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Racconti Erotici Etero

La Caduta. Atto Quattordicesimo. Di Serena Prima, Nimandeo Feral e di ciò che fu.

By 31 Ottobre 2021No Comments

Rientrato in fretta e furia in Roma, Calus ordinò una serie di misure. Destituì numerosi generali, facendo uccidere alcuni di essi senza neppure processarli. Fece cessare qualunque forma di biasimo, imponendo la censura di ogni informazione sulla battaglia e sulla guerra civile in generale. Aumentò i riti e i sacrifici al Dio della Guerra. Fece spostare gran parte delle proprie forze dall’Helvetica, lasciandola di fatto sguarnita, preferendo difendere l’Italica. Aumentò il reclutamento di cittadini, specie nelle classi meno abbienti, giungendo persino a liberare alcuni schiavi se si fossero arruolati nell’esercito imperiale, inoltre prese contatto con le forze mercenarie e i minori generali secessionisti dal dominio del Trono.
Offrì alle prime grandi ricompense in oro, cibo e gioielli e ai secondi il perdono e la possibilità di acquisire cariche di grande rilevanza se essi avessero scelto di supportarlo.
Così facendo, numerosi accorsero sotto i suoi stendardi e la Septima Aquilaria, legione nota per il valore e la perizia nella difesa durante un assedio tornò leale al Trono e il suo generale, Antonino Prieto Terzo fu elevato a Governatore delle regioni italiche del sud. Rapidamente, Antonino iniziò a rafforzare le difese, sapendo che uno sbarco delle legioni di Aristarda sarebbe avvenuto di lì a poco.
Fu sorpreso quando, a tentare uno sbarco furono ondate di uomini fasciati in abiti da deserto. Coloro che non avevano perdonato la fine di Fez si abbatterono sulle coste italiche con furia e volontà distruttiva, sfuggendo alla decimata flotta lealista.
Ma Antonino sapeva bene come agire e al termine di una battaglia di un giorno e una notte, i predoni furono sterminati. Nessuno di loro abbandonò le coste nemiche.
Morirono tutti cercando vendetta per un torto di cui Calus non fu responsabile. Le loro navi fecero vela verso la terra patria. Da parte lealista le perdite furono bassissime e Calus si affrettò a sfruttare la vittoria a fini propagandistici.

Aristarda Nera, invece, sistemati i feriti e approntate le proprie forze, dovette affrontare una realtà che purtroppo, in cuor suo aveva ben immaginato. Lo sbarco in terra italica sarebbe costato molte, forse troppe vite. In realtà, non aveva molta scelta.
Ma riguardo al dove sbarcare, Aristarda era grandemente indecisa.
Ponderò la scelta, decidendo infine per l’attesa, sperando che Nimandeo Feral riuscisse a obbligare Calus a muovere le proprie forze aprendo brecce in una difesa altrimenti apparentemente inespugnabile, anche a dispetto delle preghiere innalzate dai sacerdoti e da lei stessa.
Più fervida e accorata di altre, era la preghiera che Vera Nemlia, la sua più valente guerriera, fosse ancora in vita e potesse fare ritorno.
Nei giorni seguenti, le flotte di Calus e Aristarda Nera non intrapresero che poche azioni marginali, indegne di nota e senza effettivamente portare ad alcun risultato di rilievo.
Intanto, sull’altro fronte, Nimandeo Feral e Serena Prima proseguivano la loro offensiva.
Sebbene i generali e i comandanti lealisti sperassero in un confronto in campo aperto, furono delusi: le forze di Serena Prima colpivano rapide, per poi tornare a svanire, come la bruma al mattino primaverile.

Serena Prima diede l’ordine di attaccare. Avanzò insieme alla sua guardia personale.
La sabbia del deserto turbinava attorno a loro, infastidiva e impacciava i movimenti.
Ma la giovane e i suoi uomini erano determinati, e preparati. Cosa che i lealisti di Amsio Calus non potevano dire di essere. Giorni di false ritirate, imboscate e attacchi notturni avevano ridotto la Legione del giovane Gneo Marcagio, figlio di Paolo Marcagio, Proconsole di Antolica, un’ombra della sua precedente potenza. A centinaia erano morti in attacchi e imboscate, attirati su trappole preparate prima, sfoltiti dalla malattia, decimati da fame, sete e sortite dei nemici. Serena e i suoi avevano subito poche perdite, ma anche loro accusavano la stanchezza, sebbene minore.
Ma i loro nemici erano messi ben peggio: pressato da ogni parte, il centro non teneva.
Le frecce delle Amazzoni, scagliate con furia e rapidità, trapassavano loricae e uomini. La risposta dei legionari furono salve di armi energetiche. Alcune delle guerriere caddero. Le altre ripiegarono in buon ordine. Serena annuì. Diede l’ordine di proseguire.
I mercenari di Sarmatica Major erano armati di fucili automatici. Si erano mossi lentamente, avvicinatisi al nemico con estrema prudenza, con la pazienza dei predatori.
Quando si alzarono e spararono, l’avversario concentrato sulle amazzoni non riuscì a reagire. Alcuni si gettarono a terra, altri urlarono, ma tutti incassarono i colpi.
Il vexillifero della coorte decimata dei lealisti urlava. Alcuni rispondevano. Iniziarono a cantare. Serena annuì. Riconobbe il Moripatres, l’inno dei guerrieri che chiedevano una morte onorevole, iniziò a levarsi dalle fila nemiche.
Lei avrebbe dovuto onorarli. Avrebbe dovuto caricare, o offrire loro la resa.
I suoi uomini agirono per primi. Troppo l’odio, troppa la rabbia, troppa la stanchezza. Spararono ad alzo zero. Seppellirono quel coro di eroi sotto salve di fuoco.
Il coro si spense. E Serena Prima osservò quello scempio, piangendo lacrime mute.

