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Racconti Erotici Etero

La Caduta. Oltre il Confine (3)

By 30 Giugno 2021No Comments

Fu allo schiarire che precede l’alba che lo vedemmo, spinti dalla tentazione non detta di voltarci a vedere. Fumo. Colonne di fumo. Presagio della fine di Fez.
Sentì Fatma piangere al mio fianco dolorosamente conscia del fato della città che l’aveva vista crescere. Mi affondò la testa nella spalla quando la abbracciai, io invece sentii le lacrime pungere e mute cadermi lungo le gote. Non era morta solo una città, ma un’era.
Dov’era finito l’onore di Roma, di Licanes? Dov’erano i codici di guerra che garantivano salvaguardia a donne e bambini? Dove le regole sacrosante secondo le quali nessuna città nemica sarebbe stata distrutta in tal guisa, se non per vedere una più gloriosa ricostruzione alla luce delle nostre usanze? Dov’era finita la purezza dei nostri intenti? Il sacro patto fatto da Janus alla fondazione di Roma, la promessa di un futuro migliore per il mondo?
Morto, sepolto, imputridito e abbandonato. Tant’era. Se c’era stata speranza, anche solo in parte, per l’Impero di Roma, ora era certamente finita. Quale futuro per le sue genti?
Quale futuro per me? E quale per la reliquia che portavo meco?
Mai, mai come in quel momento, mentre stringevo Fatma in lacrime e il mezzo continuava la sua marcia lungo il deserto, mai mi sentii tanto perduto.

Più tardi, Fatma si addormentò. Il suo fu un sonno agitato, turbato. Io rimasi sveglio.
Il nostro mezzo, guidato da Mahmud avanzava lungo il deserto, per nulla disturbato dai predoni che avevano tanto funestato il mio primo viaggio.
Chiaro che chiunque avesse anche solo avuto notizia del sacco di Fez, avrebbe senz’altro iniziato a considerare di lasciare la zona, alla svelta. Probabilmente c’era chi stava pensando che Roma, dopo tanto disinteresse si fosse decisa ad espandersi in quelle terre.
In realtà, io sapevo sin troppo bene quanto tale timore fosse infondato, già da prima del mio abbandono dell’Impero, molti avevano sconsigliato una simile mossa e Septimo, ben prima della Guerra Civile, ne seguì i consigli. Il territorio attorno a Fez non aveva letteralmente nulla per cui valesse la pena combattere e non c’era nessun motivo per cui Roma avrebbe dovuto inviarvi truppe.
Eccetto che ora un motivo c’era. Il motivo era appeso alla mia cintola, indistinguibile da un qualsiasi altro coltello, eppure completamente diverso e dal potere terribile.
La Reliquia della Fondatrice, il Coltello di Layla. Per questo le truppe di Roma si erano mosse, ma il saccheggio? A tanto era giunta la loro frustrazione per non aver trovato la suddetta reliquia? O era invece stata la paura che l’oggetto fosse fuori dalla loro portata, ormai venduto, o peggio fuso, o distrutto a scatenare il lato più selvaggio delle truppe di Roma? Perché tanta efferatezza e tanta brutalità quando le leggi di Roma, leggi scritte dal nostro Fondatore!, avrebbero vietato simili atti?
A che sarebbe servito per loro ritrovare la reliquia se, dopo tali atti, il loro onore sarebbe stato minore di quello dei barbari? Lentamente, innalzai una supplica agli dei, ma ancora, il cielo rimase vuoto e io abbandonato a forgiare il mio destino, senza altro aiuto che le mie forze. Mahmud guidava, apparentemente fuso al mezzo, taciturno, indecifrabile.
A tratti, pareva perso, assorto tanto da non appartenere più al mondo mortale, in comunicazione con esseri privi di legami con la materia. Ma era solo un’impressione.
In realtà, forse anche Mahmud aveva paura, ma la nascondeva, o la sopprimeva, assorbendosi completamente nel proprio compito, annullandosi in esso.
Una forma di meditazione basilare…
Quanto a me, cercai di pensare lucidamente a come muovermi, a dove andare. Nuakchott era un porto e conoscevo qualche parola dell’idioma locale ma nulla che permettesse di mercanteggiare un passaggio. Una fortuna che con me ci fosse Fatma.
Fatma… Mi sentii in colpa: a causa mia aveva perso tutto. Avevo il dovere, l’obbligo di ridarle qualcosa di quella vita che le avevo indirettamente tolto. Dovevo darle sicurezza, un luogo dove poter stare, dove poter vivere in pace e guarire dal dolore.
Bevvi un sorso dalla borraccia, dedicando un pensiero a Ferius. Era morto? Era riuscito a fuggire? Mi augurai che gli dei riservassero a lui e a Sagira un fato clemente, nella vita o nella morte. L’acqua era quasi tiepida. Sospirai. Mancava ancora un po’. Mi assopii.

