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OrgiaRacconti Erotici Etero

Prometeo – Polìpete

By 1 Giugno 2012Dicembre 16th, 2019No Comments

 

Si svegliò sudata ed in preda al panico. Aveva cercato di muoversi, al buio, ma si era accorta di essere legata mani e piedi. Non capiva come e perché fosse finita in una situazione simile. Poi, d’improvviso, una luce si accese, accecante, nella sua mente e lei ricordò tutto. Ed urlò.

Come se il suo grido avesse risvegliato delle forze latenti, una porta davanti a lei si aprì d’un colpo, sbattendo sulla parete con un rumore assordante. Era un riquadro luminoso, ritagliato nel buio della stanza. Ora sapeva di giacere su di un letto al quale era legata con fasce di seta azzurra che le tenevano avvinti i polsi e le caviglie, costringendola in una posizione di totale apertura del corpo. I suoi bei seni si ergevano sul torace, fermi come piccole colline. Il declivio dolce dello stomaco scivolava sino all’ombelico, proseguiva verso il pube, risaliva sul Monte di Venere in prominente attesa, per poi scivolare nel piccolo bosco perdendosi, infine, nelle due grotte umide ed esposte senza pudore. Non solo le caviglie, sentiva avvinte, ma anche le ginocchia, con un sapiente gioco di legami e di nodi che la tenevano spalancata, esibendo la rosea vulva e lo scuro pertugio posto sotto di essa, in un’offerta lasciva ma meravigliosa. In qualche modo, il giaciglio morbido sul quale ella era distesa si sollevava all’altezza dei fianchi, in modo da tenerle il bacino alzato, quasi in un’offerta senza limiti.

Sapeva di essere vergine. E che quella sua condizione stava per avere fine, ineluttabilmente. Senza fine.

La paura giunse al parossismo. Ora sapeva cosa sarebbe successo ed il solo pensiero la terrorizzava oltre ogni limite. Tutto ciò che la circondava era assolutamente immobile, senza che un solo rumore turbasse quella situazione di totale quiete.

Poi un suono strano ma ormai spaventosamente familiare colpì il suo udito, esasperato dall’attesa come, d’altra parte, tutti gli altri sensi. E d’improvviso, sulla soglia si stagliò una figura: “quella”, figura che lei conosceva sin troppo bene e la cui sola vista aveva il potere di sprofondarla in un nero abisso di terrore e di disperazione. La forma era quasi tutta umana, anche se superdimensionata. Non era umana la testa, enorme e sormontata, ai lati, da due corna che la incorniciavano dandole l’aspetto di un gigantesco, orrendo caprone. Il corpo appariva splendido ed i muscoli, stupendamente scolpiti. E tra le gambe si ergeva un membro di dimensioni terrificanti. Era lungo circa quanto un suo braccio e grosso quanto due teste di neonato. La ragazza urlò ancora, mentre il suo cervello smetteva di pensare, sommerso da un’ondata rossa di paura.

Il mostro si avvicinò lentamente a lei, mentre l’urlo di terrore diventava continuo, ininterrotto. Sapeva che non sarebbe morta, suo malgrado, perché lei NON POTEVA MORIRE. Il letto si curvò sotto l’enorme peso. Il viso animalesco si accostò al suo e quel pene di dimensioni inconcepibili si avvicinò al suo pube. Esitò un attimo, come combattuto tra due desideri diversi, vagando tra la vulva e l’ano. Poi la bestia decise………..

 

*   *   *

 

Polipete era al pozzo, quella mattina chiara del tempo degli Dei. Era piena di gioia, nel pensare a come sarebbero stati i prossimi giorni della sua vita. Già da molto tempo si era promessa a Leontèo, e tra poco sarebbe arrivato il momento nel quale la loro unione sarebbe stata benedetta dagli Dei. Gli Indovini avevano consultato a lungo l’Oracolo che infine aveva indicato la data più propizia alle nozze.

Polipete (Poly, con l’accento sulla “y”, per gli amici) era bella, molto bella. Alta, snella e slanciata, gli occhi neri intensi, il suo seno era motivo di invidia per la stragrande maggioranza delle sue compagne. Il peplo bianco fissato su una spalla scopriva una pelle dalla grana finissima, dal colore rosato. Mentre camminava, le sue cosce lunghissime si profilavano chiaramente sotto quella morbida tunica che delineava anche, pur mantenendone il segreto, le linee di un ventre solo leggermente prominente ed, a volte, anche il rilievo del piccolo monte posto al loro incrocio.

Ciò che Polipete non sapeva, era l’interesse che la sua vista aveva suscitato in due Dei, due cugini scapestrati come Ares ed Hermes. Per loro, l’avaria che aveva interrotto il viaggio dell’ “Olympos” l’enorme astronave sulla quale stavano svolgendo l’apprendistato, era stata una tragedia senza fine. Finite le corse eccitanti tra un Sistema Solare ed un altro. Finite le scorribande su pianeti ricchi di bellezza di ogni genere e di cose desiderabilissime, a cominciare dalle ragazze dei tanti mondi a radice umana. Finite le ubriacature, le stupende risse da osteria, prediletto passatempo di Ares. E le lunghe ore passate ai comandi della nave che Hermes, l’Allievo Pilota, non avrebbe mai lasciato, erano state confinate nel regno dei ricordi. Quei comandi azionati dal suo stesso pensiero e che lui non mollava mai, se non durante le soste sfrenate durante le quali loro due, assieme ad un paio delle loro sorelle/compagne più pazze, trascorrevano tutto il tempo sino alla nuova partenza alla costante ricerca del solo piacere nelle sue accezioni più varie e diverse.

La loro prima crociera era risultata entusiasmante sinchè una spaventosa tempesta ionica aveva danneggiato irrimediabilmente gli strumenti di pilotaggio. Ed era stata una vera fortuna, se Zeus, il loro esperto Comandante, era riuscito, in extremis, a far poggiare l’enorme scafo in cima a quella montagna di un pianeta sconosciuto. C’era voluto poco, per  capire quanto fossero gravi, i danni riportati dalla nave. Ed un rapido scambio di informazioni con il loro pianeta d’origine era servito per comprendere che non esisteva alcuna possibilità che loro riuscissero a ripararla. Per quanto bravo, Efesto, il loro Ingegnere Capo, mancava degli strumenti necessari. E data la complessità della struttura, basata su elementi quantistici, nemmeno tutta la loro Scienza, neppure quella del grandissimo Zeus, sarebbe potuta servire a tirarli fuori dai guai. Una nave di soccorso sarebbe partita al più presto. Ma ci sarebbero voluti molti, ma molti cicli, perché essa potesse raggiungerli. Nel frattempo si sarebbero dovuti adattare a vivere nel migliore dei modi possibili su quel mondo sul quale il destino li aveva sbattuti.

Si erano avventurati sul pianeta, ed avevano scoperto di non essere poi stati così sfortunati. Il luogo dove erano atterrati, che gli indigeni chiamavano Hellas, era in grado di fornire loro tutto il cibo di cui avessero avuto bisogno. I luoghi erano ameni e le femmine della specie somigliavano moltissimo alle loro. E molte erano belle perlomeno quanto quelle che avevano lasciato a casa.

Allo stesso modo, le loro compagne di viaggio avevano scoperto che anche i maschi non erano affatto disprezzabili. E sia gli uni che le altre avevano attinto a piene mani in quello scrigno di tesori insperati.

Avevano compreso subito che i loro poteri – straordinari, per quel mondo – avrebbero potuto metterli in grado di controllarlo e dominarlo a loro piacimento. E così, anche per far passare un tempo d’attesa che sembrava interminabile anche per degli Eterni come loro, avevano cominciato a giocare con quegli esseri, con le loro vite ed i loro destini. Zeus, almeno all’inizio, aveva tentato di esercitare un qualche controllo su quell’insieme di giovani scatenati. Dopo qualche tempo, tuttavia, aveva compreso l’inutilità dei suoi sforzi e si era adeguato, contentandosi di un ossequio formale ai principi etici di base propri della Scuola alla quale si erano formati sul loro Pianeta natìo ed inserendosi spesso in molti dei giochi spesso sadici, ma non per questo meno divertenti, del suo equipaggio.

Tre in particolare, si erano dimostrati poco controllabili. Hermes ed Ares passavano il loro tempo tra feste organizzate sulla nave e un’inesauribile caccia alle ragazze elleniche. Aphrodite, la bellissima Aphrodite, aveva usato tutto il suo straordinario fascino per portarsi a letto il maggior numero di uomini possibile, usando senza alcuno scrupolo quella particolarità genetica che faceva si, unendosi alla sua incredibile bellezza, che nessun maschio di qualsiasi razza potesse resisterle. E, del tutto   priva  di  scrupoli,  aveva  messo  in  subbuglio  tutta  la  Nave – quella  che per i mortali aveva dato ormai il suo stesso nome alla montagna sulla quale si era posata – dandola via a chiunque, tra i membri dell’equipaggio, gliela chiedesse. Zeus compreso. Ovviamente a quel tempo il concetto dell’incesto era piuttosto vago. Avrebbe preso consistenza solo tra parecchio tempo. Ma in quei tempi, se il Comandante aveva voglia di divertirsi con la sua figlia più bella, si sarebbe incavolata solo la moglie. E così, infatti accadeva, ogni volta che lui e Aphrodite si mettevano a giocare…

E Zeus giocava molto, bisogna dire. E non solo con la figlia: bastava che il suo sguardo a lunga gittata individuasse una fighetta mica male, tra gli umani, perché costei si ritrovasse subito sdraiata, nuda, nel gran lettone, là, sull’ Olympos.

I due ragazzi, intanto, si davano da fare come matti, e senza scrupoli.  Mietevano cuori. E fighe. Soprattutto fighe.

