertito.
-Stronzo.-, rispose lei. Altro bacio. Stavolta le mani, mie e sue si diedero da fare.
Ritrassi gli artigli. Per quel giorno bastava. Lingue in lotta. Le mie mani su di lei, sul suo corpo. Sui suoi seni ancora inguainati dalla tuta e sulle natiche.
Splendida. Se me l’avessero raccontato…
Le sue mani sul mio petto, poi più in basso.
Rotolammo avvinghiati. Lei prese il controllo.
Mi leccò il collo. Il mio sangue misto al suo.
Mi pareva quasi un accoppiamento animale. Diverso da ogni altro che mi fosse mai capitato di vivere.
-Aspetta.-, dissi. Mi tolsi la maglia devastata e i calzoni. Lei si tolse la tuta (una veste a due pezzi che pareva in pelle ma sicuramente era in qualche altro materiale).
Nera e bellissima. Glabra e vogliosa. Mi sarebbe venuta una battuta ma… Evitai. Per ora. Poi le schiaffai di nuovo la lingua in bocca, iniziando intanto ad accarezzare le sue forme.
I seni erano splendidi mi presi il tempo di apprezzarli.
-Laccameli un po’!-, esclamò Flux, deliziata. Eseguii.
Dopo qualche istante sentii le sue carezze dalle parti del mio membro. Poi, senza preavviso, Flux cambiò stato. Divenne acqua. Mi allarmai per un istante, poi la sentii scorrermi addosso, fluire verso il mio membro.
Due secondi dopo riprese forma umana, la sua bocca che prese a suggermi il frenulo in modo tanto improvviso da rischiare di farmi venire. Mi concentrai sulla sua vulva, carezzandola lentamente, scoprendola. L’odore di lei era lieve, profumato ma intenso a suo modo. Fantastico.
-Sei bagnata…-, sussurrai.
-Cos’é? Prendi per il culo?-, chiese lei staccandosi un istante. Le sorrisi.
-Potrei anche starci pensando…-, dissi.
-Preferisco di no, credimi. Preferisco… scorrere secondo la corrente.-, disse lei. Trasognata.
Immaginai che quella di divenire acqua ed esplorare il corpo del partner non fosse una fantasia così realizzabile visto l’atteggiamento della gente verso i mutanti…
Flux riprese a succhiarmelo e io presi a leccarla. Gemiti, miei e suoi. Desiderio. Lei mi voleva e io la volevo. Perfetto oltre ogni possibile immaginazione.
Si liquefece di nuovo e le mie dita, che stavano esplorando quell’intimità bollente e bagnata, si trovarono a sondare il nulla. Poi furono fagocitate dalla bocca della nera.
-mmmh, allora é di questo che so…-, sussurrò divertita. Annuì.
-Il sapore migliore che mi sia mai stato dato di conoscere.-, dissi. Ero serio. Lei sorrise.
Ridivenne acqua e mi scivolò sul corpo. Sospirai.
Era mille volte meglio delle carezze a cui ero abituato e lo sentivo mille volte più intimo. Ogni dettaglio del mio corpo le era svelato. E quella forma, che per certi versi era quanto di più recondito lei celasse, era una forma d’amore che non conosceva paragoni.
Rirpresa una forma umana, accanto a me, Flux mi sorrise. E mi indicò il divano.
Annuii. In quel momento mi sarebbe andato bene anche un tavolo da tortura se avesse significato farmi quell’incantevole creatura.
Mi sdraiai. Lei sorrise.
-Oh, no, caro mio! Ora tocca a me riposare.-, disse.
Non obbiettai. In fin dei conti mi sembrava giusto.
L’avrei posseduta. Di fatto.
Lei spalancò le gambe.
-Allora?-, chiese. Sorrisi.
-Ti trapasso!-, esclamai. Lei sogghignò.
-Sventrami, avanti!-.
E fu qui che mi concessi la frase che volevo dire.
-Sono il migliore in quello che faccio.-, dissi.
-Allora vedi di fare sì che quel che fai sia anche piacevole…-, alluse la nera. Era troppo.
Le affondai dentro, lentamente ma inesorabilmente.
Flux gemette.
-Oh, sìiii…-, mi distesi su di lei per un istante. A godermi il momento sino in fondo.
Poi uscii e rientrai. Ancora e ancora. Sentii le unghie di Flux piantarmisi nella schiena. Dolore. Sangue. Ancora. Sguainai l’artiglio del dito indice sinistro.
Disengiai un taglio sottilissimo e preciso lungo la spalla destra della nera. Gemiti. Dolore e desiderio.
Cribbio, stavamo scopando mentre ci artigliavamo a vicenda? L’improvvisa consapevolezza della cosa mi fece esplodere: le piantai i membro dentro e accelerai il ritmo. Gemiti di entrambi, versi animali. Flux socchiuse gli occhi, come a voler assaporare appieno il momento. Io li tenni aperti, gustando l’immagine di lei sotto di me che gemeva.
Puro trionfo. Le accarezzai un seno ghermendolo improvvisamente. La nera gemette.
Poi improvvisamente lanciò un urlo strozzato. Doveva aver goduto. Sorrisi.
Ora dovevo godere io ma lei mi sorrise.
-Cambio.-, sussurrò. Mi tolsi e mi sdraiai. Lei divenne acqua e ridivenne solida impalandosi sul mio membro.
Cazzo, il solo sentirla così rischiò di farmi venire. E non si poteva certo dire che lei facesse di tutto per impedirlo, anzi.
Le godetti dentro due istanti dopo e ci abbandonammo l’uno sull’altra.

