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Racconti Erotici EteroTrio

La Caduta. Oltre il Confine. Tempesta.

By 30 Settembre 2021No Comments

Cambiammo dunque rotta, verso l’oceano esterno.
Le isole amiche svanirono dall’orizzonte, sostituite presto dalla distesa d’acqua.
La vedemmo al secondo giorno: una nave. Solitaria, veleggiava verso la nostra. Noi non rallentammo. Giustamente, Tork decise di evitare lo scontro, continuando a veleggiare verso l’Oceano Esterno. Molti osservavano quella nave, chiedendosi perché ci seguisse, forse temendo o pregustando la violenza che sarebbe esplosa quando ci avrebbe raggiunti. Io no. Io sapevo perché ci seguivano, o quantomeno ero abbastanza sicuro.
Venivano per me. Per la lama che nascondevo. Avrebbe mai avuto fine, quel tormento?
Fatma mi guardò, uno sguardo che non celava domande, solo una brutale, assoluta verità.
“Vengono per te, per quel coltello”, questo dicevano i suoi occhi “È colpa tua”.
-Riusciremo a seminarli?-, chiese Izabel a Tork. Erano poco distanti sul ponte. Il viso del capitano parve incupirsi. Rifletté per un po’, poi…
-Per ora no, ma ad est vi è un braccio di mare pieno di secche e stretti. È possibile provare a liberarcene là.-, rispose infine. Si rivolse all’equipaggio, dando ordini.
Io fissavo la nave con timore. Era gente di Aristarda? Gente di qualcun altro? Giunsi a sperare fossero solo pirati, predoni. Ma non ci credevo molto: l’Oceano Esterno era noto per essere tomba di molti predoni e marinai inesperti. Uno non si avventurava attraverso di esso senza buone ragioni e un’ancor migliore esperienza nautica.

La cena a bordo si consumò in un clima teso. Persino Izabel, che sapevo essere gaia e loquace pareva aver perso parte della propria allegria e spacconeria. Amea, poco distante, piluccava il piatto, concedendosi qualche occhiata a vari membri dell’equipaggio.
Fui anch’io oggetto di tali attenzioni ma mi sorpresi a notarle. Non si nascondeva.
Evidentemente si sentiva spavalda. O forse il pericolo incombente la spingeva ad alimentare la lussuria per esorcizzare la paura.
Buffo: di fronte al pericolo ci ricordiamo improvvisamente quale benedizione sia vivere.
Ma quella lezione, e molte altre, ancora non l’avevo assimilata a dovere e avrei avuto modo di ripeterla. Numerose volte.
Comunque, al termine della cena, andai verso il ponte. Non mi sorpresi a trovarvi Tork.
Il capitano si era alzato presto dal tavolo, la verità era che aveva anche mangiato poco e chiunque aveva potuto constatare che non era sereno.
Osservava la nave che ci seguiva, il cipiglio corrugato in un’espressione di evidente apprensione. Pur non volendo disturbarlo, si volse verso di me.
-Alexander.-, disse a mo’ di saluto.
-Capitano.-, risposi. Guardai verso la nave, -Non ci mollano, eh?-, chiesi.
-Non ci mollano.-, rispose lui nella lingua corrente, -Speravo che la lontananza delle coste civili li avrebbe scoraggiati ma pare proprio che ce l’abbiano con noi.-.
Improvvisamente mi resi conto che avrebbe potuto decidere di consegnarmi a loro, se avesse saputo del pugnale e del suo significato.
-Sono predoni. Evidentemente la loro disperazione li porta a tanto. Credo non possano attraccare liberamente nei porti più civili…-, dissi. Tork si voltò, fissandomi.
-No, Alexander. Dei predoni avrebbero fatto diversamente, ci avrebbero bombardati, o avrebbero usato più navi per chiuderci. Lo so perché un tempo anche io fui un predone.-, lo sguardo di Tork, intenso e indagatore si volse nuovamente sulla nave lontana, -Ci seguono perché vogliono qualcosa o qualcuno.-. Deglutii. Evidentemente il capitano aveva già qualche idea al riguardo. Lo guardai come in attesa di ulteriori spiegazioni.
-Su questa nave abbiamo tutti i nostri peccati. Il timoniere, Gerth, è ricercato per due omicidi. Asulfio era un truffatore di prima risma. Ha scampato la pena servendo nella marina di Roma, sino a che non ha disertato. Otis, il cuoco, era un picchiatore. Combatteva nelle arene gladiatorie di Masnissia, ai confini dell’Impero di Roma, e ha conquistato la sua libertà con il sangue di numerosi nemici. Amea… Lei è un altro discorso.-.
-È… tua moglie?-, chiesi. Tork rise, una risata breve ma nondimeno sincera.