 

 

Fu Ares, che la vide per primo:

“Ehi” disse al suo amico, dandogli una piccola gomitata nel fianco, “guarda là, che cosa bellina, sta passando! Me piace ‘n sacco!” Bisogna dire che questa era un’espressione marcatamente romanesca, che sarebbe stata coniata solo di lì ad alcuni secoli. Ma i due, forniti di poteri supernormali, almeno per i comuni mortali, si divertivano a scorrazzare anche nel tempo. E così, a volte erano finiti a Roma, anche se ai tempi dell’ Olympos, la Città Eterna non esisteva ancora. Siccome non sapevano bene quando sarebbero arrivati i soccorritori, avevano deciso di organizzarsi il futuro per un bel po’ di tempo. E così, s’erano presi in affitto una mansardina dalle parti di Santa Maria in Trastevere, per quando, loro speravano, Zeus, stufo di Hellas e delle guerricciole da quattro soldi, avesse deciso di trasferirsi con tutta la sua numerosa Famiglia in Italia, dove, perlomeno, gli Dei venuti da così lontano avrebbero trovato grandi Condottieri tipo quel Julius Caesar che le guerre le faceva sul serio ed in grande stile.

Hermes guardò nella direzione indicata dal suo compagno: “Accidenti, ma lo sai che è carina sul serio?! Anzi, è proprio ‘na fata!”. Per la verità, il primo aggettivo che gli era venuto in testa era stato “callipigia”, ciò che voleva dire che la fanciulla aveva un gran bel culo. Come Aphrodite, per esempio. Ma lui non si sarebbe mai azzardato ad usare questo termine di fronte ad Ares che con Aphry, fatta a sorella, aveva avuto una storia che non ti dico, sino a quando lui non l’aveva presa a schiaffoni dopo averla trovata a letto con tre ragazzi neri. D’altra parte, sin dalla nascita, Aphrodite aveva avuto un’evidente vocazione al sesso. Alcuni ritenevano che questa tendenza così evidente fosse da riportare solo ad una splendida malformazione genetica. Si trattava, evidentemente, dei benpensanti, quelli che ritenevano che la ragazza fosse nata dall’unione tra Thalassa e Zeus. Questa tesi era sostenuta dal fatto che la prima volta che Aphrodite era comparsa, stava in piedi su una conchiglia della Shell. Altri, gli amanti del gossip ad oltranza, sostenevano invece che i responsabili – ma che bella responsabilità – della nascita della Dea fosse da attribuire a Crono che, secondo loro, l’aveva generata col semplice espediente di tagliare le palle ad Urano, un giorno che erano sbronzi tutti e due ed avevano litigato come cani, per poi buttarle in mare. Il mare c’entrava sempre. Si trattava di vedere di chi fossero gli spermatozoi….

“Ma com’è, che non l’avevamo vista ancora?!”

“Boh… Ma a ma non me ne frega niente. Io, quella, me la devo fa’!”

“Si, vabbè, e io che faccio? Vi guardo scopare e mi tiro una sega?”

“No, che c’entra?! Si divide anche lei, come tutte. Solo che l’ho vista prima io e quindi l’assaggio per primo!”

“Dai, non fare lo stronzo. Facciamo, che ce la facciamo insieme?” Per la verità, l’uso corretto della lingua non era tra le caratteristiche migliori dei due ragazzi.

“Vabbè, vabbè. Però ricordati che me ne devi una.” Un po’ perso dietro le immagini di una scopata a tre, che gli faceva già drizzare l’uccello sotto il peplo, Ares si dimenticò di specificare a cosa si riferisse con quell’ “una”. E l’altro, molto meno ingenuo di quanto potessero far supporre le due alette che portava sul cappello, si guardò bene dal chiedere informazioni.

“D’accordo,” rispose, “non c’è problema. Solo, bisogna che stiamo attenti. Aphry, lo sai, com’è: se vede un mortale che le piace non sta là a guardare cos’abbia in mezzo alle gambe. Figa o cazzo, lei se li cucca tutti….”

“Si, che ci provi, stavolta! Le scateno addosso l’Idra e poi sono affaracci suoi.”

Fu così che un paio di giorni dopo, Polipete si vide recapitare un invito formale al prossimo festino dell’Olimpo. Glielo aveva mandato il “C.F.D. – Comitato per le Feste degli Dei” con Iris, la loro messaggera. La postina, insomma.

La ragazza restò un tantinello perplessa. Non all’inizio, per la verità. Che quei festini fossero un po’ così, tutta l’Hellas lo sapeva. E che gli Dei tendessero ad allungare le mani ed anche altro, beh, si sapeva anche questo. ‘Però’, pensava ‘Dei o non Dei, ci avrebbe pensato Leontèo, il suo promesso sposo, a tenerli a bada, in un modo o nell’altro.

I dubbi cominciarono a venirle quando chiese a Iris, ma in tono formale e scontato, se l’ unico invito che le aveva portato fosse valido per tutti e due, lei ed il suo promesso sposo.

“No”, le rispose, secca, la Deetta, “ l’invitata sei solo tu.” Girò di spalle, salì sulla Vespetta di servizio e se ne andò, prima che Poly potesse chiederle altro.

Un piccolo tarlo cominciò a far sentire il suo rosicchìo nella testa della ragazza. Perché, lei sola? Perché non volevano anche Leontèo?

Man mano che il tempo passava, il dubbio si ingrandiva, ogni momento un tantino di più. Chiese notizie, in maniera discreta, ad un paio di compagne di scuola. Loro la guardarono con gli occhi sgranati nei quali si leggeva chiaramente l’invidia. Non le fu facile farle sbottonare. Quando ci riuscì alcune di esse, le più belline, le confessarono di essere già passate per quella stessa strada. Allora Poly prese il coraggio a quattro mani e decise di buttarsi. D’altra parte non è che Lei potesse fare un granchè: i mortali avevano tutti una paura mica male, di quegli Esseri venuti dal cielo. Sapevano che potevano fare cose che a loro, agli abitanti di Gaia, non erano concesse. Se un dio dell’Olympos te la giurava per un motivo qualsiasi, erano guai, e di quelli grossi: come niente, potevi ritrovarti trasformato in albero, in cigno, o magari in una fontana, nella migliore delle ipotesi. Altrimenti poteva anche trattarsi di vermi, maiali od altri animali sporchini anzichenò. E se qualcuno dei Capi, Zeus prima di tutto, si faceva girare la luna, poteva andarti anche peggio. L’ultima volta che Eurìmaco, un amico suo dei tempi di scuola, aveva detto una cosa tipo: ”Porco Zeus!”, quando gli si era rotto il timone del carro, improvvisamente da una nuvola era partito un lampo e, zut, del suo compagno di giochi era rimasto solo un mucchietto di cenere.

Quindi, Polipete sapeva che non era il caso di fare troppo la difficile. D’altra parte non era del tutto nuova ai misteri del sesso. Già la seconda volta che era uscita con Leontèo, era stata lei ad incamminarsi lentamente verso il boschetto di alloro che stava ad un paio di cento metri da casa sua. Il ragazzo non si era nemmeno accorto della direzione che lei aveva preso, distratto com’era da quelle due punte che sporgevano dal davanti del peplo della sua amata. Era troppo occupato ad evitare che le gambe gli cedessero rovinosamente, per le sensazioni che la sua stessa mano gli trasmetteva, strofinando contro la coscia di Poly, che da parte sua non faceva nulla, ma proprio nulla, per evitare il contatto.

Quando erano arrivati in mezzo alle piante, in un punto nel quale nessuno li avrebbe mai potuti vedere – Polipete lo aveva scoperto mentre gironzolava alla ricerca di fiori da mettersi tra i capelli – lei si era improvvisamente girata e gli si era appiccicata addosso plasmandosi sul suo corpo, i seni sul suo petto, il ventre che premeva proprio all’incrocio delle cosce laddove era improvvisamente cresciuto un durissimo tronco nodoso. Poly aveva dovuto sollevarsi sulle punte dei piedi, per ottenere quel tipo di contatto, con la scusa di baciargli la punta del naso. Ma in effetti, da quando aveva cominciato a pensare seriamente a come convincere Leontèo a lasciarsi un po’ andare, in quel caldo, ma non troppo, giorno di maggio, la mente inebriata dal profumo dei mille fiori di primavera, la dolce fanciulla aveva cominciato a sentire come dei rivoletti di liquido che le percorrevano l’interno delle cosce. Per un attimo si era preoccupata, pensando alla possibilità che si trattasse di una mestruazione precoce. Poi aveva riflettuto che non poteva trattarsi di quello, posto che i rivoli si trasformavano in piccoli torrenti tutte le volte che pensava a prendere in mano quel coso che spuntava tra le gambe del suo ragazzo. E quindi, la ricerca del contatto diretto era diventata un bisogno sempre più impellente e lei, ormai, non faceva più nulla per nascondere la sua voglia.

Leontèo non credeva alla fortuna che gli era capitata. Aveva una voglia pazza di Poly, ma la costante presenza degli Anziani gli aveva impedito sino a quel momento di farglielo capire con maggior chiarezza, per esempio piazzandole con noncuranza una mano su quelle piccole tette adorabili che premevano orgogliose contro la stoffa del peplo rischiando addirittura di bucarla. Sopratutto ogni volta che lui le sfiorava con innocenza, magari casualmente, il lobo di un’orecchia con la punta della lingua.

Ora si trovava incastrato tra un tronco di alloro ed il corpo desideratissimo della sua promessa, che gli mandava segnali inequivoci. Si era chiesto perché dovessero aspettare sino al giorno delle nozze, per godere reciprocamente dei piaceri della carne. E non trovando risposta nella sua cultura, non avendo a disposizione un prete cattolico che potesse dargli buonissime spiegazioni sul perché non si deve fare sesso, era giunto alla conclusione che, invece, avrebbero potuto. Esattamente come la sua bella ragazza. Purtroppo per loro, Joshua – un palestinese ebreo che pretendeva di essere anche lui figlio di un Dio – non era ancora comparso e quindi non c’erano ancora i Suoi sacerdoti, quelli che avrebbero finalmente, fortunatamente, spiegato a tutti, cosa si può fare e cosa no, tra una donna ed un uomo. Od anche tra un uomo ed un uomo. Od addirittura, tra una donna ed una donna. Così Poly aveva potuto agevolmente far credere al suo amato di essere stato lui a prendere l’iniziativa di stenderla dolcemente su un lettino d’erba e di fiori. Le aveva quasi strappato da dosso il peplo, ciò che lei – preoccupata solo, naturalmente, per quello che le avrebbe detto la mamma, se glielo avesse riportato rotto (“Lo sai, figlia mia, che tuo padre fatica come una bestia, perchè tu possa comprarti i vestiti nuovi! Fagli rompere quello che vuole, ma non i vestiti, per piacere…”) – aveva contribuito ad evitare con grande buona volontà, aprendo rapidamente la spilla che lo teneva chiuso sulla spalla. Ambedue avevano brancicato il corpo dell’altro con una furia degna di Ettore quando faceva a pezzi i Greci, e finalmente lui le si era steso sopra, cercando alla cieca di penetrarla. Per un po’ Poly aveva atteso, con la poca pazienza che le era avanzata, che lui riuscisse a trovare il giusto pertugio. Poi s’era rotta del tutto, gli aveva afferrato il pene con la sua delicata manina e lo aveva guidato con fermezza dentro di se. Infine, continuando a ripetergli, come è dovere di tutte le donne oneste: “No, no, fermati, non lo fare…”, gli aveva circondato i fianchi con le gambe, aveva inarcato il bacino e se lo era tirato dentro sino a sentir sbattere la punta di quel succulento membro contro la cervìce del suo piccolo, delicato utero.