Nimandeo Feral aveva guidato l’ultima carica. Il legato nemico, asserragliato tra i suoi uomini circondati dai morti, ancora fiero, ancora sprezzante, lo guardava.
Nimandeo annuì.
-Gneo. Ave.-, disse, -Ti offro di avere salva la vita e tornare in patria, con i tuoi uomini.-.
-Perché?-, chiese il giovane. Non aveva neppure trent’anni. Un imbelle che aveva condotto al massacro i suoi soldati, fiducioso di trionfare su un nemico ritenuto sin da principio inferiore. E ora eccolo lì, la lorica ammaccata, l’elmo perso, la lama in mano, la posa stanca, ma ancora voleva resistere.
-Sei giovane. E giovani erano molti dei tuoi uomini. Sei stato folle a volermi seguire tra queste steppe. Le conosciamo bene, meglio di te e dei tuoi uomini. Ma hai voluto tentare. Potevi usare i mezzi aerei, potevi schiacciarmi, invece no: volevi la gloria, la battaglia onorevole. Hai voluto tentare… e hai fallito.-, nella voce di Nimandeo non c’era ira, solo somma, assoluta tristezza, repulsione per la strage.
-Risparmiami la tua compassione. Tu godi di questa sconfitta!-, ringhiò il giovane.
Dolore e rabbia si contendevano l’espressione sul suo viso.
-Io non ne traggo piacere. Come non trarrei piacere dalla tua morte.-, rispose Feral.
-Ah sì? Allora perché i tuoi uomini hanno ucciso i miei in spregio alle costumanze del mio popolo?-, Gneo aveva calcato su quel “mio”, molto. Nimandeo capiva. Annuì ancora.
-Non posso che dirmi dispiaciuto. Ma questo era parte di ciò che poteva accadere, è la guerra, quella che tu ti sei illuso di poter vincere e che tuo padre ti inviò a combattere.-, disse, -Ma non devi divenire una vittima. Tu e i tuoi uomini potete ripiegare, potete vivere.-. Gneo parve ponderare quelle parole. Con totale, assoluta serietà.
Nimandeo lo guardò, pensando che se avesse rifiutato, altro sangue sarebbe corso.
Era così stanco del sangue, e così bramoso di pace. Per vendicare un tentato assassinio aveva iniziato quella guerra e ora si sentiva fuori posto, attore principale suo malgrado di una tragedia di cui non avrebbe mai voluto sentir neppure parlare.
“Ma, come disse un saggio, ormai siamo in ballo. Anche se solo gli Dei sanno quanto vorrei uscirne…”, pensò mentre aspettava risposta. I pretoriali di Gneo attendevano a loro volta.
Erano disposti a morire? Sì. Disposti a morire lì, per quel giovane imbelle che li aveva condotti al massacro? Probabile. In teoria, avrebbero dovuto farlo. Nimandeo però vedeva. Gli uomini non guardavano al loro Legato, guardavano oltre, verso l’orizzonte di un giorno al suo termine. Molti di loro sicuramente biasimavano quel giovane, pur odiando l’uomo che era davanti a loro, che offriva loro tregua e vita salva.
L’uomo divenuto traditore di Roma. Il barbaro, come potevano averlo definito.
Di certo, alcuni lo vedevano così. Di questo, Nimandeo era certo. Anche Serena l’aveva visto così, prima. Ma ora… ora come lo vedeva? Se lo chiedeva spesso.
-Gneo Marcagio, ti offro la vita, o la migliore delle morti.-, esortò infine.
Gneo Marcagio tentennò per breve tempo, ma infine accettò di chiedere la resa.

La festività di Ganguar onorava la moglie del dio danzante delle terre ben oltre i confini dell’Impero di Roma. Serena Prima assisteva alle danze in nome della dea, agli inni cantati.
Nonostante le fosse aliena, era una cerimonia in cui poteva ravvedere qualcosa. Forse gli antichi riti del Kelreas erano giunti sin lì? Forse erano nati tra quei popoli?
Quanto tempo prima? Quante tribolazioni avevano visto quei riti sempre uguali? Erano giunti prima del giorno della fondazione di Licanes? Furono istituiti dopo la catastrofe che ridusse il mondo a ciò che ora era? O addirittura prima ancora?
Per un lungo istante, Serena Prima si concesse la domanda, si concesse di prender tempo.
I fedeli erano molti, ma tanti altri dei festanti soldati e mercenari erano mossi dalla mera celebrazione della vittoria ottenuta. Lei… no.
“Ho permesso a questi selvaggi di rendere i miei uomini come loro…”, pensò.
-Mia signora?-, Aisha, una delle ancelle di Nimandeo la scosse dai suoi pensieri.
-È pronta la cena, mia signora.-, disse. Serena scosse il capo.
-Perdonami… non ho molta fame. Raggiungerò la mia tenda per riposare, ti prego di riferirlo a Nimandeo, con le mie scuse.-, disse.
In realtà, andava verso la sua tenda per ben altre ragioni, la prima era riflettere su come agire. Scivolò tra la folla festante, salutò alcuni suoi uomini e, adducendo alla stanchezza di quella campagna che l’aveva infine vista vittoriosa, varcò la soglia della propria tenda.