Silenzio. Per un lunghissimo istante. Poi fu Flux a parlare. Lentamente, come se avesse avuto tutto il tempo di questo e altri mondi.
-Ora?-, chiese. io sorrisi. Feroce.
-Ora li andiamo a prendere.-.
Lei sorrise con me e mi baciò. Il suo bacio sapeva di noi. Rimasi ammaliato.
-Il miglior piano che io abbia mai sentito!-. Mentirei se dicessi che sono uno dei buoni, in fondo ricorderete che avevo già chiarito la cosa nella prima parte del mio racconto. Ma purtroppo per me, lo S.H.I.E.LD. non fa le cose a metà. Se lavori per lui una volta o hai una qualunque ragione per essere nuovamente contattato da loro, stai certo che ti contatteranno, quando e dove vorranno.
Ma la cosa può funzionare nei due sensi.

Lisa Huntington, la mia referente nello S.H.I.E.L.D. era una donna tutta d’un pezzo ma, come tutti lì dentro, riteneva che io fossi più che utile ai loro scopi.
Questo significava lasciarmi una certa libertà d’azione e di movimento e sono certo che ciò si é tradotto nell’impianto di qualche microchip sottocutaneo.
Può essere che mi sbagli ma conosco questi tizi.
Con gente come Magneto e i suoi in giro a far casini non mi sorprenderebbe se volessero una certa dose di sicurezza e controllo…
Ovviamente il tutto senza che io me ne accorgessi.
Lisa Huntington però era anche una persona capace di ragionare con la sua testa e sapeva che, per potermi mantenere obbediente e docile (come probabilmente mi volevano) non bastavano i soldi e le minacce. I cani vanno lisciati per il pelo…
Così mi diede il suo numero di telefono, fidandosi di me perché non lo usassi per scopi futili.
Il che fu un bene perché, dopo l’amplesso tra me e Flux, l’espressione di un proposito come l’annientamento definitivo del Culto Smedi che doveva aver riaperto i battenti in Belize richiedeva mezzi e risorse che né io né quella bella nera possedevamo.
Eravamo bravi, ma non così bravi…
Così feci una chiamata dopo aver rimesso in ordine ed esserci ripresi da… tutto quanto.

-Lisa Huntington, chi parla?-, chiese lei.
-Il tuo killer con gli artigli preferito!-, esclamai io con un sorriso a Flux. La giovane sorrise pur roteando gli occhi. Dato che la chiamata era in vivavoce, forse fu la risposta a provocarle una reazione divertita.
-Wolverine?-, chiese Lisa. Scherzo o no, mi sentii leggermente offeso. Sospirai.
-Blade. Lisa, dobbiamo parlare, ho qui Flux e probabilmente ricorderai quei simpaticoni del Culto di Smedi con cui mi sono scontrato…-, m’interruppe.
-Flux?! Quella Flux?! La cercavamo da parecchio.-, la voce della Huntington aveva un tono incredulo.
-Già. Potete smettere di cercarla.-, dissi io.
-L’hai uccisa, vero?-, chiese Lisa.
-No.-, risposi io, -Ci sarà più utile da viva.-.
Dopo un istante, la voce della donna dello S.H.I.E.L.D. si fece risentire, stavolta drammaticamente piatta.
-Venite entrambi a questo indirizzo.-, disse.
Click! Fine della chiamata.
Flux mi fissò con il genere di sguardo da “Non ci pensare”. Mi sentii già nervoso. La nostra alleanza era appena iniziata e già scricchiolava.
-Sono sicuro che non ti spareranno appena saremo scesi dall’auto.-, dissi, rassicurante.

-Mani sulla testa e niente mosse brusche o apriremo il fuoco!-, esclamò un agente dello S.H.I.E.L.D. Insieme ad altri venti circa, circondava il nostro mezzo.
Tutti pronti a sparare. E noi eravamo scesi dall’auto.
-Visto?-, chiesi sorridendo. Non si poteva dire che avessi esagerato: non ci avevano ancora sparato.
-Non abbiamo intenzioni ostili.-, disse Flux alla volta degli agenti. Loro non risposero. Fu il tizio che aveva parlato a degnarsi di risponderle.
-Ceerto! Dopo il casino che hai fatto in New Mexico…-, disse. Avanzò verso la nera con un paio di manette.
Roba sosfisticata che probabilmente le avrebbe impedito di cambiare stato e fuggire. Lei si ritrasse per un istante per poi vincere la sua ritrosia e porgere i polsi. Ammanettata, fu scortata all’interno insieeme a me. Non sapevo cosa Flux avesse fatto in New Mexico però immaginavo avesse comportato grandi sbattimenti per lo S.H.I.E.L.D. visti gli sguardi decisamente ostili di certi membri del personale.
Arrivati all’ufficio della Hutnington capii che sarebbe stata dura, forse più di quanto credevo.

-Blade, di tutte le idiozie che hai fatto e detto da quando ti conosco…-, disse Lisa.
Io ero rimasto in piedi, Flux si era seduta e la Huntington camminava per l’ufficio tipo bestia in gabbia. La tensione era palpabile.
-Flux é una criminale! &egrave ricercata per almeno tre omicidi!-, esclamò Lisa, -E tu proponi di allearti con lei?!-. Io sospirai.
-Conosco il Culto Smedi meglio di chiunque altro.-, disse Flux, -Non siete voi a offrirmi a un’alleanza. Sono io che vi servo.-. Lisa le piantò addosso uno sguardo di fuoco. Conflitto di volontà. Mi sentii quasi di troppo. Durò qualche istante poi la Huntington parlò.
-Potremmo sempre estorcerti la verità…-, sibilò.
-Molto americano da parte tua.-, disse Flux.
-Basta!-, esclamai io. Entrambe si voltarono verso di me, -Quel Culto é ancora in giro e va fermato. Flux può aiutarci a farlo.-. Lisa mi guardò, decisamente stupita dalla veemenza della mia reazione.
-E immagino che una volta finita non si consegnerà per rispondere dei suoi crimini.-, disse.
-Immagino che aiutarvi a spazzare via un’organizzazione che contrabbanda in organi non sia un brutto modo per ripagare il mio debito verso la società-, disse Flux, battendomi sul tempo.
Lisa sospirò. Si massaggiò la radice del naso scostando una ciocca di capelli castano-ramati dagli occhi grigio-perlacei.
-Si può fare?-, chiesi io, incalzante. Lei annuì.
Sorrisi.