 

 

 

 

Gli accessi dei mortali all’Olympos avvenivano sempre nello stesso modo. L’invitato veniva avvicinato da un distinto Signore rivestito da un peplo grigio scuro che alzava la mano verso il viso dell’altro. Dopo alcuni secondi, il mortale sentiva le palpebre appesantirsi ed era costretto a sdraiarsi per non cadere per terra, a meno che non stesse già su un divano. Altri brevi attimi, ed alcuni fauni o ninfe, a seconda del suo sesso – i fauni per le donne, le ninfe per gli uomini – li caricavano su dei carri forniti di comodi lettini e di erogatori di latte, vino e Coca cola. I semidei, a quel punto schioccavano le dita e tutto l’ensemble si ritrovava improvvisamente nella hall della grande nave. Lì, i mortali si ridestavano ed i ludi avevano inizio.

Polipete  percorse  esattamente  questa  strada  piuttosto mistica. Nel ridestarsi, vide vicino a sé i visi sorridenti dei due ragazzi-Dei che l’avevano, diciamo così, invitata. Le sorrisero assieme:

“Benvenuta!”, le disse Ares.

“Adesso ti portiamo a conoscere il resto della famiglia.”, ribattè Hermes.

La fecero sollevare dal lettino, le schioccarono un bacio per ciascuno sulle guance arrossate dall’emozione e la presero per mano, uno per lato. Nel farlo, uno dei due le sfiorò involontariamente un seno, facendola vibrare come una corda di violino. Ed a mitigare l’eccitazione non contribuiva certo la mano maschile, stretta tra i due corpi, che – ma doveva certo essere anche quello un caso –  non smetteva di carezzarle la coscia.

Passarono per un lungo corridoio sul quale si aprivano alcune porte. Su una di esse campeggiava un cartello con su scritto “Accueil”. Anche questa era un parola non precisamente greca. Ma in uno di quei famosi viaggi attraverso il tempo, alcuni degli Dei l’avevano vista sulla porta di un Ufficio del Campeggio dove avevano soggiornato, ed avevano deciso che, messa all’ingresso dell’Olympos, avrebbe fatto la sua porca figura.

I ragazzi si fermarono davanti alla porta. Polipete rivolse ad Hermes uno sguardo interrogativo.

“Qui c’è l’accettazione,” le rispose il Dio, “devi passare un esamino preventivo, altrimenti non puoi andare avanti.”

Lo sguardo della ragazza si incupì un tantino. Polipete aveva paura di essere rifiutata proprio un attimo prima di riuscire ad entrare in quel posto così bello. Venire ammessa nel Convivio degli Dei, tra l’altro, aveva il significato di una promozione sociale straordinaria. Le sue compagne di scuola più popolari – Bràsida, Labda ed Eurìte – avevano conquistato tutte la notorietà, ormai anche Poly lo sapeva, dopo aver ricevuto la chiamata ed essersi assentate misteriosamente per alcuni giorni. Di ciò che era accaduto, non avevano voluto far parola con nessuna. Ma quando ripensavano a quei momenti, gli occhi di tutte loro brillavano come mai.

“Non ti preoccupare, Ciccina,” disse Ares con un bel sorriso, “vedrai che gli piacerai un sacco, bella come sei…”

“Piacere, a chi?”, chiese Poly timidamente.

“A chi?! Ad Eros, naturalmente, a chi altro? E’ lui, che deve decidere! Dai, cammina….”

Con passo esitante, Polipete oltrepassò la soglia. Si fermò dopo appena due passi, attonita. La stanza nella quale era entrata era enorme, illuminata da basse luci soffuse, pervasa da profumi di fiori, intriganti, estremamente sensuali. Le pareti erano coperte da tendaggi morbidi e la moquette sul pavimento era talmente alta e soffice da dare l’impressione di camminare su una nuvola. La musica che si udiva toccava i nervi più riposti ed eccitava sino allo spasimo. Un po’ dappertutto si potevano vedere lettini sui quali giacevano, si agitavano, forme femminili e maschili. Alcuni dei giacigli avevano ai piedi delle specie di stampelle, una per parte, fissate alla base, mentre ai lati erano state piazzate delle manette, due in alto e due in basso, coperte interamente da un tessuto morbidissimo che, pensò Poly, non sembrava dar fastidio alle ragazze sdraiate e nude, le cui gambe poggiavano sulle stampelle, obbligate ad allargarle in maniera che le parve piuttosto oscena, anche se nel momento stesso in cui lo pensava, qualcosa di caldo sembrava pervadere il suo grembo.

Vicino a quei letti – ce n’erano anche perfettamente normali, su cui delle coppie si agitavano, gemendo – si vedevano le gambe caprine di alcuni Satiri, intenti a baciare, leccare, carezzare le fanciulle legate, in ogni parte del corpo, anche le più segrete. Come Poly comprese quasi subito le loro gambe, bloccate su quei sostegni simili a stampelle, ponevano la loro vulva ed il culetto a disposizione, indifesa, dei Satiri. Ma d’altra parte, i gemiti di piacere che provenivano dai lettini, dicevano chiaramente come le presunte vittime non avessero alcuna intenzione di sottrarsi alle attenzioni di quegli esseri un po’ così. I quali avevano vicino dei tavolini sui quali era poggiata una quantità straordinaria di oggetti di ogni genere: di alcuni di essi Poly poteva confusamente intuire le possibilità di impiego, mentre altri le risultavano del tutto incomprensibili. Sta di fatto che ogni volta che gli esseri mezzo umani e mezzo caprini ne prendevano uno applicandolo ad una parte del corpo delle loro compagne, queste ultime sembravano squagliarsi dal piacere. Di tanto in tanto qualcuna di loro aumentava i suoni confusi che la sua bocca emetteva, sinchè essi si trasformavano in un urlo prolungato che poi si spegneva lentamente, sostituito da sospiri di soddisfazione profonda. Ed ogni volta il gioco ricominciava, come se in quei bellissimi corpi ardesse un fuoco inestinguibile, che si attenuava un attimo per poi riprendere immediatamente, attizzato dagli inesauribili Satiri.

In fondo alla stanza si vedeva un letto enorme. Poly valutò che le sue dimensioni non fossero inferiori alle dieci piazze. Su di esso giaceva un giovane uomo circondato da un gruppo di almeno cinque ragazze. Per qualche attimo Polipete restò immobile, a guardare quella scena incredibilmente affascinante. Poi la voce di Ares la sollecitò:

“Bimba, datti una mossa! Avvicinati e lascia che mio fratello ti faccia l’esame di ammissione. Se ci metti troppo, poi Zeus si gira le balle e sono cazzi per tutti noi.”

Poly non riusciva a muoversi, ma Eros, attirato dalla voce di Ares alzò la testa e lei si sentì improvvisamente bruciare, quando i loro sguardi si incrociarono. Quello di Poly si perse istantaneamente in un oceano d’amore. E quando il Dio abbozzò un mezzo sorriso, la ragazza dovette combattere duramente col suo corpo: le sue gambe faticavano a sorreggerla ed a resistere alla voglia di allargarsi. Ma se lei avesse ceduto alla voglia che invadeva ogni angolo del suo addome e dei suoi seni, avrebbe certamente inondato, pensò, il prezioso pavimento con una marea di succhi, ancorchè dolcissimi. Non poteva sapere che le piastrelle erano state fatte di un materiale fortemente assorbente, per via delle secrezioni femminili che vi si riversavano praticamente senza un attimo di interruzione, provocate da quel ragazzo così virile da procurare ad una povera fanciulla un orgasmo devastante, solo a guardarlo.

