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Il Regno Oscuro – Capitolo 7

By 9 Ottobre 2019Dicembre 16th, 2019No Comments

Mikela indossava un tubino di pelle nera che la copriva dai capezzoli al sedere. Ai piedi portava dei sandali i cui lacci le si attorcigliavano attorno alla caviglia. I suoi capelli erano legati alti e il suo sguardo era compiaciuto. Osservava la grande cella e le sue ospiti. Da pochi giorni era stata liberata dalla schiavitù e le era stata affidata la gestione delle prigioni. Aveva apportato delle modifiche allo stile di vita delle schiave, dettate dalla sua lunga esperienza. Come una crudele aguzzina aveva sapientemente valutato e scelto come poter rendere ancora peggiore la schiavitù. Aveva messo in atto tutto ciò contro le schiave con cui fino a pochi giorni prima condivideva lo stesso fato. In primo luogo, aveva deciso che non doveva essere concesso loro di parlare. Aveva così imbavagliato le schiave con degli anelli di ferro, incastrati tra i denti, che impedivano loro di chiudere la bocca, costringendola a rimanere del tutto aperta. Ma il suo esperimento maggiore era stato la grande cella. Invece di tenere incatenate le schiave ognuna nella propria cella, ne aveva incatenate dieci in un’unica grande cella. Le schiave avevano i polsi bloccati a dei ceppi alti sopra la propria testa, con la schiena al muro. In più le loro caviglie erano incatenate alla stessa altezza dei polsi, ma molto più larghe, lasciando in questo modo le cosce spalancate, con il sesso e il bacino puntato in avanti verso l’alto, alla portata dello sguardo di chiunque passasse di lì. Erano bloccate in quella posizione da giorni, con l’anello a bloccare le loro bocche. Con quell’anello riusciva impossibile alle ragazze di ingoiare la saliva, che si riversava sui menti, colando sui loro petti, tra i loro seni nudi.
Mikela le guardava divertita, sorridendo di come aveva costretto quelle ragazze. Si sentiva sadica e bastarda. Passava ore a guardarle, deridendole, da dietro le sbarre della grande cella. Improvvisamente una delle schiave iniziò ad agitarsi. Iniziò a scuotere il sedere, unica parte del proprio corpo non bloccata. Emetteva suoni, cercando forse di parlare. Alla fine si arrese evidentemente, e uno zampillo di urina iniziò a fuoriuscire tra le sue cosce. Vista la posizione del bacino costretta in avanti, lo zampillo tracciò un arco in aria per diversi secondi. Una pozza di urina iniziò a crearsi a terra.
– Guardate – Mikela richiamò l’attenzione delle guardie – La fontanella!
Lei e le guardie iniziarono a ridere sguaiatamente dell’umiliazione della schiava, costretta ad urinare in quella posizione, davanti agli occhi di tutti, incatenata al muro con la figa in bella mostra e la saliva a colarle dalle labbra, sul mento, fino al petto.
Quando lo spettacolino fu finito si avviò verso il livello inferiore delle prigioni, dove vi erano i veri galeotti. Era l’ora dell’unico pasto giornaliero che era concesso ai prigionieri. Lei ci teneva ad essere presente quando il pasto veniva somministrato a Mikael, lo stregone di corte che era stato imprigionato quando Mikela era stata liberata. Non voleva avere problemi con lui, sapeva che era un soggetto pericoloso e non voleva deludere l’Imperatore.
Le guardie aprirono la pesante porta di ferro sulla cella, piccola e buia. L’unico arredamento era un piccolo cumulo di paglia, una specie di giaciglio. In un angolo c’era Mikael, smunto e silenzioso.
– Hai fame prigioniero? – domandò Mikela entrando nella cella con un piatto di ferro pieno sbobba maleodorante. Alle sue spalle vi erano due guardie, pronte ad intervenire, ma ormai lo stregone era innoquo. Nel suo cibo veniva sistematicamente mischiata una pozione capace di inibire temporaneamente i poteri magici di chi la ingerisse. Ironia della sorte, la formula di quella pozione era stata inventata proprio dallo stregone di corte.
– Ho sete – disse Mikael osservando il piatto che gli era stato messo davanti – Per favore.