-Moglie?! Ah! Amea è una…-, s’interruppe, -Una che mi faccio. Ho qualche amante qua e là. Lei è salita a bordo qualche tempo fa e so che di tanto in tanto qualcuno della ciurma sparisce con lei per qualche minuto o qualche ora. Ma…-, improvvisamente si fece serio,
-Amea non è solo una bella donna. Viene da Roma. Condannata per adulterio, plurimo. Era destinata all’esilio ma l’ultimo suo marito aveva pensato a ben altra pena. L’avrebbe fatta uccidere dopo atroci torture, secondo lui per l’averlo tradito con un garzone di bottega. Amea riuscì a fuggire e abbandonò l’Impero. Se l’è cavata bene. Sopravvivere qui, lontano dalla sicurezza dell’Impero e delle terre civili… non è da tutti.-.
La mangiauomini evidentemente sapeva il fatto suo, pensai.
-E tu?-, chiese Tork, -In quel vicolo quando ti ho salvato pareva proprio che fossi nei guai con la legge di Roma.-. Io sorrisi, a disagio. Se solo avesse saputo!
-Ho… commesso qualche errore. Ma nulla di troppo grave.-, ammisi. Era una balla spudorata: il possesso della Prima Lama avrebbe concesso a chiunque di ascendere al Trono. Ogni governatore o generale avrebbe gettato al vento il poco onore residuo di Roma per impadronirsene, su questo non avevo dubbi.
E Tork mi avrebbe gettato ai pesci, se solo avesse saputo.
-È possibile che siano proprio solo predoni, ma personalmente penso che ce l’abbiano con noi per altri motivi. Non vorrei che fossero gli uomini di Utric.-, disse il Capitano.
-Utric?-, chiesi. Tork annuì.
-Un signore della guerra delle Isole Desolate. Comanda un esercito di sgherri. Si dice che discenda da Re Gunkal, quello che si scontrò con Janus durante il vagare dei Licanei verso i lidi di Roma…-, mi fissò con intensità, di nuovo, -È una storia che conosci.-.
Io annuii. Ogni cittadino di Roma conosceva la storia del Fondatore, l’epopea di Janus.
-E che gli hai fatto?-, chiesi. Tork sorrise di nuovo. Mesto.
-Utric era un buon capo. Razziammo diversi lidi, e c’imbattemmo in regni esotici e mai visti. Meravigliosi e ricchi oltre ogni dire, ospitavano genti fiere.-, raccontò, -Utric prese in sposa Samiramis, la giovane e bellissima erede del regno di Bableonica. Il padre, morente, abdicò in favore del figlio primogenito e la sorella fu promessa in sposa a Utric, per un patto di non aggressione e di vassallaggio.-. Annuii, sapendo che tali usanze erano comuni.
-Samiramis fu dunque affidata alla mia custodia ed era bella, giovane e leggiadra. Una fanciulla come non ne vidi mai e mai ne vedrò. Neppure Amea ha quel fascino. Era altera e fiera, la crudeltà non la piegava.-, continuò Tork. Io intuii, capii.
-Diveniste amanti.-, dedussi. Il Capitano annuì, lo sguardo distante, perso nel tempo.
-Sì. E fu stupendo. Notte dopo notte, con la consapevolezza che il nostro amore non sarebbe durato. Samiramis mi amava perché io avevo saputo conquistare il suo cuore fiero con parole e con amore. Utric, quando arrivammo, fu invece spietato e possessivo. Quando seppe che la sua sposa non era vergine divenne furente. Rinnegò i patti fatti con il regno di Bableonica e ne assalì i porti stringendo alleanza con Vihro, il feroce pirata dei Mari Esterni. Fece attaccare la mia nave dai suoi uomini e mi fece tradurre in ceppi presso la sua reggia. Semiramis fu condannata a essere presa da ogni uomo dell’equipaggio di Utric, e io dovetti guardare, in attesa che Utric decidesse come uccidermi. Riuscii a liberarmi un amico, Guito. Costui mi liberò e io salvai Semiramis. Appiccammo il fuoco alla reggia di Utric ma non riuscimmo a ucciderlo, né a impedire che questi uccidesse Guito con le proprie mani e che una pallottola ferisse a morte Semiramis. Riuscii a portarla via da quelle sponde maledette perché perisse sotto il cielo dei liberi e la seppellii in mare. La mia ciurma mi aveva fedelmente seguito e promisi loro che avrei avuto cura di tutti quanti. Lo feci. Incrociai gli uomini di Utric a Balcinia e poi di nuovo, lungo gli Stretti di Agripatus. Riuscii sempre a farla franca ma sono certo che non ha dimenticato e che, anche se fosse morto, suo figlio Ufdhin proseguirebbe la sua ricerca di vendetta. Ma le bandiere di quella nave sono ignote, e dubito che serva Utric.-, terminò Tork.
