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Teodora
Ancor prima che la sveglia suonasse, Teodora aveva già gli occhi spalancati e la sua miglior espressione infastidita stampata sul volto.
Iniziò a recitare una delle sue preghiere mattutine ma, dopo alcune frasi, si fermò mordendosi la lingua.
In quel periodo le veniva difficile concentrarsi; rischiava di sbagliare le parole della preghiera e sarebbe stato un pessimo inizio di giornata.
Sua zia Rosalia le diceva sempre che sbagliare una preghiera fosse di malaugurio e le imponeva di ripetere la preghiera correttamente altre dieci volte per ogni errore.
Era la sua zia preferita; zitella, arcigna, suora mancata, in casa e in Paese tutti la temevano per il suo carattere aspro e un po’ spilorcio, malgrado il suo patrimonio.
Sì, perché zia Rosalia era una delle principali possidenti terriere del Paese. Si malignava che ci fosse riuscita tramite l’assidua frequentazione della chiesa e la complicità del parroco nel farsi donare case e terreni dai vecchietti moribondi.
Non era scema, sua zia; in casa tutti la temevano, tranne Teodora. Forse perché dopotutto erano simili.
Da piccola, Teodora amava passare il tempo con lei e ammirava come tutti la trattassero con rispetto: “vedi, Dora? Nella vita servono tre cose per essere rispettate: soldi, soldi e ancora soldi. Perché con i soldi comandi. Li vedi questi leccapiedi che mi salutano? Mi devono tutti dei soldi. Quindi comando sulle loro vite. Decido se i loro figli potranno comprare un’auto, una casa, una barca o anche solo mangiare. Dietro le spalle mi chiamano zitella ridendo sotto i baffi, ma in realtà sarebbero tutti in ginocchio a leccarmi il posteriore se solo lo volessi. Ricorda: comandare è meglio che fottere!”
La piccola Teodora era impressionata e divertita da quello sfogo improvviso.
“Zia Rosalia! Adesso dici le parolacce?”
La zia si concesse una lieve contrazione bonaria del volto, evento rarissimo, talmente innaturale da mostrare la pelle bianca sotto le rughe del volto abbronzato, dopodiché proseguì: “Ma col rispetto non si va in Paradiso, per quello serve la preghiera. Soprattutto dopo aver detto le parolacce! Riprendiamo a pregare, dai”. Non era scema, sua zia.
Teodora si guardò allo specchio sopra la cassettiera ed ebbe un moto di fastidio; sapeva di non essere bella, quello era appannaggio di Mena, la principessina di casa.
Con i capelli neri lunghi sulle spalle, gli occhi castani un po’ troppo grandi, la carnagione olivastra e il naso a patata, Teodora era la quintessenza della matrona. A quarant’anni, ne dimostrava cinquanta. Aveva poco in comune con la sorella se non le labbra rosse, carnose e ben definite, anche se spesso imbronciate, con un piccolo neo sulla parte superiore destra del labbro.
Attirava ben pochi sguardi in confronto a Mena e sotto sotto ne soffriva. Avere una sorella molto bella in famiglia era una maledizione.
Gongolava tutte le volte che zia Rosalia mollava un ceffone alla piccola Mena perché non era andata a messa o perché perdeva tempo a giocare a calcio come un ragazzino. Nemmeno i loro genitori avevano il coraggio di contrastare la tirannica zia, consapevoli del suo potere in famiglia.
Soppesò tra le mani i suoi grossi seni, soddisfatta dal tocco delle sue mani e dal ricordo gradito di quei ceffoni alla sorellina vanitosa.
Il carattere matronale di Teodora si rifletteva anche nel suo corpo: un metro e sessantacinque, la parte superiore più piena e larga rispetto a quella inferiore.
Braccia, gambe e fianchi magri si univano a un collo pieno, spalle ampie, ottava di seno, punto vita poco definito e gambe snelle. Classico fisico “a mela”, con un sedere largo e un petto burroso che nascondeva in ampi e comodi vestiti scuri.
Crescendo, Mena continuò a litigare con la zia Rosalia per le eccessive scollature, l’uso dei trucchi, delle calze. Strumenti di tentazione, indegni di una donna perbene; inevitabilmente Mena si allontanò sempre più dalla zia e, come diretta conseguenza, anche i suoi rapporti con la sorella peggiorarono.