Poly si avvicinò a quella specie di Piazza d’Armi coperta di seta nera. Quando fu ad un metro di distanza dal bordo, Eros alzò languidamente un dito e lei si ritrovò improvvisamente nuda, sdraiata in mezzo alla piccola folla di bambine-non bambine una più bella dell’altra, tra le quali, tuttavia, il suo corpo non sfigurava di certo. Guardò da una parte all’altra con un piccolo sorriso imbarazzato stampato sul viso. Da una parte vedeva un corpo maschile che avrebbe potuto appartenere ad una di quelle due statue bronzee che aveva visto mentre le imbarcavano al porto di Atene. Aveva saputo, qualche tempo dopo, che la nave era affondata sulla costa di quel posto a forma di stivale messo in mezzo al Mediterraneo, vicino ad una cittadina piazzata a due passi dal mare. Riace, se non ricordava male. Dall’altra parte, scomparse quasi tutte le fanciulle che lei aveva visto all’inizio, c’era rimasta un’unica meraviglia di morbidezza, di tenerezza e di bellezza femminea. Poly era stata rigidamente etero sino ai quattordici anni, quando la curiosità provocata con forza sempre maggiore da certe sensazioni che avevano preso a percorrerle il corpicino in boccio avanzato, non l’avevano indotta a chiedersi perché molti uomini – troppi, perché il fatto fosse casuale – si interessassero soprattutto ai fisici efebici di parecchi suoi coetanei. Molto più che al suo. E siccome era sicura, con ragione, di avere un piccolo corpo assai succoso, tutte le volte che si vedeva sottrarre un suo compagno che le piaceva, destinato al letto di un cinquantenne bavosetto anzichenò, andava fuori di testa per la frustrazione. Tuttavia, una volta penetrato, si fa per dire, il mistero, aveva deciso che la cosa sarebbe potuta risultare piacevole anche per una donna. E così, quando una sua amica del cuore le aveva proposto di iscriversi ad una strana associazione, la “ F.L.A., Free Lesbian Association” la cui Sede Sociale era piazzata su di un’isoletta dell’Egeo, aveva timidamente ma audacemente accolto l’invito. Non aveva capito, naturalmente, cosa cavolo volesse dire quella sigla, anche perché scritta in una lingua che non era stata ancora inventata, ma alcune immagini le si erano formate nella mente, per una sorta di felice intuito femminile. E quando Elena, la sua amica, l’aveva guidata in una sdilinquente cerimonia di iniziazione, la sorpresa ed una serie di piacevolissime sensazioni avevano suscitato le sue urla più alte mentre una delicata linguetta lambiva la sua carne più delicata lassù, sulle punte rosee dei suoi piccoli, dolcissimi seni e poi su quel bottoncino roseo che si ergeva, da impunito, tra le sue coscette: quello stesso che lei stessa aveva già sfiorato parecchie volte, traendone un incredibile piacere che impallidiva, tuttavia, a paragone di quello procuratole dalla nuova, morbidissima carezza. Se fosse vissuta parecchi secoli dopo, avrebbe capito di appartenere alla fortunatissima schiera dei bisex. In quei tempi, l’unica cosa che aveva potuto realizzare era, molto più semplicemente, che la figa di Elena le era piaciuta tanto quanto il cazzo di Leontéo. In questo modo si era creata una situazione che aveva soddisfatto moltissimo tutti e tre. In effetti, era successo che quando il suo fidanzato aveva scoperto per caso che lei e la sua amica del cuore non dividevano solo questo nobile organo, ma anche alcuni altri, lui si fosse incazzato come un drago incazzato. Però, poi, nel chiuso della sua cameretta aveva cominciato a speculare a fondo sulla situazione complessiva ed aveva trovato molto interessanti alcune immagini che gli si erano presentate in mente, di Polipete ed Elena abbrancicate assieme, grazie ad  una fantasia molto accesa ed irresistibilmente attratta dal sesso. E così, dopo essersi sparato alcune seghe sensazionali, aveva riparlato della cosa con la sua amata prendendo l’argomento alla larga, inizialmente, per poi approfondirlo sempre più. Ad un certo punto si era resa necessaria la partecipazione alla riunione della terza componente. Convocata d’urgenza, Elena si era leggermente indignata per almeno due minuti e mezzo, per poi concordare sull’opportunità di un ménage a trois ricco di soddisfazioni per tutte le parti in gioco. Poly si era convinta definitivamente quando Leontéo guardandola con occhi innocenti da bambino le aveva dichiarato che “il sesso è sesso, e l’amore è amore”, – abbastanza pleonastico, tutto considerato – e che lui sarebbe stato sempre, ma proprio sempre innamorato solo ed esclusivamente di lei, Poly. Ce ne sono, falsi, nel mondo, ma come gli uomini….

Poi, dopo un paio d’anni Elena si era trasferita con i suoi in un’altra isoletta dell’Egeo, Hiyos, dove il padre aveva trovato un impiego come guardiano di un faro. Nei primi tempi, i suoi due amici le erano mancati un sacco, ed aveva sopperito alla loro lontananza con alcuni oggetti più o meno cilindrici, oltre a piume, pennelli ruvidini e pinzette, tutti reperiti occasionalmente sull’isola. Poi, però, il bisogno di un membro maschile autentico – almeno quello! – era diventato devastante ed allora aveva pensato di andare tutti i giorni a sedersi, tutta nuda, le gambe ritratte sotto il corpo, su di uno scoglio bagnato dalle acque. Quando vedeva una nave di passaggio, faceva segni d’invito con la manina, ma per sua sfortuna i comandanti, od avevano fretta, oppure potevano disporre di un cuoco cinese a bordo. In un caso e nell’altro passavano dritti ed il prurito tra le gambe di Elena continuava a crescere. Pensa che ti pensa, la fanciulla aveva ottenuto che il padre togliesse da un’enorme orata pescata dalla finestrella del faro che dava direttamente a mare, la pelle della coda, sino a metà corpo, curando che rimanesse intatta. L’aveva conciata, secondo le istruzioni di un manuale di “Fai da te”specializzato, appunto, nel trattamento della pelle delle orate, ed aveva preso l’abitudine di indossarla, quando andava a sdraiarsi sul roccione con le tette al vento ed i capelli sciolti sulle spalle, neri, ricci e lunghissimi. Aveva anche preso lezioni di canto (non so bene da chi, posto che sull’isola c’erano solo lei, il padre e la madre… ma, insomma, in qualche modo aveva fatto) ed ammaliava i naviganti in transito con gli ultimi successi dell’hit parade greca. Le navi, allora, accostavano, anche perché tutto sommato, le tette e la bocca di Elena apparivano molto belle e promettenti ai loro occhi assatanati per via dei viaggi troppo, troppo lunghi, per le loro voglie di maschi prorompenti. A quel punto, la ragazza faceva scorrere la chiusura lampo della sua coda ed i giochi (chiàmameli giochi!) erano fatti. I commercianti che aspettavano ansiosamente le navi nei porti d’arrivo, si preoccupavano per i ritardi  e si arrabbiavano anche, un po’. Ma gli equipaggi raccontavano sempre delle storie complicate sulle furiose bufere che imperversavano sull’Egeo, ed i mercanti facevano finta di credergli, anche perché le Assicurazioni pagavano sempre, anche se poco e male.

Poi, un giorno, passò dalle parti dell’isoletta una nave con a bordo un nobile Re greco che si chiamava Menelào. Dopo essersi scopato Elena per tre giorni di seguito con grande soddisfazione, il Re le propose di sposarlo subito. Lei ci pensò un attimo, ma solo un attimo: poi, al grido di “al cuore non si comanda” – ed alle monete d’oro nemmeno – andò di corsa al faro, mise quattro reggitette ed un paio di tanga dentro una borsa di pelle di capra e stando attenta che la mamma non se ne accorgesse, corse fino alla riva, zompò sulla nave dell’amato sposo e filò verso avventure molto, come dire, Troiane, ciò per cui, tutto sommato, aveva scoperto di avere una vocazione non da poco. Ma questa, direi, è un’altra storia.

 

 

 

Quando si ritrovò distesa, con quei due bellissimi corpi, uno maschile ed uno femminile ai suoi fianchi; quando le immagini sue, di Leontéo e di Elena aggrovigliati presero forma nella sua memoria, Poly cominciò a sentirsi bagnare l’interno delle tenerissime coscette, mentre la sua vagina si gonfiava, contraendosi e facendole provare un bisogno disperato di mani altrui, di bocche altrui e di riempimento. Altrui. Le bastò rimirare per un solo attimo l’incredibile membro issato sull’addome di Eros, per provare un orgasmo travolgente. Strizzò gli occhi, strillando tutto il suo piacere. Poi li aprì e si trovò di fronte l’immagine di una bocca tumida, di tette erette, né troppo grandi né minuscole e di due mani di fanciulla piazzate una sui seni e l’altra sul pube, gli occhi serrati e la bocca leggermente socchiusa a mostrare i dentini bianchi ed appuntiti. In effetti,  l’incorreggibile Eros aveva fatto una piccola magia delle sue, creando una sorta di proprio replicante al femminile, pieno di tutta la sensualità e della sessualità di cui era stato dotato al momento della sua nascita. Venivano citate diverse versioni della genealogia di questo straordinario Essere di natura divina. Alcuni sostenevano che fosse figlio di Afrodite generato con Hermes; altri sostenevano invece (“me l’ha detto uno che li ha visti assieme”) che fosse nato da un incontro tra la stessa Dea ed Ares; altri ancora, che si trattasse di un figlio di Zeus, concepito con la figlia Aphrodite, in modo tale che Zeus risultasse contemporaneamente padre e nonno del piccolo. Ancora non era arrivato nessuno, nel Creato, a stabilire delle norme antincesto, ed accadeva spesso, che gli Dei si spupazzassero tra loro, padri con figlie, madri con figli, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze. Erano i tempi di Elettra ed Edipo, che dell’incesto facevano una vera e propria tragedia per motivi editoriali, senza accorgersi che nessun altro, tra coloro che li circondavano, se li filava nemmeno un poco. C’erano stati solo due pennivendoli Greci, tali Eschilo e Sofocle, che alla ricerca di qualche motivo di scandalo utile per vendere di più, avevano raccontato la loro storia. Ma più che puntare l’indice contro le rispettive seduzioni in ambito familiare, i due avevano scritto dei racconti di genere noir, di quelli che si vendevano ad un paio di dracme in edicola, nella catena “Harmònia”.

Mentre sul lettone si scatenava la guerra, gli altri due Dei – gli stessi che si erano sdraiati ad aspettare Poly su due grandi poltrone con altrettanti bicchieri di ambrosia piazzati vicino a loro, su di un servo muto –, nei momenti in cui non ciucciavano di brutto si sparavano, l’un l’altro, delle seghe colossali, eccitati spaventosamente dalla scena che si snodava di fronte ai loro occhi. I satiri sembravano impazziti di foja incontrollabile, e le ragazze, sdraiate sui lettini, di pancia, e con un cuscino ficcato sotto l’addome, a sollevare i deliziosi, desiderosi culetti, mandavano strilletti goduriosi, ogni volta che quei lunghi, grossi membri caprini sbattevano contro il loro delicato utero, o strofinavano senza ritegno le pareti della loro ampolla rettale.