-Allora speriamo che non siano tanto motivati a seguirci.-, dissi congedandomi.

Purtroppo ero ben conscio che non era la motivazione a mancare a coloro che ci seguivano: l’ipotesi che fossero predoni o meri naviganti che facevano la nostra rotta si era assottigliata di miglio in miglio sino a sparire.
Ero certo, assolutamente certo che fossero Romanei, o agli ordini di Roma. La domanda era chi aveva dato gli ordini. Aristarda Nera? Nimandeo Feral? Septimo? Qualcun altro?
Non importava davvero. Potevo solo sperare che Tork e l’equipaggio sapessero seminare quella nave come progettavano di fare. In caso contrario…
Preferivo non pensarci. Non m’illudevo che la mia morte sarebbe stata adeguatamente celata. E quale posto migliore che il vasto oceano per farlo?
-Non riesci a dormire?-, chiese una voce. Izabel. La bionda era appoggiata a una parete.
-Non proprio. Neanche tu?-, chiesi con un sorriso che voleva esser cordiale.
-Non dormo molto.-, disse lei. Si avvicinò, -Preferisco godermi la vita.-.
-Lo capisco.-, nella mia mente si stava facendo strada un’idea, una subitanea comprensione. Non era un granché a capire le donne, ma…
-Mh-mh.-, fece lei, -E quindi? Che si fa?-, chiese. Io sorrisi di nuovo.
-La mia cabina è da questa parte.-, dissi. Lei si avvicinò ancora.
-È lontana…-, sussurrò. Mi baciò. Di punto in bianco, senza se né ma. Mi schiaffò la lingua in bocca. Il suo alito sapeva di alcool. Era palesemente brilla, se non peggio.
La sua mano si appoggiò sul mio sesso duro ma ancora avvolto dalle vesti.
D’improvviso, un singulto ci fermò. Voltai il capo. Fatma mi osservava, gli occhi pieni di lacrime, il viso che esprimeva dolore e rabbia. Mi staccai da Izabel disgustato da me stesso.
-Io…-, iniziai nella sua lingua.
-Tu niente! Tu… Tu! Tu!-, la rabbia tracimava da Fatma con tanta violenza che la stessa Izabel fece un passo indietro, cautamente, -Tu sei… un maiale! Peggio! Sei un… Un..!!-, sputò una serie di parole nella sua lingua che non mi aveva insegnato e che sicuramente erano insulti di un certo livello, -Maledico il giorno in cui ti ho conosciuto, maledico il giorno in cui ti ho scelto e maledico me stessa per l’essermi concessa a te! Ti odio!!-.
-Ehi, sorella, vacci piano: non è questione di fig…-, il ceffone che Izabel da Fatma mise fine alla frase. Mise fine a tutto quanto. Speranze, illusioni, riconciliazione. Tutto finì lì.
Izabel si portò piano una mano alla guancia. Il suo viso divenne diverso. Irato.
-Non mancare il prossimo colpo…-, sibilò. Fatma alzò le mani, dilettantescamente pronta.
Io mi misi in mezzo. –Basta!-, esclamai. Notai solo a quel punto che c’era del pubblico. Gente dell’equipaggio che guardava. –Non c’è bisogno di lottare. Fatma…-.
-Cosa? Cosa vuoi dire? Che ti spiace? Che non volevi? Evita!-, la voce di Fatma era intrisa di rabbia, di odio, di… tutto. E quel che era peggio era che me lo meritavo. Tutto.
-Sei come tutti gli altri: non ti bastavo. Ed eccoti qua: a tradirmi con questa….-, altro vocabolo intraducibile a cui Izabel reagì con una sequela di insulti in dialetto hiberico.
-Sì. È vero. Sono un essere ignobile…-, ammisi.
-A dir poco! Sei un verme! Meno! Io ho perso tutto! Ti ho dato tutto!-, le lacrime fecero capolino. Io le vidi. Lentamente, le mani di Fatma si abbassarono.
-Io ho perso tutto per te….- sussurrò, -Per quel coltello!-.
-Coltello?-, chiese Izabel. E fu lì che decisi.
-Sì! L’ho rubato, è vero! Sono un ladro e ora mi vogliono morto per questo! Ma non capisci? Possiamo venderlo! Farci una nuova vita! Devo solo trovare la persona giusta!-, mi sorpresi: avevo mischiato verità e finzione in modo tanto rapido da darmi la nausea.
Avevo mentito a Fatma. Avevo mentito a tutti loro. E ora… Ora dovevo finire.
-Io ti amo, Fatma. So che non ho diritto a chiedertelo ma…-, iniziai.
-Non ne hai, infatti.-, tagliò corto lei, -Hai voluto quel coltello e hai voluto me.-.