Ma a Teodora non importava. Sentiva di avere un suo posto nella Società, quello della ragazza seria, contrapposta alla principessina vanesia; sapeva che Mena l’aveva soprannominata, con un tocco di cattiveria, “la perpetua” per il suo vestire in maniera sobria, dimessa, modesta.
La sera, mentre snocciolava il rosario, Teodora sentiva su di sé lo sguardo arcigno e concentrato della zia che la fissava assorta, come se avesse un piano per il futuro della nipote; e scoprì quel piano quando la zia spirò, poco tempo prima che Mena si sposasse.
Tutti in Paese rimasero sconvolti quando seppero che Teodora, ancora minorenne, era stata nominata nel testamento della zia come erede universale.
Ebbene sì, Teodora, la perpetua, era diventata proprietaria di una fortuna notevole. E con la fortuna, arrivano gli opportunisti.
A soli diciassette anni Teodora conobbe Sergio, il suo futuro marito, il re degli opportunisti.
Quando si conobbero, Sergio aveva trentuno anni ed era originario dal Nord Italia. Lei non era mai stata abituata alle dolci attenzioni di un uomo e lui era virile e sicuro di sé come pochi; alto, attraente, con capelli e barba color biondo oro, la pelle abbronzata.
Era lusingata dalle attenzioni così insistenti di quel bell’uomo: paragonandolo al modesto Roberto, il marito di Mena, Teodora pensò di poter surclassare la sorella scegliendo un compagno ben più virile e attraente di quello della principessina di casa.
Presa da queste considerazioni non fece caso al tratto più evidente di Sergio, ossia gli occhi azzurri, metallici, feroci, accompagnati da un sorriso affilato, di ghiaccio.
Teodora avrebbe dovuto capire molte cose di suo marito già durante le loro prime volte: la poca delicatezza, nessun profilattico, lo sguardo freddo che la penetrava più brutalmente di quanto già facesse il suo grosso membro.
Una donna più esperta avrebbe capito subito come l’intenzione di Sergio fosse quella di metterla incinta ma Teodora non ragionava lucidamente, infatuata del suo bel spasimante.
Quando Teodora aveva diciannove rimase incinta e, dopo aver sposato Sergio, partorì la piccola Rosalia (chiamata da tutti Lia); l’anno dopo nacque il loro secondogenito Luca. Dopo la nascita di Luca, Teodora e Sergio ebbero un primo screzio.
Non era affatto scema sua zia, però non è detto che amasse così tanto la nipotina; forse voleva metterla alla prova. Tipico di sua zia. Ma non immaginava quanto potesse essere fragile una ragazza giovane, timida e dotata di tanti soldi.
Nessuno rimase sorpreso (tranne Teodora) del fatto che Sergio non fosse un buon marito: era spesso fuori casa fino a tardi e si accompagnava in giri strani con un gruppetto di suoi amici libertini con cui amava spendere i soldi della moglie in modo ben poco cristiano.
Quando Teodora notò gli ammanchi sul conto per pagamenti effettuati a favore di locali di spogliarelliste, esausta e depressa, decise di non concedersi più a lui. In quel periodo tirava una brutta aria in casa loro, nonostante questo vissero assieme fino a una prima riappacificazione, sei anni dopo la nascita di Luca.
Dopo che si riappacificarono nacque il piccolo Alessio, l’ultimogenito.
Oggi, tredici anni dopo la nascita di Alessio, le preoccupazioni di Teodora non erano affatto finite.
Come moglie, era preoccupata per i continui sospetti sui comportamenti di suo marito.
A cinquantatré anni Sergio manteneva il vigore di un ventenne. Un metro e ottanta, gambe lunghe, spalle ampie, ventre piatto, braccia sottili e muscolose; da quando la sua folta chioma di capelli biondi ha cominciato a diventare bianca, aveva iniziato a tenere la barba corta: sembrava più giovane, anche se ciò aveva messo in risalto anche il suo sorriso, freddo e crudele.
Aveva attrezzato come tavernetta la dépendance di casa loro e passava giorni e giorni chiuso con i suoi amici a gozzovigliare e a farsi portare da bere dalla piccola Lia, la sua prediletta. La cocca di papà. Nessun’altro accedeva alla sua tana tranne Lia; Teodora era troppo orgogliosa per chiederle cosa combinasse suo padre in quel covo di ubriaconi. Forse era meglio che fosse ubriaco piuttosto che infedele.