Eros strizzò l’occhio verso una telecamerina molto ben mimetizzata in un rubino grosso come un piatto da portata, che faceva finta di essere un ornamento della parete. Da un punto situato nell’Eternità, Cronos, premette una levetta e nella stanza dell’Olimpo dove Poly si giaceva con le due versioni sessuali di Eros, il tempo si fermò, dilatandosi all’inverosimile. La ragazza  perse ogni senso di contatto col mondo che aveva sempre conosciuto. Se le avessero proposto di rimanere in quello stato di stasi per tutta la sua esistenza, non avrebbe esitato un attimo ad accettare. Era troppo bella, troppo piacevole, la situazione nella quale si trovava: un incredibile, stupendo profumo di fiori nell’aria; tavoli ricolmi di ogni possibile leccornia. Guardandoli, Poly provava il desiderio dei cibi che le piacevano di più, ed immediatamente essi si materializzavano sotto i suoi occhi. Un po’ per l’obiettiva bontà, un po’ per un notevole languore di stomaco che le procurava ormai qualche crampetto, Poly si sentiva sciogliere e la sua bocca si riempiva di acquolina. Abbondante, sì, ma nulla in confronto a quella che ruscellava, ormai incontrollabile, sulle sue bellissime cosce. Perché la cosa più paradisiaca che Polipete stava sperimentando era quell’incredibile, enorme letto sul quale ella giaceva tra i due Eros, nuda come un verme, ma infinitamente di quest’ultimo più bella. Se solo uno dei due, senza distinzioni di sesso, la guardava negli occhi, il suo ventre si contorceva dal desiderio, i suoi capezzoli reclamavano le carezze di dita esperte, di labbra esigenti e tenerissime.

Eros non la toccava, per la verità, nemmeno con un dito: non perché non lo desiderasse, ma più semplicemente, perché non ne aveva bisogno. Gli bastava pensare a ciò che il suo desiderio gli dettava, perché il corpo di quella stupenda fanciulla che giaceva tra lui-lei e lei-lui, percepisse in maniera intensissima le sensazioni che il Dio dell’amore voleva suscitare. Tuttavia, egli provava anche una certa inquietudine. Per la prima volta da quando aveva raggiunto la maturità sessuale ed era rimasto abbacinato dalla vista della sorella preferita, Eros si trovava di fronte agli occhi, e non solo, l’immagine di una donna capace di stare per bellezza e sensualità alla pari con Aphrodite. Anzi, per certi versi, Polipete gli appariva ancora più desiderabile.

La storia della duplicità maschio-femmina, Eros se l’era pensata quasi subito dopo che la Nave, l’Olympos, si era poggiata sulla cima del monte terrestre, quando una rapida visita di ricognizione tra gli Elleni gli aveva fatto comprendere come i suoi orizzonti sessuali si fossero ampliati, ormai, ben oltre le Dee e Deette imbarcate sul vascello. Tutte stupendamente attraenti, è vero: ma si sa: anche le minestre migliori, prima o poi, annoiano. E lui si era reso conto, dopo quel primo giro d’ispezione, che Hellas era piena di bambine di ogni età e forma con le quali poter sperimentare di tutto un po’, senza limiti. Anche perché la Società greca del tempo non aveva grandi tabù sessuali: la logica era un po’ quella del “ ’ndo cojo, cojo”, che poi i Romani antichi – no,  futuri;  no,  antichi… Beh,  non  fa  niente,  va… –  avrebbero  celebrato  sommamente.  Ci  passavano  tutte,  dai nove-dieci anni in poi, purchè fossero sufficientemente appetibili. E se invece che di femminucce si trattava di maschietti, quella Terra era piena di Signori che non disdegnavano gli accoppiamenti con bej giovanetti, con il riconoscimento e l’approvazione di tutti i benpensanti dell’epoca.

Era stato allora che Eros aveva pensato di chiedere a Giove, come regalo di compleanno, di poter essere fornito, a suo piacimento, di un uccellone molto ben formato e sostanzioso, o di un complesso di organi femminili costruiti altrettanto bene, delegati, ognuno di essi, a fornirgli ogni possibile piacere, dentro il suo corpo od anche all’ingresso e perfino un poco più su. In questo modo il Dio poteva sperimentare e poi far entrare nel menù delle sue offerte, ogni possibile goduria per le sue partner. Sì, “le sue partner”. Perché, per quanto ormai padrone perfetto del sesso in ogni sua manifestazione, egli non dimenticava, perlomeno nel subconscio, di essere fondamentalmente portato a privilegiare le unioni di letto con il genere femminile. Il documento con cui Zeus aveva confermato il dono, era controfirmato, infatti, da Aphry, sua sorella, che aveva percepito immediatamente alcuni vantaggi che da quella cosa sarebbero potuti venire anche per lei, scopatrice inesauribile. Quel suo fratello era fatto proprio come lei: capace di non far dormire una ragazza per ore ed anche giorni, a volte; fornito di organi di senso che gli consentivano di capire, momento per momento, in quale punto, con quale intensità la sua compagna di letto volesse essere toccata, carezzata, penetrata. Quel suo fratello che era anche il suo amante favorito. Non che non si versasse anche agli altri Dei dell’Olimpo con tanta buona volontà. Ma per Eros aveva un debole particolare. Le bastava guardarlo per un solo secondo, perché dal suo ventre sgorgassero improvvisamente fiumi di succhi dolcissimi e profumati. Ed il solo pensare alla possibilità di avere due Eros – uno maschile, l’altro femminile – al prezzo di uno, la stravolgeva del tutto. Quando poi l’aveva provato, Zeus era stato costretto ad attivare uno strumento di bordo dell’ Olympos che di solito veniva usato al decollo per insonorizzare la nave ed evitare che i timpani dei viaggiatori venissero sfondati dal rumore pazzesco dei motori sotto sforzo. Le urla di Aphrodite mentre Eros – maschio la scopava, ed Eros – femmina la leccava tutta, ma proprio tutta, mentre le sue dita s’affannavano in carezze che la Dea percepiva sotto la pelle e dentro di sé, riempivano l’Universo intero a frequenze supersoniche, e quell’ attrezzo era il solo rimedio in grado di evitare che i vicini telefonassero di continuo, scandalizzati ed eccitatissimi, all’amministratore del condominio. No, mi sono confuso, questa è una cosa che succede oggi: in quell’ astronave, problemi condominiali non ce n’erano proprio. Però, alla lunga, quelle grida estatiche finivano comunque per rompere di brutto le palle a chi voleva dormire.

Le stesse cose, ma proprio le stesse, le provava Polipete mentre fluttuava a venti centimetri d’altezza sopra il letto di Eros. La sua gioia era immensa: la ragazza sarebbe rimasta lì sino alla fine dei secoli. L’incanto si spezzò quando l’ovatta che attutiva i suoi sensi fu rotta dalla voce di Ares che disse: “Beh, ragazzi, mo’ basta! L’esame è finito, e se non ci sbrighiamo ad andare dall’altra parte, papà si gira di brutto, lo sapete… Ed io non ci ho voglia di litigare, oggi, proprio no….” Eros fermò le meningi agitate non senza sforzo e liberò dall’incantesimo Poly che, anche se controvoglia si alzò, si mise uno straccio di peplo addosso e seguì i suoi due amichetti.

 

 

Entrarono in una sala piena anch’essa di fiori profumatissimi. Una di quelle essenze, Polipete la riconobbe, somigliava un sacco ad una che veniva venduta nelle migliori profumerie di Atene. Si chiamava “Opium”, o qualcosa del genere. Polipete se ne era fatta regalare una boccetta da Leontèo per il suo compleanno. Se la metteva addosso quando usciva, e le piaceva molto, vedere gli uomini che incrociava, (tutti, gli uomini che incrociava!) alzare improvvisamente la testa verso di lei con lo sguardo già perso.

In mezzo alla sala c’era un tavolo basso, attorno al quale erano piazzati tanti lettini, su ciascuno dei quali c’era una figura distesa. Anche là, il tavolo era coperto di roba buonissima, di caraffe di vino e di succhi di frutta, ed alternativamente, le mani degli Dei si sporgevano a raccogliere un acino d’uva, ad afferrare una coppa di vino.

Zeus aveva indosso solo un perizoma ridottissimo, dal quale sporgeva, incontenibile, una buona porzione del suo membro. Era, la moglie, risultava coperta solo da un leggerissimo peplo sotto il quale si intuivano delle forme che un bel po’ di tempo dopo – quando si fossero trasferiti tutti a Roma, cambiando look e perfino i nomi – sarebbero state definite “giunoniche”. Aveva lo sguardo inquieto ed attento. Quando vedeva la mano del marito avvicinarsi pericolosamente alle tette di Ebe, sdraiata proprio di fianco a lui, allungava la sua e cominciava a carezzargli l’uccello sino a che il Dio Capo non si abbandonava sul letto con lo sguardo in bianco.

Ares ed Hermes non stavano più nella pelle:

“Beh, che vi sembra? Ve l’avevamo detto che era un piccolo schianto…”

Intorno al tavolo il silenzio era totale. Zeus teneva lo sguardo appuntato sul seno di Polipete, mentre una sua mano massaggiava scientificamente una coscia di Ebe, la coppiera, ogni volta che lei gli si accostava per riempire di vino il contenitore ricavato da un unico diamante, dal quale lui continuava a bere. Quasi tutti avevano gli occhi appiccicati, chi sulle tette, chi sul culo della giovane terrestre. Aphry, languidamente distesa, continuava a sbocconcellare una pesca il cui succo le si spandeva sul mento e poi sul collo e sul seno. Guardava Poly distrattamente, certa della propria inarrivabile, proverbiale bellezza. Si, d’accordo, la terrestre era proprio carina, ed appena possibile l’avrebbe esplorata attentamente. Però, insomma, lei era pur sempre una che avrebbe saputo far sollevare l’uccello anche di una statua di marmo, di quelle messe sotto le arcate per tenerle su. Solo Era ogni tanto parlava di scemenze, tanto per distrarre l’attenzione del suo divino sposo dai corpi delle altre donne. Athena pensava e basta, come sempre, unica a stare seduta, anzichè sdraiata sul suo lettino.

Per Polipete la situazione stava diventando pesante. Stava là, in silenzio, aspettando che qualcuno si decidesse a rivolgerle la parola e non sapeva più cosa fare.