-Beh… a me sembra ragionevole…-, disse Izabel.
-A me no! Devi scegliere! O me o quel coso!-, eruppe Fatma.
Poi, improvvisamente, Izabel rise. Rise come un’idiota, della grossa, proprio con il cuore.
-Ti rendi conto? Stai assistendo al più grande sacrificio che un uomo possa compiere. Questo tizio sta umiliandosi per te!-, disse quando poté parlare chiaramente.
Fatma la fissò, improvvisamente confusa, io pure.
-Leccherebbe la terra su cui cammini. Si vede. E questo è qualcosa che io non posso ottenere, neppure in diecimila scopate con lui. Ti ama. Ti ama davvero. Lo vedo da come ti guarda, da come parla. Sei cieca se decidi che fargli scegliere tra te e un coltello lo perderai. Una corda si tira solo fino a un certo punto! Si è già umiliato per te. Cos’altro vuoi?-.
-Tu zitta che lo volevi per te!-, ringhiò Fatma.
-Sì. E questo dovrebbe farti capire quanto sei fortunata. Non la do mica a tutti!-, esclamò Izabel senza negare l’evidenza. Io sospirai. Era una balla bella e buona, ne ero certo, ma perché mettere a nudo la verità? Izabel prese la mia mano. E afferrò un polso di Fatma.
-Su… fate pace.-, disse sorniona avvicinando le nostre mani sino a che si toccassero.
Ero basito. Basito. Non solo Izabel aveva contribuito a evitare, a sua insaputa che la verità sul coltello venisse fuori, ma aveva anche insinuato un dubbio nella corazza di orgoglio ferito e dolore in cui Fatma si era avvolta. Mi guardò e la guardai. Afferrai la sua mano.
-Perdonami!-, esclamai con le lacrime agli occhi. Lei mi guardò. Tirò verso di sé.
Mi strinse in un abbraccio, tanto da farmi quasi male. Voleva farmene.
-Se ti becco di nuovo ti uccido.-, sussurrò al mio orecchio. Io la strinsi in risposta.

Naturalmente non fu tutto così facile. Arrivati nella mia stanza mi fissò, con rabbia.
-Avrei dovuto dire tutto. Tutto.-, disse appena chiusi la porta. Io annuii. Avrebbe dovuto.
-Non l’hai fatto. Potevi farlo.-, dissi. Lei annuì.
-Il coltello. Dammelo.-, disse improvvisamente. Glielo diedi. Senza esitare. Ero stanco.
Lei lo estrasse. Lo impugnò con difficoltà. Lo guardò. Mi prese una mano. Incise appena. E incise la sua. Unimmo le mani lese in una stretta. Un patto.
-Sul mio e sul tuo sangue, per il dio dei miei padri, sarò con te.-, disse.
-Su questa lama, sul sangue versato e alla presenza della Dea, sarò con te.-, dissi optando per la formula del Kelreas, usata in questi casi solo per i giuramenti matrimoniali.
Mi baciò. Con rabbia e con tutto il resto. Accolsi tutto e la strinsi. Lasciai che il Coltello della Fondatrice mi cadesse dalla mano e rimbalzasse a terra. La strinsi.
La volevo. Molto. E anche lei. Ci spogliammo senza perder tempo. I baci successivi furono più dolci, più lenti, più saporiti e veri. Si mise sopra di me lasciando che il mio sesso entrasse dentro di lei dopo le nostre amorevoli carezze.
Io sentii la sua intimità stringermi, accogliermi come se non avesse mai voluto lasciarmi andare. Fatma respirava ansimando, la bocca aperta, parole smozzicate nella sua lingua sussurrate ai venti di una notte placida. E a quegli stessi venti consegnai il mio gemito finale quando, con Fatma sotto di me, godetti dentro di lei.

L’indomani non parlammo molto. Passammo la mattinata insieme, a ricomporre tra carezze e baci un rapporto che avevo temuto perso. A pranzo, Izabel mi fece un occhiolino.
Capiva. Forse più di quanto amassi pensare. Forse, per un istante, avrebbe voluto essere al posto di Fatma, non solo nel nostro talamo, ma nel mio cuore. Anche altri della ciurma mi sorridevano, sornioni, complici. Parevano lieti del mio essermi riappacificato con Fatma.
Il pomeriggio aiutai alle vele. Il vento incalzava crescente, Tork non parlava molto. La nave ci seguiva ancora e le nubi all’orizzonte parevano minacciose.
-Tempesta.-, sentenziò un marinaio dalla pelle cotta dal sole. Non era Romaneo.
-È un male o un bene?-, chiesi.
-Entrambi. Bene perché chi ci segue in difficoltà. Male perché anche noi…-, la sua scarsa padronanza della lingua rese ben chiaro il problema. Annuii.