I suoi figli erano l’altra preoccupazione: in Lia, oggi ventunenne, Teodora vedeva tutta l’eredità fisica e morale di Sergio. Con quelle forme così pronunciate, quei capelli biondi e quegli occhi da cerbiatta era stato un miracolo che la madre fosse riuscita a tenerla lontana dalle corruzioni del mondo.
Non aveva badato a spese, l’aveva fatta studiare nelle migliori scuole cattoliche ed era sempre stata attenta che vestisse in maniera decente. L’unica vera preoccupazione era per il legame affettivo che la stringeva a Sergio.
Dopo il matrimonio, suo marito era sempre stato avaro di attenzioni e affetto verso Teodora e verso Luca e Alessio. Li trattava sempre con freddezza, con sufficienza. Tutto l’affetto di Sergio era per la piccola Lia, coccolata, viziata, coinvolta.
Su Luca, oggi quasi ventenne, c’era poco da dire. Ed era quello il problema. Luca era un ragazzo sensibile, pure troppo. Anche lui aveva gli stessi tratti chiari di Sergio ma era più efebico, delicato. Non aveva mai dato particolari preoccupazioni né mostrava particolari grilli per la testa. Era così silenzioso che spesso non lo sentivi, un gatto che si aggirava malinconico per casa. Luca nacque in un periodo in cui lei e Sergio erano ai ferri corti, quasi separati in casa. Forse, vivere quel periodo di silenzi e malumori lo aveva influenzato, reso schivo. Teodora avrebbe voluto che fosse più affettuoso, più premuroso verso sua madre. Invece rimaneva lunghi pomeriggi dopo la scuola chiuso in camera sua, a fare chissà cosa.
Infine, c’era Alessio, ormai quattordicenne. Il cocco di mamma. Il suo preferito. Alto poco meno di Teodora, aggraziato ma tonico, ricordava molto Toni alla sua età.
Teodora aveva sentimenti contrastanti verso il figlio minore. Da un lato amava alla follia il lato “mammone” di Alessio perché le consentiva di sfogare il suo bisogno di attenzioni; d’altro canto sperava che sviluppasse gli stessi tratti e comportamenti decisi che tutti ammiravano nel nipote; invece, Alessio sembrava più interessato a stare aggrappato a mamma, con cui trascorreva gran parte del tempo fuori dalla scuola, piuttosto che a fare sport o a frequentare i coetanei.
Teodora dovette ammettere di essere sempre stata un po’ troppo possessiva con i suoi figli e con Lia in particolare, ai limiti del soffocante; per questo alla figlia non sembrò vero di poter lasciare casa quando la madre le offrì la possibilità di frequentare una costosa università privata nel Nord Italia.
Ricordava il giorno della partenza di Lia come se fosse ieri.
A pranzo i fratelli l’avevano riempita di domande su cosa avrebbe fatto in città, interessati a quel mondo cittadino per loro sconosciuto, mentre Lia blaterava di improbabili eventi pieni di gente interessante, musica, divertimento e moda.
Spazientita, Teodora intervenne: “Ti stai trasferendo per studiare, Lia. Non per frequentare festini e ambienti ambigui. Ricordalo. E mi raccomando l’abbigliamento consono, ne avremo parlato mille volte”.
Sorprendentemente fu Sergio a rispondere: “Eddai Teodora lo sai che l’abito non fa il monaco, in una grande città seguire la moda è ancora più importante!”
Teodora si innervosì. Sergio era mediamente disinteressato a quelle discussioni, un suo intervento a riguardo era strano.
Teodora cercò di restare calma: “le mode passano. Dio e le Sue leggi no. Siamo creature fatte di carne e schiavi del peccato dei sensi. Ecco perché il modo esteriore di mostrarsi è importante. Da un lato Lia deve mostrare la sua modestia e rispettabilità, dall’altro non deve indurre in tentazione i ragazzi”.
Un lampo di fastidio attraversò gli occhi di Sergio, che le sembrarono più gelidi del solito: “siamo nel 2023 e ancora parliamo della donna come colpevole di tentare l’uomo?”
“È stato forse abolito nel 2023 il peccato originale? L’uomo di oggi ha meno desideri? Non lo sapevo!” disse Teodora con aria di voler concludere la discussione.