Fummo riaccompagnati sotto scorta verso un elicottero dello S.H.I.E.L.D. Era il genere di mezzo di ultima generazione ma la cosa non mi colpiva più di tanto, quell’organizzazione era all’avanguardia.
A colpirmi era il silenzio quasi catatonico di Flux.
-Tutto bene?-, chiesi. Lei annuì.
Salimmo sul velivolo. Poco tempo dopo decollammo.

Il Belize non aveva granché da ridire sul nostro arrivo, merito della magia diplomatica dello S.H.I.E.L.D.
Anche l’hotel era una buona cosa. Un cinque stelle. Roba più lussuosa di quanto avessi mai potuto aspettarmi, era evidente però che Lisa ci teneva d’occhio. Avrei potuto scommettere un braccio sul fatto che quelle stanze fossero piene di telecamere e cimici. Flux probabilmente lo sapeva quanto me.
-Beh, é andata bene.-, dissi. Era sera inoltrata.
-Flux?-, la nera taceva. Era quasi proeccupante.
-Ehi…-, le sfiorai appena una spalla. Lei si voltò e mi abbracciò. Seppellì il suo viso nella mia spalla.
-Ascolta bene: io non credo che lo S.H.I.E.L.D. mi lascerà andare dopo questo colpo.-, sussurrò.
-Quindi dovrai aiutarmi, lo farai?-, chiese.
-Si può fare.-, dissi io. Le misi, provocatoriamente, le mani sul sedere. Se ci stavano guardando meglio fargli credere che fossimo amanti (come in effetti era). Inoltre un pensiero mi restava in testa.
“Voglio farmela.”. Accentuai il tocco.
Lei sospirò appena.
-Quindi, ora ti scopo fino a farti urlare poi dormiremo quel poco che serve e domani, c’imbarcheremo in questa missione, perché questa é la nostra vita…-, mi staccai da lei e la baciai. Sentii quasi male quando lei mi morse il labbro inferiore.
-Perché questo é quello che facciamo e ormai é tardi per cambiarlo.-, sibilai. Poi le parole smisero di importare. Ci avvinghiammo tipo piovre nel bel mezzo della stanza. Che Lisa e lo S.H.I.E.L.D. guardassero pure, se volevano. Poco importava!
Trovai per miracolo il modo di svestire Flux. Quella donna era incredibile. Lei mi aveva già quasi interamente spogliato. La sua tuta cadde tipo la pelle vecchia di un serpente. Whoa, era sempre bellissimo ed eccitante vederla nuda. La accarezzai, lentamente.
Scesi con le mani sino al pube solo per tornare su.
Ancora e ancora. E Flux si lasciò fare.
La giovane mi accarezzò a sua volta fino alla radice del membro, peraltro assolutamente cooperativo!
-Vogliamo portare questo gioco a un nuovo livello?-, chiese. Io sorrisi, ferale.
-Volentieri!-, esclamai. La baciai e lei si avvighiò a me.
Praticamente la presi lì, in piedi, come se avessimo potuto morire in pochi istanti. Lei sorrise. Gemiti e versi animali da ambedue divennero la sua colonna sonora. Le strinsi il seno con una mano. Lei mugulò.
-Godi!-, esclamai. Volevo sentirla godere come quando l’avevamo fatto nel mio appartamento.
Non fui deluso: la nera gemette e qualche istante dopo mi riversai dentro di lei.
Rimanemmo immobili per un lunghissimo istante.
Poi ci trascinammo a letto.

Mentirei se dicessi che si concluse con quel singolo amplesso. Mezz’ora dopo io ero di nuovo duro e lei pareva altrettanto decisa a riprendere.
Stesi sul letto a guardarci, sorrisi.
-Vieni qui…-, le sussurrai. Lei divenne acqua e mi salì sopra.Sicuramente ci godeva a cambiare stato in quei momenti. Ci baciammo poi la sentì impalarsi su di me.
Unghie, le sue, sul mio petto, come a volermi segnare a vita. Andava bene. Anche io le avrei lasciato il mio marchio. In più di un modo.
La lasciai imporre il ritmo, stringendole i seni, lasciai che coltivasse l’illusione di avermi domato.
Poi ribaltai la posizione. Lei sfuggì divenendo acqua e si rimaterializzò accanto al letto.
-Oh, se pensi di potermi prendere così almeno lasciami scegliere la posizione!-, esclamò. Io annuì.
Lei si mise a pecorina. E fu lì che persi tutti i freni.
Le entrai dentro martellandola, annullandomi in Flux. La nera gemette. Doveva starle piacendo a giudicare da come afferrava le coltri. In ogni caso a me piaceva.
-Godimi dentro, bastardo!-, esclamò lei.
-Come vuoi, puttana!-, esclamai io. Nessun’offesa, solo frasi spinte per andare oltre i limiti imposti dai corpi. Per unire ciò che non potrà mai essere unito.
Perché sapevamo entrambi che per tutto ciò non c’era futuro. Lei se ne sarebbe andata, io sarei tornato alla mia vita. Tutto bene. Flux gemette quando le afferrai i capelli. Li strinsi in pugno. Le affondai dentro di nuovo.
-Al galoppo…-, sussurrai. Ebbi il tempo di sguainare un artiglio e graffiarle appena la schiena, marchiandola mia come lei aveva fatto con me.
Poi esplosi dentro la nera. Un orgasmo subitaneo e viscerale a cui fece eco quello di lei.
Perfetto. Crollammo sul letto.
Se quelli dello S.H.I.E.L.D avevano cimici e telecamere, sicuramente avevano visto abbastanza.
Almeno così amavo pensare. Mi addormentai accanto alla nera.

