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Mena
La sala di attesa dell’ospedale era fredda, piuttosto sporca, piena di gente; ognuno aveva un suo dramma e a nessuno interessava il dramma altrui.
Mena era esausta, le orecchie che le ronzavano.
La serata era iniziata bene, Toni era con la fidanzatina.
Lei e Roberto, soli in casa, si stavano coccolando sul divano, davanti alla televisione.
Tanti baci, tanta tenerezza, tante risate.
Le dita di Mena che delicatamente accarezzavano la virilità di Roberto.
Una bella serata come tante.
Finché Roberto non iniziò a lamentare un forte mal di testa. Qualcosa non andava; si sentiva privo di forza, privo di sensibilità ad un braccio e ad una gamba, aveva difficoltà a parlare.
Mena, terrorizzata, chiamò l’ambulanza che arrivò dopo pochi minuti e lo portò in ospedale, dove lei lo raggiunse.
Adesso stava lì, seduta da ore in sala d’attesa.
Toni arrivò di corsa, Anna trafelata al suo fianco. Era una brava ragazza. La abbracciarono e Mena ricambiò i loro sguardi affranti e li strinse forte, grata per la loro presenza.
Si sedettero e aspettarono, le mani strette tra loro.

Luigi
Il letto della camera dell’hotel in cui si era tenuta la convention aziendale era comodo e pulito; tuttavia, Luigi si era svegliato piuttosto nervoso e senza molta voglia di trattenersi in albergo.
Avrebbe avuto diritto alla colazione e al pranzo post evento, come tutti gli altri medici della clinica privata in cui lavorava, ma non gli importava. Voleva andarsene.
La serata era stata allo stesso tempo noiosa e fastidiosa. Noiosa per gli interventi dei suoi colleghi professoroni, desiderosi di mettersi in mostra e sempre a caccia di prebende e favori.
Fastidiosa per la presenza di Marta, una sua giovane collega radiologa, 30 anni, sempre sorridente, sempre vicina a lui.
A 54 anni, Luigi sapeva bene che avrebbe dovuto sentirsi lusingato per quelle attenzioni; nessuno lo avrebbe mai biasimato se avesse voluto concedersi un’avventura o addirittura una storia seria con una donna più giovane: dopo 25 anni di vita da vedovo, probabilmente sarebbe sembrato strano il contrario.
Anche dopo così tanto tempo, il pensiero di sua moglie non lo lasciava mai. Gli mancava tanto e il dolore lo rendeva schivo, privo di calore. Gradualmente aveva imparato a tenere tutti a una certa distanza di sicurezza, da medico e da essere umano, scavando intorno a sé un piccolo, immaginario, fossato di timidezza, alterigia e distanze fisiche. Sempre estremamente professionale, freddo, dava del “lei” a tutti, sorrideva raramente, stava sempre ad almeno un metro di distanza dall’interlocutore.
I colleghi lo sapevano e lo trattavano con compassione e sufficienza, senza coinvolgerlo in nulla ma rispettando, di fatto, quelle distanze. Eccetto Marta.
Ascoltò con evidente disinteresse il collega sul palco che parlava dell’importanza della sua ultima pubblicazione per la ricerca scientifica. Balle, aveva copiato tutto.
“Luigi, stai di nuovo tra le nuvole?”
Marta gli sbucò alle spalle, sorridendo sorniona.
“Marta, quante volte le ho detto..”
Marta si rabbuiò.
“Dammi del “tu”, ti prego”.
Come le pareva. “Ok, quante volte ti ho detto di non farmi prendere certi colpi a sorpresa!”
Marta non era la sua collega più bella, né la più giovane. Un metro e sessanta, un caschetto di capelli castani di media lunghezza e degli occhi castani molto belli e vivaci, purtroppo per lei nascosti da occhiali con una pesante montatura marrone.
Il volto tondo e regolare presentava un nasino a patata, delle belle guance paffute e candide, un lievissimo accenno di doppio mento visibile solo quando rideva forte. Denti regolari e bianchi.
Le labbra erano piene e ben definite, perennemente truccate con lo stesso rossetto marrone, in tinta con gli occhiali e i capelli.
Vestita con la divisa ospedaliera sembrava molto materna, rassicurante, a differenza di quella sera in cui aveva messo in mostra il proprio fisico prosperoso.