Di colpo si fece silenzio in tavola e lasciarono cadere la discussione; Sergio iniziò a lamentarsi degli acciacchi dell’età, mentre Alessio e Luca iniziarono a guardare la televisione, a Teodora non sfuggì come Lia gongolasse, sorridendo grata al padre.
Sciocchina, non sapeva che la stava mandando a studiare al nord solo perché non venisse corrotta dal mondo del padre, pieno di dissolutezze e vizi. Lontana da lui, lontana dal cuore.
Dopo pranzo accompagnarono Lia in aeroporto e fu un momento piuttosto toccante; perfino Sergio sembrava quasi emozionato per la partenza della figlia.
Salutandola, Teodora le sussurrò a bassa voce: “Comportati bene o ritorni a casa immediatamente”.
Leggendo l’amarezza nello sguardo di Lia, Teodora si pentì di essere stata così schietta. Forse era nel destino delle buone madri essere odiate a fin di bene.
Quella sera, Teodora indossò una leggera camicia da notte blu e, come al solito, andò a rimboccare le coperte ad Alessio. Come tutte le sere, diede il bacio della buonanotte al suo figlio minore e lo abbracciò stringendolo al suo petto.
Si sentiva così in pace sentendo il volto del suo bambino sul seno, era uno dei pochi momenti piacevoli della giornata. Quella sera avrebbe voluto che quell’abbraccio non finisse mai ed era tentata di dire a suo figlio di dormire con loro nel lettone.
Scartò l’idea e si recò in camera da letto dove Sergio la aspettava tetro, sul volto lo stesso sorriso crudele di un Angelo caduto, la sola luce della lampada a illuminarlo in penombra; la riprese subito: “Oggi hai fatto l’ennesima figura da psicopatica. Doveva essere l’emozionante giorno della partenza di nostra figlia, sembrava una lezione di economia domestica per giovani mogliettine bigotte”.
Teodora si stese sul letto, consapevole di dover litigare come al solito: “Sono solo preoccupata per Lia. La decenza è all’abbigliamento ciò che la modestia è allo spirito. E lei aspira a tentazioni ben poco modeste e decenti”.
Sergio alzò il tono di voce: “aspira a quello a cui aspirano tutte le sue coetanee, vuole essere accettata e vuole sentirsi bella. Non ci vedo nulla di strano”.
Teodora strinse gli occhi per fissarlo meglio nella penombra, infastidita: “il fatto che tutte le sue coetanee vogliono avere un certo stile di vita non lo rende giusto. La televisione e l’internet diffondono le mode più infami ed eccitano la concupiscenza. La vera femminilità, la decenza, il pudore rischiano di soccombere, soffocati da banalità, volgarità, sciatteria. Vorrei che Lia diventasse una vera donna, indipendente da questo schifo moderno. In questo modo potrà essere una brava moglie e dedicarsi a suo marito e alla sua famiglia, un giorno”.
“Sei una povera isterica. Se una legge fra tutte merita il mio ribrezzo, questa è la legge del cristianesimo. La mortificazione del corpo e dello spirito. Ma non temere, sarai soddisfatta appieno”.
Teodora rimase di pietra sentendo quelle parole, il tono di voce di Sergio che cresceva sempre di più, lo scatto improvviso del marito che le fu addosso in un secondo: “Sergio, che fai? Ci sono i bambini che dormono, spostati e abbassa la voce”.
“Sono tuo marito e se sei una brava moglie devi soddisfarmi, quando e come voglio. Adesso”.
Teodora avrebbe voluto divincolarsi, non concedersi. Ma sapeva che aveva ragione. Non poteva negarsi.
“Parla piano, ti sentono”.
“Non è un problema mio, non fare tante storie, brutta puttana”.
Impaurita, iniziò a spogliarsi togliendosi le mutandine, ma lui la interruppe: “Forza! Spogliati! Come sei maldestra. Non ho mai conosciuto una puttana più stupida e isterica di te” e, senza lasciarle il tempo di proseguire, quasi le strappò la camicia da notte, lasciandola nuda e tremante.
“Era ora! Guarda che tettone grasse, sembrano quelle di una mucca”. E le palpò brutalmente, strappandole un gemito e iniziando a spogliarsi. Teodora vide svettare l’uccello di Sergio, dritto come l’acciaio. Pensò con amarezza che quel cazzo era la vera eredità di sua zia.