Giunta che fu alla tenda, si tolse la corazza, da sola. Aveva richiesto che nessuno la aiutasse in quell’atto, preferendo la meditazione dell’attività al pigro farsi servire.
Tolta che fu la corazza, rimase in sottovesti, a osservare un punto buio della tenda.
-Esci, avanti.-, disse. L’ombra si mosse. Un uomo in vesti scure, da popolano.
Ma Serena lo conosceva bene. Era Asrufio, uno dei membri della Stirpe.
-Ave, Serena Prima. I tuoi uomini sono alquanto decisi a festeggiare, cosa che ha reso la mia infiltrazione ben più facile.-, disse. Era un uomo brutto, i lineamenti sbozzati, il viso taurino, il corpo muscoloso ma privo di qualunque accenno di reale bellezza.
I capelli erano stopposi e unticci. Asrufio però era uno da non sottovalutare. Era una spia.
Di quelle brave, Serena doveva alle sue informazioni la recente strategia contro i lealisti.
-Di certo non sei qui solo a mostrarmi le tue capacità.-, disse Serena.
-No.-, ammise l’uomo. Non chiese da bere né da mangiare e la donna sapeva che sarebbe stato suo dovere offrirne. Ma le leggi di Licanes erano così distanti da quelle terre.
-La tua vittoria ha reso folle d’ira il padre del nostro ingenuo Legato.-, disse la spia.
-Questo lo immaginavo.-, rispose Serena Prima.
-Così come forse immaginavi che mi abbia chiesto di uccidere te… e Nimandeo Feral.-, disse Asrufio. Serena non si scompose. Lo fissò, più annoiata che realmente impaurita.
-Suppongo che tu me lo stia dicendo per una ragione.-, disse.
Aveva un brutto presentimento. Improvvisamente, si sentiva esposta a un freddo vento.
La temperatura nella tenda pareva calata, a dispetto dei bracieri che ardevano e delle stuoie che formavano un pavimento più che confortevole.
-Sappiamo entrambi che non ti ucciderò, Serena. Sei vitale per la nostra opera, mai come oggi tuttavia necessitiamo di un tuo segno di lealtà.-, disse Asrufio.
-E di cosa staresti parlando?-, chiese Serena Prima. Non capiva. O meglio, sospettava.
-Nimandeo Feral deve morire. E devi essere tu a ucciderlo. Ho con me un veleno: ne bastano quattro gocce nelle sue bevande o sul suo cibo e perirà come se il suo cuore fosse venuto meno. Un eroe stroncato anzitempo dal fato, come è poetico! Così tu potrai prendere il comando delle sue forze. Ti seguiranno, ormai si fidano. E potrai prendere il Trono.-, concluse la spia con un ghigno soddisfatto.
Il tempo parve frantumarsi. Serena udì la propria voce come se non fosse stata sua.
-Uccidere Nimandeo Feral…-. Si accorse di star tremando. Si accorse di avere mille pensieri in testa. Si accorse… Si accorse di non riuscire a considerare un simile atto come dovuto. Non capiva il perché, non lo sapeva. Asrufio le sorrise, incoraggiante.
-Sì! Pensaci! Siamo così vicini alla fine della nostra grande manipolazione! Dopo così tanto, finalmente il retaggio di Janus rivendicherà il Trono! L’Impero sarà nuovamente unito e avvolgerà tutto il pianeta con il proprio manto! Com’è scritto dal patto tra Janus e i Cimanei, com’è scritto che fosse dal Mandato del Cielo!-, l’esaltazione pareva rendere Asrufio incurante del turbamento di Serena. Lei annuì, meccanicamente. Senza forze.
-E tu sarai lo strumento con cui la Stirpe reclamerà ciò che suo per diritto di sangue! Quale meravigliosa grazia, nevvero, Serena Prima?-, chiese Asrufio.
-Il Trono…-, sussurrò Serena, appena udibile, ancora persa in un marasma di pensieri.
La spia sorrise di nuovo, viscidamente. Si avvicinò. Puzzava di cipolle. Posò sul tavolino una boccetta con un liquido verde scuro, tanto scuro da sembrare nero.
-Quattro gocce. Serviglielo stasera, o domani al più tardi.-, disse Asrufio. Poi, s’incupì.
-Sono certo che farai il tuo dovere, Serena Prima. Non sei tu la prediletta della nostra signora?-, chiese. Serena lo guardò. Annuì ancora. Un ultima volta.
-Allora così sia!-, esclamò Asrufio. Salutò alla maniera della Stirpe e uscì, rapido come una serpe.

Serena si sedette sullo sgabello. Guardò la boccetta. Quattro gocce… quattro gocce e le forze di Nimandeo Feral sarebbero state ai suoi piedi. Quattro gocce e il Trono sarebbe stato a portata di mano. Quattro gocce e la sua integrità morale, in cambio del trionfo.
Il trionfo della Stirpe…

