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E’ passato un anno.
Un anno dall’ultima volta che ci siamo visti. Poco meno da quando sono volati insulti via messaggio.
Noi che per due anni avevamo mutato l’uno il destino dell’altro. Noi che per mesi avevamo fatto l’amore ogni mattina e ogni sera.

Adesso è li, davanti a me. Seduta alla scrivania, col suo sorriso di circostanza, allunga pieghevoli e materiale a gente che, nel migliore dei casi, si sta chiedendo perchè debba passare un assolato sabato di primavera su quelle sedie scomode al buio, invece che fuori come tutti i cristiani.
Mentre la fila scorre la osservo.
E’ dimagrita. Mossi capelli castani ricadono su un viso più spigoloso di quanto ricordassi, solcato dalle prime rughe che neanche il fondotinta riesce a coprire del tutto. Ha cambiato gli occhiali per seguire la moda e questi accentuano quell’aspetto da maestrina per bene di cui non riesce a fare a meno. Il seno, alto e florido, sembra frutto di un reggiseno imbottito, ma solo io qui intorno so quanto quelle meraviglie reggano magnificamente la gravità da sole. Forse, solo io.

La sua espressione muta quando le compaio davanti. Sorpresa e smarrimento sembrano autentici, eppure avrbbe dovuto saperlo che a venire qui, nella mia tana, in quella che un tempo era la nostra tana, sarebbe potuto succedere.
“Dove devo firmare?”
Tentenna “Qui, a fianco al tuo nome”
Fa scorrere i fogli lentamente. Intorno a noi metà delle persone sanno cosa sta succedendo, l’altra metà può solo percepire un’aria di temporale. E nessuno si avvicina ad un temporale
Mi fissa. Rimango impassibile.
“La documentazione?” Me la allunga. Senza staccarmi gli occhi di dosso.
Io faccio un passo di lato e mi dirigo verso le sedie. La tempesta si rilascia e la fila torna a scorrere.

Ogni tanto la cerco, nelle ore successive, disinteressato alle diapositive e, ogni volta, la colgo intenta a fissarmi. Distoglie lo sguardo, io no.

Mi ha amato e poi mi ha odiato senza smettere di amarmi. Avevamo creduto alle promesse di una primavera dove tutto il mondo era racchiuso tra le nostre braccia intrecciate. L’estate aveva dissipato la mia follia, non la sua, e avevo cercato la donna che amavo realmente. Cosi, mentre lei faceva soffrire me, io facevo soffrire la maestrina dal seno perfetto.
Avanti e indietro, nel dolore, nel risentimento. Incapaci di staccarci del tutto avevamo continuato per due anni a vederci, saltuariamente, a scopare furiosamente, a fare l’amore dolcemente, come se per un’ora o due tutto potesse tornare alla nostra primavera.
Stronzo, una merda, non ero stato molto di più. Diventò quasi un buco da riempire, in cui la donna passò in secondo piano, ammaliato da quel sesso magnifico che facevamo.
Vedevo i suoi occhi piangere, sentivo le sue parole, eppure non mi importava nulla, il senso di colpa si dissipava rapidamente, soffiato via dal desiderio.

Poi un giorno, in un pomeriggio autunnale, le proposi di riprovarci. Non la amavo, non più, e lo sapevo. Eppure, sicuro di non aver più un cuore con cui conoscere la felicità, mi convinsi che sarebbe andata bene anche lei. Che sarebbero andate bene anche i nostri discorsi pigri, i nostri interessi distanti
Accettò e fu l’ultima volta che facemmo l’amore.

Mi riscuoto dai pensieri per la pausa caffè. Si è alzata dalla scrivania, tutta intenta a soddisfare l’ego di un piccolo dottore con pochi capelli e tanta pancia.
Le passo alle spalle. Il profumo è ancora quello. Quello che sentivo sulle dita per giorni, quello che mi annunciava la sua presenza quando ci incontravamo al lavoro.
Anche i dolci sembrano quelli.

Quel mattino in cui, terminato il lavoro la raggiunsi a casa sua. Erano mesi che mi costringeva ad inseguirla. Sembrava mettermi alla prova, sfidandomi a provare che veramente la rivolevo con me, sabotando i miei tentativi, le mie cene, i miei viaggi, solo per il piacere di accusarmi di non essere abbastanza convinto del passo.
Arrivai da lei con i dolci di quella che un tempo era stata la nostra pasticceria, oramai ridotta ad un anonimo bar di periferia. Salii le scale e, quando mi aprì la porta, senza farmi entrare, capii che nel letto non era sola.
Nei giorni successivi scoprii che aveva una storia che andava avanti da parecchio. Da prima che le proponessi di riprovarci. Scoprii che nessuno sapeva di me, che ero tornato, tutti di lui.
Le telefonai per insultarla. Mi rispose che, dopo tutto il dolore che le avevo dato, non avevo alcun diritto su di noi.
Il mio cervello sapeva che aveva ragione, il mio ego voleva solo urlarle che era una puttana.