Mikela non aspettava altro. Si fece passare una grossa coppa dalle guardie, e la mise a terra. Quindi piegò le ginocchia, accovacciandosi sulla coppa. Tirò su il tubino, sopra le anche, lasciando nudo il suo sesso. Si leccò due dita della mano destra e se le infilò tra le cosce. Prima l’indice, poi il medio. La sua vagina era già bagnata. Se la stuzzicava sempre più velocemente. Poi infilò anche il terzo dito. Mikael la guardava senza muoversi, rimanendo seduto a terra, davanti al suo piatto di ferro. Con le tre dita continuò ad entrare e uscire sempre più velocemente dalla sua figa. Si morse un labbro mentre iniziò a gemere. Un gemito prima sommesso, poi sempre più alto e acuto. Stette diverso tempo a stimolarsi così. Alla fine tolse di colpo le dita e dalla sua figa uscì un copioso schizzo di umori che centrò in piedo la coppa. Subito dopo ci fu un secondo schizzo, meno violento ma altrettanto copioso. Gli umori di Mikela riempirono per metà la coppa, mentre iniziarono a tremarle le cosce. Per non perdere l’equilibrio dovette portare la mano destra all’indietro, a terra. Continuò a gemere per alcuni secondi, socchiudendo gli occhi. Finalmente i tremoti la abbandonarono e Mikela si rialzò, aggiustandosi il tubino lungo le anche.
– Bevi pure – gli disse sorridendo crudele.
Lo stregone afferrò la coppa, guardandone il contenuto. Sembrava quasi acqua, ma risultava vagamente più torbida e vischiosa. Non voleva umiliarsi fino a quel punto, ma la sete lo assediava e la sua gola era arsa. Appoggiò la coppa alle labbra e ne prese un sorso. Non fu dissetante. Il sapore era strano e gli rimase un brutto retrogusto in bocca. Eppure si sentì un po’ ristorato. Mikela aveva un’aria molto soddisfatta mentre lo guardava bere. Forse era più disperato di come temeva.

Cavalcavano da giorni ormai. Avevano deciso di non battere strade troppo note, ma di avventurarsi sui sentieri che si avventuravano tra i boschi, lontano da paesi, villaggi e città. Clotilde si reggeva alla vita di Annette, e così era stato per tutto il viaggio. Le notti si erano accampate in luoghi isolati, sperando di non fare brutti incontri. Grazie alla magia avevano cacciato qualche coniglia, per mangiare. Qualche piccolo ruscello aveva ristorato la loro sete. Il paesaggio intorno a loro era iniziato a farsi più roccioso e montuoso. I monti del nord erano prossimi, e con loro l’accampamento dei ribelli.
Portavano il capello della vergine, e la loro missione era di prioritaria importanza. Non potevano fallire, non potevano farsi scoprire, non potevano ritardare.
Clotilde affondava la testa nell’incavo del collo di Annette ogni volta che questa, vedendo un terreno più lineare, spronava il destriero al galoppo. La donna aveva un odore forte e dolce al tempo stesso, che la faceva impazzire e la attirava senza lasciarle scampo.
In quel momento stavano andando al passo, lungo un sentiero roccioso circondato da alberi spogli. Una vista desolata e triste le accompagnava. Si respirava aria di morte in quelle terre così aride e rocciose. Clotilde si strinse ancora di più alla sua compagna, cercando conforto nel calore del suo corpo.
Improvvisamente udirono il sibilo di una freccia e, un attimo dopo, il loro cavallo cadde al suolo, esanime. Il povero animale, cadendo, le aveva sbalzate di sella, facendole rotolare sul sentiero roccioso. Non ebbero nemmeno il tempo di capire cosa stesse accadendo, che un uomo si palesò davanti. Indossava abiti vecchi, scoloriti, neri e verdi. I capelli marroni erano corti e sul volto si delineava un pizzetto sempre castano. Un pugnale e una borsa pendevano dalla sua cintola. Nelle mani un arco, teso e incoccato, puntato verso di loro minacciosamente.
– O la borsa o la vita – disse il brigante sorridendo.
– Hai ucciso il nostro cavallo – lo accusò Annette – Sei un lurido assassino
– È sempre un peccato porre fine alla vita di un essere vivente – l’uomo si fece avanti, puntando sempre l’arco – Perciò non costringetemi a toglierla anche a due belle donne come voi
Mentre il brigante fissava Annette, Clotilde socchiuse gli occhi, ancora seduta sul sentiero. Mormorò un paio di parole e le pupille le si ribaltarono, mostrando solo il bianco dell’occhio.
