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LA VENERE E IL VILLANO (PARTE PRIMA)

By 15 Dicembre 2014Dicembre 16th, 2019No Comments

La temperatura era di 40 gradi Fahrenheit.
Il mio nome era quello di una donna. Ero giunta da lontano, a bordo di un vecchio aereo biposto, simile a quello del Barone Rosso. Quel giorno, mentre m’appressavo al luogo convenuto per l’appuntamento, ricordavo ancora vagamente l’epoca del mio arrivo, a bordo di quel velivolo un po’ sgangherato, quando, per volare lontano, mi ero messa due grandi occhiali da aviatore, onde riparare i miei begli occhi dall’aria d’alta quota e mi ero, altresì, calcata una strana cuffia sul capo, non molto adatta all’avvenenza di una giovane donna. All’epoca, ero in fuga da una guerra. Ricordo che, subito dopo l’atterraggio di fortuna, sopra i campi di grano, il vecchio aereo biposto era stato fatto sparire in una stalla sperduta, chissà dove, nel bel mezzo della pianura Padana. Io necessitavo di denaro e per questo mi ero proposta di vendere me stessa al pilota che mi aveva condotta in salvo. Dopo essere stato allettato dalla vista del mio corpo, il caro aviatore aveva acconsentito a consumare con me un rapporto sessuale bollente, nell’hangar improvvisato dove avevamo nascosto il piccolo aereo. Io avevo sollevato la mia gonna nera ed aderente, per poi fargli cenno con un dito di avvicinarsi. Il prezzo di quella prestazione doveva essere non so quanti soldi, tutti in contanti… Il viaggio non ci aveva affaticati al punto da non riuscire a godere della nostra scopata. Dapprima lui mi si era avvicinato, fin quasi a diventare una sola pelle con me. Poi ci eravamo appoggiati al nostro velivolo e c’era stata la penetrazione, seguita dall’inizio delle varie e ripetute scosse, che avevano fatto sobbalzare anche quel mezzo di trasporto, ancora caldo per il lungo viaggio. Tic, tic, tic, tic, tic… Volevo i soldi, sì, lo ammetto, ne avevo bisogno più del pane; però, in quell’occasione, non avevo avuto fretta e devo ammettere che era stato un coito bestiale, pieno di cigolii, di gemiti e di urli, specialmente nella parte finale. Alla fine, dopo gli spruzzi, avevo dato una sorta di spintone al pilota che mi aveva posseduta e che, da furbastra, avevo costretto a pagarmi prima di concedergli tutta la mia pelle femminile.
I miei capelli erano dorati, come quelli di una svizzera tedesca, che faticava un poco a comprendere la lingua di quei luoghi. Il mio corpo era quello di una Venere e non mi dispiaceva metterlo a nudo.
Era il 14 novembre 1967 e il giorno stava spuntando. Il mio sguardo fu rapito dai movimenti languidi, silenti, delle canne palustri che crescevano lungo quella sponda. Più in là, all’orizzonte, oltre le acque limpide e crepuscolari, si estendeva la riva opposta. Anch’essa era ingombra di canne palustri, i cui lunghi pennacchi erano ormai inariditi dall’autunno. Sempre al di là di quel vasto corso d’acqua, notai che vi erano tre o quattro casoni, costruiti probabilmente circa un cinquantennio prima; ormai, non appartenevano più a nessuno ed erano diventati il rifugio dei numerosi uccelli acquatici che abitavano lungo quelle sponde.
L’uomo che cercavo venne a me navigando sopra quelle acque, proprio nel bel mezzo di quel mattino rossastro. Lo vidi piegato in due, mentre cercava di spingere in avanti una sorta di barchino di legno, simile a quelli che si usano nelle paludi. Quell’inusitata imbarcazione, però, per l’occasione, era carica di paglia e di foraggio per gli animali d’allevamento.
– Buongiorno, signor Mario! – gli gridai, sventolando il mio fazzoletto per salutarlo e per farmi riconoscere. – Da questa parte, la prego!
– Signorina, &egrave lei l’aspirante? – mi disse l’uomo, il quale, sopra le braghe da contadino, portava una sorta di camicia sgualcita e un po’ strappata, che gli lasciava scoperto il petto peloso.
– Sì, vengo per quel posto di lavoro, vorrei essere la sua aiutante!
– Uhm… Però! Mi sembra troppo bello per essere vero! Lei &egrave così ben fatta, così formosa e soda ‘ mormorò l’uomo, come parlando a se stesso. – Da dove viene?
– Da lontano, spero che non sia importante…
– Infatti: hanno importanza soltanto il suo aspetto, la sua presenza, la sua femminilità, oltre a quello che sa fare!
– Spero che lei non pensi che sono venuta per sedurla!
– E anche se lo pensassi?
– Venga, accosti di qua, mi faccia salire in barca.
Tutti chiamavano quel tizio Mario il Villano, perché era piuttosto volgare e rozzo, si esprimeva spesso in un dialettaccio locale, beveva vino, s’ubriacava e si divertiva un mondo a mettere i suoi parenti ed i suoi familiari sotto il tacco dei suoi stivali.
– Venga, signorina, salga sulla mia barca, si segga vicino a me, ché sono il suo rematore ‘ mi disse il Villano, toccandomi con le sue mani grandi e tozze.
