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Racconti Erotici Etero

Il giorno d’Agnese

By 10 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Adesso che mi trovo ferma nel buio di un concetto, anche non volendo riscrivo i punti oscuri, cercando nelle pieghe del tempo le ragioni che non si faranno mai certezza, mai diventeranno giusta causa di questi soli e queste lune che s’inseguono in solitudine. Fanno giorni e fanno notti come questa che rigiro nel mio letto ed accorcio gli sconforti chiudendo con un punto il fango dei ricordi, tra la coperta che mi avvolge nell’alone appiccicoso che blocca le mie mani e gonfia la tua assenza.

Faccio a pezzi un ‘tuttavia’ sotto le macerie di un incrollabile sentimento che cova sotto quest’orgoglio sfilacciato dall’effetto che mi sorprende qui sola, che mi convince che nessun’altra compagnia colmerebbe il desiderio. Faccio fatica a pensarti e ripensarti nel mio letto, ancora come allora, materializzando il tuo profumo che sorprende le mie palpebre allargate ed incostanti, che insolventi prolungano il piacere e fanno tacere le morali.

Mi ritraggo in una nicchia dei pensieri come se fosse il posto più comodo del mondo, sospesa tra i ricami intatti di lenzuola che scaldo e sudo indugiando nei pregiudizi illesi della prima volta qui da sola. Ma non verrai! Lo so che non verrai, che non sei mai tornato quando stringevo gli occhi sicura che fossero le tue mani ad oscurare la mia luna.

Lo so che non verrai e l’attesa ricucirà col silenzio la mia trama, sotto il mio cespuglio coveranno altri sogni, ingrosseranno i miei seni che solo la luce domattina sgonfierà avara di piacere. La grammatica non mi servirà a scacciare l’ansia che s’ingrossa, a calmare il tremito delle mie mani come non sono bastate le parole per esprimerti i dettagli della mia pena.

Sono rimasta muta e a nulla sarebbe servito aprirti il mio cuore che batteva fuori dal mio petto, che si ribellava tumefatto di intollerabile gelosia. Era il giorno d’Agnese, credo il 21 di gennaio, e s’era fatta sera improvvisamente, come un cielo scuro scuro che minacciava temporale, come i tuoi occhi ingrugniti che guardavano le mie scarpe. Portavo i tacchi alti, come sempre, come tu volevi, ma questa volta non erano le scarpe a punta, non erano le mie caviglie increspate dalle pieghe delle calze a farti abbassare lo sguardo fino a terra.

Non avevi il coraggio di guardare dentro la mia sofferenza, di accompagnare il tormento dei miei occhi a quelle parole che uscivano dalla tua bocca come uno sputo, come un pugno dritto in faccia quando mai te l’aspetti. Sorpresa e con il cuore sgretolato ad ogni tua parola, ti ho fatto solo ripetere la sostanza, perché quella m’interessava, perché quella non m’avrebbe fatto appellare in seguito alle virgole ed ai respiri, alle pause, le lunghe pause che altrimenti avrei riempito a mio modo.

In un fiato, in un nonnulla, il mondo si scoloriva diluendosi come pioggia che grondava giù dal tetto, come il trucco che colava stingendosi bluastro sotto gli orli della bocca. Accanto d’improvviso t’avrei già voluto ricordo, come un già di vissuto incorporeo svanito davanti ai miei occhi. Ma eri lì, davanti a me, vero e materiale che avevi già insozzato il mio sentimento, lasciando al tuo posto risentimento e dolore, vero come macchie di sangue sull’asfalto dopo un incidente, come una sirena che smette di suonare perché non serve a niente correre più in fretta.

Come il mare ad Anzio, quello vero giù dal molo, la tua faccia si scuriva come onde increspate, come per convincermi che quello era bene, e niente di meglio sarebbe potuto uscire dalla tua bocca. Proprio quella bocca che chissà quali labbra avrebbe baciato nella notte, chissà quante volte sbavata di rossetto pulita alla meno peggio proprio dietro questa porta. Trattenni il respiro per essere padrona, per vomitarti il rifiuto che mi saliva acido da dentro, perché chiusa in quel culo di bottiglia non mi concedevi altro, nemmeno l’apparenza d’un flebile domani avvolto nell’incertezza.

Un fiotto d’ira mi si annodò alla gola, rassegnata alle parole che non avevano un senso, perché il senso sarebbe stato soltanto spalancarti le mie cosce, di sicuro più brave a convincerti che niente di meglio avresti trovato in giro per il mondo. Niente di meglio avrebbe avvolto d’amore il tuo sesso, nemmeno dove la carne scalza il sentimento, dove il piacere ci fa sentire più egoisti. Ma non t’avrebbe fatto alcun effetto, come il bordo più scuro delle mie calze, o che so io, appoggiata al davanzale a guardare la pioggia che cadeva sull’asfalto.