Nimandeo cenava. La zuppa era di verdure e carne. Piccante e bollente era l’ideale per le fredde notti. Insieme ad essa c’era una bevanda calda, una che gli abitanti delle steppe sarmatiche chiamavano Chaa. Era un pastone caldo di erbe, quasi una zuppa a sua volta.
Curiosamente lo aveva salvato da più di un assideramento ed era energizzante.
La guardia entrò, una donna, un Amazzone del Kelreas.
-Mio signore.-, disse, la lancia appoggiata alla spalla, -Serena Prima chiede di vederti.-.
-Falla entrare!-, esclamò lieto Nimandeo. Un lembo della tenda si scansò e Serena Prima entrò. L’uomo le sorrise.
-Hai cenato? Aspetta…-, chiamò un servo.
-Wu, fai portare un boccale di birra e del cibo!-, esclamò. Il servo si affrettò all’uscita. Tornò dopo pochi istanti, con uno sgabello, una scodella di zuppa e del cibo.
-So che la carne è vietata presso l’Impero, o comunque mal vista. Comunque è decisamente ottima e spesso le steppe non offrono molto altro con cui sostentarsi…-, spiegò Nimandeo.
Serena si accomodò. All’uomo non sfuggì il suo fare meccanico, assente. Sospirò.
-Che succede?-, chiese, -Abbiamo vinto, trionfato. La via per l’Antolica Inferiore è aperta!-.
-Lo é.-, ammise Serena. Mangiò poche cucchiaiate di zuppa, evitando la carne e non toccò la birra. Nimandeo la fissò, confuso.
-È per i morti? Per la fine dei legionari lealisti? So che i tuoi uomini non hanno concesso loro una morte secondo tradizione.-, si sforzò di capire, di ridurre la distanza tra loro.
Serena tacque, per un lungo istante. Nimandeo osò alzare una mano, porla su quella di lei.
-È terribile, lo so. Spesso la guerra obbliga anche a questo, trasforma gli uomini e le donne in bestie sanguinarie senza criterio. Penso però che tu già lo sappia. Ma i tuoi uomini… erano adirati. È sicuro che la loro ira li abbia portati a tanto.-, disse.
Lo sguardo di Serena dardeggiò lungo la sala. Nimandeo Feral sospirò.
-Uscite tutti. Tranne Serena Prima non voglio nessuno qui.-, ordinò.
-Signore?-, chiese l’Amazzone, titubante.
-Tutti, Kalitha. Nessuno escluso.-, ordinò di nuovo Nimandeo. Uscirono tutti.
-Ora siamo soli.-, disse dopo che tutti ebbero lasciato la tenda. Serena tacque.
-Parlami.-, sussurrò lui, -Ti prego.-.

Serena Prima stava vivendo un conflitto interiore terribile.
Da una parte c’era il suo dovere per la Stirpe. Per il lignaggio che aveva a lungo servito.
Uno scopo, uno scopo enorme, più grande di lei e di tutti loro, questo l’attendeva.
E il prezzo era… la sua anima. Ora capiva cos’aveva provato Aristarda Nera quando, molto tempo prima, le aveva proposto di consegnare Alexander Varus e la Prima Lama in cambio della sua defezione.
Serena sapeva di aver compiuto atti dubbi, ma mai, mai aveva svenduto il suo onore.
Eppure… l’alternativa era mortalmente, brutalmente semplice.
Se non avesse ucciso Nimandeo avrebbe avuto contro la Cerchia, Aristarda Nera, Calus e anche i Justicarii. Tutto il mondo contro Serena Prima. Da quel lato era semplice autoconservazione. Tanto più che Nimandeo Feral era un barbaro. Si vestiva, comportava e mangiava da barbaro. Non era un Romaneo, non più. Non era degno di esserlo.
La morte sarebbe potuta essere vista come una liberazione.
Sull’altro piatto della bilancia c’era la sua integrità. Rinnegare la Stirpe, l’Impero, restare con Nimandeo, divenire una barbara a sua volta. Bere quelle bevande fermentate così strane, mangiar carne e lasciare che le mani di giovani ancelle compiacenti la massaggiassero. Ma… senza uno scopo. Nimandeo non voleva il Trono.
Gli bastava starsene da solo, regnante di un regno suo che nulla aveva a che spartire con l’Impero, lontano dalle lotte, dalle congiure, da un Trono che, sebbene ancora in piedi era ormai divenuto repellente. Parole come “lascito degli avi”, “mandato del Cielo”, “retaggio” e “dovere” non avevano presa alcuna su di lui, se non quella che lui poteva dire di volere.
Serena ingoiò una cucchiaiata di zuppa senza neppure sentirne il sapore.
“Che scelta… Tradirlo e tradire me stessa, o tradire tutto ciò che sono”, pensò.
Non c’era una scelta giusta. Ma lei voleva, esigeva, che si palesasse una scelta accettabile.
Una scelta che lei poteva accettare. E ne aveva in mente una sola.
Una soltanto, che di fatto sapeva, lui avrebbe odiato. Ma che avrebbe, forse, capito.
-Serena!-, esclamò Nimandeo Feral. La giovane alzò lo sguardo. La mano di Nimandeo era sulla sua. Calda, callosa. Una mano da popolano. Lei prese fiato, per dire le quattro parole più importanti e forse le ultime di tutta la sua vita. Dentro di lei, le difese che aveva eretto attorno a sé, barriere di orgoglio, di ferocia, di mera volontà, si tesero all’estremo.
-Io ti ho tradito.-, disse. Vide il viso di Nimandeo contrarsi nella sorpresa.
Le barriere esplosero dentro Serena. Fu come se improvvisamente un vento tempestoso le scuotesse l’anima, flagellando strati su strati di vita, anni interi lacerati alla luce di un emozione così forte da essere insopportabile. Durò un lunghissimo istante.
Poi le lacrime tracimarono e Serena Prima si mise a piangere.

Nimandeo rimase inchiodato da quelle parole. Poi si alzò. Esattamente in quell’istante, Serena prese a singhiozzare, piangendo in modo così vero da far male.
“È bellissima anche ora…”, pensò. Ma su quel pensiero aleggiavano le sue parole: di che tradimento parlava Serena. Cos’era? Di cosa si trattava? Girò oltre il tavolo, giungendole a fianco. Le posò una mano sulla spalla. La tirò a sé, abbracciandola.