L’indomani un elicottero di ultima generazione dello S.H.I.E.L.D. ci portò verso il punto preciso: un altopiano dei Monti Maya, nelle vicinanze del punto in cui, secondo le fonti dello S.H.I.E.L.D. si trovava la sede del Culto di Smedi.
Eravamo pronti: saremmo entrati là dentro e avremmo fatto a pezzetti quell’organizzazione malvagia.
Poi? Non lo sapevo. Ma non mi facevo illusioni.
La mia vita era quella che era e, come avevo detto a Flux, era tardi per cambiarla.
Ma non era tardi per rivalutarla.
-A che pensi?-, chiese la nera.
-Nulla di particolare.-, dissi io.
Poi feci il vuoto nella mente quando l’elicottero arrivò e dovemmo scendere.
Dubbi, paure e domande divennero bidimensionali e sparirono oltre l’orizzonte degli eventi. Per me come per lei ora restava solo una cosa. Un obiettivo.
Completare la missione. -Non mi piace.-, dissi. Flux annuì. Eravamo a duemilacinquecento metri sul livello del mare, nascosti dietro ad alcune rocce, a osservare quel complesso che sapevamo essere il bersaglio.
-Ripetimi perché dobbiamo esserci noi qui e non qualche missile teleguidato con testata termobarica.-, sibilò lei.
Non le davo torto: potendo lo S.H.I.E.LD. avrebbe applicato una simile soluzione, forse lo aveva già fatto.
Certamente, potendo, avrebbe sbattuto Flux in gattabuia ma in quel caso, le cose erano diverse.
Il Culto di Smedi aveva rapito bambini. Molti. Di più nazioni. Almeno duecento i casi certi. Molti di pi’ quelli totali. Far saltare tutto con un missile non era un’opzione.
-Lo sai.-, risposi. Per una volta ero serio. E non perché non sapevo come si sarebbe conclusa quella missione o perché al termine di essa avrei dovuto decidere cosa fare con Flux.
No. Ero serio perché sentivo, fiutavo una trappola.
-Qualcosa non quadra.-, dissi.
-Già. &egrave troppo poco sorvegliato.-, disse la nera.
Fortunatamente lo S.H.I.E.L.D. non ci aveva mandato allo sbaraglio: ci avevano fornito di equipaggiamenti di prima categoria, tra i quali degli ottimi binocoli per la ricognizione. Osservai la struttura. L’entrata era grossa. Quanto bastava per farci passare un elicottero, grossomodo.
“Ovvio. Dall’ultima volta avranno anche imparato qualcosa.”, sinceramente speravo non lo avessero fatto ma non ero così folle da illudermi.
-C’é un’entrata sul retro.-, dissi. Effettivamente era una porta più piccola. Ma guardata. Ed ero quasi certo che ci fossero telecamere di qualche tipo.
-Telecamere.-, disse Flux. Già. Ora le vedevo.
Non era una fortezza ma una volta iniziato l’assalto avremmo dovuto essre veloci e non fare errori.
O i capi del Culto se la sarebbero battuta, di nuovo.
C’era un’altra possibilità ma era… labile, rischiosissima. E se fosse fallita non ci sarebbero stati rinforzi di sorta.
Mi voltai e, con una calma quasi eccessiva, le spiegai il piano. Come prevedibile, lei scosse il capo ma, alla fine, annuì. Era l’unico modo.
Suggellammo l’accordo con un bacio che cercai di non vedere come l’ultimo che avrei mai potuto dare o ricevere. Poi la nera si liquefece.
Espirai. Presi il fucile. Mitraglietta compatta con un caricatore di ben quaranta colpi. Perfetta, o quasi.
Mi avvicinai in modo stealth all’ingresso e sparai due colpi silenziati alla telecamera. Come previsto, uscirono due tizi. Guardiani pronti, sentinelle abili. Imbracciarono le armi e spararono.
Impatti al petto. Il giubbotto antiproiettili evitò le ferite. Sparai abbattendoli. Avanzai. Un passo alla volta, un respiro alla volta. Mi preparai. Sarebbe stato breve.
Gli allarmi presero a suonare.
Perfetto.
Sperai che Flux fosse pronta ma lo era quasi sicuramente. Entrai. Il corridoio principale era arredato di arazzi dalle scritte antiche e indecifrabili.
Sparai a un nemico e scagliai una granata verso una stanza. Urla. Avanzai. Poche o nessuna copertura. Ma andava bene. Talmente tanto che quando mi spararono alle ginocchia quasi neanche me ne accorsi. Caddi di faccia come l’ultimo degli idioti.
-Marcisci all’inferno, bastardo!-, esclamò una bionda.
-Rita, aspetta. Forse non é solo. Deve dirci quello che sà.-, disse il tizio accanto a lei. Aveva braccia flaccide, come tentacolari. Un mutante, come me.
-Sogna.-, dissi io. Una lama fu sguainata e due secondi dopo mi trovai bloccato a terra, una mano stesa davanti a me.
-Allora? Che dito vuoi perdere per primo?-, chiesero.
-Il medio mi serve per mandarvi affanculo!-, esclamai.
-Allora partiremo da quello.-, ribatté la bionda. Calò il coltello. Urlai.
Qualcuno aveva detto che il dolore é bianco, nello spettro dei colori. In quel momento, per me era rosso.
Svenni, o meglio, finsi di svenire.
“Tempo. Devo prendere tempo.”, pensai. Ovviamente mentre tutti erano concentrati sull’estorcere informazioni a Blade, assicurare il perimetro, cercare altri nemici e verificare che nulla fosse stato sabotato, nessuno si curò minimamente di una minuscola pozza d’acqua. Qualcuno imprecò alla volta del tizio che puliva, altri furono più generici ma nulla di più.
Flux sorrise tra sé e sé pensando che, come sempre, fosse proprio quell’estrema noncuranza, unita al basso livello di minaccia che la sua forma attuale le concedeva che le permetteva simili arditezze.
Si mosse lungo il corridoio, largo abbastanza da permettere il passaggio di sei uomini affiancati.
Arazzi a tema religioso, gente avvolta in vesti con mitra alla cintura o alla tracolla. La versione moderna di qualche tipo di monaci guerrieri che doveva affondare le radici in qualche oscuro passato.
In ogni altro istante, Neela non sarebbe stata dispiaciuta di scoprire un po’ di più. Sapeva che il Culto aveva qualche legame con la Santeria (una forma di religione animistica caraibica) ma ciò che sapeva non le aveva mai dato modo di comprendere a fondo gli scopi di quei bastardi.
In quel momento, tuttavia, le premeva trovare i bambini, liberare blade e assicurare il Culto alla giustizia, frase che sentiva davvero poco sua.