Cenammo in silenzio. Improvvisamente ebbi un presentimento: quella tempesta avrebbe cambiato tutto. Ogni cosa. Ma non volevo, non volevo che accadesse. Non ancora.

Il lavoro a bordo passava quasi senza che me ne accorgessi e spesso mi dimenticavo dell’incombere della minaccia su di noi. D’altronde, la gioia di avere con me Fatma era enorme, tanto da farmi desiderare, pur segretamente, di gettare per davvero la Prima Lama nell’oceano e dimenticarmi di quell’assurdo fardello!
Il desiderio era tale! Tale! Socrax me l’aveva detto ma era difficilissimo resistere al richiamo della normalità, così simile al canto di antiche sirene.
Saranno mai in grado i normali di conoscere la gioia della loro condizione?
Non volevo però abbandonare quella speranza di normalità, il desiderio di una vita con Fatma al mio fianco, libero di vivere una vita quieta.
Speranza che si rinfocolava ogni volta che il mio sguardo si posava su di lei.
Speranza che ci accingevamo a celebrare la sera, dopo cena, nella nostra cabina.
Vi stavo andando quando mi passò accanto Amea. Gli occhi verdi della donna parvero trapassarmi. Fuoco puro. Notai che non portava reggiseno e che la scollatura era tutt’altro che avida. Mio malgrado, mi sentii eccitato. Amea sorrise.
-Hai fatto pace con la tua compagna…-, disse, -Sono felice per te. Ma sappi che… occhio non vede, cuore non duole, così dicevano gli antichi popoli.-.
-Ho fatto la mia scelta. Sono intenzionato a restare fedele.-, risposi.
-Mh-mh…-, fece lei. Schioccò appena la lingua, facendo un passo indietro. Il suo abito era elegante per gli standard di una nave. La camicetta che indossava era sottile e anche i pantaloni parevano disegnare il suo fisico, come le fossero stati dipinti addosso.
-Voi uomini siete sempre fedeli e retti, almeno finché non decidete il contrario. E basta poco, credimi. Sai quanti membri dell’equipaggio di questa nave hanno una moglie, una famiglia? Sette. Sai quanti di loro hanno rifiutato di unirsi a me?-, si avvicinò. Il suo profumo stordiva. Era un’essenza che parlava di desideri, di lussuria. Non parlai.
-Nessuno.-, si rispose Amea, -Tutti bravi mariti e fedeli, eppure, lontano dai loro giacigli, non si sono fatti scrupolo a fare sesso con me. E che sesso!-, il sorriso della donna ora era costellato di vera felicità, -Credo che l’uomo accoppiato brami l’infedeltà. Brami altro. La routine uccide, il nuovo è vita. La fedeltà ti porterà alla tomba, vedrai. A molti anni da adesso, ad un certo punto ti chiederai: “Fatma farebbe questo? Fatma farebbe quello? Avrebbe fatto questo se glielo avessi chiesto?”, e rimpiangerai di non averla tradita. Ma rilassati: accadrà quando sarai vecchio. Hai ancora tutta la vita davanti per smentirmi!-, il sorriso si spezzò in una risata breve ma sentita. Io scossi il capo. Mi sforzai di ignorare il mio sesso che si ergeva. Avevo fatto una promessa. Non l’avrei infranta.
-Ti sbagli.-, dissi. Amea mi guardò con sufficienza e poi, inaspettatamente, sorrise ancora.
-Sarà. Comunque io non sono gelosa… chissà, magari la dolce e possessiva Fatma potrebbe nascondere una vena perversa, una che necessiterebbe di un’altra donna per sbocciare. Vogliamo scoprirlo?-, chiese Amea. Io sentivo in bocca una palla di sale. Il mio membro era rigido e ben disposto all’idea, ma io ero fortemente scettico al riguardo.
Fatma aveva già mostrato un certo grado di gelosia. Amea era bella, sensuale, qualcuno l’avrebbe definita una vera e propria tigre del guanciale, come l’avrebbero chiamata i popoli a est dell’Impero, ma io non volevo, assolutamente, perdere Fatma per assecondare un capriccio che quella mangiauomini mi stava abilmente insinuando nel cervello.
-Pensaci… In fin dei conti, il sesso tra donne è una cosa che pochi uomini hanno potuto vedere dal vivo e che ancor meno hanno potuto provare potendo partecipare. Non ti piacerebbe essere uno dei privilegiati?-, chiese Amea. Io espirai. Chiusi gli occhi. Li riaprii.
Amea era ancora lì, a guardarmi con un’espressione di pura malizia.
