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Racconti Erotici Etero

LA DERIVA DEI SENSI

By 17 Maggio 2005Dicembre 16th, 2019No Comments

Le ciglia erano lunghe, lunghe, lunghissime.

Parevano di fata.

La bella sembrava addormentata con gli occhi aperti.

Erano celesti, e pieni di passione e desiderio, lo stesso che faceva fremere di brividi di piacere il suo bel corpo. Stava nuda sopra il letto, con indosso soltanto le belle scarpe con i tacchi a spillo, in vernice verde.

Le labbra rosse erano come le ciglia.

Sì, erano dolci, ma sapevano anche morsicare, i denti bianchissimi avevano da poco lasciato il loro inconfondibile segno su di una mela rossa, dimenticata sul comodino, che poi lui aveva voluto succhiare.

L’aveva sentita di miele, lo stesso vellutato gusto di cui sapeva la bocca di lei, fatta per baciare, per accarezzare, ma anche per succhiare.

Ma torniamo alle sue ciglia.

Era attraverso quelle che la maliarda osservava i giochi del suo amico, la cui lingua ancora fremeva su quei tacchi a spillo, che le ornavano i piedi, dalle unghie dorate.

Osservava quel gioco senza fine senza mai stancarsi. E nel frattempo, con le mani dalle dita lunghe, giocherellava con i suoi lunghi capezzoli rosa, che parevano fatti ad uncino, piena di speranze di piacere.

Sentì la lingua che saliva lungo il suo corpo, dall’estremità del tacco a spillo, su, su, fino alla caviglia, dopo essersi soffermata sul punto erogeno del piede, su, verso il ginocchio perfetto, che pareva quello di una Venere, su, verso la porta greca del piacere che le stava tra le gambe.

Lei abbassò ancor più le belle ciglia e sussultò.

Due lacrime d’argento le scesero dalle palpebre sulle guance, fin quasi alle labbra: la lingua di fuoco del suo amante era arrivata a insidiare piacevolmente il suo piacere, e ad accenderlo, sì, là dov’era più donna, là dove le fiamme bruciavano più forte.

Si sentì lambire da un velluto provocante, si sentì profanare ed immolare, in nome di un desiderio inconfessabile, irrinunciabile, si sentì travolgere da un mare tempestoso, da onde spumeggianti e invincibili, mentre andava alla deriva dei sensi.

Oh, sì, la deriva dei sensi venne, e fu forte, tanto, tanto forte!

Quella lingua, quelle labbra, che succhiavano e carezzavano, consolavano e torturarono, non le davano pace. Era proprio quello che voleva. La bella si agitava e si dimenava sul letto, gettando grida di passione soffocata.

– Non smettere… Ah! Ancora, sì, uccidimi!

Questo diceva. Sì, voleva che quella bocca la uccidesse, ma di piacere, soltanto di piacere.

Stringeva forte tra le mani le lenzuola di lino purissimo, presto, sì, presto, si diceva, si sarebbe appassionatamente vendicata su di lui. E venne così il momento di prendere tra le labbra il fallo del suo uomo, lo fece, d’istinto, guardandolo con i suoi occhi languidi languidi, dolci, come quelli di una fata, nata per incantare.

Mentre succhiava e baciava, mentre mordeva e accarezzava, sapendo di poter far male, ma non osando, sognava.

E sognò a lungo, insieme al suo compagno, le belle palpebre turchine abbassate, i denti bianchi, d’avorio, che illuminavano il suo sorriso, occupato da un bacio di sesso e d’orgasmo.

Piangeva.

Sì, piangeva, ridendo, per quanto fosse possibile durante quel rapporto, perché un dito le si era insinuato tra le piccole labbra, saliva e scendeva, lento, sapiente, su, verso il clitoride e il monte di Venere, penetrava poi nella vagina, cercando di raggiungerla nel più profondo della sua femminilità.

Intanto lei era occupata.

Non doveva farlo venire, no, non doveva, non doveva.