Non si faceva illusioni: lo S.H.I.E.L.D. non era di manica larga e sicuramente le avrebbero dato noie.
Doveva sparire, una volta finita la missione.
Andarsene, scomparire, lasciando Blade a prendersi il merito. Poco male. Per una volta avrebbe agito pensando al suo Karma, se poi ce n’era uno.
Che poi Blade fosse stato un buon compagno e un eccezionale amante… quello era un altro discorso.

Raggiunse quella che pareva una camerata. Niente guardie. Riprese la sua forma. Trovò una divisa.
Marrone, come un saio da frati ma con uno stemma bizzarro sul petto. La prese e la indossò, alzando il cappuccio sul viso. Poi qualcuno entrò.
-Ciao. Non ti ho mai visto e penso che quella sia la divisa di un mio amico. Ti spiacerebbe spiegarmi perché ce l’hai addosso?-, chiese una voce. Neela sentì la lama di un coltello sul collo.
-Sono nuova…-, sussurrò.
-Bugia. I nuovi indossano le tonache gialle.-, disse il tizio. Il coltello si avvicinò ancora di più, intaccando l’epidermide. Flux sospirò. Cambiò forma e, repentinamente, riprese la sua. Colpì l’uomo con un calcio ai testicoli e un pugno alla gola. Crack!
Morto. Beh, uno in meno.
Imprecando senza parlare, la nera trascinò il cadavere a letto e lo coricò su una delle brande.
Poi uscì, avvolta nella tonaca marrone.
Avanzò verso un’altra stanza. La mensa. C’era una decina di tizi in marrone e alcuni in giallo seduti.
Mangiavano senza parlare. Lei li superò, decisa. Arrivò a una porta oltre la mensa. Altro corridoio. Prese la prima porta. Lavanderia. Due tizi in giallo si misero sull’attenti, trepidanti e pronti a obbedire.
-Continuate!-, esclamò lei in inglese. I due annuirono e ripresero il lavoro senza fiatare. Lei uscì.
Grazie a dio erano novizi e non Marroni sennò…
Porta successiva. La aprì cautamente.
E li vide. Bambini. Di diverse età ed etine. Tutti magri e impauriti. Lei gli sorrise.
-Sei qui per portarci in paradiso?-, chiese uno di loro.
Flux non voleva sapere cosa volesse dire, anche perché le pareva palese. Oppure nascondeva chissà quali abissi di disperazione e morte…
-Sono qui per riportarvi a casa. Ma dovete stare in silenzio e fare come vi dico.-, disse. Tutti annuirono.
“Quanta fatica per esser buona…”, pensò.
Per lei un missile sarebbe stata una buona opzione ma non era così priva di coscienza. Sapeva che quei bambini non meritavano la morte.
Peccato che raramente la gente otteneva ciò che meritava…
Estrasse un comunicatore dello S.H.I.E.L.D con l’ausilio di un coltello da cucina per la carne preso poco prima. Se l’era fatto impiantare sottopelle. Piccolo e compatto.
Poteva chiamare una sola volta. Poi assolveva la sua seconda funzione: fare da radiofaro.
-S.H.I.E.L.D. qui Flux. Ho trovato i bambini. Segnalo la posizione.-, disse la nera. Risposta affermativa. Lei chiuse la comunicazione e affidò il trasmettitore al ragazzino che guidava il gruppo.
-Tienilo al sicuro e con te. Arriveranno i soccorsi.-, promise. Lei ora aveva la sua missione.