Minuta, aveva una bella quarta di seno ben valorizzata da un blazer dress nero con uno scollo a V profondo e un taglio corto e netto. Le scarpe décolleté in pelle nera con tacco la slanciavano.
Luigi la guardò appena, pensando tra sé che fosse eccessivo vestire in modo così provocante ad una semplice festa aziendale, però era pur sempre un Paese libero.
La ragazza rise. “Sbaglio o sei l’unico a non avere lo sguardo fisso sulle mie tette stasera?”
“Sbaglio o sei l’unica ad averle praticamente esposte al vento stasera?”
Perché doveva stargli così vicino? Lo metteva a disagio.
“Non sbagli, però sai com’è. Trascorriamo tutto il giorno coperti da quelle palandrane, a parlare con pazienti tristi e/o isterici, per una volta volevo mostrare che sotto il camice ci fosse una donna!”
Doveva riconoscerle il modo buffo con cui usava l’espressione “e/o”, marcando l’accento sulla “e”, rendendo tutto il discorso piuttosto divertente “e/o” condivisibile.
Luigi sorrise appena, gli occhi che si ritrovarono improvvisamente calamitati da quei globi candidi ben in mostra. Si riscosse, imbarazzato, quando avvertì su di sé lo sguardo beffardo della ragazza.
“Ecco, adesso sì che ci siamo, temevo non ti piacesse il mio outfit”. Marta Assunse un’espressione di finta tristezza.
“Mannò. Anzi..”
“Anzi cosa?”
“Sei una brava collega.”
“E..?”
“E/o una buona amica”. Si affrettò ad aggiungere con un mezzo sorriso.
Luigi pensava di aver chiuso elegantemente così la conversazione e invece Marta continuava a fissarlo divertita e si avvicinò ancora di più, le labbra coperte dalla sua mano e accostate a pochi centimetri dal suo orecchio “allora potremmo discutere di lavoro, da bravi amici, nella tua camera”.
Luigi la fissava confuso, mentre la mano di Marta scendeva di colpo e sfiorava, quasi distrattamente, il suo pacco.
“Marta, vai a dormire, forse hai bevuto troppo!”
Lo fissava, sempre quel sorriso sornione sul volto.
“Forse hai ragione, Luigi. Buonanotte.” E si allontanò, divertita, ancheggiando lievemente.
La mattina dopo, Luigi pagò la tassa di soggiorno e uscì dall’hotel frettolosamente, senza guardarsi intorno. Voleva tornare a casa appena possibile ed evitare di rivederla.
Perché non lo lasciavano in pace? Da quando sua moglie era scomparsa, aveva dedicato tutto sé stesso all’unica persona per cui valesse la pena lottare: la figlia Anna.
Già gli mancava. E sicuramente anche lui mancava a lei. L’aveva sempre viziata, coccolata, amata. Avrebbe fatto di tutto per lei. L’aveva amata come solo un padre può amare la sua bambina.
Riusciva ancora a leggere nei suoi occhi quello sguardo luminoso del giorno in cui era nata, mentre coglieva la luce, i suoni e l’eccitazione del mondo.
La luce nei suoi occhi era cresciuta insieme a lei. Da bimba era sempre curiosissima, faceva mille domande e viveva senza paura ogni nuova avventura che le si presentava. Era l’unica in grado di farlo stare bene dentro il suo giardino solitario.
Era così sovrappensiero da non essersi accorto di essere arrivato alla porta di casa. Entrando, si fermò un attimo a guardare all’ingresso la foto della loro gita a Disneyland. Era una bimba stupenda già allora, lo era sempre stata. Andarono su decine di giostre assieme. Lei seduta sulle sue gambe, quasi piangendo dalla felicità, mentre urlava: “più veloce papà! Più in alto papà!”
Gli mancavano quei tempi, quando lui era tutto il suo mondo. Il tempo aveva ovviamente cambiato i loro ritmi, le loro abitudini assieme. Anna si faceva una donna, com’era giusto che fosse. E che donna.
Una donna stupenda e non lo diceva solo perché era suo padre. Aveva lo stesso portamento altero della madre, la stessa bellezza superba. I suoi occhi color ossidiana potevano entrarti nell’anima. Era aggraziata come un cigno, con il corpo tonico scolpito da anni di nuoto.
Guardò meglio la foto. Già allora aveva delle labbra bellissime. Perfette. Sorrise e appoggiò due dita su quelle labbra, inviando un bacio silenzioso sull’immagine della bocca della figlia.
