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Racconti Erotici Etero

PORTO DI VAGHEZZE

By 16 Maggio 2008Dicembre 16th, 2019No Comments

Appunti di un viaggio.

Non era ancora la stagione delle nebbie.
Ricordo che io e lei trascorrevamo insieme i pomeriggi di settembre, abbracciati e seduti sugli scogli, con una sorta di mantello turchino sulle spalle. Ci appartavamo in un angolo remoto del porto, presso il molo grande, che costeggiava il canale che dava sul mare. Si discerneva appena l’altra sponda, affollata da case grigie, dai tetti fiamminghi, spioventi, e dalle finestre dai vetri all’inglese. Ve n’erano su entrambe le rive. Qualcuna era disabitata. Di tanto in tanto, specie nell’ora del tramonto, da uno di quegli usci, o da dietro quelle imposte, spuntava qualche volto di giovane donna, dai lineamenti tipici delle Fiandre e dalle chiome bionde o scarlatte.
Una ad una, passavano le barche dalle vele bianche o i battelli dei pescatori, dai cui fumaioli saliva un fumo di vaghezze. I marinai avevano i volti rugosi e le barbe bianche. Qualcuno teneva la pipa in bocca, ma non per fumare’ Con le mani vizze lavoravano le reti, o reggevano il timone. S’udivano altresì dei canti malinconici, intonati da voci roche, in un dialetto fiammingo che sapeva di mistero e di malinconia.
Mentre carezzavo quei capelli morbidi, lunghi, biondi e destinati a non divenire mai canuti, udivo le sirene vaghe delle navi, discernevo le prime luci notturne, che s’accendevano una ad una, nella foschia che cresceva ad ogni istante.
E il vento carezzava quelle labbra, che s’aprivano a malapena, per sussurrare parole di felicità, che si smarrivano nella voce dei flutti, che mormoravano agli scogli, al cielo un po’ grigio e ai gabbiani.
Vedevamo, di lontano, un mulino a vento’ Era il nostro mulino, quello delle passeggiate tristi, fatte tenendosi per mano e pensando al niente, all’ultimo giorno di un’esistenza che speravamo fosse senza fine.
Alle nostre spalle, dietro il molo, c’era l’antica Taverna del Porto, dove, un tempo, i vecchi marinai fiamminghi venivano a ubriacarsi, a discorrere, a fare gli scherzi. A volte vi erano scoppiate delle risse, fatte di tavoli rovesciati e sedie di legno fracassate, bicchieri infranti e bottiglie di birra o di rhum che andavano in frantumi.
E se spingevate lo sguardo oltre quelle ciglia lunghe e nere, vedevate l’estremità perduta dei due moli, l’immensità di un mare allora tranquillo, ma che talvolta diveniva tempestoso, e immaginavate la costa lontana, lontana, che di tanto in tanto brillava, assai vaga, per poi svanire tra le nubi, apportatrici di lampi o di pioggia.
Era facile e affettuoso sospingere la tenera mano su quelle spalle, su quei boccoli teneri baciati dalla giovinezza, su quel volto amico e femminile, per poi lasciarla vagare dolcemente su quelle forme. Tutto era bello, meraviglioso, tranquillo, come quel pescatore che, talvolta, s’appartava a pochi passi da noi due, con la canna di legno e un basco celeste sul capo. L’avevamo udito soltanto una volta, allorché, catturando un pesce gigantesco, aveva esclamato con voce roca:
– Guardate che passera! Guardate che passera di mare!
Un crocchio di gente gli si era radunato intorno, qualcuno aveva applaudito, molti s’erano attardati per curiosare.
Non era facile dimenticare quelle trecce sempre care, quei boccoli amici, quegli occhi pieni di sincero affetto e devozione e quei baci furtivi, languidi, regalati come per caso, ascoltando la voce del vento.
Un giorno sarebbe arrivato l’inverno.
Forse, sarebbe successo tanto, tanto presto.
Ma in quella stagione felice non ci pensavamo, no, non ci pensavamo, per nulla al mondo.