Quando aveva lavorato per il Culto, sapeva che non era stata l’unica mutante a venire assoldata da quei pazzoidi. All’epoca la cosa non aveva rilevanza.
Ma ora… l’idea che dei mutanti combattessero contro di lei non era piacevole. Probabilmente era gente del loro livello, o almeno così sperava.
In ogni caso, sarebbe stato meglio verificare dove fossero e toglierli di mezzo in fretta.
Il primo lo trovò subito. Un tizio con un occhio bizzarro, come deformato, venato di verde e rosso, i capelli rasati a zero e un paio di piercing sul viso.
Lo conosceva.
Era Anton, mutante serbo che si era reinventato come mercenario. Quell’occhio peculiare gli serviva a vedere attraverso le pareti. Un nemico.
Ma Anton aveva una debolezza che Flux conosceva.
Era solo. Molto. La giovane arricciò le labbra in un sorriso. Sarebbe stato facile.
-Anton.-, disse a mo’ di saluto.
-Flux? Ti hanno assoldata i capi?-, chiese.
Anton non era molto sveglio ma c’era da dire che poteva reggere e il fatto che fosse stato lui a proporre l’ipotesi la rendeva più facile da suggerire. Sorrise.
-Sì. Pagano bene, eh?-, chiese.
-Già. Ero stanco di rischiare la pelle per quattro soldi.-, disse Anton. La guardava con un desiderio talmente evidente da essere quasi comico.
Lei sorrise di nuovo.
-Qui non succederà nulla… che ne dici se troviamo un angolino e… pratichiamo qualche forma estrema di diversivo?-, chiese. Anton crollò subito.
Ovviamente. Uno con quella faccia non rimorchiava sicuramente ed era chiaro che Neela fosse nella lista dei suoi sogni impossibili… Beh, ora quel sogno sarebbe divenuto magicamente possibile.
Per qualche istante.
Per quando arrivarono a uno stanzino che doveva servire da latrina, Anton aveva abbandonato ogni cautela e palpeggiava Flux senza nessun ritegno.
In altri contesti, la nera non avrebbe disdegnato una sveltina ma ogni istante che perdeva aumentava il rischio di essere scoperta.
La fortuna era che Anton non aveva un fattore rigenerante. Era un mutante ma le ferite letali lo uccidevano lo stesso.
Flux lo abbracciò mentre lui imprecava cercando di toglierle la tuta. Beatamente ignaro.
Il coltello da cucina trapassò Anton al petto. L’uomo rantolò, la guardò con rabbia e dolore. Lei lo guardò.
-Ci sono cose che non si possono tollerare, Anton.-, sussurrò. Lui fece per dire qualcosa. Lei gli tappò la bocca con un bacio. E pochi istanti dopo, Anton era morto. Flux lasciò il corpo (e il coltello) nella latrina.
Poco male se l’avessero trovato, era uno di meno.
Il Culto però aveva anche un altro mutante dalla sua: il tizio con le braccia tentacolari che aveva visto quando avevano catturato Blade.
Poco male, da quel punto di vista erano pari, e ora…
“Telecamere e ingressi”, pensò. Si diresse oltre.
Aprì una porta.
-Ehi!-, esclamò un tizio in camice bianco e sporco di sangue, -Questa é un’area riservata!-.
-Scusa, colpa mia.-, disse Flux. Riuscì a uscire. Si appoggiò alla porta, sconvolta.
Quel dottore, quel bastardo stava espiantando gli organi di qualcuno. Bambino o no…
La nera dominò il desiderio di rientrare e piantargli un bisturi in petto per poi sezionarlo.
“Calma, Flux. Calma!”, s’impose. Tornò sul pezzo.
“Telecamere.”.
La sala per le telecamere doveva essere vicina al controllo prinicpale, o alla sala da cui il Culto dirigeva la sua attività. Flux ci arrivò dopo qualche minuto.
Studiò diligentemente i nemici. Calmi, ora.
Inconsapevoli della sua presenza. Blade evidentemente aveva tenuto duro, proprio come previsto. Un ottimo risultato.
Trovò l’armeria. Era aperta! Che idioti, quei tizi evidentemente credevano nella libertà di essere armati. Peccato che così le fornivano proprio ciò di cui aveva bisogno. Ossia una pistola silenziata.
La nascose tra le pieghe dell’abito e uscì.
Sala telecamere. Trovata. Attese che altri due tizi passassero a capo chino, salmodiando qualche inno.
Ed entrò. Il tizio in marrone fece per reagire e si beccò un proiettile in testa. Via le telecamere.
Le uscite… Da lì non poteva gestirle.
Sospirò. Non si poteva avere tutto.
Ricapitolò. Bambini trovati e segnalati. Mutanti 1/2 uccisi. Telecamere spente. Cercò qualche istante infine lo vide. Trovò Blade. Giaceva in una cella. Poco lontano da lei. Guardato da due guardie.
Una tizia bionda pareva decisa a infliggere un’ulteriore dose di dolore al giovane. Calcolò il tragitto.
Pochi minuti. Una fortuna che quella struttura apparisse enorme ma fosse minuscola. Perfetto.