– Ma che diamine! – l’uomo si accorse di Clotilde, ma non in tempo. Un attimo dopo l’arco che reggeva tra le mani si trasformò in una lunghissima corda che iniziò a stringerglisi attorno al busto, bloccandogli le braccia. Sorpreso da ciò che gli stava capitando nemmeno notò Annette. La ragazza gli piombò addosso, atterrendolo schiena al suolo e sguainando il pugnale del brigante dalla cintura.
– Ora farai la stessa fine del mio cavallo – lo minacciò puntandogli il coltello alla gola.
– Ferma! urlò Clotilde tornando in se, avvicinandosi ai due – Noi non uccidiamo
– Come no? – rispose stizzita Annette – È un brigante. Chissà quanta gente ha ucciso
– No no non è vero! rispose prontamente il brigante sgranando gli occhi colmi di paura – Non ho mai ucciso nessuno! Rubo solo. È vero rubo. Sono un brigante schifoso. Ma posso cambiare
Quasi si metteva a piangere l’uomo, implorando pietà – Non uccidetemi vi supplico! Ho una moglie e tre bambini
– Sul serio? – lo incalzò Annette facendogli sentire la punta del coltello sulla gola.
– No! Non ho moglie e bambini. Ma potrei averli. Se mi lasciate andare mi sposerò e avrò tre figli. Lo giuro!
Clotilde gli sfilò la borsa dalla cinta e la aprì. Al suo interno era pieno di gioielli e monete d’oro. Medaglioni, bracciali, anelli. Tutta merce di grande valore.
– Meriti un processo – sentenziò Clotilde poi spostando lo sguardo su Annette – Non uccidiamo un uomo legato e indifeso
– D’accordo allora – approvò la donna di colore col suo accento straniero – Portiamolo dai ribelli, decideranno loro che fine farti fare
– No! continuò il brigante piagnucolando – I ribelli no. Sono dei pazzi! Dei pazzi fottuti! Lasciatemi andare! Prendete la borsa! Vi potete ricomprare il cavallo e molto di più!
– Taci brigante – disse Clotilde sganciando le borse dalla sella del povero cavallo trapassato. La stregona gli carezzò il muso un paio di volte, dolcemente.
– Dovremmo seppellirlo – disse Annette riferita all’animale – Ma non credo ne avremo il tempo
– Già – convenne tristemente Clotilde avvicinandosi all’uomo – E ora brigante alzati, porterai tu le borse fino all’accampamento dei ribelli
– Prima di tutto non mi chiamo brigante, ma Red – l’uomo sembrò aver ritrovato il suo coraggio, tanto da smettere di piagnucolare – E poi non voglio venire con voi. Dovrete trascinarmi per tutto il tragitto
Detto ciò rimase steso al suolo, schienato e legato dalla corda che gli avvolgeva tutto il busto, stringendogli le braccia lungo i fianchi. Annette e Clotilde si guardarono. La stregona cercò di far alzare il brigante con la forza. Di tirarlo per le orecchie o per i capelli. Red non si mosse di un centimetro, rimanendo impassibile.
– Ci pensò io – decise alla fine Annette, inginocchiandosi accanto all’uomo. Gli slacciò i pantaloni, tirandogli fuori il pene, ancora moscio. Iniziò a massaggiarlo lentamente con la mano destra.
– Ti piace vero? – gli domandò sorridendogli.
– Molto – rispose Red con tono curioso, incerto – Cos’hai in mente?
In qualche modo l’uomo aveva capito che la ragazza non lo stava toccando solo per fargli piacere. Rimase ancora più stupito quando la donna abbassò la propria testa sul pene, prendendolo in bocca. Con la mano destra tirò giù tutta la pelle, mentre la lingua prendeva a carezzare la cappella ora scoperta. Il cazzo iniziò finalmente a venirgli duro. Lo sentì in bocca ingrossarsi sempre di più. Faceva salire e scendere le labbra su tutta la lunghezza mentre Clotilde la guardava stupita.
– Ma sei impazzita? Devi farlo muovere, non succhiarglielo!