Fu diversi minuti dopo che mi svegliai. Mahmud stava parlando con un uomo. E con lui ce n’erano altri due. Fatma, al mio fianco, mi trattenne dall’alzarmi.
-Sta cercando di convincerli che sei malato e che devi andare a Nuakchott per essere curato. Sono banditi shufta, uomini senza onore né pietà. I Romanei devono aver messo una taglia sulla tua testa.-, disse Fatma. Mi fece alcune carezze, dicendomi alcune parole nella sua lingua che io non capii. Cercai di esporre meno pelle possibile, sembrando inerme e prostrato per via di qualche morbo. Intanto riflettevo.
Erano in tre. Armati e capaci. Se Mahmud non fosse riuscito a evitare che mi riconoscessero, avrei dovuto combatterli, ma anche se fossi stato in grado, ero pur sempre uno e loro pur sempre tre. Un sudore gelido mi scese lungo la schiena.
Gli shufta blateravano tra loro in quell’idioma spigoloso che riconobbi come tipico di quelle terre. Non parevano particolarmente persuasi. Con mia sorpresa, alla voce di Mahmud si unì quella di Fatma. La giovane iniziò un’invettiva che pareva decisamente irritata, se non proprio irata, verso gli uomini. I banditi tentarono di rispondere ma lei non demorse e, dopo dieci minuti di lunga attesa, sentii Mahmud riavviare il mezzo e ripartire.
Sentii Fatma sedere accanto a me.
-Cosa gli hai detto?-, chiesi. Lei sorrise.
-Ho detto loro che il nostro dio tiene alla compassione più di qualunque opera e che la Sua ira li colpirà se oseranno infliggere sofferenza a gente già malata. La gente del deserto, shufta inclusi, teme la collera di Dio, quindi non hanno osato fermarmi. Poi ho dato loro alcune monete, affinché la loro cupidigia non restasse insoddisfatta.-, spiegò.
Io sorrisi. Grazie a lei avevamo evitato un problema non da poco.
-Grazie.-, sussurrai. Lei si chinò e mi baciò. Desiderai non finisse mai. Chiusi gli occhi, sprofondato in un universo solo nostro. Fu stupendo. Essere tra le sue braccia e stringerla tra le mie risvegliò in me un desiderio mai sopito di un’unione più profonda.
Il nostro bacio fu lungo un’eternità e comunque troppo breve, interrotto da Mahmud.
-Guarda!-, esclamò Fatma. Puntava col dito una colonna di figure in lontananza. Uomini e bestie. Una carovana, capii. Fuggitivi di Fez? Forse.
-Sono diretti a Djama. Laggiù parleranno di quello che i Romanei hanno fatto alla nostra terra.-, sussurrò Fatma. Io annuì. Era terribile. Roma aveva rovinato le vite di moltissima gente. Per cosa? Un pugnale? Un mero pezzo di metallo?
Mahmud borbottò qualcosa.
-I Romanei non si aspettano che i popoli di questa zona si uniscano. Avranno una brutta sorpresa.-, disse Fatma, traducendo quel che Mahmud stava dicendo.
-Già.-, dissi io. Mi rivolsi a lei.
-Insegnami la tua lingua. Io ti aiuterò a capire la mia.-, dissi. Lei sorrise.
Iniziò a spiegarmi. Mischiò le nostre lingue come le nostre bocche si erano incontrate, con naturalezza e senza timore. Lentamente, iniziai a capire. La lingua dei Popoli del Libro era aspra, arida e dura come la terra da cui essi provenivano, ma era una lingua elegante, fiera a suo modo. Un idioma particolare. Imparai in poco tempo alcune delle parole basilari, poi spiegai a Fatma alcune espressioni in lingua romanea. La giovane sorrise, ripetendole deliziata. Mangiammo e bevemmo e anche Mahmud si rifocillò.
-Presto arriviamo a Naukchott.-, disse Mahmud in un’appena accettabile esibizione di padronanza della lingua romanea. Io annuii. Improvvisamente mi sorse un dubbio.
-Perché non ci ha consegnati agli Shufta, o ai Romanei?-, chiesi a Fatma.
-Ha onore. Per quelli come lui la parola è sacra. Gli Shufta sono inaffidabili.-, disse, -Giurano di esserti amici e poi ti accoltellano alla schiena. Lui non è così. Ferius lo sapeva.-.
Annuii. Era una garanzia a dir poco fragile ma mi sarebbe dovuta bastare.
Improvvisamente, Fatma pianse piano, lentamente. L’abbracciai di nuovo.