Prese la pistola e uscì. Quelli che s’immaginano che avere un fattore rigenerante esuli dal provare dolore si sbagliano. Ma la fortuna (mia e di molti altri mutanti) é che vivendo a contatto con forme di dolore irripetibili alla vita dei più, lentamente molti di noi si erano abituati al dolore. Al punto tale che un dito mozzato o un osso rotto non erano chissà cosa.
Nondimeno, il dolore restava dolore e faceva male.
Un male cane.
Quindi, quando urlai mentre il coltello si faceva strada fino all’osso del mio medio destro, non stavo fingendo.
Finsi di svenire, quello sì. Fui così convincente che la bionda mi elargì un ceffone. Mi svegliai in una cella.
Piccola e buia. Lei e un tizio che mi guardavano. Dolore e rabbia misti in un unica emozione. Testosterone nell’aria.
Quello della bionda e del suo amico..
-Fai divertire anche me, Rita!-, esclamò un tizio.
-Chiudi il becco, Bart.-, lo gelò lei. Calma. Troppo.
I torturatori troppo calmi sono i peggiori: sanno quello che stanno facendo e sanno come ottnere quel che vogliono. Sono sicuri di sé. E ne hanno ben donde.
-Già.-, sussurrai, -Chiudi il becco, pompinaro.-.
Il tizio, Bart, era un biondo dagli occhi verdi che divennero fessure. Sorrisi.
-Sai, Bart vorrebbe davvero farti male…-, esordì Rita.
-Oh, sappi che i rapporti gay non mi piacciono affatto. Spiacende di deluderlo.-, dissi. Calcio nelle reni. Dolore. Una fitta. Strinsi i denti.
-E io gli lascerei pure mano libera ma so cosa farebbe. Ti ucciderebbe prima del dovuto. Perderebbe di vista l’obbiettivo. E questo non deve accadere.-, continuò Rita, impassibile.
-Oh, fortuna che ci sei tu a tenermelo duro, tesoro.-, dissi. Il ceffone numero due mi smosse un dente.
Bene. Stava perdendo il controllo.
-Ti piacciono i giochetti forti, eh?-, chiesi. Lei sibilò qualcosa. Io sorrisi.
-Su, niente di cui vergognarsi…-, dissi.
Lei sorrise ed estrasse qualcosa. E mi mostrò qualcosa. Elettrodi.
-Il Culto di Smedi crede nell’importanza del dolore come mezzo di espiazione. Se confessi, ti verrà risparmiato. Un colpo e via. Chirurgico e indolore. Ma se continui a rifiutarti di parlare…-, disse lei.
Lasciò che fosse il silenzio a parlare.
-… Ti arrostiremo i testicoli a colpi di scariche elettriche. Diventerai un albero di natale.-, disse Bart.
Incontenibile e stupido. Sfortunatamente non comandava lui ma quella Rita che era fredda come un ghiacciolo in culo.
-Che immagine suggestiva…-, dissi. Bart passò dal rosa al rosso peperone, arrabbiato come non mai.
“Avanti! Fai un errore! Uno solo!”, pensai.
Niente. Lo stronzo uscì.
-Allora, Blade? Il tuo nome già lo sappiamo. Come sappiamo che lavori per lo S.H.I.E.L.D. Sappiamo anche che non sei da solo. Nessuno assalta una base a viso aperto da solo, no?-, chiese Rita.
-Puoi ancora decidere di parlare. Io lo farei.-, disse.
-Vai a farti fottere da un bufalo afghano!-, esclamai.
Niente. Pura assenza di emozioni.
-Bene.-, disse lei. Lasciò da parte gli elettrodi.
-Volevo risparmiartelo, ma penso che per ora userò qualcosa di più personale dell’elettricità.-, disse.
Si avvicinò. Dio, era inquietante.
-Se vuoi succhiarmelo hai decisamente sbagliato approccio.-, dissi. Lei sorrise. Poi mi afferrò le palle in una stretta d’acciaio. Dovendo scegliere tra quello e un ustione di terzo grado, chiunque sarebbe stato ideciso. Urlai.
E a quel punto il mio udito captò qualcosa che cadeva. Un’arma? Ma non nella cella.
Allora sorrisi. E Rita mi guardò male. Sorpresa.
Poi si voltò, lasciandomi di scatto. E io sorrisi.
Gli artigli uscirono da soli. Tranciarono le corde che mi tenevano e, quando la bionda si voltò la trapassarono ad altezza petto. Lei emise un verso mortifero sorpreso mentre la guardavo cadere a terra.
-Sfogato?-, chiese Flux, canzonatoria e con ai piedi due cadaveri. Mi porse una pistola silenziata.
-Neanche un po’!-, esclamai io.
-Lo spero. Ne abbiamo un sacco da far fuori.-, disse lei. E a quel punto gli allarmi presero a suonare.
-Devono aver trovato i corpi.-, disse la nera.
-Già.-, dissi io alzandomi. Strinsi l’arma nella sinistra.
La mia mira ne avrebbe risentito ma poco male.
-Tempo di arrivo alla cavalleria?-, chiesi.
-Qualche minuto.-, disse Flux. Uscimmo dalla cella.
Sparai tre colpi, due dei quali cancellarono un tizio in toga marrone. Altri due da Flux abbatterono un novizio che segnalava urlando la nostra presenza.
Poi sentimmo qualcosa, uno scoppio lontano.
Le truppe dello S.H.I.E.L.D. erano arrivate.
Neanche troppo tardi, ad essere onesto. Scambiai un’occhiata con Flux.
-Questo posto ha un Hangar?-, chiesi.
-Sì. Sicuramente i capi della setta stanno preparandosi a sbaraccare… Come l’ultima volta.-.
-Già, a meno che non glielo impediamo.-, dissi.