-Non devi rispondermi subito. Ma pensaci con calma. A presto.-, mi superò lasciandomi imbambolato. Io espirai. Avevo improvvisamente caldo. Sentivo il pene turgido e bramoso di soddisfazione. Immagini nient’affatto caste mi balenavano alla mente, Amea e Fatma intrecciate a baciarsi, le loro bocche su di me. Pensieri, idee che non avrei voluto avere ma che nondimeno mi accendevano un desiderio dentro. Espirai di nuovo, cercando di concentrarmi. Di riconquistare il controllo. Uscì sul ponte. La tempesta era più vicina.
Tork e pochi altri manovravano. La nave ignota era distante, ma non tantissimo.
E, la notai, ce n’era un’altra. Una corvetta. Veloce, incredibilmente bella.
Una nave imperiale? O la nave di rinnegati in fuga dall’Impero di Roma?
“Ma perché non si attaccano a vicenda e la fanno finita? Se vogliono la Prima Lama, sicuramente vorranno anche meno concorrenza possibile per ottenerla.”, pensai.
La verità mi apparve chiara: il recupero dell’arma leggendaria veniva per primo, in più poteva anche darsi che entrambe le navi servissero il medesimo padrone.
In ogni caso i nostri guai erano raddoppiati.
-Quanto manca a quegli stretti che dicevi?-, chiesi. Tork scosse il capo.
-Anche auspicando che la tempesta non ci travolga, non abbastanza. Il vento fin qui è stato clemente, ma se dovesse calare dovremmo andare ai remi. E quelle navi sono equipaggiate con tecnologie di altro tipo. Le ho già viste. Motori. Spingono le navi a velocità notevoli, tecnologia di Roma. Di fatto, senza vento, ci raggiungeranno. E poi… vedremo.-, disse.
-Allora preghiamo gli Dei che il vento regga. Almeno fino agli stretti.-, mi voltai. Tork mi prese per il braccio. Mi fissò. Nessun’altro era in vista o a portata d’orecchio.
-Tu sai chi sono, vero? Sai perché ci seguono?-, chiese.
-No…-, iniziai. Lui mi fissò, senza rabbia, piuttosto con insistenza.
-Non sei uno che mente. Dimmi la verità. Me lo devi.-, disse. Io sospirai.
-Ho con me un cimelio di Roma. Un’arma antica. Vogliono quell’arma.-, dissi.
Era una versione breve e purgata.
-L’hai rubata?-, domanda inevitabile. Scossi il capo.
-No. Mi fu affidata ma c’è chi non è d’accordo. Io… non posso dargliela.-, dissi.
-La tua lealtà verso quest’onere potrebbe condannarci tutti, lo sai?-, chiese Tork.
-La mia lealtà non dev’essere la tua, capitano. Per me hai già fatto molto. Se vorrai consegnarmi a loro, o abbandonarmi, non mi ribellerò. Ti chiedo solo se realmente vuoi questo?-. Il silenzio seguì la mia domanda.
-No.-, ammise Tork, -Ma altri dell’equipaggio non saranno così clementi. Io non gli dirò nulla, comunque. Il tuo segreto è al sicuro, con me. Va a dormire. Domani sarà una giornata dura.-, c’era qualcosa di profetico nel tono di Tork.

Tornai verso la mia cabina. Vidi Izabel che dormiva svaccata in una gomena arrotolata.
Giornata pesante anche per lei. Dirigendomi verso la cabina, notai che la porta era aperta.
Notai anche che Fatma rideva. Non era sola?
Entrai. E mi trovai davanti Fatma e Amea. Le due donne erano sedute sul letto, stupendo esempio di contraddizione vivente. Fatma indossava un abito della sua gente che la copriva con pudore quasi eccessivamente rigoroso, mentre Amea era l’emblema della lussuria anche nel vestire. Le due si voltarono verso di me.
-Spero non ti offenda, ma stavo girando per gli alloggi e ho notato Fatma, abbiamo iniziato a parlare e… siamo finite qui.-, disse a mo’ di giustificazione.
Io ero basito. Dubitavo francamente che quell’incontro fosse stato meno che voluto, ma d’altronde non potevo neppure dirmi sorpreso. Una parte della mia mente immaginava cosa volesse Amea, la domanda era: Fatma sarebbe stata d’accordo?
-Nessun offesa.-, dissi, -Spero anzi di non disturbare, so che spesso le donne necessitano di riservatezza per parlare di cose cui noi uomini non siamo addentri.-.
Optavo così per la via diplomatica, quella più cauta. Amea avrebbe fatto la sua mossa?
-Non disturbi.-, disse Fatma, -Stavamo raccontandoci storielle. Amea mi diceva di una sua… avventura.-, concluse. Era arrossita. Palese che l’avventura non fosse timida.
-Capisco.-, dissi con un sorriso.