La bella finestra dai vetri all’inglese, nel frattempo, sbatteva a tratti contro il muro, fuori, il cielo era grigio, benché si fosse in maggio, e presto la pioggia avrebbe toccato con le sue mani invisibili i tetti e le guglie di quella città qualsiasi, perduta nel cuore dell’Europa.

Poteva essere Berna, o forse, Amburgo, o Copenaghen, non ricordo, proprio non ricordo.

Folate di vento improvvise spargevano nella stanza i profumi e gli olezzi dei fiori di maggio, fragranze delicate e intense, fatte per inebriare e per stregare.

Nel frattempo, lui si irrigidì, mandò un lamento, e lei comprese che era il tempo che le sue labbra lo lasciassero, perché altrimenti, il gioco sarebbe finito.

– Adesso verrà la deriva dei sensi, sì, verrà la deriva dei sensi, andremo alla deriva dei sensi, nell’amplesso più folle del mondo…

Così diceva la bella fata, nuda, mettendosi a sedere sul letto, e alzando le belle ciglia, con un sorriso languido languido. Rideva. Intanto si toccava i seni grandi e nudi, decorati con piercing meravigliosi, e mostrando al suo lui quel bel cuore infranto, rosso, che si era fatta tatuare sulla schiena, non senza piacere.

Si alzò e prese la mela, da una bella guantiera d’argento, dimenticata sopra il pianoforte. Vi diede un morso e la masticò lentamente, mostrando, nel frattempo, le belle gambe al suo amico del cuore. Si posò anche un dito sulle labbra, come per tirargli un bacio.

Era possibile ammirare anche il triangolino ricciuto, di pelo bruno, che le ornava…

Lasciò scorrere un po’ le dite sulle tastiera del pianoforte, traendone dei suoni ridicoli, stonati, forse, era per mostrare le belle mani, dalle dita affusolate, dalle unghie dipinte, scarlatte, fatte per toccare, e forse, per torturare la parte più lunga e sensibile del corpo di un uomo.

– Andremo alla deriva dei sensi, dei sensi, dei sensi – ripeteva, quasi cantando, mentre un lampo le scintillava negli occhi, e i suoi capelli volavano nel vento e i suoi olezzi.

Si mise un fiore tra le labbra, e il cappello nero, rotondo, che tanto le donava, sulla bella testa bionda.

– La deriva dei sensi, amico mio, la deriva dei sensi…

Ripeté queste parole sedendosi su di lui, e penetrandosi da sola con quella spada che, forse, l’avrebbe squarciata. Erano una formula magica, un incantesimo di fuoco.

Gridò.

La finestra era rimasta aperta, perché tutti dovevano sentire le loro urla di piacere. E a lei già ne erano sfuggite parecchie, dalle rosse labbra, senza quasi che se ne accorgesse.

Il letto scricchiolava sempre, sempre, sempre.

– Ahhh… Fammi male, uccidimi! – diceva lei.

Sì, voleva essere uccisa, da quello stiletto sottile, fatto di carne, ornato di pelo, che si era conficcata da sola tra le gambe, da quell’ariete segreto, fatto per aprire a forza la porta greca del piacere.

Andavano alla deriva insieme, lui, da sotto, guidava il loro bastimento incendiato, che vagava tra le onde di un mare tempestoso, prima o poi si sarebbero schiantati sugli scogli, sugli scogli, o il fuoco avrebbe divorato lo scafo e ogni vela della loro barca, fino a travolgerli e a farli precipitare negli abissi scarlatti dell’orgasmo.

Lei era il capitano, e gridava ai venti i suoi lamenti spumeggianti, che soltanto i gabbiani ascoltavano.

Nella tempesta, perse il suo cappellino… Strinse forte le mani del suo uomo, rideva e si lamentava, portava indosso soltanto una collanina di perle, si era messa solo quella, perché i tacchi a spillo erano rimasti ai piedi del letto.

Il suo sogno, infuocato e buffo, diventava realtà.

Era la deriva dei sensi.

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