L’attrezzo di Sergio era davvero grosso. Di media lunghezza, massiccio, largo, pieno di spesse vene. Non circonciso, la cappella particolarmente pronunciata e voluminosa già si mostrava, feroce e umida di liquidi, alla vista della povera Teodora.
“E che pancia, flaccida e brutta” e si mise sopra di lei “adesso stai ferma, finalmente avrai quello che desideri” e la afferrò per i fianchi.
Senza nemmeno aver modo di lubrificarsi, Teodora avvertì la pressione del cazzo di Sergio contro l’ingresso della sua vagina; quel bastone le entrò vigorosamente dentro di qualche centimetro e di colpo spinse ancora, con forza.
Teodora gridò, non ancora dilatata per accogliere la grossa cappella del marito; con una fitta di dolore, le labbra della sua fica si allargarono oscenamente, mentre lei cercava di ignorare il modo brutale con cui Sergio la apriva, con cui le entrava dentro.
Sergio continuò a scoparla, la frequenza delle penetrazioni rapida e ossessiva, ogni colpo sempre più forte del precedente; Teodora divaricò le gambe per cercare di resistere meglio a quelle spinte che le stavano letteralmente rimescolando le viscere e, proprio mentre sembrava quasi riuscire ad abituarsi a quegli affondi, Sergio iniziò allo stesso tempo ad accanirsi sui suoi seni.
Li strizzò con forza, il dolore era fortissimo, Teodora urlò e Sergio rise “taci puttana, non vorrai che i nostri figli sentano quanto sei troia” e le strinse violentemente i grossi capezzoli, ruotandoli come se fossero quelli di una bambola. Sentiva Sergio ridere e si vergognò tremendamente; lo percepì accelerare ancora il ritmo della penetrazione mentre i suoi seni erano martoriati senza sosta, il petto in fiamme, Teodora provò a concentrarsi su altro e fu allora che guardò verso la porta e vide una figura seminascosta. Alessio. Li stava guardando in silenzio. Teodora avrebbe voluto fermare quell’accoppiamento così umiliante ma non riusciva nemmeno a parlare, sentiva solo il cazzo bollente del marito entrare continuamente, prepotentemente dentro di lei.
Dentro e fuori.
Dentro e fuori.
Non poteva, semplicemente, venire? Non poteva, semplicemente, smettere?
Quasi le leggesse nella mente, di colpo Sergio rallentò il ritmo.
Si staccò e la ruotò per le spalle. Teodora perse il contatto visivo con il piccolo Alessio e si ritrovò con il viso sul materasso, il sedere verso l’alto, la cappella di Sergio nuovamente appoggiata sulla fica esausta.
“Forza, girati! Che culo balordo, che chiappe molli, che pena. Sembra che siano state investite da un treno, ora ci penso io a loro”.
Riprese a ficcarle il cazzo, da dietro, con una forza e un dolore se possibile ancora superiore. Teodora sudava, urlava, annichilita dalla vergogna. Dalla consapevolezza che il suo piccolo Alessio stava vedendo tutto.
All’improvviso Teodora percepì le dita del marito sul suo buco del culo; riuscì solo a urlare “No, ti prego!”
Lo sfintere cedette quasi subito e sentì scivolarle dentro quello che sembrava il pollice affusolato di Sergio.
Le grida di Teodora accompagnavano ogni spinta che subiva, il cazzo e il pollice che si muovevano in simultanea.
Con immensa vergogna Teodora sentì arrivare l’orgasmo, devastante; urlò di piacere, una goduria avvelenata dal dolore e dalla vergogna che la lasciò senza fiato, i muscoli della vagina serrati attorno al membro di Sergio che, quasi d’acciaio, non cedette di un millimetro e continuò a ridere e a penetrarla.
“Ti piace, puttana? Stai godendo come una cagna con il culone al vento, non ti vergogni? “
Dopo altri affondi, Sergio estrasse lentamente il cazzo dalla vagina e mugugnò qualcosa sul fatto che il pollice non bastasse. Lei provò a lamentarsi debolmente, con le lacrime agli occhi, poi la sentì la grossa cappella che iniziò a premere contro il suo ano.
Gli aveva sempre vietato il sesso anale. Non era morale e aveva sinceramente paura che il grosso attrezzo del marito le facesse male. Una paura che si rivelò fondata.