Dalla mamma aveva preso tutto tranne i capelli, corvini come quelli di Luigi; il carattere invece era quello della madre. Tanto Luigi era silenzioso e riservato, tanto Anna era di buon cuore, estroversa e con la testa sulle spalle. Non era solo bella, irradiava calore e abbagliava tutti con il suo sorriso.
Da padre di una giovane e bella adolescente era stato spesso oggetto di battute volgari da parte dei suoi colleghi. Una volta aveva origliato una conversazione: “una ragazza così carina, chissà quanti se ne fa. Io non potrei essere padre di una figa del genere e guardare la fila di maschietti che inizia dalla strada. Se proprio fosse mia figlia le direi che non voglio sapere nulla, basta che non li porti in casa.”
L’altro sogghignò “Ma tanto il dottore è furbo, ha capito che gli basta origliare in camera della figlia per.. risparmiare la spesa di un altro matrimonio”.
L’altro rise, mimando con la mano una masturbazione.
Erano due infermieri e Luigi si concesse un sorriso ricordandoli portare via le loro cose dopo essere stati licenziati su sua discreta “raccomandazione”.
Già gli mancava. Dov’era? In casa non c’era nessuno. Giusto, ha trascorso la serata con Toni.
Toni. Sulla carta, il loro fidanzamento avrebbe dovuto rassicurarlo. Toni era solido, affidabile, la quintessenza della stabilità. Coraggioso, atletico e bello. Di buona famiglia, la madre lo aveva sempre messo su un piedistallo. Un po’ geloso. Quel tanto che bastava per tenere lontani i maniaci.
E allora perché non gli piaceva? Luigi non se lo sapeva spiegare. Non riusciva a farsi andare bene quel ragazzone, anche dopo anni che stava con Anna. Pensava che nascondesse qualcosa.
Ma non era solo lui a lasciarlo perplesso. Anche lei lo preoccupava; negli ultimi tempi non era così serena come voleva lasciar credere.
Soliti pensieri incoerenti, senza prove. Sensazioni che Luigi riconduceva alla solita gelosia da padre inutilmente premuroso.
Cosa le nascondeva?
Già immaginava che casa fosse uno specchio.
Anna era incredibilmente discreta e ordinata, in questo aveva preso da lui. Non lasciava mai tracce della presenza di Toni: sicuramente sua figlia aveva già pulito, fatto il bucato, rassettato tutto. Amava e odiava questo suo lato diligente.
Da dissimulatore esperto, conosceva la sua piccola come le sue tasche, sapeva quando era davvero felice e quando aveva strani pensieri. Quando metteva tutto in ordine per nascondere il suo turbamento interiore.
In ogni caso lui poteva benissimo immaginare cos’era successo. Serata di sesso tra ragazzi. Tutto qui.
Passò dalla cucina e notò due calici di vino ancora sporchi.
Non li aveva puliti?
Incuriosito da quel piccolo mistero, entrò in camera da letto di Anna e quasi rimase senza fiato.
Le lenzuola erano sfatte. Lieve odore di sudore e di ormoni nella stanza. Sul materasso, un bellissimo vestito blu di Anna, uno dei suoi preferiti.
Tutto stropicciato. Rovinato. Pieno di macchie.
Il peluche che coccolava da quando aveva due anni e che, in genere, stava sul cuscino, gettato per terra.
Rassettò la foto di sua figlia sulla cassettiera, caduta in un evidente momento di passione.
La foto di lei che indossava il costume da nuoto con cui aveva vinto un torneo a 14 anni.
Sorridente, la cuffia in una mano e un trofeo stretto nell’altra. Rideva mentre suo padre la fotografava.
I suoi occhi si soffermarono sulle lunghe gambe abbronzate e sui giovani seni sodi sotto il costume “cut out”; l’apertura del costume sulla parte bassa del dorso era così ampia da arrivare fino al ventre scoprendole i fianchi.
Un costume professionale, perfetto per ridurre l’attrito sul corpo perfetto di sua figlia.
Perché non aveva messo in ordine come al solito? Una dimenticanza? Erano usciti di corsa?
Eppure, non riusciva ad essere preoccupato. Era troppo emozionato dall’aver squarciato quel velo di discrezione con cui Anna copriva la sua vita intima.
I suoi occhi indugiavano avidamente su quel vestito aderente, probabilmente sgualcito dalle spinte brutali di Toni.