Lisa Huntington sparò. Abbatté un tizio in toga gialla.
-Rapporto!-, esclamò. Il comandante dell’altra squadra confermò l’assenza di minacce.
Bene. Quella era fatta. Cambiò caricatore.
Non era una da scrivania, sebbene sicuramente apparisse tale. L’ultimo suo impiego sul campo era stato anni fa ma andava bene. Era entrata nello S.H.I.E.L.D. perché credeva fosse la cosa giusta da fare e avrebbe continuato a farla.
Ordinò ai suoi di scortare al sicuro i bambini.
Un medico dal camice insanguinato implorò pietà.
Lisa lo freddò con un colpo solo. Sapeva chi era.
Hermano Gutierrez. Il viscido bastardo che espiantava gli organi, a volte da gente ancora viva. Un carnefice.
Meritava quella fine. Come tutti gli altri.
-Signora! I capi non sono qui!-, fece rapporto il caposquadra. Lisa annuì.
Immaginava dove fossero, ma non avrebbe mai potuto raggiungerli in tempo.
Ora tocava a Blade.

Il devastante suono del proiettile in uscita dalla bocca da fuoco si fuse alla cacofonia di spari, urla, gemiti e imprecazioni. Il tizio in toga nera cadde all’indietro. Non aveva implorato pietà insieme ai suoi.
Guardie esaltate, fanatici sacrificabili.
Flux digitò un codice d’apertura. La porta dell’hangar non recepì. Imprecò.
-Scansati!-, esclamai. Sistemai l’esplosivo da irruzione sulla porta. Era poco ma sarebbe dovuto bastare.
Lo feci saltare. L’esplosione proiettò la porta all’indietro. Una raffica rischiò di falciarci.
Flux buttò dentro una granata sottratta al corpo di uno dei Marroni. Esplosione e urla.
Entrammo. Un tizio dalle braccia tentacolari ci guardò.
E dietro di lui un tizio calvo. Il Vicario di Smedi, il capo di quella confraternita di folli.
-Ancora tu?-, chiese.
-Sono un habitué.-, dissi. Il tizio sparò due colpi. Impatti alla spalla sinistra.
-Uccidilo!-, ordinò il Vicario al mutante.
Quello si scagliò contro di me. Con la coda dell’occhio vidi Flux balzare verso l’elicottero in partenza.
Poi dovetti parare un attacco. Sguainai gli artigli e tranciai il braccio di quel tizio. L’altro mi si avvolse attorno al collo e mi scagliò contro la parete di fondo.
Mi rialzai. Sparai ad alzo zero.
Lui si scansò. Colpì invece un novizio che fuggiva.
Il bastardo mi percosse con colpi rapidissimi. Persi la pistola, chiuso in difesa. Non vedevo un cazzo.
“Questa é la volta buona che ci resto!”, pensai.
Effettivamente lo era. Quel tizio stava facendomi vedere le stelle e iniziavo a essere stanco. Un colpo secco mi sbatté a terra.
“Endgame.”, pensai.
Poi lo vidi. L’elicottero in partenza esplose. Improvvisamente. Detonò tipo palla di fuoco. Flux doveva essere salita a bordo e aver innescato una granata. O qualcosa di simile. In ogni caso anche l’altro si distrasse. Fu sbilanciato dall’onda d’urto.
Mi rialzai, gli affettai il braccio rimasto e presi a colpire. Ancora e ancora. Lui urlò, cercò di recuperare la distanza, ma ormai era tardi.
E io ero scatenato. Colpii ripetutamente e lo abbattei.
Quando infine lo sentii morto potei urlare, ringhiando la mia vittoria a un cielo indifferente e rialzarmi. Attorno a me solo fiamme e morte.
-Flux!-, esclamai. Mi rifiutavo categoricamente di credere che fosse morta così.
-Flux, brutta puttana, esci fuori!-, esclamai.
Niente. Il fumo mi prese alla gola. Tossii.
Passi dietro di me. Lisa Huntington e i suoi pretoriani.
-&egrave finita.-, disse. Già. Lo era.
Flux era morta. Si era sacrificata per fare sì che le oscenità commesse da quel culto non conoscessero futuro. Caddi in ginocchio senza dire altro.

Il debriefing dello S.H.I.E.L.D. fu esaustivo. Il culto di Smedi era stato distrutto completamente. Nessun prigioniero. I bambini sarebbero stati riportati alle loro famiglie. Tutti felici e contenti.
Tranne me. Flux era morta. E si era portata qualcosa di me con sé. Gliel’avevo detto che quelli come noi hanno bisogno di qualcuno che faccia tanto da avversario quanto da alleato.
Ed era morta. Per qualcosa di più grande di lei, un po’ come quell’eroina che non sarebbe mai voluta essere, forse. Le ricerche appurarono che il corpo non c’era ma non significava nulla: poteva essere stata polverizzata nella conflagrazione.
Lo S.H.I.E.L.D. mi versò anche la parte spettante a Flux. In totale erano ducentomila dollari.
Lisa Huntington non fece l’ipocrita, non cercò di mostrarsi comprensiva ma non fu neppure una totale stronza. Si limitò a prendere atto dei fatti e mi disse che avrei ricevuto un bonus per la cattura di una criminale ricercata come Flux. Altri cinquemila dollari.
Duecentocinquemila dollari (esenti da tassazioni).
Parecchi soldi. Mi aiutarono a smettere di andare avanti a furtarelli.

Il tran tran quotidiano riprese. Mi immersi nell’arte marziale e nelle relazioni da una botta sola per cercare di non pensare a Flux. Dopo qualche mese, la morsa del dolore prese ad allentarsi.
E poi lo trovai. Stavo a riprendermi dopo la scopata rovente che avevo avuto con un’italiana che lo vidi.
Era un foglio, piazzato ad arte sotto la porta di casa mia. Un segno… Lo presi. Guardai il simbolo disegnatovi. Era famigliare. Anche troppo.
Un simbolo che io avevo, a suo tempo disegnato graffiando lentamente il corpo di Flux quando avevamo fatto sesso prima della missione.
Un segno che solo lei poteva conoscere.
Sorrisi.
Ci saremmo rivisti. Non sapevo come né quando.
Ma sapevo bene, sarebbe certamente avvenuto.

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