Serena non reagì all’abbraccio. Il petto di Nimandeo le parve un rifugio naturale, di cui però non si sentiva degna, per nulla. Si strappò a quel conforto.
“Non me lo merito! Non me lo merito! Andrò verso la fine con fierezza… Da sola.”, pensò.
-Io ti ho tradito, Nimandeo. Sin dal primo momento, sin dal primo istante. Ti ho tradito perché non servivo te, ma me stessa e coloro che, come me, ambiscono al ristabilirsi della linea di sangue di Janus.-, disse tra i singhiozzi.
-Tu…-, sussurrò lui, -Perché? Come?-, chiese, incapace di capire.
-Io sono Serena Prima, figlia di Itarus Primo e Sveva Prima Aurica. Mia madre fu figlia di Norio Bolinus Aurico, a sua volta figlio di altri, a risalire sino a uno dei figli del Secondo Imperator. Questo sono, e ce ne sono altri come me. Siamo la Stirpe, la Cerchia, i figli e le figlie dimenticate di Roma e di Licanes, un patto di sangue che trascende i secoli.-, disse. Ora non piangeva più, le lacrime erano finite e ogni parola le pareva un passo, sofferente, verso una liberazione così bramata…
-Manipolammo nell’ombra per secoli, tra regni e regnanti, per preparare il momento in cui, nel Caos in cui l’Impero fu fagocitato, avremmo potuto rivendicare il Trono. E guidare il mondo alla prosperità sotto l’egida e il dominio di Roma.-, spiegò Serena.
-Ma… perché?-, chiese Nimandeo dopo un lungo istante.
-Perché ora?-, domandò. Serena non riuscì, semplicemente non riuscì ad articolare una frase chiara. Poi infine, si decise. Trovò le parole.
-L’assassino non ti fu mandato da Calus, ma da un nostro agente. E io avevo il dovere oggi, di avvelenarti, prendendo il comando e rivendicando il Trono.-, disse. Appoggiò la boccetta di vetro contenente il veleno sul tavolo.
Nimandeo annuì. Ora le pareva calmo, freddo. Tradito? Serena sospirò. Restava solo una parte della recita da concludere, l’ultima e la sola.
-Non ti ho ucciso perché tu non lo meriti. Non sei un uomo malvagio, né un tiranno, per quanto alcuni possano definirti tale. Non ti ho ucciso perché….-, Perché? Per qualcosa che neanche lei capiva sino in fondo, -Non ti ho ucciso.-, sussurrò infine.
-E ora sai che sarà mio dovere uccidere te.-, disse Nimandeo. Non c’era ira in quelle parole.
Serena annuì, liberata da quella condanna. Sorrise appena. “È finita.”, pensò.
“Ho vissuto una vita intera per le scelte di altri, Septimo, Calus, mio padre, la Stirpe, Eria… Almeno questa scelta, l’ultima, è la mia.”.
-Dammi la possibilità di recitare le mie preghiere. E chiedo che i miei uomini cantino il Moripatres, affinché la mia anima possa, se gli Dei vorranno, ascendere al Cielo dei guerrieri.-, disse.
Nimandeo annuì, si voltò. Arrivò a un armadio. Lo aprì. Scostò alcune vesti. Prese qualcosa. Un’arma, Serena ne era certa. Chinò il capo. Lo avrebbe fatto lì? L’avrebbe uccisa in quella tenda? Sola e dimenticata, da tutti tranne che dal suo carnefice. Andava bene.
-Dei…-, sussurrò. Incominciò a recitare una preghiera, anche se sapeva che non ricordava correttamente il testo. Sperava che gli Dei mostrassero misericordia per le sue mancanze.
Poi alzò lo sguardo. Ammutolì. Il fato era veramente un grandissimo burlone. O forse, semplicemente, lei era cieca. Totalmente. Assolutamente. Magari, molto più semplicemente, quello era ciò che i Monaci Zen-Shura chiamavano Karma. La conseguenza degli atti avvenuti che ci troviamo ad affrontare, alla fine.
In qualunque caso, Serena Prima non riuscì davvero a spiegarsi come mai Nimandeo Feral avesse in mano un Tantō sguainato. E le implicazioni la travolgevano impedendole di ragionare. L’uomo parlò, con voce calma.

