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Pausa pranzo (re-edit, marzo 2014)

By 4 Agosto 2019Dicembre 16th, 2019No Comments

Il ricordo di te mi perseguita. Il pensiero di quel che è successo poche sere fa si insinua nel
mio quotidiano. Lavoro al pc, approfondisco un argomento su un manuale, ascolto un
collega, eppure in ogni momento la mia mente torna a te, alla tua voce roca, alla tua calma.
E’ come un flashback che gira in loop, ancora e ancora. Tu disteso sul letto, gli occhi piantati
nei miei. Io sopra di te. Lui che cerca di prendermi da dietro, con entusiasmo, ma con
evidente inesperienza. La tua voce pacata che gli spiega: “Piano, un millimetro per volta.
Fermati anche. Mettici tempo, anche minuti”. Io che mi eccito più per la tua descrizione della
lenta ma inesorabile inculata che mi aspetta, che per il cazzo dell’altro che, effettivamente,
si sta già appoggiando a me.
Lavorare? Come posso lavorare, in queste condizioni?
Ti ricordo, e mi bagno. Mi agito sulla sedia.
Recupero uno sfogo di pochissimi giorni fa, lo pubblico su Milu. Di solito espormi così mi
calma. Mi rilassa.
Stavolta non funziona.
L’immagine dei tuoi occhi piantati nei miei, le mani a tener ferme le mie braccia, io supina sul
letto, le gambe oscenamente spalancate, mentre l’altro sta per entrarmi dentro per la prima
volta, mi sconquassa.
Non ce la faccio più.
Afferro la borsa, la giacca, ed esco.
Ho già vissuto delle piacevoli pause pranzo, in passato. Sempre in compagnia, però. Non è
mai successo di sentire un’esigenza così impellente di darmi piacere. Penso al bagno
dell’ufficio, ma non è cosa: non saprei davvero che farmene, di qualche dito, adesso.
Adesso mi serve qualcosa di decisamente più sostanzioso.
Trovo le chiavi dell’auto, parto, in pochi minuti sono a casa.
Corro per le scale. Recupero due dei miei giochi preferiti dal fondo del cassetto, e li guardo.
Mi piace collezionarli. Realizzo di non usare un vibratore, internamente, per masturbarmi, da
un sacco di tempo.
Stendo il k-way sul letto, un telo mare… E finalmente inizio a seguire il bisogno sfrenato che
mi hai lasciato addosso.
Inizio col vibratore più piccolo, ma presto capisco di volermi sentire veramente piena. Quella
misura non regge il paragone del ricordo: tu e il tuo amico insieme, dentro di me,
contemporaneamente… Cambio giocattolo, e mi impongo un movimento più lento ma più
ampio di quello che mi verrebbe spontaneo. Basta poco. Urlo. Urlo, alle due di pomeriggio,
nel mio appartamento vuoto, sotto il sole che filtra dalle tapparelle mezze abbassate. Penso
a te, penso all’altro. Penso che l’altro è durato troppo poco, ma subito il pensiero vola a te
che integri con un giocattolo – proprio con uno di quelli che ho lì in quel momento.
Penso al tuo cazzo piantato in culo, che mi pompa – io alla pecorina sul letto – mentre con la
mano fai scivolare pian piano il vibratore nella mia figa. Una penetrazione lentissima e
costante. “Che cosa stai facendo?”. “Voglio vedere fin dove arriva”. L’ingenuità, la mia, è
emersa in una risposta poco misteriosa e troppo diretta: “Oh, ma lo prendo tutto, sai?”.
Avrei dovuto lasciarti esplorare più lentamente. Avrei dovuto lasciarti scoprire con calma di
che cosa sono capace, quando mi sento bene.
Il mio movimento si è fatto più leggero, intanto. Meno profondo. Muovo il vibratore con
dolcezza, lasciando che entri solo per pochi centimetri. Lo spingo verso l’alto. Ancora e
ancora. E succede: godo, godo di nuovo, stavolta in un modo più dolce, che si scioglie in un
rivolo di piacere. Da quanto tempo non provavo questa sensazione! Mi piace molto.
Mi fermo per un attimo, ripensando all’abbraccio che ti ho chiesto alla fine della serata. Non
me l’hai negato. Un abbraccio caldo, avvolgente, rassicurante: con i nostri corpi a contatto,
col calore della tua pelle, con la tua mano che mi accarezzava i capelli e la schiena, come se
fossi una piccola bambina da cullare e da proteggere. Hai saputo cogliere ancora una volta
le mie emozioni, hai saputo capire ciò di cui avevo bisogno per sentirmi tranquilla. Per
questo hai avuto il meglio di me.
Mi rilasso per un attimo gustando la rara sensazione di sentirmi davvero “vista”, compresa,
non giudicata.
Poi guardo l’ora: le due e dieci. C’è ancora tempo. E l’immagine di te buttato su quella
poltrona, mentre mi davo da fare con l’altro, si affaccia prepotentemente ai miei occhi. Quel
tuo sguardo piacevolmente divertito, quella sicurezza di chi ha palesemente il controllo della
situazione, mi fanno nuovamente allungare la mano verso l’altro giocattolino…
…E ricomincio, contraendo i muscoli intorno a quel cazzo di plastica, col desiderio infinito
che sia di nuovo tu, a prendermi così.
Smettere, fare una doccia, rientrare di corsa in ufficio, è stato faticoso.
Ne vorrei ancora.

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