Guardò di nuovo la foto di sua figlia, le sue lunghe gambe nude sembrano divaricate in modo leggermente provocatorio, come se inconsciamente invitassero una mano ad esplorare.
Ricordò il giorno della gara. I suoi occhi seguivano ogni suo movimento: ogni rimbalzo dei suoi seni, ogni movimento delle sue gambe, ogni immersione di sua figlia. I suoi occhi erano puntati su di lei ogni volta che si tuffava, quel solco terribilmente erotico tra le gambe e un dolce sorriso innocente sul viso per il suo papà adorante.
Inconsciamente, iniziò a passare il vestito tra le sue mani. Sentiva lo sgomento pervaderlo.
Il suo cuore iniziò a battere forte quando, toccando quel vestito, notò che sotto ad esso c’era un’altra sorpresa. Le mutandine di sua figlia. Quasi strappate. Macchiate.
Le sfiorò tra le dita. La parte anteriore delle mutandine era solo un minuscolo triangolo di raso celeste lucente, la parte posteriore una striscia sottile.
Non c’era reggiseno. Dio.
La immaginò mentre baciava Toni, gli occhi chiusi in un beato piacere, una mano di lui sotto al vestito le toccava avidamente il seno, l’altra tra le gambe dopo aver scostato con forza quel triangolino.
Il raso scorre tra le sue dita. Immaginò la sensazione di quel contatto, la sua mano accarezzava quel filo stretto che aveva ospitato le natiche della sua bambina, sentiva al tatto le macchie sul triangolino dove la fessurina di sua figlia aveva perso liquidi.
Era troppo.
Non se n’era nemmeno accorto ma aveva un’erezione fortissima. Non ragionava più. Affondò il volto sulle mutandine, buttandosi a capofitto sul vestito.
Le secrezioni della sua vagina avevano lasciato una macchia biancastra sulla superficie della parte anteriore.
Quel profumo era incredibilmente eccitante. I bordi odoravano di sudore. Raccontavano di spinte ricevute fino a stremarla. Iniziò a leccare quella macchia bianca. Dolce. Lieve sentore di urea. Essenza di donna, il fluido della sua bambina che si era lubrificata a dovere. Le spinte sempre più forti. Poi era venuta.
La striscia posteriore aveva un sapore e un odore acre. Il suo ano.
Si chiese senza convinzione cosa stesse facendo e perché non si fermasse. Poi tornò ad assaporare quelle particelle secche che un tempo componevano il nettare di sua figlia.
Era un bastardo, un maniaco. Ma non poteva fare diversamente.
Si spogliò in pochi secondi, rimase nudo con il cazzo che gli doleva per quanto era duro.
Quei momenti valevano mille potenziali scopate con la Marta di turno.
Non fu nemmeno un’illuminazione o una lucida presa di coscienza, fu piuttosto un momento di irrazionalità.
Aveva una voglia matta di scoparla ogni volta che i suoi occhi si soffermavano sul suo corpo sinuoso. Anche le sue labbra sensuali lo facevano impazzire. Era un bastardo deviato. Voleva spogliare sua figlia, passò le mani sul suo vestito e sentì il corpo deliziosamente giovane di Anna premuto contro quello del suo papino.
Finalmente sfiorò l’asta, dandole sollievo e spingendolo ancora di più a scappellarla. Era zuppo di liquido pre-sperma e iniziò a strusciare il pene sul vestito di Anna, sfiorando le palle con l’altra mano.
Sentiva le sue natiche stringersi e i suoi fianchi spingere in avanti, il cazzo avvolto in quel tessuto gli dava un piacere sessuale mai provato fino ad allora.
Tolse le mutandine, ormai zuppe di saliva, dalla bocca e le indossò rapidamente. Si guardò allo specchio e sentì l’eccitazione crescere ancora. Il minuscolo indumento stretto ma morbido intorno ai suoi fianchi, il filo posteriore che gli stringeva le palle.
Il triangolo anteriore non riusciva minimamente a contenere l’erezione massiccia che sbucava prepotente così come i suoi folti peli pubici scuri. Si distese sull’abito e riprese a strusciarsi sopra. Avvolse l’asta nella parte inferiore dell’abito. Li dove probabilmente sua figlia si faceva montare.
Era pronto. Pronto a farla sua.
“Anna!” Grugnì. “Sei mia!”