La fine di Fez non sarebbe svanita ma, come ferita inferta di lama, avrebbe bruciato e sanguinato ancora, per lei come per molti altri.
D’improvviso, fu verso sera che Mahmud ci fermò.
-Sta giù!-, esclamò Fatma. Mi rannicchiai in una posizione fetale, coperto da strati di tessuto impregnati del sudore perso durante la giornata. Li vidi di sfuggita. Due uomini.
Non erano shufta, le loro vesti sebbene desertiche erano chiaramente inadatte a celare le loricae plumae, le armature leggere degli ausiliari dell’Impero. Erano giunti sino a lì.
-Saluti, viandante.-, disse uno in lingua romanea mentre l’altro traduceva, -Ti chiediamo di lasciarci perquisire i tuoi passeggeri. L’Imperatrix lo richiede.-.
L’Imperatrix? Aristarda Nera? Era lei che aveva annichilito Fez? Non volevo crederlo, ma se così fosse stato, sarebbe stata solo la conferma dell’evidente ipocrisia dei pretendenti al trono. Sentii Mahmud parlare, spiegare. Pregai, supplicai che la recita funzionasse di nuovo. Ma pareva che persino gli dei più benevoli e le migliori fortune voltassero lo sguardo altrove, a tratti. I due non parvero convinti.
Mahmud scese dal mezzo. Lento e sorridente, mani alzate sopra il capo. Fatma fece per muoversi, indecisa ma determinata. E io, io provai una sensazione che sentii altre volte.
Vergogna, colpa. Fez era caduta a causa mia… E ora altre due persone stavano passando guai per colpa mia… Una catena a cui ero legato?
Ma quelle domande lasciarono il posto all’azione: Mahmud sguainò da dietro la schiena un pugnale lungo e curvo e lo calò verticalmente. Il capo coperto di uno dei due soldati incassò, la lama che s’incastrò in esso tra schizzi di sangue. L’altro non stette fermo ed estrasse la propria arma, un coltello corto. Si lanciò su Mahmud, il quale accolse lo slancio del suo nemico. Caddero a terra tra grugniti e colpi corti. Fatma scese dal mezzo e anche io. Brandii il Coltello della Fondatrice ma notai improvvisamente che il mio intervento non sarebbe servito: Mahmud si rialzò, il coltello sporco di sangue stretto in mano. Il suo nemico giaceva a terra, una macchia cremisi larga sul petto trafitto.
Poi, anche il nostro compagno parve incespicare. Fatma fece per aiutarlo e notò quel che anche io vidi. C’era una ferita, decisamente molto grave. All’altezza del torace, profonda. La bocca di Mahmud era contorta in una smorfia di sofferenza e c’erano bollicine cremisi lungo gli angoli delle labbra. Si accasciò.
-Resisti…-, sussurrai avvicinandomi. Fatma premette sulla ferita.
-È finita. Vado verso i miei padri…-, sussurrò l’uomo, morente, -Andate…-.
Spirò così, quasi in pace. Non c’era tempo per seppellirlo: prendemmo con noi quanto potemmo e riprendemmo a marciare verso Nuakchott che raggiungemmo poche ore dopo, mentre la notte scendeva su di noi.
La città era animata, a dispetto dell’ora. Il mercato continuava la sua attività e le vie erano trafficate. Istintivamente sentii una fitta d’ansia. Nuakchott non aveva guardie e la gente pareva malevola, lo vidi quando molti rivolsero a Fatma sguardi tutt’altro che cortesi e gesti apertamente lubrici. C’erano ubriachi per le vie e altri alterati da sostanze che ora non desidero descrivere. In ogni caso, la gente di dubbia moralità era molta e non si vedevano guardie se non quelle destinate alla protezione di alcuni punti o personalità che Fatma mi descrisse come “gente che conta”. Il resto dei “cittadini” doveva badare a sé stesso.
E in quel microcosmo di violenza ci addentrammo, la nostra sola sicurezza era l’attenzione, la modestia la sola difesa e la speranza di trovare una nave che ci conducesse su isole lontane dove ricominciare il solo obiettivo.

Nel mentre, nel deserto meridionale, carovane di viandanti e scampati al sacco di Fez si riunirono. L’oltraggio subito dai popoli del deserto fu tanto e tale da incendiare gli animi dei timorosi e tacitare le voci di prudenza. L’armata che si riunì era raffazzonata ma composta da svariate etnie che un tempo erano state ostili o indifferenti le une alle altre.
C’erano gli Hezeri, i Dari, i Memeluk, persino le tribù che non veneravano il dio dei figli del deserto presenziarono, decisi a opporsi all’arroganza di Roma.
Così fu che l’armata, invero enorme, pianificò l’attacco, che si abbatté sulla provincia di Carthaena e sulle Isole Tripolitanee come una valanga di devastazione e furia.