Le venne in testa che forse poteva tentare di socializzare. Sfoderò un bel sorriso:

“Salve a tutti,” disse, girando la manina, “ bella giornata, vero? Sapete, giù ci sono già fiori in quantità, le api volano, le gazzelle gazzellano….” era già in preda al panico, non sapeva più cosa dire, ”il fiume scorre e la donzelletta vien dalla campagna”

“Spogliatela”, disse la voce cavernosa di Zeus.

Polipete si bloccò all’istante:

“Scusi, cosa ha detto?”

“ Ho detto, ‘spogliatela’. Cos’è, non capisci il greco,adesso?”

“Ma, veramente, io non mi aspettavo….” Una mano di Ares, aprì la spilla che le teneva il peplo allacciato, e l’indumento si fece un dovere di scivolare in terra, lasciandola completamente nuda. Tentò di mettersi le mani a proteggere il pube e le tette, ma senza successo.

“Guarda che me l’ero pensata già io, una cosa così”, le disse Aphry, tirando fuori da sotto il materasso un quadretto con una bella ragazza tutta nuda in piedi su una conchiglia. In effetti, la ragazza le rassomigliava un po’

“Questa me l’hanno fatta quando sono nata. Quindi non hai inventato niente. E poi, qui è inutile che cerchi di coprirti. Togli quelle mani e lasciaci vedere.”

Polipete non sapeva più dove girarsi, e non per modo di dire. Se guardava verso Zeus, vedeva quell’enorme prepuzio che gli usciva dal costume. Gli diventava sempre più grosso e violaceo, mentre guardava il corpo della ragazza e pensieri zozzissimi gli affollavano il cranio. Ai suoi lati, i ragazzi si erano spogliati ed anche loro mostravano dei cazzi assolutamente rispettabili. In qualche modo, Aphry aveva eliminato il suo peplo ed ora sfolgorava anche lei in tutta la sua bellezza. Quando avevano visto la piega che stavano prendendo le cose, Era ed Athena s’erano alzate, avevano detto di avere un appuntamento col parrucchiere e se ne erano andate. Le altre due, Iris ed Ebe, avevano le guance sempre più rosse e chiaramente non aspettavano altro che un cenno del Capo, per buttarsi nella mischia. Fu allora che Polipete rammentò improvvisamente gli insegnamenti della nonna: “Ricordati sempre che sei una Signora. E con tutto quello che ti abbiamo insegnato, io e quella poveretta di tua madre (mai si fosse sposata con quel caprone senza cervello….!) non esiste una situazione, non una sola, nella quale tu possa trovarti in imbarazzo. Segui il tuo istinto e vai avanti tranquilla.” Ecco, ora tutto si faceva più semplice e chiaro. E così Poly alzò le mani con fare indifferente ed acchiappò i grossi peni dei due ragazzi, come se avesse afferrato le anse dell’anfora che usava quando andava alla fontana.

Fu come se Ares ed Hermes fossero stati attraversati da una scarica elettrica. I loro piedi erano piantati per terra, e loro non riuscivano nemmeno a muoversi. E bisogna dire che la ragazza non li agevolava di certo: le sue mani avevano preso ad andare avanti ed indietro su quei due pali ed i due visi giovani e maschi diventavano più rossi ad ogni passaggio. Ares cercava di distrarsi ripensando alle ultime battaglie tra Greci e Troiani alle quali aveva assistito camuffato da cespuglio, come usava allora. Dopo un po’, però, Ercole si era accorto del trucco. Ne aveva parlato con Athena, la Dea che si era appassionata in maniera più marcata alla guerra. Lei, a sua volta, era andata da Zeus per chiedergli di fare qualcosa perché gli Achei la piantassero. Per un bel po’ di tempo il Padre degli Dei aveva tirato a fregarsene: “In amore ed in guerra tutto è permesso”, aveva perfino detto una volta, ma aveva in testa, più che altro, i sistemi sconci ai quali era ricorso senza vergogna per farsi una ragazzina di tredici anni che però ne dimostrava, bisogna dirlo, almeno tredici e mezzo. Ma Athena aveva cominciato col solito sistema di scassargli le palle senza interruzione, in qualsiasi momento del giorno e della notte. Ed allora, pur di fargliela piantare, lui aveva preso un fulminetto nemmeno troppo grande e lo aveva scagliato su un cespo dentro il quale si era infilato un Greco di vedetta. Il cespuglio aveva immediatamente preso fuoco ed il Greco si era bruciato irreparabilmente le palle. Un tizio che passava di là per caso si era messo ad invocare Zeus ed a parlare di una storia di Tavole e di Leggi…. No, aspetta, anche questa è un’altra storia, sto nuovamente divagando, deve essere colpa dell’età!.

Comunque, Agamennone aveva pronunciato un chiaro “stop coi cespugli”. La guerra era andata un po’ in stallo, perché gli Achei non potevano più avvicinarsi a Troia in incognito. La situazione si era risolta quando un guerriero originario di un’isoletta dello Jonio, si era fatto venire in testa un’altra idea: “Niente cespugli? Beh, allora usiamo i cavalli”. Era un tizio callidissimo, slang acheo di quei tempi, come la sua storia personale avrebbe dimostrato di lì a qualche anno. Ed in effetti, il suo cavallo ripieno era poi servito a risolvere la guerra in un batter d’occhio. Suppergiù come sarebbe accaduto alcuni millenni dopo, quando il cavallo, sostituito da una specie di uccello d’acciaio avrebbe sorvolato due isole del Pacifico, per poi farci cadere sopra, in nome della Pace, una cacca luminosa che nemmeno i fulmini più potenti della collezione di Zeus. Sono le grandi invenzioni, quelle che risolvono i problemi del mondo, sempre stato così…..

Hermes, invece, era uno al  quale della guerra non gliene poteva fregare di meno, con grande scandalo di Zia Athena e di alcuni altri della famiglia olimpìaca, se così si può dire senza che Pierre De Coubertin s’incazzi troppo. Lui, Hermes, per distrarsi, tentava di farsi tornare in mente l’ultima dieta dimagrante che aveva preparato per Bacco e che non sarebbe servita a niente, sinchè quel suo cugino rincoglionito non avesse smesso di trincare come una spugna. Ma non c’era niente da fare: quella manina sapeva carezzare da farti uscire l’anima dalle orecchie. Ares era leggermente più indietro, rispetto a Polipete. Abbassò gli occhi e fissò con attenzione quello splendido culo (non troppo grande; non troppo piccolo…) che l’aveva affascinato già dal primo momento in cui l’aveva incrociata vicino al Tempio di Athena, sua sorella. Quella vista gli diede un’altra scossa. La mano di Polipete gli stava suscitando sensazioni incredibili. L’ultima volta in cui aveva provato qualcosa di simile era stato quando s’era infilato nella tenda di Agamennone, mentre questi stava partecipando alle manovre nella zona di Teulada, in Sardegna. Aveva visto Elena, addormentata, che sorrideva beata. Era entrato nel suo sogno ed aveva visto che stava immaginando di essere distesa sotto Paride che faceva di tutto per farla impazzire. Il bellone aveva infilato la cappella tra le sue cosce strette e  senza spingere a fondo andava avanti e indietro, facendola andare fuori di testa dal desiderio. Ares, in effetti, era noto per essere un po’ figlio di puttana. Stando ben attento a non svegliarla, si era reso invisibile, si era steso vicino a lei, le aveva sollevato la parte posteriore del peplo da notte di lino purissimo ed aveva cominciato a scoparla da dietro, mentre lei giaceva di fianco, tenendole i seni tra le mani. La piccola aveva cominciato a soffiare come un mantice, mentre le sembrava che Paride, nel suo sogno, avesse deciso, finalmente, di passare a fatti più concreti. Era stata ad un pelo dallo svegliarsi, ma Ares le aveva sussurrato qualcosa a proposito di un pomo d’oro che qualcuno le avrebbe regalato, se se ne fosse stata buona. Elena si era girata, aveva aperto un attimo gli occhi stupendi, non aveva visto nessuno ed allora, convinta che il sogno non fosse poi tanto irreale, aveva deciso che quella promessa fosse arrivata da Paride per mezzo di Ebe o qualche altra Deetta di passaggio ed aveva continuato a cullarsi in quello che, ormai, tanto sogno non era. Ares aveva continuato a pomparla per un’altra mezz’ora-tre quarti per poi mollarla, dopo aver conseguito due orgasmi, lui, mentre Elena aveva orgasmato perlomeno una decina di volte di seguito.

Quando Agamennone era tornato a casa, aveva ammirato lo sguardo lucente della moglie e la sua pelle meravigliosamente colorata di un rosa acceso. L’aveva acciuffata e le aveva piantato nel pancino un buon venti centimetri di uccello. Lei era stata lì, a subirlo passivamente, per un po’. Poi aveva capito che se non avesse dato segni di goduria intensa, Agamennone, per quanto cretino, qualche domanda se la sarebbe pure posta. Ed allora si era messa a pensare intensamente al pomeriggio del giorno prima ed al cazzo meraviglioso (roba da Dei, aveva pensato…) che l’ aveva fatta salire sul tetto del mondo, seppure in sogno. Per un attimo le attraversò la testa il pensiero che quel ricordo fosse un po’ troppo reale e che la figa le si fosse gonfiata per una scopata vera. Ma, chiaramente, questo non era possibile, perché lei non aveva visto nessuno, vicino a sé, in quell’attimo di risveglio. E quindi non poteva che trattarsi dell’immagine onirica del suo amato Paride. Naturalmente, Agamenone, Aga-Aga per gli amici, sentendo la moglie impazzire improvvisamente, si era tutto ringalluzzito e si era dato anche delle pacche sulle spalle : “Cazzo” si era detto “aumenteranno pure, gli anni, ma a noi Achei ci tira sempre di brutto…”. Manco gli era passato per la testa, che Elena, a forza di sentirgli dire assieme ai suoi amici “Troia qui, Troia là” poteva pure essersi fatta venire in testa qualche idea, povera!

Quando Ares aveva raccontato la storia a suo padre, Zeus s’era incazzato come un toro, animale col quale egli aveva una certa familiarità.