Chiuse gli occhi, gli sembrò di sentire le dita tiepide della figlia sul suo petto, li riaprì. Lei era lì, con quel vestito sgualcito addosso, sorridente. Lo baciò, piano. Sorridendo.
Vide le sue dita accarezzargli le cosce e le gambe, stuzzicandogli il cazzo in procinto di esplodere.
Sorrise: “Mi hai scoperta, papino. Ti aspettavo”.
Iniziò a muoversi convulsamente, spingendo come un dannato. Sentì le mutandine strapparsi. Il vestito dondolava come se fosse vivo, animato dalle spinte paterne.
Continuò ad accarezzare e strattonare il vestito, grugnendo e ansimando, ignaro di tutto tranne che dell’immagine del corpo di sua figlia e del piacere sessuale che lo faceva impazzire.
Nella sua mente immaginò Anna sorridere ancora e mordersi un labbro, mentre le penetrava quella fichetta dolce.
“Più veloce papà!”
I suoi giovani seni che rimbalzavano.
La mano di suo padre che la accarezzava e strattonava freneticamente il vestito, il cazzo che sembra quasi sfondare il tessuto.
“Più veloce papà!”
Le pupille dilatate.
“Sborrami dentro!” gridò l’immagine, le natiche nude e le cosce calce tremanti per l’eccitazione.
Stremato, Luigi venne.
Più lo scappellava, più sborrava. Schizzò sul vestito tutto quello sperma che desiderava ardentemente pompare dentro di lei e spargere sul suo corpo nudo.
Si accasciò sul letto, esausto.
Le mutandine, strappate.
Il vestito, uno straccio.
Rimase per mezz’ora disteso, tremante di eccitazione. Poi si masturbò di nuovo usando quelle mutandine strette attorno all’asta pulsante. Stavolta venne sulla sua mano, inzuppando allo stesso tempo le mutandine ormai ridotte a uno straccio informe.
Poi si calmò.
Si ricompose come se si fosse ripreso da una sbronza. Stessa sensazione.
Dopo l’orgasmo, il rimorso si era fatto sentire.
Che gli era preso? Sapeva che non avrebbe mai avuto rapporti sessuali con sua figlia.
No, sarebbe stato un tradimento. Era sua figlia. Il suo tesoro più grande. Avrebbe dovuto proteggerla, non sognare di fotterla.
Lo doveva a sua moglie.
Scacciò quel rimorso. Sciocchezze, non aveva intenzione di fare sesso con lei.
Aveva solo sfogato un’eccitazione sessuale fisiologica su un capo di abbigliamento, un abito molto bello e morbido. E lui non andava con una donna da tantissimo.
Una “normale” masturbazione con l’aiuto di un paio di mutandine sporche, tutto qui. Ognuno sarà libero di masturbarsi quanto vuole, no?
Si rivestì e compose il numero di Anna al telefono, finalmente interessato a scoprire dove fosse andata sua figlia così di corsa.

Lia
Lia fissava lo schermo del telefono sbigottita, incredula alle notizie che sua madre Teodora le stava dando.
Il giorno dopo la sua partenza, sua madre aveva cacciato di casa suo padre Sergio.
Teodora mugugnò delle vaghe spiegazioni sul fatto che avessero litigato e che lui si fosse comportato male.
Ma soprattutto, pochi giorni dopo la sua partenza, suo zio Roberto aveva avuto un ictus ed era finito in ospedale in gravi condizioni.
Teodora cercava di minimizzare, dicendo che la situazione era sotto controllo, che senza suo padre la vita in casa era più serena, che suo zio se la sarebbe cavata anche se al momento non era lucido.
I medici dicevano che era fuori pericolo ma che avrebbe avuto bisogno di lunghe cure per tornare in sé.
Lia non riusciva a credere a quanto sua madre fosse fredda, scollegata dalla realtà. Parlava con lo stesso distacco di una giornalista dell’edizione della sera. Non si vergognava? E dov’era adesso suo padre? Non si sapeva.
L’unico interesse di Teodora era sapere se sua figlia si stesse comportando bene.
Lia evitò di dire che aveva già buttato quasi tutto il vecchio guardaroba e aggiunse che sarebbe tornata l’indomani stesso per stare vicina a suo zio.
Nervosa, Teodora borbottò che non fosse necessario e che doveva pensare a studiare.
“Parto domattina” rispose secca Lia.
Mise giù e prenotò il biglietto aereo immediatamente.

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