Il nostro errare per Nuakchott fu semplicemente un giro in un diverso universo.
Più volte fummo squadrati da occhi bramosi, ostili o curiosi e più volte temetti per la mia incolumità e quella di Fatma.
Trovammo alloggio in una locanda rumoreggiante di voci e imprecazioni e numerosi furono gli sguardi lubrici che gli uomini dedicarono a Fatma, ma per intercessione di un colosso d’ebano il cui nome mi era ignoto, quegli sguardi si placarono alla svelta.
L’uomo mi fece un sorriso, che probabilmente posso definire amichevole.
Pagammo la camera. Fatma aveva ancora con sé diversi soldi.
Abbastanza per una nave? Abbastanza per far perdere le nostre tracce? E poi?
Me lo chiesi. Onestamente. Per la centesima volta.
In realtà non avevo una risposta. Solo vaghe idee che di fatto non aiutavano.
L’idea di gettare il Coltello della Fondatrice in mare non era tra queste: Socrax me l’aveva affidato, e l’avrei protetto, con la mia vita, anche se di fatto questo avrebbe significato continuare a soffrire e fuggire. Perché sapevo che i pretendenti al trono non avrebbero mai, mai e poi mai, ceduto quell’arma. A nessuno.
Forse era una decisione sbagliata, ma la fiducia attribuitami dal mio maestro e le sue ultime volontà erano semplicemente vincolanti. Mancare nei suoi confronti avrebbe significato per me il non riuscire più a guardarmi allo specchio.
Estrassi la Lama della Fondatrice. Era un coltello particolare, diverso da ogni altro, chiaramente nato al di fuori di Licanes e delle sue usanze.
La lama era nera, brunita, e nonostante l’evidente utilizzo e i graffi, era evidentemente ben tenuto. Il filo era ancora tagliente e la punta acuminata. L’arma era una vera zanna. La lama era larga, la punta a uncino era il culmine della lama robusta lunga ben diciotto centimetri, evidentemente creata sia come utensile che come arma vera e propria. L’impugnatura aveva due anelli in cui infilare le dita indice e mignolo. Una cosa che non potevo dire di capire appieno: una simile presa avrebbe impedito di cambiare agevolmente impugnatura.
Eppure, era comunque mirabile. L’impugnatura era rivestita in pelle di qualche predatore e l’intera arma pareva irradiare un’aura a suo modo mitica. Restai a osservarla, per un lungo, lunghissimo istante.

-Cos’è?-, chiese la voce di Fatma. Trasalii: in preda alla contemplazione non l’avevo sentita entrare. Posai il coltello.
-Scusa, ti ho spaventato.-, disse lei. Si avvicinò, -È… un’arma. Non sapevo ce l’avevi.-.
-Avessi.-, corressi io, -E no, non lo sapevi… Ma c’è una ragione.-. Lei si sedette accanto a me. Così vicina che potevo sentirne l’odore. Sapevo di doverle spiegare.
-Perché la nascondi?-, chiese. Io sospirai. Sì: dovevo spiegarle. Lo dovevo a lei e a tutto il dolore che quell’arma aveva, e forse avrebbe, causato.
-Perché quest’arma è stata il motivo di tanto dolore, e temo lo sarà di nuovo.-, dissi.
-Allora buttala via!-, esclamò lei con semplicità e ingenuità quasi toccanti. Io le sorrisi.
-Vorrei. Vorrei ma non posso. Ho fatto una promessa al mio Maestro.-, dissi tristemente.
-Di tenere il coltello?-, chiese lei. Io annuii.
-Il tuo Maestro è morto?-, chiese Fatma. Io annuii di nuovo.
-Allora non temere: ai morti non importa cosa facciamo delle promesse fatte a loro. Sono oltre.-, disse lei con un sorriso.
-Sì, ma io sono ancora qui. Ho promesso. Non posso infrangere la promessa…-, dissi.
-Perché? Perché è così importante?-, chiese la giovane. Nei suoi occhi e nel suo tono non c’era rabbia, o tristezza, solo volontà di comprendere, di condividere. Di rendere meno grave il mio fardello. Io ponderai le parole.
-Perché questa lama fu presente alla fondazione di Roma. E fu impugnata da una donna, una guerriera la cui fama eclissò quella di molti uomini valorosi.-, dissi.
-E allora?-, chiese Fatma. Non capiva. D’altronde non era facile.
-Allora chi ottiene questa lama può concretamente dirsi candidato al Trono di Roma.-, dissi. Lei si accigliò. Io sospirai.
-Chi ha la lama, controlla Roma.-, dissi, semplificando la cosa. Lei annuì.
-Tu ce l’hai. Perché non sei re di Roma?-, chiese.