Il corso è finito e io mi attardo a chiaccherare prima di prendere la macchina e tornare verso la città. Il sole , scomparso dietro nuvole scure, non invita certo ad uscire e questa sera nessuno mi aspetta a casa.
Dopo pochi chilometri vedo la sua peugeot grigia ferma a bordo strada con le quattro frecce, il cofano aperto e una gomma a terra. Stringo le mani sul volante e proseguo.
Duecento metri dopo percorro due volte la rotonda, poi mi decido e torno indietro. Piove

Mi fissa nel suo spolverino grigio, sotto un ombrello rosso, unica macchia di colore della giornata.
Il crick e il ruotino sono dove li avevo lasciati 2 anni prima. Mentre lavoro, l’acqua che scende dal cielo copre le sue parole di ringraziamento. O forse non arrivano, come l’ombrello che non ha neanche la buona educazione di allungarmi.
Riesco a capire la frase “… avevo già chiamato mio padre…”. Non deve avere opzioni migliori se per cambiare una gomma ha bisogno di un uomo che sarà almeno a 50 chilometri da qui
Mi rialzo e metto via la gomma, fradicio
“Grazie, veramente” mormora.. E finalmente mi allunga l’ombrello
“Non c’è di che” vorrei aggiungere qualcosa, ma non saprei cosa. E soprattutto sarebbe del tutto inutile. Meglio chiuderla qui.
Faccio per tornare alla mia macchina
“Almeno vieni da me ad asciugarti” mi volto e la fisso in silenzio. Stringe nervosamente l’ombrello e io annuisco.

Il parcheggio sotto caso è come lo ricordavo. Grande, marcio di foglie e di umidità. Le scale mi regalano lunghi secondi del suo sedere. Grosso, tonico, da mordere. Le ho sempre detto che le avevano montato un sedere destinato alla Nigeria. Lo fisso, lei sculetta come le viene naturale, io continuo a fissarlo.
Entro in casa dopo di lei. Solo un sussulto a sorpassare quella soglia dove la avevo vista l’ultima volta, appena riempita da un altro uomo.
La casa è come me la ricordo, il grande salone davanti, il bagno a destra e la camera da letto a sinistra. Tengo lo sguardo dritto davanti a me. Non abbiamo ancora detto una parola.

“Vuoi qualcosa da bere?”
“Mi basta un asciugamano”
Indica distrattamente il bagno e va verso la cucina.
“Hai cambiato il divano” dico dopo aver preso un asciugamano pulito “Quello vecchio cigolava troppo?”
“No… era solo consumato”
“Io ricordo che cigolava parecchio. O forse eri tu che urlavi”
“Idiota” non trattiene un sorriso. Ci sta pensando. Si sta ricordando di come le tenevo la testa contro i cuscini. Di come la prendevo senza sosta da dietro. Di come lo sentisse entrare fino in fondo mentre le massaggiavo senza sosta il seno. Lo sta ricordando e sorride