“Ma ti sei rincoglionito completamente?” aveva ringhiato in faccia a quel figlio che non sapeva fare altro, se non giocare coi soldatini e scopare. “Cosa cazzo combini?! Se Agamennone o qualcuno dei suoi – metti, Achille od Ulisse, magari – viene a sapere che qualcuno s’è fatto Elena, ne vien fuori un casino che nemmeno quando sono atterrato quassù, stronzo di uno!”

 

 

Ares s’era infracchiato alquanto. Questo era un termine che usava solo lui, da quando aveva scoperto nella mente del più grande Dio dell’Olympos e dintorni, che verso il millenovecento dopo Cristo sarebbe venuto fuori da qualche parte un tizio, un attore dallo strano nome geografico: una cosa come “Paese”…no, no, doveva essere “Città”…no, nemmeno, fammi pensare: “Villaggio”, ecco come si sarebbe chiamato, “Villaggio”. E di quel neologismo, “infracchiarsi”, si era follemente invaghito.

“Dai, papi”, aveva detto, “pensaci bene: era là, addormentata e faceva sogni erotici a nastro. Quando l’ho toccata, aveva la figa zuppa come una fetta di pane nel brodo. Nessuno s’è accorto di niente, perché mi ero invisibilizzato (Zeus gli mollò un’occhiataccia). E’ stata una delle più belle trombate della mia vita. E per giunta, adesso Elena è talmente presa da quella scopata virtuale – almeno lei crede così…. – che appena possibile corre da Paride, si fa una seduta di sesso selvaggio per almeno due settimane, Agamennone si incazza come una jena ed alla fine ne viene fuori una guerra che lèvati, che ci divertiamo tutti come matti. E poi, vuoi mettere l’incentivo alla letteratura?! Ho mandato un’ispirazione ad una specie di poeta che bazzica dalle parti di Atene, uno bravino, anche se non ci vede una mazza, e quello ci sta già costruendo sopra un poema epico, addirittura…. Guarda, più ci penso e più mi convinco che stavolta ho messo in scena proprio un gran bel reality show.”

Zeus ci aveva pensato sopra per un po’. In effetti, considerato che né Ares né il resto del Pantheon ci avrebbero perso la faccia, tutto sommato l’idea non era cattiva. Con le porcate che davano in televisione, un po’ di movimento live non avrebbe guastato per niente.

Ares decise di dargli una spintina:

“Papi, volevo dire, è tanto che non vedi quella ragazza, com’è che si chiamava? Lada, Leda….Ah, si, Leda, si, se non sbaglio. Speriamo che tua moglie non la venga mai a sapere, quella storia!”, disse, con un sorrisino scemo scemo sulla faccia. Zeus si ritrovò con tutte le vene del collo gonfie. Un fulmine gli tremò per un attimo nelle mani. Poi ricordò che quella mattina non aveva preso la medicina contro la pressione alta, e si calmò:

“Vabbè, vabbè, piantiamola là! Però guai a te se ci rifai, almeno per un paio di millenni. Se ci riprovi prima, sono cazzi tuoi, ma amari che manco te lo immagini. E soprattutto, non farlo più da queste parti. Vattene lontano, cercati un altro posto, che ne so, Verona, magari… Ed adesso, levati dai coglioni, che m’è venuto sonno!” Ares si allontanò senza ribattere. Ma siccome, paternale o meno, non sarebbe mai cambiato, cominciò subito a progettare un altro casino. Verona, aveva detto suo padre? E Verona sarebbe stata. Stavolta i protagonisti avrebbero cambiato nome. Gliene vennero in testa, chissà come, chissà perché, altri due. Niente Elena, niente Agamennone. Ci rimuginò sopra a lungo. Ma più ci pensava, più gli piacevano i nomi di Romeo e Giulietta. E, guarda caso, ci sarebbe stato, anche stavolta, un poeta piuttosto in gamba, purchè avesse l’ispirazione adeguata. Ma lui, Ares, in materia di ispirazioni era qualcuno. Magari avrebbe chiesto a Morfeo di dargli una mano. E sarebbe stato un altro momento di divertimento folle. Perchè l’amore è amore, senza dubbio. Ma è anche padre dei più grandi casini del mondo….

 

*   *   *

 

Dunque, eravamo rimasti a Polipete che, mirabilmente, deliziosamente nuda, si era aggrappata ai manici dei due giovanetti senza avere alcuna intenzione di mollarli nemmeno per un attimo. Quei due cosi ben dimensionati le davano fiducia. In quel difficile momento le davano un senso di grande sicurezza. Li sentiva belli pieni, duri, pulsanti e forti. Le sue certezze vennero meno quando, d’improvviso, risuonò il vocione di Zeus e, contemporaneamente, la voce sensuale di Aphrodite. Singolarmente, ambedue pronunciarono all’unisono la stessa frase: “Avvicinatemela, voglio vederla bene.” Ares ed il cugino si bloccarono per un attimo. Se fossero andati verso il lettino su cui giaceva al Dea più bbona dell’Universo cògnito, probabilmente avrebbero trovato il sistema di organizzarsi e di realizzare un’orgetta mica male, magari con la partecipazione delle Deette di contorno. Ma sapevano pure che al novanta per cento il Grande Padre si sarebbe incazzato in modo orribile. E quando Zeus era incazzato, non si sapeva mai quali potessero essere le sue reazioni. Se invece fossero andati vicino al Vecchiaccio, quella bellezza di donna si sarebbe vendicata di certo: magari si sarebbero ritrovati con le palle secche, oppure con una piccola, tenera fiamma perenne accesa sulla punta dei rispettivi membri. Valutati i pro ed i contro, optarono per il Potere. Un passo dopo l’altro si avvicinarono al letto-trono di Zeus, trascinandosi dietro quell’amore di ragazzina che tra vedere e non vedere proprio non ne voleva sapere, di mollare le loro aste. Sembrò che Aphry si rassegnasse. Dopo un attimo di sconcerto, materializzò dal nulla un Nubiano di due metri e venti che sembrava scolpito da Fidia: pettorali enormi, ventre ed addome tartarugati come pochi, collo taurino, una lingua che somigliava ad una pala per il forno del pane. Il culo era un po’ troppo abbondante, ma la Dea schioccò, neanche troppo, le dita, e le chiappe del nero si modellarono autonomamente sino ad assumere proporzioni davanti alle quali nessuna donna avrebbe potuto resistere. Aphry si sdraiò mollemente sul suo letto di fiori, tirò da parte il peplo che la ricopriva, aprì le coscette sontuose ed il Nubiano vi si infilò, tuffando la bocca verso la confluenza. La sua linguona cominciò a percorrere un itinerario da urlo: partiva suppergiù dall’osso sacro di Aphrodite, lappava tutto ciò che incontrava sul percorso, si soffermava il tanto necessario sul primo buchetto incontrato e poi risaliva sino ad incontrare un sacco di labbra, grandi, piccole, tutte dolcissime, tutte rosate, tutte profumate di magno…, si, ma che cavolo magnolia! Profumavano di femmina in amore, di quel meraviglioso aroma capace, da solo, di far drizzare anche un’ameba rincoglionita. Ed infatti l’uccello del Nubiano si drizzò velocissimo. Profumo a parte, era bastato che nella mente di Aphrodite fosse passata l’idea di una scopata da primato, perché quel palo già grandioso di per se, assumesse le proporzioni di un obelisco.

“ ‘zzi vostri!” pensò Aphry, con la mente rivolta al padre ed ai fratelli, “continuate quanto vi pare con quella troietta greca da quattro soldi, tanto io non ci ho mica bisogno di voi…” Non era la prima volta che succedeva, e lei riteneva che – ogni tanto, ma solo ogni tanto…. – un bel giocattolino nuovo potesse servire a rompere la monotonia ed a creare nuovi stimoli nei suoi compagni di godurie. Poi l’avrebbe esplorata lei per bene, quella ragazzina, ci avrebbe giocato per un po’ e poi l’avrebbe pure buttata via, quando si fosse stancata.

 

 

 

 

Le cose non stavano proprio così. Vicino al giaciglio di Zeus si stava sviluppando una cosa che era una via di mezzo tra un tifone tropicale con tromba d’aria annessa ed un terremoto del tredicesimo grado della Scala Richter. Il Dio Capo, appena aveva sfiorato con un dito un capezzolo di Poly si era sentito rimescolare come non gli succedeva da almeno due-tremila anni a quella parte. Quella ragazza, pensò confusamente, sprizzava sensualità da tutti i pori. Avesse potuto, l’avrebbe promossa Dea all’istante, che Era s’incazzasse pure, se non le andava bene… E forse, prima o poi, la concessione di un ulteriore avanzamento di carriera gli avrebbe permesso di levarsi dalle palle Aphrodite che, per quanto bona da morire, aveva messo su delle arie…. Certe volte sembrava che ce l’avesse solo lei!

Ed invece, ‘sta ragazzina stava lì a dimostrare che la razza Achea stava evolvendo molto meglio di quanto lui stesso avesse pensato al momento dell’atterraggio. Perché, d’accordo per i grandi scultori, ancora meglio per le menti illuminate dei Socrate, Platone e via dicendo: ma la figa è figa, e tira più un pelo appiccicato sopra un pube femminile, di tutti i Dieci Libri della “Repubblica”. Un paio di millenni dopo, un’altra “Repubblica” avrebbe parafrasato Zeus, forse senza saperlo, sostenendo che, ancora di più di una Presidenza tira un pelo di escort di grande classe.