-…E fu così che me lo trovai davanti, ritto e turgido, nudo e bello come un dio. Ma… purtroppo…-, la voce di Amea scivolò, divenendo inudibile, un’occhiata rivolta a me, -La sua virilità non fu all’altezza della situazione. Diciamo che poche cose ledono la dignità di un’uomo come l’incapacità di soddisfare una donna.-.
-E poi… cosa facesti?-, chiese Fatma, titubante a chiedere ma rapita nondimeno.
Amea sorrise. Io mi appoggiai al muro.
-Beh, la moglie di lui si rivelò ben decisa a dar sollievo ai miei pruriti!-, esclamò la mangiauomini, -E prima che chiediate, sì: lo fece di sua iniziativa. Il marito ci osservò distese a darci piacere, l’una sull’altra, finché non fu in grado di unirsi nuovamente alle nostre danze.-.
-E…-, Fatma non osò chiedere ciò che voleva, ma l’altra le sorrise nondimeno.
-E fu stupendo. Oh, ancora sento quella lingua sui seni, tra le cosce, il di lui membro in bocca! Un oceano di estatica beatitudine! Se è vero che la donna sa sicuramente soddisfarne un’altra come un uomo mai potrà, è pur vero che un uomo può far sentire una donna tale in modi ignoti a noialtre. La combinazione fu fantastica!-, gli occhi di Amea brillavano di desiderio. Io la guardai, lei mi guardò. Sapevo di essere eccitato.
Fatma espirò, sfregandosi le mani sul vestito. Era eccitata anche lei?
Possibile? Possibile che Amea alla fine avesse trovato il modo di inserirsi tra noi, con il beneplacito di quella giovane tanto gelosa, tanto pudica?
“Davvero, le donne sono un universo di cui conosco così poco…”, pensai.
-E lo rifacesti?-, chiesi io, -Fare sesso con uomini e donne allo stesso tempo, intendo.-, chiarii a scanso di equivoci. Amea si voltò a guardarmi, sorridendo.
-Naturalmente!-, esclamò, -E ogni volta fu un’estasi inenarrabile. Proprio non riesco a capire chi, pur potendo avere simili gioie, se ne priva per timore di scoprire cose di sé che potrebbero non piacere o per timori stupidi.-, quanto fu allusiva quest’ultima frase!
Per un istante silenzioso fummo tutti avvinti da qualcosa, una malia inesprimibile a parole, ma perccettibilissima. Guardando Fatma vidi che si sentiva proprio come me.
Amea si alzò, stiracchiandosi maliziosamente, ponendo fine all’immobilità e spezzando, forse volontariamente quella momentanea magia che ci aveva avvolti.
-Beh, si è fatto tardi. Spero mi perdoniate. Ma prima di andare…-, Amea ochieggiò la stanza, guardandoci. Uscì. Io e Fatma restammo basiti, immobili. Si ripresentò dopo qualche istante. Aveva una caraffa e tre bicchieri.
-Penso sia d’uopo brindare, alla vita!-, riempì i tre bicchieri di vino dolce.
Fatma parve a disagio. Amea sorrise, passandole un bicchiere in bronzo.
-Io… non bevo alcool. È… sbagliato.-, disse. Amea sorrise ancora, nient’affatto scoraggiata.
-E chi lo dice? È sbagliato se tu decidi che lo sia. L’hai mai provato?-, cenno di diniego.
-Allora come puoi dire che non ti piace o che è sbagliato?-, chiese la donna con un sorriso ancor più luminoso del primo. Fatma prese il bicchiere. Annusò. Non pareva convinta.
-Forse questo vi aiuterà.-, disse Amea. Prese un sacchettino di tela dalla cintura.
-Cos’è?-, chiesi. Lei mi sorrise, ammaliante.
-Spezie. Vengono da mari lontani.-, spiegò mentre le versava nei bicchieri girando col dito. S’infilò il dito in bocca, leccandolo con voluttà tutt’altro che casuale.
-Perfetto…-, sussurrò. Alzò il bicchiere, -Alla nostra!-.
La emulai. –Alla nostra.-, dissi bevendo. Il vino era dolce ma le spezie, avevano un sapore bizzarro, quasi salato. Sorprendentemente, però erano tutto meno che fastidiose, anzi, bilanciavano benissimo il sapore del vino che, secondo la mia umile e profana opinione non era certamente un vino di eccelsa qualità. Fatma bevve, piano, come assaporando.
Terminato il bicchiere, sorrise. Apparentemente le era piaciuto.
Guardai Amea e Fatma. Erano belle. Il desiderio c’era, era inutile negarlo.
Fatma mi guardò. Sorrise. Assenso tacito? Mi prese la mano, tirandomi a sé.
Amea, insolitamente seria, osservò. Fatma mi abbracciò. La sua bocca calda soffiò parole al mio orecchio. E improvvisamente mia accorsi che non era sua la bocca, né la lingua che mi solleticava piano l’orecchio, con una perizia ignota alla giovane.