-Perché a Roma c’è già un re. Che vuole la lama. E altri. Che la vogliono per diventare re.-, spiegai con un sorriso mesto, -E sono stati loro a… distruggere Fez. Per questa.-. Le diedi il Coltello. Fatma lo prese, guardandolo, girandolo.
-Non capisco.-, disse, -Non capisco perché.-.
-Neanche io.-, mentii io, -Neanche io.-. Ripresi il coltello e lo nascosi tra le nostre bisacce.
Era tardi. Ed ero stanco. Il tizio nerboruto di prima ci portò della zuppa. Fatma pagò con poche monete. Mangiammo.
-Ma se è così importante, allora perché non lo comprano? Ti pagano e tu lo dai, no?-, chiese Fatma. Io sospirai. La zuppa era una brodaglia orribile in cui galleggiano erbe e verdure e filamenti neri che forse erano i capelli dell’oste.
-No. Non funziona così. Loro non pagheranno. Se lo prenderanno, capisci?-, chiesi.
-No… Non capisco. Perché tutta questa morte?-, chiese lei, i pugni serrati e gli occhi lucidi di lacrime prossime a tracimare.
-Perché…-, mi fermai. Non avevo una risposta, non sapevo cosa dire, non avevo idea di come concludere quella frase. E lei mi guardò, speranzosa, in attesa di una parola che desse un senso alla follia degli uomini.
Ma non ce ne potevano essere. Per quanto fossi ferrato in retorica, filosofia e dialettica, non potevo, semplicemente non potevo spiegarle a parole qualcosa di così totale.
L’uomo è folle. Uccide, stupra, ruba e massacra perché semplicemente è così.
Perché a dispetto di ogni esempio d’onore e pietà, è troppo facile scegliere il male.
Perché, la tentazione era semplicemente troppa. Essere buoni non pagava. Mai.
La verità, era tutta lì. E se l’avessi detto, avrei letteralmente ucciso Fatma.
Perché lei ci credeva, nel bene. Il mio, il suo, quello nei cuori degli uomini.
Lei ci voleva credere. E quindi, agiva cercando di fare il bene, e nella sua ingenuità vedeva la più semplice soluzione al dilemma che mi avvolgeva. E io avrei solo voluto poterle dire che aveva ragione, gettare la Lama della Fondatrice in un vulcano, o in una fucina rovente e andarcene. Ma… no.
Lo spettro di Socrax era ancora lì, ancorato alla lama. Una presenza invisibile e intangibile ma pesantissima. Gravava su di essa, vincolandomi a quell’acciaio con la mia parola data.
Ma per questo avevo mentito. Perché spiegarle che quella lotta ormai non era più ristretta all’Impero di Roma, ma avvolgeva ormai il mondo, era semplicemente troppo.
Mi feci forza e mangiai la zuppa, cercando di non pensarci.
Cercando di tenere stretta la speranza che quell’ordalia sarebbe finita, che ne sarei uscito, con Fatma.

La cena terminò mezz’ora dopo. Digerii con calma, aiutato dal calice di vino dolce.
Essere lì, in quella stanza con un pagliericcio appena passabile come letto e quel vino dolceamaro che scorreva in gola mi pareva stupendo, principalmente perché con me c’era Fatma. Rimanemmo a lungo a parlare. Nella sua lingua, poi nella mia, poi ancora nella sua.
Parole, frasi, sintassi, concetti. Pratica e pratica e poi ancora pratica.
Conversazioni fatte per apprendere. Lei e io alla fine non eravamo diversi. Entrambi eravamo curiosi, bramosi di qualcosa in più. Fatma sorrideva deliziata ogni volta che riuscivo a correggere la pronuncia di qualche espressione in quel suo idioma.
E io, a mia volta, apprezzavo il momento in cui lei formulò correttamente una serie di frasi senza fare errori. E, senza un motivo preciso, ci avvicinammo. Tanto da baciarci.
Fu un bacio lento. Piacevolissimo, lieve, leggiadro come la rugiada sui fiori di primavera.
Il primo bacio fu così. Lieve e fuggevole come la brezza primaverile.
Il secondo fu già più lungo, indulgente e passionale. Il mio cuore batteva forte, come il suo.
Desiderio, di entrambi, questo sentivo. La nostra brama dell’altro, vicendevole e mutuo desiderio che non abbisognava di verbi per essere espresso.
Ci avvicinammo, avvinghiati in un abbraccio stretto, volto a escludere il mondo e la sua ferocia dal nostro universo. Le nostre bocche si cercarono di nuovo, mai sazie.
La volevo, la volevo così tanto da non poter aspettare, ma sapevo che non potevo semplicemente prenderla. Dovevo… volevo essere certo che anche lei mi volesse.