-Non fosti solo tu a tradirmi, Serena. Anche io ti ho tradito. Fui in gioventù addestrato da una donna, Mirea Vanariae, una dei Justicarii. Le lotte intestine nell’Impero non mi interessavano ma presi il voto di combattere il male, ovunque l’avessi riconosciuto.-, disse, -Quando Roma m’inviò per queste province la incontrai. Duellammo e lei mi vinse. Mi lasciò vivere, ordinandomi di non turbare la quiete dei barbari. Appresi i loro usi e mi feci loro protettore, loro custode.-.
-Mirea morì, uccisa da dei briganti, forse agenti della Stirpe che tu servi, ma io la onorai serbando quelle terre e questi popoli, finché non giungesti tu.-.
-Sapevi che ero…-, la domanda che tale non era, morì sulle labbra di Serena, espressa a mezza voce. Un sussurro appena accennato, coperto dallo scoppiettio dei braceri.
-Immaginavo.-, ammise Nimandeo, -Ma non sapevo. Eri… bella. E così non feci ciò che avrei dovuto fare, ossia ucciderti o cacciarti.-. Sorrise tristemente.
-Sapevo che sarebbe stata solo questione di tempo perché i nostri rispettivi passati tornassero a tormentarci, e confesso che sono stanco. Questo mondo è una palude insanguinata funestata da doveri che non sento, flagellata da giuramenti vacui, lambita dalla saggezza di ere passate. E quest’arma rappresenta il mio desiderio di liberare il presente da tutto questo, dalla falsità e dalla nozione di onore buona solo per la forma ma non per la sua sostanza. La Stirpe, come l’Impero, mi era apparsa marcia, ma persino i buoni, anche alcuni tra i Justicarii, non erano certo ligi a ciò che promettevano.-, la voce di Nimandeo assunse una sfumatura triste, non irata, solo delusa.
-Ritrovarmi qui, ai confini dell’Impero, lontano dal marcio, fu come rinascere. Qui l’onore non c’è, se non quello che tu decidi di importi. Qui non esistono cose come il Mandato del Cielo o la volontà degli Dei, solo il fato degli uomini, se poi esiste. Qui è la volontà, più che la parola, a forgiare i destini.-. Serena annuì. Capiva? Sì. L’uomo lo vide. Capiva.
-Lo so.-, sussurrò, -So che tu… hai provato ad aprirmi gli occhi quando parlammo.-.
-E tu non ascoltasti. Ma ora… ora che entrambi abbiamo messo le carte in tavola… Ora dobbiamo decidere.-, disse Nimandeo. Impugnò il Tantō.
-Nessuno di noi due è libero. I Justicarii sanno di te, come la Stirpe potrebbe sapere di me. Come sicuramente sa, a giudicare dal veleno.-, spiegò.
-Quindi…-, iniziò Serena. Lui scosse il capo.
-Nessun quindi. Nessuna fuga. Solo la consapevolezza che uno di noi due deve morire perché l’altro sopravviva.-, rispose Nimandeo, -E in un atto di galanteria impareggiabile…-, gettò il Tantō ai piedi di Serena, -Ti chiedo di lasciare che sia io a perire.-.

Serena lo guardò. Le braccia aperte, il petto muscoloso fasciato dall’abito orientale, in attesa del colpo fatale. Lei prese l’arma. Era leggera, tagliente come se non più delle lame dell’antica Licanes. L’arma dei suoi nemici. Offerta dal suo nemico, insieme alla sua vita.
Una vita per una vita. Serena annuì. Era Nimandeo che lo stava chiedendo.
Alzò l’arma, facendo due colpi a vuoto, saggiando il bilanciamento e il colpo ideale.
Superba davvero. La Stirpe mai aveva sviluppato armi proprie a quel modo.
Caricò il colpo. Nimandeo la guardò. Nessuna paura velava il suo sguardo, quasi che Yneas, il Dio dei Morti stesso la fissasse attraverso i suoi occhi, in attesa dell’atto finale.
Vibrò il colpo, in un istante lunghissimo, il fendente talmente totale da apparirle come un movimento lunghissimo quasi eterno.
“Schiva. Vattene… Disarmami…”, implorava dentro di sé, odiando le catene del dovere, provando repulsione per sé stessa, “Puoi farlo… Uccidimi!”.
Infine. La lama si fermò.

La lama si fermò dopo aver tagliato l’aria con un sibilo. Proprio a poche frazioni di millimetri dal collo di Nimandeo. L’uomo rimase immobile. Vivo.
-Morire per mano tua è la morte migliore che possa chiedere.-, sussurrò.
Serena, l’arma puntata al lato sinistro del suo collo scosse il capo. Non poteva.
-Non ci riesco, Nimandeo. Non posso! Se tu avessi un’arma, sono certa che…-, sussurrò.
-Nessuna menzogna, Serena. Solo la verità. Potrei anche essere armato, ma non riusciresti a uccidermi, non più di quanto io riuscirei ad alzare la mia lama su di te.-, rispose lui.
-Ma…-, Serena farfugliò qualcosa.

Il cervello di Serena Prima accavallò nozioni su nozioni, rigettò universi di dogma, di convenzioni, di ciarpame. Si odiò. Improvvisamente, si accorse di star per piangere ancora.
Era armata, lui no. E non si sarebbe difeso. Le stava offrendo la sua vita. Ma non poteva.
Non poteva ucciderlo, neanche se questo avesse significato perdere tutto ciò che poteva.
Non poteva perché… Perché guardarlo le faceva male, e bene. Perché guardandolo vedeva un campione, un semideo, un uomo che non poteva, semplicemente non poteva odiare.
Ci aveva provato, il Cielo sapeva quanto!, ma non c’era verso. Non poteva.
Si accorse di star parlando, inanellando frasi dopo frasi assurde, giustificazioni, scuse, un flusso di parole, una sequela di emozioni verbalizzate talmente compresse da esplodere.
Poi si accorse di qualcos’altro. Nimandeo si era fatto più vicino.
Una parte di lei si domandò se, a furia di parlare, qualcosa si fosse rotto. Se avesse deciso di agire, di ucciderla. Notò che la sua mano ora le teneva il braccio armato, ma senza la forza necessaria a bloccare un colpo. Ma allora…?
Tutte le domande si disintegrarono quando le labbra di Nimandeo Feral finalmente si congiunsero alle sue. Tutte le frasi ebbero fine, e tutte le menzogne.
In un istante lungo una vita, l’eternità parve schiudersi a Serena Prima. Ma per la prima volta, tutto ciò che voleva era lì, nel presente. Si abbandonò contro Nimandeo, il Tantō che cadeva dalla mano mentre lui la stringeva.
La Stirpe, l’Impero, il dovere… tutto si compresse in una sfera talmente minuscola da essere un granello di polvere nell’infinito. Il loro bacio occupava tutto l’universo. Tutto il presente e tutto il passato. Sentì le mani di Nimandeo Feral sulla schiena. La stringeva piano, ma con fermezza. Lei si sorprese a sentire qualcosa. Un fuoco, un calore che mai un uomo aveva saputo risvegliarle dentro. Pensò a Eria, a tutte le altre donne che aveva amato. E scoprì che… non significavano più nulla. Ora c’era lui. Lui e lei.
Sentì la bocca di Nimandeo Feral lungo il collo, volta a baciare punti che sapeva essere sensibili. Brividi presero a correre lungo la spina dorsale. Poi… Poi si accorse di star facendo lo stesso, di stargli baciando il petto. Il fuoco divenne brama, languore.
Come se, dopo aver tanto vagato spezzata, divisa, avesse ritrovato una parte di sé.