Annette non la ascoltò, ma continuò a succhiarglielo per diversi minuti. Era un membro nella norma tutto sommato. Era piuttosto largo e tozzo, e la sua cappella era considerevolmente larga. Quando il cazzo fu duro al massimo, Annette si alzò e prese dal suo zaino una delle corde con cui Lorenzo l’aveva legata alla sella. Erano corde resistenti ma sottili, perfette per l’occasione.
Senza aggiungere una parola iniziò ad avvolgere la corda tra la base del pene e la sacca dei testicoli, formando un otto.
– Cosa fai? – domandò Red allarmato – Fermati! È troppo stretto! Mi fai male!
Il brigante continuò a lamentarsi, ma le vere urla di dolore arrivarono poco dopo, quando Annette iniziò a far girare la corda intorno alla strozzatura dell’otto, tirando e stringendo con forza. A quel punto le urla di Red non significavano nulla. Urlava solo il proprio dolore, chiedendo aiuto, implorando di smettere. Alla fine Annette fece un bel nodo e afferrò la corda che avanzava, come un guinzaglio.
– Scommettiamo che ora si alza? – detto ciò, la donna di colore tirò un forte strattone alla corda stessa. Red scattò subito in piedi, ululando dal dolore.
– Vi seguo. Giuro che vi seguo! Ma toglietemi questa corda. Fa malissimo
La stregona gli sorrise teneramente. – Troppo tardi – sentenziò Annette.
Le due donne caricarono le borse sulle spalle di Red e proseguirono il loro cammino lungo la strada rocciosa. Red le seguiva carico come un mulo, cercando di tenere il rapido passo delle due. Ogni volta che si attardava, Annette tirava il guinzaglio, scatenendo le sue urla di dolore. Fu una lunga giornata per il brigante.

Nelle prigioni era nuovamente ora dell’unico pasto giornaliero dei detenuti. Era passato un giorno da quando Mikela aveva dissetato il fu stregone di corte con i propri abbondanti umori. Non vedeva l’ora di ripetere l’esperienza che l’aveva eccitata da morire. Guardò per un po’ le schiave nella cella grande. Guardarle agitarsi, lì incatenate, era un’altra sua passione. Amava vederle lì, implorare pietà. Le faceva bere tanta acqua, versandola direttamente nella bocca tenuta aperta dall’anello di ferro, per poi guardarle urinare, umiliate, con quello zampillo che lei chiamava fontanella.
Come da diversi giorni ormai, scese nel piano inferiore delle prigioni, per portare personalmente il cibo a Mikael. Si fece aprire la cella e vi entrò, con le guardie a piantonare la porta. Ebbe un attimo di sgomento però quel giorno, quando, entrando nella cella, la trovò vuota.
Lo stregone era forse riuscito ad aggirare l’inibitore magico che gli veniva somministrato nel cibo? Forse si era reso invisibile ed era ancora nella cella. Mikela lasciò cadere il piatto al suolo e iniziò a smanacciare nella piccola stanza, sperando di toccarlo. Niente. Non c’era niente in quella cella, escluso il cumulo di paglia.
Mikela pensò che forse lo stregone vi si fosse nascosto sotto. Così iniziò a dare pedate sulla stessa, schiacciandola. Niente nemmeno lì. Sconvolta e tremante si voltò verso le guardie.
– Dove diamine è andato? – urlò fuoriosa.
Una delle guardie indicò il pagliericcio. Sembrava ci fosse qualcosa di strano dietro. Mikela furiosamente spostò quel cumulo di paglia e, dietro di esso, vi trovò un buco. Era abbastanza largo per far passare un uomo a quattro zampe e si apriva su di uno stretto e buio tunnel che saliva verso l’alto con una discreta inclinazione.
Mikael era fuggito. Da quasi un giorno ormai. La donna si fiondò nel buco, senza attendere oltre. Percorse il tunnel rapidamente, ferendosi ginocchia e gomiti. Per diverso tempo si mosse nel buio. Poi alla fine iniziò a vedere una luce. Affrettò i suoi movimenti arrivando finalmente all’uscita della stretta e claustrofobica galleria. La sua testa sbucò dal pavimento di un vicolo molto stretto e desolato. Era in una delle tante stradine della Capitale. Non passava nessuno di lì, ma, un po’ più avanti, vi era un incrocio con una strada molto più trafficata.
Lo stregone era andato. Ritrovarlo era ormai fuori le sue possibilità. Maledisse quell’uomo in ogni modo. L’Imperatore l’avrebbe presa molto male.

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