– La prego, non mi dia tutta questa confidenza, ci siamo appena conosciuti!
– Allora, le spiego subito quello che dovrà fare per me: badare alla mia paglia ed al mio fieno, accudire i miei animali da cortile e coltivare il mio orto, nei limiti delle sue possibilità, senza rovinare il suo bel corpo… Poi, anzi, soprattutto, ci sarebbe anche un’altra cosa…
– Uh, com’&egrave gentile! Ma suvvia, non mi tocchi i capelli in questo modo! A scompigliarmeli, basta il vento!
– Dice davvero? Ma se v’&egrave a malapena una bava di brezza!
– Chissà quante volte mi toccherà sentire il contatto di queste mani sulla mia pelle, proprio come accade in questi attimi, in cui stiamo stringendo amicizia ‘ dissi sottovoce, ma l’altro mi sentì e rise, lasciando brillare sotto i primi raggi del sole i suoi grandi denti da contadino volgare.
– Dove va tutto questo carico? – gli chiesi poi, mentre navigavamo insieme in mezzo al fiume.
– &egrave per la mia stalla, per le mie bestie e per le mie mandrie!
Il Villano aveva notato la mia gonna attillata, sopra il ginocchio, al pari della bella pelle soda delle mie gambe, che erano lunghe e non avevano un solo pelo. Mi sedetti sulla barca in modo da mostrargli com’ero fatta e soprattutto che ero scalza, nonostante non fosse estate; era mia intenzione eccitarlo e sedurlo, perché volevo essere la sua Venere. Le mie ginocchia erano ben scolpite ed attraenti, tanto che, tra una remata e l’altra, egli osò toccarle. Mentre lo faceva, mi voltai verso il fiume e le sue profondità, come per non dare importanza a quel gesto, che però mi aveva procurato un piacere infinito.
– Signorina, non vorrebbe fare un tuffo in queste acque? – mi chiese il Villano, ridendo.
– Le piacerebbe vedermi nuda, eh? – gli dissi, cercando di essere ilare quanto lui.
– Perché no?
– Uh, con che genere di uomo ho a che fare!
Giungevano fino a me le voci degli uccelli che abitavano nella bonifica. Erano specie a me sconosciute, dalle ali piuttosto variopinte, dai versi secchi, striduli; quando si alzavano in volo, ondeggiavano malinconicamente in quell’aria autunnale e pareva scherzassero con l’acqua del fiume. Di tanto in tanto, nel bel mezzo della vegetazione che era cresciuta lungo le sponde, facevano capolino dei casoni, per lo più abbandonati, delle cavane fluviali per le barche, o delle baracche di legno dove, in caso di pioggia, era possibile ripararsi. Improvvisamente, mentre navigavamo su quelle acque appena increspate, ci imbattemmo in un’altra imbarcazione, che trasportava paglia e fieno. Il Villano alzò entrambe le braccia al cielo, come per salutare. Gli rispose il grido affettuoso del conducente dell’altra barca, il quale alzò allegramente il suo forcone in aria, onde replicare a quel saluto. A me parve che l’imbarcazione di colui che ci aveva salutati andasse alla deriva, mentre le canne palustri delle sponde continuavano ad ondeggiare nel vento lieve del mattino, come facevano sempre.
– Dove mi conduce? – chiesi al Villano. – Anzi, non occorre che mi risponda: lo so già.
– Alla mia fattoria, in mezzo ai campi e ai vigneti ‘ mi disse lui. – Eravamo d’accordo che sarei venuto a prenderla con questo mezzo di trasporto e l’ho fatto.
– &egrave vero!
In quel mentre, un grande airone cenerino spalancò le sue ali e spiccò il volo; la sua maestà e la sua levità rapirono i nostri sguardi.
– Quei capanni, che discerno lungo le rive, sono per la pesca all’anguilla? – chiesi a Mario il Villano.
– Sì ‘ mi rispose lui. – Ma mi pare non ci sia ancora la luna giusta.
– Lei va mai a pescare?
– Andavo una volta, con gli amici. Ora devo dedicare il mio tempo a coltivare i frutti della vendemmia!
– Ah, già, la vendemmia! Che annata &egrave quest’anno?
– Non saprei dirlo. &egrave più o meno come quella dell’anno scorso, solo che le piogge di settembre hanno un po’ rovinato le uve e forse anche i vitigni.
– Uh, guardi, quante anitre! E quanti aironi, che passeggiano nell’acqua bassa!
– &egrave il loro momento. Fanno il primo pasto del giorno.
Dopo aver proferito quelle parole, egli non mi rispose più per un lungo tratto del nostro tragitto. Cercai nuovamente di parlargli, senza ottenere da lui alcuna risposta. Non era un caso se lo chiamavano il Villano; forse, quell’uomo non trovò nulla da dirmi anche perché non capiva ciò che gli stavo dicendo, tanto era ignorante e bifolco. Ad un tratto, egli prese a fischiettare: era una sorta di canto popolare, tipico di quelle terre, che si soleva intonare con la fisarmonica, alle feste di paese, quando tutti sedevano ai tavoli apparecchiati – dove non mancavano mai i fiaschi di vino rosso – e stavano a guardare quattro o cinque danzatori, che ballavano una monferrina o una quadriglia.

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