E’ passato il tempo riempito a malapena e ancora mi domando se ti saresti avvicinato, se m’avresti alzato il vestito e scostato il filo delle mie mutande, e senza alcun permesso indugiato quel tanto dove uomini e donne smettono di pensare. In quel mentre e solo in quel mentre t’avrei chiesto scusa per avermi tradito, avrei trovato parole e respiri per amare quel sesso che m’infilava, come altre volte s’era dato a tante altre, come stavolta qualcuna me lo stava rubando per sempre.

Mi sarei inginocchiata per giurarti che non c’era rancore, nessuna rivincita nel mio sangue che scorreva più veloce, ma niente è successo e nulla c’è stato, nessun sentimento di rabbia, vendetta e amore ha soffocato le tante insensate ragioni che cercavi di mettere assieme. In quel momento stavi soffrendo, ma erano solo parole, ‘insomma’ e ‘casomai’ che non spiegavano nulla, e nulla concedevano al mio cuore aperto come fica di puttana anche quando non lavora! Stavi piangendo, ma solo per la mia pena, solo per quel vestito di seta nera che non avevi mai sgualcito, solo per il mio seno che non potevi più sgualcire!

Ma in fondo il maschio è più debole dell’uomo e ti saresti volentieri attaccato alla mia abbondanza che tante volte aveva soddisfatto il tuo istinto infantile. Ti chiesi se ne avevi bisogno, perché parlare di voglia non avrebbe avuto senso, e senza risposta slacciai il mio pudore, rimanendo nuda di vergogna come mai mi ero sentita davanti al tuo sguardo.

Ma i tuoi occhi si gonfiarono di rifiuto, di ribrezzo per questa stupida donna che non si rendeva conto di quanto eri già lontano e tentava di recuperare laddove la ragione aveva già fallito. Tentai di avvicinare le tue mani, almeno il tuo respiro, ma non ci volle molto a sentirmi umiliata ed estranea davanti a te che in quel momento credevi di tradire l’altra solo col pensiero, accarezzando la pelle dei miei seni fuori luogo.

Stavo rasentando il fondo, ma non me ne rendevo conto, andai alla finestra gridando di darmi al primo che passando avesse alzato lo sguardo, al primo uomo, animale, vecchio che per caso m’avesse vista in quel modo. Ero fuori di me, ti implorai di prendere a calci la mia dignità, di spogliarmi del tutto e sbattermi fuori casa, nuda con la mia vergogna tra le gambe, vestita dal tuo disprezzo che celavi a malapena.

Ti venni vicino supplicandoti di trovarmi, in quel momento, subito, all’istante un tuo amico che avesse potuto riempire il vuoto che da lì a poco avresti lasciato, quel vuoto di casa e di sesso che s’era fatto in un attimo aria e buco nero, vertigine e precipizio.

Ma non aveva senso, come niente aveva senso e decenza, come me che non mi rassegnavo ad augurarti solo buona fortuna o come te che guardavi l’orologio in pensiero per l’altra che ti stava aspettando. Magari già nuda nel letto con le cosce aperte in attesa, che quella sera non m’avevi fatto spalancare, che m’hai avrei pensato di riempirle con un cuscino. La vedevo già vestita di tutto punto per una sera in un ristorante dove la tua mano sotto la tovaglia le procurava voglia e fremiti. Bagnata come una puttana che cola di piacere ingiusto sulla faccia di chi ora a letto qui da sola non ha mai conosciuto.

Ti chiesi di farmela conoscere, di sentire almeno la sua voce! Ti chiesi il suo nome, un nome soltanto per scaricare la mia rabbia e la mia gelosia che lievitavano ad ogni singhiozzo fino a farsi voce ed ingiuria, per odiare tutte le donne indistintamente che avevano quel nome.

Ma non mi rimase che inventarmelo, come inventarmi la sera e questa notte che m’ha sorpresa sveglia nel mio letto. Cercai in un momento di riparare ai pensieri, e ‘un come faremo’ s’arrese strozzato sentendolo stonare nella mia gola prima di schiudere le labbra e diventare solo aria. Come ora che mi trovo sola nel buco della notte, anche non volendo, cerco il tuo odore tra la stoffa troppo morbida di questo cuscino, cerco nelle pieghe del tempo una ragione che non si farà mai certezza, mai logica e criterio diventerà buon senso.

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