Nimandeo Feral aveva sognato quel momento. Sin da quando l’aveva vista aveva desiderato solo quello. Nelle loro conversazioni aveva sperato in uno spiraglio, atteso, pazientato. Aveva disertato molte sue cortigiane da quando Serena Prima era entrata al suo servizio. Perché era lei che, apparendo da terre di cui quasi non serbava ricordo alcuno, aveva ridato un senso al battito del suo cuore. Baciò la pelle della giovane in corrispondenza alla base del corpo. Cercò la spilla della toga. La trovò. Esercitò una lieve pressione. L’abito cadde. Serena sorrise. E Nimandeo la vide. I suoi tatuaggi aggiungevano bellezza e mistero a un corpo già stupendo, ancora intatto e privo di cicatrici di guerra.
Rimase in contemplazione dei seni di lei per un istante. Poi sorrise. Lei sorrise.
Allungò una mano. Sciolse un nodo. La veste di Nimandeo si aprì. Lui se la tolse. Il torace muscoloso accolse il lieve tocco delle dita di Serena con trepidazione. E l’uomo prese a baciarle i seni, come un neonato bramoso di latte. Serena lo strinse a sé, gemendo appena.
Poi scese piano sul petto. La giovane lo lasciò. Mosse appena un passo. La veste si svolse totalmente. Ora, salvo le calzature, Serena Prima si mostrava in tutta la sua nuda beltà.
Nimandeo sorrise. Ringraziò gli Dei per quel dono. Per avergli accordato quella grazia.
Lei guardò i suoi calzoni. Li tolse piano. Nudi, uno davanti all’altra, parvero prendere un lunghissimo istante solo per riconoscersi, per osservarsi, per assaporare con gli occhi.
Poi, lentamente, si avvicinarono. Serena Prima seguì le sue cicatrici, baciò e sfiorò quei segni come lui prese a contemplare e accarezzare i suoi tatuaggi. Raggiunsero il talamo con passi incerti, abbracciati, frementi. Serena fu adagiata sul letto. Nimandeo si chinò tra le sue cosce. Lei parve irrigidirsi. Lui annuì, più a sé stesso che a lei. Incominciò a baciarla. Cosce, pube, ombelico, poi sempre più in dentro, sempre più precisamente, sempre più vicino al centro del di lei piacere. Quando iniziò a vezzeggiare la vulva, Serena gemeva.
Anche Nimandeo era desideroso di lei, enormemente. Ma si controllò e prese a onorarla, piano, con pazienza. La sentì contrarsi piano, fremere al suo tocco.

Serena Prima era in paradiso, gli occhi chiusi, poi aperti, assaporava le sensazioni travolta da quel piacere. Non pensava che un uomo ne sarebbe mai stato capace. Ma Nimandeo non era un uomo qualunque. Sentì il piacere travolgerla come un’onda di mare. Scossa come un giunco dal vento godette. Cercò la carne dell’uomo. Lui la baciò. La sua bocca sapeva di lei. Trovò il suo sesso. Era grosso. Le avrebbe fatto male?
Improvvisamente si accorse che non le importava: sarebbe volentieri morta per sua mano, ogni altra sofferenza sarebbe stata tollerabile, e la sofferenza dell’amore era quella cui lei maggiormente anelava! Si stese sulla schiena, fremente. Toccò appena tra le cosce.
Era pronta. E anche lui. Si mise tra le sue cosce, il sesso rigido impugnato, preparato.
Le passò il glande sulla vulva, sfiorando il clitoride, strappandole altri versi di godimento.
-Dentro… ti prego…-, sussurrò Serena. Non avrebbe resistito senza sentirlo in sé.
Quando la penetrò la sofferenza fu solo un istante, una parentesi infinitesimale nell’oceano di piacere che la sommerse.

Nimandeo Feral era un buon amante, ma, davanti alla vulva di Serena Prima, aperta e pronta, aveva temuto di esplodere prima del tempo. Sentirla implorarlo era stato lo sprone definitivo. Era affondato dentro di lei. Arrivato sino in fondo la sentì avvinghiarsi a lui, avvolgerlo, assorbirlo, assolverlo… Un amplesso che aveva qualcosa di magico, di mistico.
Era quello l’amore? Gli somigliava molto, da come lo avevano spesso descritto i poeti.
Uscì quasi totalmente e rientrò, incominciando una serie di colpi che lo portarono ad accompagnare Serena Prima a un secondo, formidabile orgasmo.
La giovane ora gemeva, usando gambe e braccia per attirarlo, imprigionarlo, e mai Nimandeo aveva bramato tanto la prigionia. Le unghie di Serena gli graffiarono la schiena. Lui continuò, continuò.
E quando la conclusione avvenne, quando sentì il godimento giungere fu come se improvvisamente una tempesta lo avvolgesse. Stretto a Serena, godette con lei, in lei.
E con lei respirò nuovi respiri, radi, rapidi, il cuore in subbuglio, l’animo così limpido come non era stato da tempo immemore. La guardò e seppe, con assoluta chiarezza di aver trovato ciò che a lungo aveva cercato. Un rifugio dalla tempesta. Un’anima affine alla sua.
Come se infiniti anni di solitudine, fossero d’un tratto terminati.