Lo sfintere cercò disperatamente di respingere quel bastone di carne ma non ci riuscì e Teodora lo sentì cedere mentre il cazzo si faceva largo un centimetro alla volta nelle sue carni, implacabile.
Era troppo grande e Teodora provò un dolore nuovo quando Sergio si appoggiò di peso sul suo ano che si aprì del tutto, permettendo a suo marito di scivolare ulteriormente dentro di lei.
Sentiva male dappertutto, scossa da piacere, dolore, vergogna, spinte impietose ma non aveva più la forza di pregarlo, sudata, bagnata, umiliata.
Sergio accelerò il ritmo delle inculate, prepotente, martellante, mentre si accaniva con forza sui seni martoriati e le sputava addosso le peggiori cattiverie che Teodora non riusciva nemmeno ad ascoltare; insultò la sua pelle, il viso, il fetore che, a sentir lui, lei emanava, il suo modo ridicolo di vestirsi da vecchia, la sua stupidità.
Alla fine, l’animo spezzato in ogni modo, Teodora scoppiò a piangere e poco dopo si accorse con sollievo che Sergio stava per venire.
Mugolando, le tolse il bastone dal culo e la ruotò supina schiaffandole bruscamente il cazzo in mezzo ai seni esausti, in un accenno di spagnola, mentre la sborra iniziò a schizzare ovunque.
Un fiotto, due, tre, cinque schizzi fortissimi, caldi, spessi, la colpirono sui seni, sulla bocca, sul viso rigato dalle lacrime.
Le mani di Sergio strinsero di nuovo i grossi seni e il suo cazzo si diresse verso la bocca di Teodora che istintivamente ne accolse la cappella, inghiottendo involontariamente gli ultimi schizzi di sborra e lottando contro i conati avvertendo il sapore di quelle che dovevano essere le sue stesse feci.
“Continua a leccare la tua merda, puttana, non ti distrarre!”
Sergio rise mentre l’intensità del suo orgasmo diminuì ed estrasse lentamente il cazzo dalla bocca di Teodora che tossì violentemente, cercando di riprendere fiato e inghiottì involontariamente tutto quello che aveva ricevuto in bocca.
Stravolta, distrutta, Teodora sentiva un dolore lancinante alla vagina, al sedere, ai seni, ai capezzoli; con le mani tremanti, prese un asciugamano dal comò e si ripulì alla bell’è meglio dal sudore, dalla sborra, dai suoi liquidi. Non trovava le mutandine e riuscì con difficoltà a indossare solo la camicia da notte.
“Mamma, papà, che succede? Tutto bene? Ho sentito urlare.”
Era Alessio. Teodora non sapeva se Sergio lo avesse notato; però dopo l’orgasmo suo marito si disinteressò totalmente di lei e, senza dire altro né rispondere ad Alessio, si girò su un fianco e si addormentò.
Teodora trovò la forza di parlare, la voce tremolante appena ridotta a un bisbiglio rassicurante: “Tutto bene piccino, mamma e papà stavano solo facendo ginnastica, torna a dormire”.
“Non ci riesco, mi sono spaventato per le urla e non ho sonno, posso dormire con voi?”
Teodora si sforzò di parlare ancora e annuì appena: “Va bene, vieni qui piccino di mamma”.
Alessio si fiondò nel lettone in mezzo a loro e abbracciò la madre, mettendo come al solito il volto in mezzo all’immancabile petto di Teodora che sperò non si accorgesse del fatto che mamma tremava, scossa dal dolore e dalle tremende sensazioni provate.
E sperò che fosse solo una sua suggestione la sensazione dell’erezione di Alessio che, dal pigiama, accarezzava la sua vagina nuda, fradicia e distrutta.
Finalmente, cullati da quella sensazione e dal conforto reciproco, si addormentarono.
La mattina dopo, Teodora affrontò Sergio: “voglio che tu faccia i bagagli e vada via di casa. Ci separiamo da oggi”.
Suo marito non disse nulla, sogghignò e uscì dalla stanza.

Toni
Toni sbloccò il telefono e impallidì. Anna lo guardava, scarmigliata e perplessa. A causa della modalità “vibrazione” non aveva sentito le chiamate e gli innumerevoli messaggi di sua madre Mena.
Aprì l’ultimo messaggio: “sono in ospedale, raggiungimi lì. Tuo padre sta male”.

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