Voglio giocare
“Il tavolo è sempre quello invece” passo una mano sul piccolo piano in legno quadrato. “Solido abbastanza per fartici sedere, allargare le gambe e lasciare che ti leccassi via il gusto accumulato nella giornata”
“Ma smettila”
Mi avvicino “Ti ecciti ancora a mettere dei bei pantaloni attillati come questi e ad andare in giro sculettando e facendoti guardare? Ti bagni ancora ad attirare lo sguardo dei vecchi bavosi? Il tuo fidanzato lo sa con che maialina sta?”
“Basta cazzo, non faccio queste cose” il respiro adesso è affannoso, la rabbia certo, ma anche altro. La vergogna di essere stata beccata. Non ho bisogno di controllare per sapere che oggi si è eccitata come sempre, che il clitoride si è gonfiato, le labbra allargate e le mutandine bagnate
“Ma perché? A lui non piace leccarti quando torni dal lavoro? Non ti fa godere in macchina prima ancora di salire come facevamo noi?”
“No…” tentenna. Poi prova a riprendersi e fa un passo di lato per allontanarsi. “Lui lavora da casa, disegna e, quando arrivo mi metto in ginocchio sotto il tavolo e ci penso io a lui” sorride. Non ha veramente ancora capito come finirà?
“Brava, avrai fatto esperienza allora. Sono contento tu abbia trovato un cazzo che ti entri in bocca. Il mio non riuscivi a prenderlo. “
“Dai basta” ma non alzi lo sguardo
“Ti mettevo in ginocchio, te lo strusciavo in faccia, provavi a succhiare la punta e poi era costretta a scendere alle palle. Quanto ti piaceva avere il mio cazzo sulla faccia? Ti ricordi quanto ti bagnavi troietta?”
Le sono di nuovo addosso “Te lo ricordi?” la guardo dall’alto in basso. Il petto si alza, ma le mani non mi allontanano “Rispondi”
Respiro, poi leggero “Si” non alzi gli occhi
“Si cosa?”
“Si me lo ricordo” dietro di lei c’è la cucina, non può più indietreggiare
“Il mio cazzo? Il mio cazzo grosso?” annuisce “Non ti sento”
“Si”
Le prendo la mano e gliela porto sui miei pantaloni dove l’erezione già sta crescendo. Sembra una marionetta
“Te lo ricordi?”
“Si”
“Lo vorresti ancora? Dentro di te? Grosso e duro come una volta?” le sollevo il volto e la guardo negli occhi
“Si”
La bacio. Dolce e affettuoso. Me lo ricordo questo gusto. Menta che non riesce a nascondere le tracce di fumo, saliva che aumenta rapida
Mi appoggio a lei senza smettere di baciarla. La sua mano non si è ancora staccata dal mio pene, un buon segno, ma devo ancora fare l’ultimo passo.
La sollevo dolcemente sul piano della cucina, le sfilo i pantaloni rapidamente e, sempre dolcemente, le allargo le gambe
“Questo te lo ricordi sicuramente”
Scendo verso il basso e trovo le sue mutandine zuppe. Non ho bisogno di toglierle, la lingua sa dove andare. Lenta scorre sul margine superiore, accarezzando il clitoride. Ampie leccate che stuzzicano e restituiscono a me il gusto della sua eccitazione.
Freme. Una volta diceva che avrei potuto farmi pagare per leccare e vivere di quello. Direi che le piace ancora.
Mordicchio le mutande facendole scendere e mi concentro sul clitoride ora libero. Piccole veloci leccate che la mandano su di giri e le fanno irrigidire le gambe. Deve essere tanto che nessuno la lecca decentemente
Mi sollevo e torno di fronte a lei
“No, continua”
“Non così in fretta” la tiro giu e la giro col viso verso il mobile. La tengo ferma con una mano, mentre con l’altra mi slaccio la cintura e abbasso i pantaloni
“Fai fare tutto a me? Sei una troietta molto pigra”
Prova a lamentarsi, ma non la faccio muovere. Prendo il pene e lo appoggio su di lei, lo struscio sulle sue labbra bagnate della mia saliva
“Fai piano… perfavore” aggiunge dopo un attimo di esitazione
“Sei bagnata come una fontana”
“Tu però fai piano”
Per un attimo riacquista lucidità e così decido di accontentarla.
Mi appoggio alla sua vagina e lentamente inizio ad entrare. Il pene si fa strada attraverso di lei che si muove tra le mie braccia. Non la mollo, ma entro lentamente
“Non sei più abituata ad un cazzo vero?”
Non risponde, ma è ovvio che il fidanzato non deve essere proprio un superdotato.
Lento avanzo. La sento andare sulle punte, ma non mi fermo, vado fino in fondo
Mi fermo solo quando sono tutto dentro. Rimango fermo un attimo a baciarle il collo, cerco la bocca rimasta aperta e la chiudo con le mie labbra.
Poi inizio a muovermi. Sempre piu veloce, sempre più forte.
La stringo a me baciandola mentre la scopo. Le stringo il seno sopra la camicetta che nessuno ha pensato di togliere, le schiaffeggio il culo e glielo allargo per andare ancora più giu.
“Andiamo di la?” annuisce
Mentre la seguo nella stanza non riesco a fare a meno di ammirarle di nuovo il culo. Glielo scoperei come non ha mai voluto che facessi, ma per ora mi accontento di guardarlo
La faccio sedere sul letto mentre si spoglia e le sbatte il pisello in faccia “Fammi vedere se sei veramente diventata la regina del pompino”
Non ci prova a protestare, ma anche adesso non riesce a prenderlo in bocca e si limite a leccare l’asta e a scendere verso le palle. Le prendo la testa e gliela schiaccio sul mio scroto, lei ubbidiente, da brava cagnolina, continua a leccare
Poi con la sguardo scorro verso i comodini. La dove una volta c’era la sua foto sulla nave di ritorno dalla Sicilia, ora c’è una coppia abbracciata. Sembra felice, sembra innamorata.
Non sembra una che leccherebbe le palle al suo ex.
Sento un brivido e mentalmente cerco di ricordarmi che non sono li per innamorarmi, ma per scopare
La faccio stendere davanti a me, ora nuda. Vorrei dirle che è bellissima, ma mi trattengo, imprimo nella mia testa l’immagine di lei in pigiama appena scopata da lui che mi apre la porta.
Il cazzo si arrabbia insieme a me e decide che ne ha avuto a sufficienza di dolcezza.
Le prendo le gambe, le allargo davanti a me ed entro. Poi fletto in avanti e avanzo fino in fondo, riempiendola sempre di più fino a che non c’è centimetro della sua vagina che non sia a contatto con la mia carne calda.
A quel punto, stringendola, inizio a scoparla. Veloce, duro, incazzato. La scopo e la stringo, la scopo e la bacio
Lei esplode di piacere, urla senza alcun ritegno per quel trattamento e si bagna. Sotto di lei le prendo le chiappe e le allargo, mi sputo su un dito e mi avvicino al suo buchino.
Scopo e spingo, spingo e scopo. Lei si stringe a me con le braccia, cerca di allargare ancora di più le gambe, ne vuole ancora
Quando raggiungo il buco del culo, però, lo sento strano. Arrendevole, più largo di come lo ricordassi. Il mio dito entra abbastanza facilmente e poco dopo anche un secondo
Il contatto tra dito e cazzo attraverso la parete la manda fuori completamente, quasi non si accorge di avere 2 dita che la inculano.
Poi capisco
“Ti sei fatta scopare il culo troia?”
Non risponde continua a gemere
“Ti sei fatta scopare il culo dal pisellino del tuo fidanzato?”
Chiude gli occhi serrati per non rispondermi
“Rispondimi troia” “Rispondimi o mi fermo qui”e per accompagnare la minaccia rallento
“Si” dice con un filo di voce
“Si cosa troia?” dico tornando a spingere
“Si mi sono fatta scopare dietro”
La cosa mi colpisce, mi infastidisce. Alzo la testa a fissare la foto e accellero la scopata
“E così ti piace? O vuoi il cazzo del tuo fidanzato? Eh”
Non risponde, ma sento che non ce la fa più. Tiro via le dita dal culo, afferro le chiappe e accellero ancora.
Uno, due, dieci, venti colpi. Esplode.
L’urlo dell’orgasmo, i brividi, gli occhi. Ricordo tutto. Ogni secondo. Visto per decine, centinaia di volte in quei mesi, in quegli anni. Ogni orgasmo, ogni urlo di liberazione. Ogni getto di bagnato, ogni unghia nella schiena
In altri tempi mi sarei fermato ad aspettarla, a farle due coccole in attesa di un secondo round. Ma in altri tempi non ci sarebbe stata quella foto sul comodino.
Non mi fermo. O non avrò un’altra occasione
La giro. Se devo scoparla che sia veramente come farebbe un’animale