Mi strinse più forte, come a volermi stritolare. Il suo corpo era morbido, soffice. I muscoli erano poco allenati, ma in quella stretta c’era la forza di chi amava, di chi voleva che restassi. Di chi, in fin dei conti, aveva già scelto. Perché deluderla o tentennare?
Ci baciammo di nuovo, stavolta le mie mani presero ad accarezzarle la schiena, piano. Lei mi sorrise, guardandomi dopo che ci fummo staccati un istante.
-Non temere. Lo voglio quanto lo vuoi tu.-, disse. Io sorrisi. Certo che lo voleva.
Le sue mani mi accarezzavano il petto, indugiando piano sino all’addome, scivolando lungo la veste, cercando aperture. Io le accarezzai il viso, scesi lungo il collo, poi sul petto. Il cuore di Fatma batteva come quello di un uccellino, trepidante.
Come anche il mio. Sentivo il mio membro ergersi. La giovane mi accarezzò il petto da sotto la veste. Me la tolsi, mentre lei slacciava un nodo. La sua veste si aprì, come un meraviglioso fiore. Sotto di essa Fatma non indossava che una cortissima sottoveste che copriva il pube e il sesso. Rimasi a bocca aperta. Lei sorrise.
-Sono così bella?-, chiese con quel suo accento stupendo. Io riuscii solo ad annuire.
Lei mi accarezzò il petto e la sua mano indugiò un attimo prima di sfilare il cinglarum e abbassarmi i calzoni. Il mio sesso balzò prepotentemente fuori dagli strati di tessuto.
Lei lo fissò. Dubbiosa? Timorosa? O solo compiaciuta? Non lo seppi dire. Mi dedicai a baciarle piano il seno. Lei gemette appena.
-Oh… che bello… continua… Mi piace…-, lo disse nel linguaggio di quei luoghi, scossa da brividi che testimoniavano la veridicità delle sue parole.
La sua mano continuava ad accarezzarmi il petto, scendendo sino all’ombelico, ma senza spingersi a toccare il mio sesso eretto. L’altra mi spingeva contro i seni, come a volermi soffocare con essi che, pur piccoli, parevano molto ricettivi.
Le mie mani le accarezzavano la schiena, le natiche e si spingevano sino a sfiorare il pube.
-Così…-, mormorò lei. Sfiorai ancora il tessuto tra le sue cosce e sentì qualcosa di umido e caldo. Fatma pareva già ben avviata verso il godimento.
Mi staccai piano, lei mi lasciò andare, come timorosa di avermi deluso. Le sorrisi. Le presi una mano. Intrecciai le sue dita alle mie, come fosse stato un rito.
-Ti amo.-, sussurrai in lingua licanea.
-Ti amo.-, rispose lei, nella stessa lingua. Ma lo ripeté subito nella sua lingua natia.
Il nostro bacio successivo fu molto più passionale. Io le sfilai piano le sottovesti. La contemplai facendo un passo indietro. Nuda, Fatma era stupenda. Mi sorrise.
-Le donne della nostra gente si scoprono raramente il capo.-, disse prima di slegare il velo.
I suoi capelli corvini si sciolsero lungo le spalle. Le sorrisi. Ero stregato.
Vederla così era come un pugno allo stomaco, un colpo che mai mi sarei stancato di ricevere. Si avvicinò. Con dita esitanti mi carezzò il membro. Gemetti. Lei si fermò.
-Continua…-, sussurrai. Lei sorrise. Lo carezzò di nuovo e infine lo prese in mano, piano, esitando ancora, neofita di arti amatorie. Lentamente, goffamente, scoprì il glande.
Socchiusi gli occhi. A dispetto della mancanza di esperienza, il trattamento di Fatma stava piacendomi molto. Le carezzai i seni, la mia mano destra scese, sino ad accarezzarle le cosce, poi s’infilò tra di esse, alla ricerca del suo pertugio così caldo, pregno di umidore.
Lo trovai. Carezzai, sfiorai. La giovane reclinò il capo, gemendo piano, ma quasi ininterrottamente mentre la masturbavo. Non misi dita dentro: non sarebbe stato giusto.
Era la sua prima volta e non volevo che fosse meno che memorabile.
Oltretutto, avrei potuto andare troppo a fondo, rischiando di sottrarle la verginità con un atto troppo ardito, cosa che non avrei voluto. Fatma aveva già perso molto.
Quella notte doveva essere perfetta.
Memore di passate esperienze, trovai il clitoride e presi a carezzarlo piano.
Fatma gemette appena, un gemito modulato che si ripresentò ogni volta che sfioravo quel punto così delicato. La giovane mi carezzava piano il membro, come timorosa di sbagliare.