All’indomani, Serena Prima uscì dalla tenda. L’esercito era schierato a lutto.
Nimandeo Feral era morto, si diceva. Ora obbediva interamente a lei.
Asrufio la aspettava fuori dal campo. Sorrise.
-Bene! Vedo che la Cerchia ha fatto bene a fidarsi di te. Fedele sino in fondo, eh?-, chiese.
-Sì.-, ora non c’era incertezza. Nessuna nel tono di Serena. Avvolta nel mantello bianco, in simbolo di lutto, osservava Asrufio con rabbia.
-Beh, era ora! Ora, per quanto riguarda le prossime mosse…-, iniziò lui.
-Sembri stanco, Asrufio. E so che con te vi sono altri uomini. Uomini della Cerchia.-, disse Serena. La spia annuì.
-Vi prego di seguirmi al campo: vi offrirò cibo e riposo.-, disse lei. Non attese risposta.
La seguirono. Circospetti ma la seguirono. Sino alla tenda del comando. Non sfuggì ai nuovi arrivati che i soldati parevano troppo presi nei loro doversi per fare domande. Erigevano una pira funebre. La slama di Nimandeo Feral era coperta da un velo bianco. Sacerdotesse del Kelreas, vestali della Dea Madre, lo vegliavano, insieme alla sua guardia.
Entrati nella tenda, Serena si accomodò sul trono che era stato di Nimandeo Feral.
-Ora… possiamo parlare.-, disse Serena. Ordinò a uno schiavo di portare da bere.
Asrufio bevve. Ma il vino terminò dopo un bicchiere. E l’uomo sorrise.
Ottimo vino! Sorrise. E improvvisamente li vide.
Uomini quattro. Due uomini e due donne. Avvolti da impermeabili in pelle, cappe scure.
Le loro lame erano note. Tantō. Si mossero sorprendentemente rapidi. I suoi compagni cercarono di reagire la ma la lotta fu breve. Brevissima. I quattro Justicarii ebbero presto ragione dei nemici, l’unica a venire risparmiata fu una donna dai tratti anatolici.
E Asrufio. Che guardò Serena.
-Traditrice! Puttana! Cosa ti hanno promesso?-, le parole parevano sputate.
-Niente. Proprio niente.-, rispose una dei Justicarii. Una donna. Pelle scura, capelli lunghi, veste in cuoio e una mitraglietta a tracolla, oltre al Tantō in pugno.
-Non mi hanno promesso nulla. Sono stata io a chiamarli. La mia vita è mia, Asrufio. E né la Cerchia né i Justicarii ne disporranno.-, disse Serena.
-Nimandeo è morto. Vuoi il Trono? Accomodati!-, esclamò Asrufio, -Ce lo riprenderemo!-.
Uno dei Justicarii si tolse il cappuccio. Nimandeo Feral. Ripulì la lama dal sangue pulendola sulla veste dell’uomo che aveva ucciso.
-Le voci sulla mia morte sono state abbastanza esagerate. E tu abbastanza stupido da scegliere di crederci.-, disse. Asrufio rimase a bocca aperta.
E si accorse di non riuscire a respirare. Realizzò cosa fosse. Il veleno! Il maledetto veleno!
-Quattro gocce.-, disse Serena, priva di ogni emozione. Asrufio crollò a terra.
La giovane alzò lo sguardo. Serena Prima sorrise.
-Tu porterai il mio messaggio alla Stirpe. E poi, a Roma.-, disse. La giovane, impaurita a dispetto dell’odio, annuì.
-Riferirai loro che Nimandeo Feral e le sue forze, con me e le mie, abbandonerà l’Impero di Roma. Gli dirai di non cercare vendetta poiché i Justicarii procederanno a vendicarci. E concluderai dicendo loro che da ora, le terre soggette a Nimandeo Feral entrano a far parte della Confoederatio Asiae, e che estendono a Roma una mano in amicizia, ma non in sudditanza. Riferirai tutto questo. Esattamente come te l’ho detto.-, disse Serena.
La giovane annuì di nuovo. E Serena le diede un cavallo e provviste per raggiungere le linee lealiste.

Fu così che fu fondata la Confoederatio Asiae, comprendente numerose isole e tribù. Essa, rafforzata dal regno di Nimandeo Feral e successivamente di suo figlio, Aliseo, si disinteressò interamente al destino dell’Impero di Roma e divenne un fiorente crocevia di popoli, sorvegliato dalle armate federali strette in un patto di mutua alleanza, prosperità e soccorso. Serena Prima e Nimandeo Feral vissero come marito e moglie per i successivi cinquant’anni quando poi Nimandeo morì per cause naturali. Serena, abdicando in favore del figlio, si fece monaca presso i Monaci Zen Shura e scrisse le proprie memorie nel libro Historia Primae. In esso, insieme a un breve racconto delle sue radici e della sua famiglia, vi è anche la postilla per il futuro, affinché mai più sorga un potere che opprima i popoli.
Serena Prima morì sessantatré anni dopo la fine dell’Impero.

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