Non reagisce più. Il suo culo e le sue gambe, scuassati dall’orgasmo, oramai si contraggono appena sotto le mie spinte. La sua testa è una massa di capelli abbandonati sul cuscino, anche i suoi gemiti sembrano solo più aria spinta fuori a forza.
Io sono al limite, ma non mi fermo… continuo a ficcarlo a fondo, fissandole il buchetto leggermente dilatato.
Quello stronzo. Spingo. Figlio di puttana. Spingo ancora più forte.
Mi scopro geloso… geloso di un uomo a cui sto scopando la fidanzata come l’ultima delle troie.
Accellero ancora, sento il cazzo che pulsa pronto ad eruttare. Mi godo ancora quella caverna bagnata che lo circonda, affondo un ultima volta più che posso e lo tiro fuori.
Sperma caldo spruzza come una fontana sulla sua schiena, raggiunge i capelli e poi cola verso culo. Qualcuno dovrà cambiare le lenzuola, temo. Non è sicuramente un problema mio.

Mi fermo, sfinito, a fianco a lei.
Il suo seno si muove a ritmo col mio petto, i suoi occhi mi fissano mentre riprendo fiato.
Fastidio, ecco cosa provo. Adesso che ho sborrato, che l’ho coperta di me, voglio andarmene da quel posto che non mi appartiene più

Mi alzo dal letto e cerco la maglietta
“A volte ci penso” fa una pausa guardandomi “Come poteva essere… dove saremmo io e te adesso”
“Lo rimpiangi?” mi allaccio la cintura
“Io? Beh… no. Forse ogni tanto.” Non guarda la foto sul comodino ” E tu?”
Allaccio lentamente le scarpe e mi alzo “Io? Io rimpiango solo di non averti mai scopato il culo”
“Sei uno stronzo”
“E tu una puttana”
Sbatto la porta uscendo.
Scendo le scale
Per l’ultima volta
Questa volta è veramente l’ultima

“Amore, il corso è finito un po’ tardi, passo da casa a lavarmi e vengo a prenderti” scrivo rapidamente su WhatsApp.
Su una cosa almeno la puttana aveva ragione… sono uno stronzo
Attraverso il cortile baciato dal sole che, finalmente, ha vinto la sua lunga lotta con le nubi.
Mi piacerebbe fumare.
Ci vorrebbe proprio una sigaretta in un momento come questo. Ci vorrebbe davvero

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