Delle mille visioni malinconiche che nutrivano i nostri sensi, una rimaneva impressa più delle altre. Era il veder arrivare dall’alto mare una chiatta di legno, che entrando nel canale produceva un gran fragore di flutti. Recava una grande bandiera d’Olanda, no, forse, di Francia. Non so perché, ma era sempre avvolta dalle foschie. Forse, lo era perché giungeva sempre nell’ora del calar del sole, in cui tutto, anche l’azzurro, si tingeva di grigio. Si diceva che quella chiatta fosse usata per il contrabbando. Non so se fosse vero. Ma era sovente ingombra di casse di legno, di bauli, di cianfrusaglie vecchie e quant’altro. A condurla c’era un vegliardo, che di rado faceva una sortita dalla sua minuta cabina per salutare i gabbiani con un fazzoletto bianco, anzi, giallo. Poi si soffiava il naso e ritornava al timone. A volte, la chiatta sembrava un rimorchiatore. La vedevate trascinare due, tre imbarcazioni in panne. Il vago rumore di quel motore suscitava torpore, mistero, evocava i ricordi languidi del passato, tingeva di sogno tutte le cose del mondo. Di tanto in tanto, una lanterna si accendeva e si spegneva a bordo. La sua luce vaga brillava appena sulle travi di legno e si confondeva con la bruma crescente, solo per pochi istanti. Poi, più niente.
Durante le numerose peregrinazioni dello spirito, che si potevano vivere abbracciati a quei capelli morbidi, coccolati da quelle mani languide, baciati da quelle labbra splendide, le illusioni perdute rapivano la mente, fatalmente.
Anche due innamorati smarriti, che si baciavano e si abbracciavano su uno scoglio, mentre il vento languidamente muoveva come un mantello i bei capelli di lei, bastava a confondere i sensi.
Io cercavo, tentavo, speravo di parlare, di sussurrare a quella chioma d’oro, baciata da un magico turchino, bramavo intrecciare le mie dita con le sue, meravigliosamente bianche. Quelle labbra tranquille mi sussurravano negli orecchi parole affettuose e appassionate, troppo belle per riportarle o forse, anche solo per ricordarle.
Talvolta, giocavamo a rincorrerci sulla spiaggia. Non era lontana da quel porto, era soltanto un po’ riposta. Pareva desolata, solitaria. C’eravamo solo noi due, io e lei. Le lanciavo una palla ed ella me la restituiva tutta diligente. Quando la rincorrevo, invece, la sentivo ridere, quasi a crepapelle; di tanto in tanto, capitava che si gettasse a terra e si fingesse morta. C’era anche un cagnolino, dal manto marroncino e dalle orecchie grandi, a sventola, che ci seguiva e abbaiava festoso. Scodinzolava e si rizzava sulle zampe posteriori, la lunga lingua a penzoloni; sapeva anche fare le capriole.
– Un giorno, partiremo a bordo della chiatta dei sogni, la chiatta dei desideri ‘ mi disse all’improvviso il grande amore, dopo il calar del sole, tra le foschie di quel porto di vaghezze. ‘ Partiremo per toccare l’altra sponda, o per addormentarci assorti, onda dopo onda’
Mi disse che avrebbe parlato lei al vecchio, che sembrava un traghettatore.
Ricordo che una volta, nell’ora dell’oblio, la chiatta fece ritorno al porto trasportando una sorta di banda. C’erano le trombe, le chitarre, la batteria e persino la cantante’ Io non so ben raccontare come accadde, rammento soltanto il vago chiasso, nell’etere turchino e un po’ smarrito, tra le due sponde, affollate dalle case fiamminghe. I canti erano scatenati e un po’ perversi, c’era anche una bandiera americana, che sventolava. La musica non assordava e si confondeva, piano piano, con il rumore delle onde e le voci dell’occaso.
La bambola socchiudeva gli occhi, per baciare.

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