-Lascia che accada.-, sussurrò Amea, -Lasciate andare i timori. Vi amate, lo vedo. Non avete nulla da temere.-. Sentii Fatma rilassarsi, baciarmi sulle labbra per poi staccarsi e sentii altre labbra, ben diverse, avvolgere le mie.
Il bacio di Amea fu differente, ma non meno vero di quello di Fatma. Mani accarezzavano il mio corpo, mani diverse, le prime bramose e decise, le altre esitanti ma amorose.
E le mie mani cercavano i loro corpi. Strinsi appena un seno, meravigliandomi di quanto fosse sodo prima di accorgermi che era di Amea. La donna sorrise, baciando Fatma con trasporto. Una mano della ninfomane cercò tra i tessuti della veste della mia compagna un ingresso, un pertugio da cui raggiungere ciò che entrambe volevano. Fatma intanto mi aveva estratto il membro. Conscia improvvisamente di tale sviluppo, Amea sorrise. Lo prese in mano, delicatamente ma non senza brama.
-Decisamente adatto allo scopo…-, sussurrò a Fatma baciandomi. L’altra sua mano, aiutata da quella di Fatma, trovò la via per il seno della giovane e poi più in giù.
Era un paradiso, o almeno ne erano le porte. Per un istante volli dimenticare tutto e tutti.
Poi, un suono che non veniva dalla cabina ma da fuori ci bloccò. Una campana.
La campana di bordo. Tutti stavano salendo sul ponte. Decidemmo senza parlare.

Ci rivestimmo in fretta e furia e salimmo a nostra volta. La tempesta era vicina. Vicinissima. Il cielo trapassato da tuoni e fulmini. La pioggia devastante flagellava il ponte.
-Uomini, ammainare la vela! Tutti ai remi!-, sbraitava Tork.
-Le navi! Guardate!-, esclamò Izabel. Io guardai. E sbiancai sentendo il sangue defluire dal viso. Una delle navi, velocissima, ci stava accostando. L’altra invece ferveva di attività. I suoi occupanti scagliarono i rampini verso la balconata della murata, usandoli poi per scalare la murata.
-Ricacciamoli indietro!-, esclamò Amea. Svanita era la tentatrice lussuriosa. Brandendo un pugnale, la donna prese a tagliare le corde. Erano spesse. Un braccio maschile la afferrò. Lei lo pugnalò, e terminò di tagliare. Un urlo squarciò la tempesta, sfidò il tuono.
-All’inferno!-, ringhiò Amea. Il suo vestito pareva essere stato allargato di forza. Incurante, lei fece gesto che altri giungessero ad aiutarla. Dall’altra nave calò una passerella con un uncino. Si piantò nel legno della nostra. Uomini balzarono a bordo. Mercenari. E una donna. La riconobbi. Vera Nemlia, a capo della guardia di Aristarda Nera.
-No…-, sussurrai appena. Fatma mi strinse la spalla. Si pose davanti a me.
-Marinai! Non ho nulla contro di voi! Consegnateci Alexander Varus e porete riprendere la rotta!-, esclamò la donna. Io mi guardai attorno. Alcuni mi guardarono, palesemente decisi a consegnarmi. Tork s’impose.
-Non esiste! Ucciderò il primo di voi che parla di cedere a questo ricatto! Non siamo traditori! E voi non siete i benvenuti! Alle armi!-, esclamò sguainando una sciabola.
Altri impugnarono coltelli, spade e pistole a proiettili solidi.
Io estrassi il pugnale, la reliquia maledetta. Non esisteva. Non avrei permesso che accadesse. Ero deciso a impedirlo. Ma non avrei avuto realmente modo di farlo:
Un’onda enorme travolse le nostre navi. Abbracciai Fatma stringendola, pregando qualunque dio in ascolto di avere misericordia. Strinsi la Lama della Fondatrice con la disperata volontà di trascinarla negli abissi con me se fossi morto.
Poi fu solo buio, acqua e caos.

Eria ringhiò. Era riuscita ad arrivare in cima alla murata ed aveva rapidamente trapassato la donna dagli occhi verdi che aveva tentato di fermarla. La scagliò fuoribordo.
E la vide. Un onda enorme, immane. Urlò di rabbia. No! Non ora! Non adesso!
Inutile: il fato non poteva essere negato o ingannato. La travolse.

Anche Vera Nemlia urlò la sua sfida al fato. Quando l’onda si abbatté su di lei, si era già tolta la corazza ed aveva rapidamente abbandonato le armi. Troppo peso era morte sicura e lei voleva sopravvivere, aveva ancora una missione. Una a cui non avrebbe rinunciato.
Sussurrò una supplica alla Dea del Kelreas quando l’onda la inghiottì.

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