Desideravo omaggiarla appieno, così le chiesi di stendersi. Lei lo fece. Mi stesi accanto a lei. Ci baciammo di nuovo, e lentamente la sentì aprire le gambe. Scesi sino a poter baciare la sua intimità fremente. Leccai e succhiai il suo petalo spumeggiante, e Fatma andò in visibilio. Colava miele. Il pube era leggermente peloso, forse a causa dei loro costumi, ma era un dettaglio cui non feci caso.
-Fammi tua, Alexander.-, sussurrò lei. Io annuii. Mi piazzai tra le sue cosce.
Affondai tra le sue pieghe, piano, poi fino in fondo. Sentii lo strappo. Un gemito più alto degli altri e improvvisamente le ero dentro, era mia. E io suo. Rimasi immobile, lei mi avvinghiò come un serpente, gemendo piano. Io la strinsi. Uscii e rientrai. Ancora e ancora.
Fatma mormorò parole che non capii nella sua lingua, mentre mi stringeva con forza insospettabile per quel corpo minuto. La baciai. Ci scambiammo baci frenetici mentre sentivamo montare il piacere. La giovane era un vaso di miele bollente.
Infine la sentii stringermi con i muscoli più segreti e sentii di essere a mia volta prossimo al gran finale. Eiaculai prepotentemente dentro le viscere di Fatma, mentre lei mi mordicchiava il collo. Crollammo abbracciati.
Solo molti istanti, o ere, dopo, lei mi baciò, sussurrando che era stato bellissimo.
-Ringrazio che mio fratello si è opposto alla purificazione.-, disse. Io la guardai interrogativo. Lei mi prese la mano, portandosela tra le gambe e con un dito, sul clito.
-Alcune donne… viene tolto questo.-, disse incerta sulle parole. Io annuii. Mi pareva barbarico. Ringraziai gli dei che una tale sorte non fosse toccata a lei.
Restando abbracciati ci addormentammo.

Il sogno prese tinte poco chiare. Una sagoma ammantata d’ombra, come proveniente dall’altra riva del fiume dei morti. Come se Yneas stesso avesse voluto farmi visita.
-Trova il tuo cammino.-, disse con voce chiarissima e lontana.
-Il mio… cammino?-, chiesi all’eternità e all’infinito. Nessuna risposta. Non capivo.
Ero solo nel vuoto. Nel buio. Tenebre tutt’attorno.
E non comprendevo.
E bramavo salvezza.

Mi svegliai di soprassalto. Fatma, accanto a me, dormiva. Guardai la finestra della camera.
Era ancora presto. Non era ancora sorto il sole.
“Dovrò svegliarla.”, pensai. Ma non volevo. Addormentata, la giovane pareva felice. Un sorriso quieto si delineava sul suo volto, una pace che non le avevo visto in viso da prima della nostra fuga da Fez. Eppure, il dovere chiamava.
Fu durante la mattinata che mi accorsi che eravamo seguiti. Avevamo soldi, molti, ma non erano visibili e all’apparenza eravamo una coppia di umili viandanti. Ma qualcuno, lo potevo chiaramente sentire, ci seguiva.

Non ero un guerriero, né particolarmente ferrato nella sottile arte della consapevolezza ma, complice anche la tensione del mio esilio, ero giunto a un certo grado di auto-imposta prudenza. Mi guardavano intorno di sottecchi, cercando di memorizzare dettagli, come in quel caso. Nel marasma di visi e uomini, nella calca che pareva circondarci come un muro era difficile muoversi, figurarsi l’idea di individuare un pedinatore.
Ma, realizzai, ciò valeva anche all’inverso: in una simile folla, difficilmente qualcuno avrebbe potuto seguire efficacemente un’altra persona, a meno di non essere veramente un esperto in tale arte. Con cautela, continuai a camminare con Fatma al mio fianco.
Notai il primo di loro solo dopo pochi istanti. Procedeva ritto, apparentemente ignaro dell’attenzione che attirava a causa del mantello che, pur sporco, era di fattura migliore di molti altri. La foggia era chiaramente licanea.
Uomini di Aristarda? O di Septimo? O di altri ancora? Non importava.
Dovevamo seminarli. Scivolammo lungo vicoli e strade secondarie.
-Cosa stiamo facendo?-, chiese Fatma.
-Evitiamo di essere seguiti. Ce n’è almeno uno. È un Licaneo.-, dissi.
Il suo stupore la fece quasi inciampare lungo una pietra dissestata.
-Per il coltello?-, chiese lei. Io annuii. Quella lama, quella maledetta lama, ancora spingeva gli uomini al massacro! Avrebbe meritato di venir fusa.
Ma… no. Per ragioni che non capivo, che neanche riuscivo a capire, non potevo farlo.
Gettai una rapida occhiata dietro la spalla. Seminati? Pareva di sì.
-Dobbiamo trovare una nave. Lasciare questo posto. E partire verso altri lidi.-, dissi.
Il guaio era che non sapevo né se saremmo stati al sicuro né tantomeno per quanto.
Fatma annuì. Pur tesa, non pareva così spaeventata da compiere atti folli.
-Di qui!-, disse entrando in un vicolo. La seguii.
Vicolo cieco!
-Fatma, cosa?-, chiesi.
-Mi dispiace, Alexander.-, rispose lei. I due uomini erano dietro di lei.
Licanei, entrambi, a giudicare dai tessuti e dal viso.
-Perché?-, chiesi soltanto.
-Per te. Perché ti amo. Perché voglio che possiamo vivere lieti. Senza la minaccia di Roma, o di chiunque…-, gli occhi della giovane figlia del deserto erano pregni di lacrime. Io stesso ero prossimo alle lacrime, il cuore un baratro spalancato sul cielo spietato.
-Ma non capisci? Mi stai chiedendo di consegnare Roma a dei tiranni!-, esclamai.
-Non m’importa! Roma, l’Impero, e tutto il resto, non dipende da noi! Non dipende da te!-, rispose lei.
-Li hai cercati tu. Li hai avvisati. Hai fatto sì…-, sussurrai, comprendendo appieno la portata della sua scelta.
-Sì. Ma non per tradirti. Io ti amo! Ti prego, se mi ami, rinuncia. Rinuncia a quel coltello. Andiamo via. Cerchiamo un isola solo nostra! Loro ci daranno i soldi, sai?-, chiese Fatma.
-Sì.-, disse in lingua romanea uno dei due, un biondo col viso cotto dal sole, -Abbiamo molto denaro, nobile Alexander Varus.-, avanzò di appena un passo, mani alzate e calmo. Io arretrai istintivamente, più vicino al muro.
-Chi ti manda?-, chiesi.
-Noveria Maltia. Desidera acquistare il pugnale. Abbiamo con noi abbastanza soldi da poterlo pagare. Dicci il tuo prezzo.-, disse l’altro. Era avanti con gli anni. Un veterano.
-Un’ennesima signora della guerra!-, sputai a terra. I due rimasero impassibili. In attesa di una risposta.
-Dacci il pugnale, Alexander. Ci dispiacerebbe versare sangue licaneo, ma lo faremo.-, disse il biondo.
-No!-, urlò Fatma, -Avete promesso!-. Si mise di fronte a loro. Io estrassi il pugnale. Lo impugnai.
-Se volete averlo…-, mi misi in guardia, pur conscio che contro due nemici addestrati le speranze erano pari a zero, -Venite a prenderlo.-.
Il biondo scansò Fatma con una manata. Si avvicinò, estraendo un coltello di foggia romanea.
-Stolto…-, sibilò preparandosi a colpire. Schivai l’attacco. Cercai di contrattaccare ma lui eluse a sua volta.
L’altro osservava, quasi divertito. Fatma, in ginocchio singhiozzava, conscia dell’imminente tragedia.
E improvvisamente, le ombre presero corpo. Da una porta laterale che pareva chiusa sbucò un uomo, la carnagione scura, muscoloso e alto più dei due soldati di tutta la testa. Le braccia erano come tronchi d’albero. Il veterano se lo vide sbucare all’improvviso.
-Non ti riguard…-, non finì la frase: il pugno del nero lo catapultò indietro, mandandolo K.O.
Il biondo si voltò, dandomi un istante. Colpii ferendolo al braccio. Lui indietreggiò. Avanzai.
Il mio avversario incalzò. Riuscì anche a ferirmi a una gamba. Dolore bruciante. Lottai per restare in piedi, per non perdere l’arma. Per non morire. E il grosso agì: avvolse un braccio attorno al collo del biondo, disarmandolo con rapidità notevole. Nella sua mano il coltello pareva ridicolo.
-Raccogli il tuo amico e vattene. Dopo ciò che voi Romanei avete fatto a Fez, non vi sarà pietà. È la tua sola occasione.-, sibilò all’orecchio del biondo dopo aver stretto un po’. Lasciato il malcapitato, si assicurò di vederlo sgattaiolare via insieme al suo incosciente compagno prima di guardare me e Fatma.
-I Romanei non conoscono vergogna! Venire qui a importunare donne e passanti!-, ringhiò.
-Sai dove possiamo trovare una nave?-, chiesi.
-La mia. Il mio nome é Tork. Ti offro il passaggio, ma sappi che tu e la tua compagna dovrete lavorare.-, disse. Io guardai Fatma. Lei non mi guardò. Teneva lo sguardo basso, pur annuendo.
-Fai strada.-, dissi.
Sparimmo in direzione del porto e salpammo dopo poche ore.

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