Il bello era che più lui ed i due ragazzi se la spupazzavano a turno o tutti insieme, più lei sembrava soddisfatta, tanto da far stupire perfino Eros che l’aveva lasciata andar via con qualche rimpianto, ma che aveva continuato a seguirne il percorso con un po’ di chiaroveggenza divina. Ed anche con un po’ di incazzo nei confronti dei nuovi gestori, per quanto suoi parenti. Ma in fondo, sia pure con qualche litro d’invidia che gli circondava nelle vene, il Dio dell’amore era fondamentalmente un buono. E poi lui curava personalmente, nell’Olympos, anche il Settore “Propaganda Figa”. Per cui, grazie ad uno dei soliti zut – ce n’erano di diversi tipi: lo Zut generale, quello, appunto, con la “Z” maiuscola, era riservato al Capo, senza discussioni; poi, però, c’erano gli zut settoriali, quelli riservati alla Giunta Olimpica: Athena, per esempio, aveva lo zut  della Scienza e della Tecnica, quello di cui era Direttore inamovibile, già da allora, un tizio che si chiamava Piero Angela che poi avrebbe fatto fortuna in televisione almeno sino al 4.574 D.C.; Efeso gestiva lo zut della Metallurgia, e così via – grazie, appunto al suo zut personale Eros fece in modo che in tutto l’Olympos, nelle Sale di ritrovo, in ogni camera da letto, nei salotti e perfino nelle sale da bagno, comparissero degli schermi giganti sui quali la sua mente proiettava a distanza le vicende che si svolgevano nella Sala del Trono, la famosissima “Berluscroom”. Gli Dei dell’Olympos erano famosi un po’ in tutto il Creato ed il Tempo, per la loro capacità di assorbire abitudini e tradizioni da ogni epoca che visitavano. Quando Eros aveva cominciato a bighellonare nel ventunesimo secolo aveva scoperto una grande invenzione della quale si era appropriato comprendendo perfettamente tutte le sue varie implicazioni goderecce. E siccome voleva impadronirsi bene delle tecniche della Televisione – questa era la grande invenzione nella quale si era imbattuto – era entrato nel cranio e nell’organizzazione sessuale di un paio di Emili e di Vittorie tra i più addentro, sia detto senza malizia ma con molta Letizia, nei palazzi e nelle stanze da letto che contavano; e così aveva trovato il sistema di farsi assumere presso la Televisione privata più potente del periodo. Quando poi era tornato nel suo Tempo aveva messo in piedi una bella Struttura ad immagine e somiglianza del padrone di quella nella quale aveva lavorato. Paraculo com’era, aveva deciso di consentire al Consesso della Famiglia degli Dei di usare il più grande degli Studios per le loro esercitazioni sessuali. Ed infine aveva pensato bene di dedicare quella enorme Sala, frequentata ormai dai suoi parenti con ogni possibile continuità, al Grande nella cui Azienda aveva appreso l’arte del reality-show ed anche quella dell’Ars Scopandi, nella quale lui stesso, pur con la sua enorme esperienza aveva scoperto, dalle imprese formidabili di Quello, di avere ancora molto da imparare.

La cura di quel Tempio dell’amore, Eros l’aveva affidata ad una schiera di splendide dodici-splendide-fanciulle-dodici, che aveva scelto attraverso una selezione. Per parteciparvi, le ragazze dovevano essere soprattutto molto belle e, se possibile, anche intelligenti. Insomma, “intelligenti” è una parola grossa: bisognava, tutto sommato, che riuscissero a vincere almeno una partita su tre a rubamazzo, con un lombrico della Foresta Amazzonica. Dovevano far tutto, nella sala, quelle similvestali, anche le pulizie. Una di loro aveva protestato: “Io venissi qua per farti vedere a te quanto recitassi bene, mica per spolvero e soprattutto per scopo!” “È qui, che ti sbagli” aveva risposto Eros, un po’ brutalmente, bisogna dire “ il motivo fondamentale per cui sei arrivata qui è proprio quello di scopare. Tutto il resto viene dopo…” La ragazza ci aveva pensato, con enorme fatica, per circa dieci secondi,  uno sforzo che l’aveva portata al limite dell’esaurimento nervoso. Poi aveva deciso, più o meno: “Ogghei” aveva replicato “ allora scopo, però dopo voglio anche recitarmi con Leonardo Di Caprio. Anche.” E si era messa distesa su un divano, levandosi reggitette e perizoma con tutta la nonchalance e la classe di una vera Signora.

Mentre Eros cercava un nome d’effetto per il complesso, gli era arrivata un’ispirazione, grazie all’intervento del cugino Cronos, dallo stesso periodo temporale nel quale era andato in gita, e così le aveva chiamate “camistion”. La parola – un vero e proprio neologismo, pensata in un greco che quello stesso Eliodoro di Emesa candidato all’Oscar per la letteratura dell’epoca avrebbe definito perlomeno maccheronico – significava pressappoco “piccola vela”, ed era poi entrata nell’immaginario collettivo popolare, dopo qualche migliaio di anni, col termine quasi parallelo di “velina” : il suo etimo prendeva spunto dai veli, appunto, che   ricoprivano   quei   corpi  desiderabilissimi. Collocati  in  quel  modo, somigliavano  proprio  a  delle  vele  issate  su  navi-scuola. Geniale, aveva pensato il Dio dell’Amore, con un forte senso di autocompiacimento.

L’aria era satura di un odore di sesso incredibilmente eccitante: le Dee e Deette lo percepivano, quelle etero, come odore di maschio muschiato, mentre gli Dei non-omo di ogni ordine e grado avevano i sensi, ed altro, colpiti senza pietà da ondate successive di feromoni femminili. Gli altri provavano ugualmente sensazioni spettacolose, ma di segno, come dire, diverso. Per di più, appena uno spettatore muoveva una mano sentiva il tocco di una pelle piacevolmente calda, tanto da suscitare rimescolamenti interni di notevole portata. Ed il gusto – oh, il gusto – provava, all’ennesima potenza, il sapore di cunnilictus e fellatio, a seconda del caso, semplicemente paradisiaci. La colonna sonora, infine, era superbamente mixata: c’era una dominante composta da successi internazionali “senza tempo”, fuori dal modo-di-dire: si andava dai concerti di cetra a minuetti delicati, a grandi orchestroni sinfonici, fino ad esempi rari di rock, metal e discomusic da sballo. Per di più, le orecchie ed altri organi sensoriali sconosciuti venivano colpiti da ondate a bassissima frequenza, quindi impercepibili a livello cosciente, di gemiti e mugolii inequivocabilmente scoperecci. Dopo qualche minuto dalla comparsa dei titoli di testa l’Olympos intero era pieno di gente le cui mani apparivano in preda ad un’attività frenetica ed incrociata, tra soggetti diversi o, perlomeno, in prossimità dei rispettivi pubi.

Aphry si era abbandonata al suo bel Nubiano e non solo. Le era sembrato che lui da solo potesse bastarle. Ma dopo solo un paio di giorni di scopate ininterrotte, si era accorta che erano comparsi segni inequivocabili di rammollimento complessivo: per quanto fosse grande la sua strapotenza, Sammy, così lei aveva deciso di chiamarlo, cominciava a comprendere come tutto, anche le imprese di maggiore grandiosità, avessero dei liniti. Ed allora un fischio ben deciso aveva riunito attorno al suo letto una buona decina di supercazzi e superfighe giganti di ogni razza e colore, tutti, tutte, famosi nella Storia passata ed in quella che sarebbe venuta. Ecco, “venuta” era la parola alla quale Apry aveva riservato la maggior parte delle sue attenzioni, nello specifico. Ma per quanto facesse, la Dea non riusciva mai a percepirla, quella parola, in tutta la sua completezza. L’ammucchiata era diventata tale da attirare perfino le attenzioni dello stesso Poeta cui Ares aveva affidato il compito di descrivere la Guerra di Troia. Ed infatti, sia quelle vicende che l’orgia in atto nella “Berluscroom” avevano potuto legittimamente assumere il titolo di “omeriche”.

Dall’altra parte, non è che le cose non andassero altrettanto bene, anzi! Superati i primi timori, Poly aveva compreso finalmente, in maniera totale, quali fossero le sue propensioni più essenziali. Aveva intorno una notevole quantità di membri maschili che usavano ogni possibile anfratto del suo corpo con insaziabile entusiasmo. Lei, d’altra parte, sembrava essere diventata una perfetta emula di Aphrodite, perfino superandola in frenesia. Ad un certo punto, la faccia di Zeus aveva cominciato ad assumere colorazioni violacee, tanto da far seriamente temere per lo stato delle sue coronarie. Ed anche i due ragazzi sembravano avviarsi – non riuscivano a crederci nemmeno loro – ad un clamoroso “Out off order”. A quel punto avevano acciuffato i telefonini di servizio ed avevano convocato tutti i maschi dell’Universo spazio temporale, per chiedere loro un, come dire, contributo all’impresa di esaurire la fame spaventosa di Polipete. Avevano risposto tutti quelli – ancora molti, nonostante tutto – che non erano impegnati nell’orgia indetta dalla loro amatissima sorellina. Erano mancati, quindi, alcuni tra i più famosi, come ad esempio due che si chiamavano Fabrizio e Belen. Però Casanova aveva risposto immediatamente all’appello. Ed insieme a lui erano arrivati anche un paio di Tronisti, una grande figa che si chiamava Manuela, una Past Première Dame de recente acquisition, habillée d’une mise nue de Givenchy: de Givenchy, oui, mais nue toutefois, ed altri ancora. Ma per quanto facessero, uomini e donne, non c’era verso di saziare quella ragazzina senza fondo.

 

 

 

Benchè si fosse rinchiusa assieme ai suoi scopatori in un bozzolo di silenzio rotto solo da musiche altamente erotiche, Aphrodite si chiese come mai Zeus ed i ragazzi non avessero ancora finito con la nuova piccolina greca. Vabbè che il Padre avesse diritto alla precedenza, vabbè che Ares ed Hermes si fossero fatti coinvolgere astutamente nella prima fase dei ludi scopatorii: ma adesso era ora che anche lei rivalesse i suoi diritti di “più bella del reame”. In un brevissimo momento di lucidità cancellò con un solo pensiero tutta quella gente che la brancicava per ogni dove, ben decisa ad andare a prendersi quel giocattolino un sacco bello. L’avrebbe fatta ammattire, non le avrebbe consentito di rimpiangere tutto ciò che aveva provato sino a quel momento. Diede uno sguardo intorno e vide un groviglio di corpi immane vicino al letto di Zeus. ‘Occazzo’ pensò, ‘stanno ancora scopandosela alla grande! Aspetta, che me la vado a prendere io! E che s’azzardino a negarmela! Fosse l’ultima cosa che faccio, si ritrovano tutti appesi per le palle a penzoloni dall’antenna della nave…’

Si alzò dal suo lettino e si diresse a grandi falcate verso la zona calda della “Berluscroom”. Cammin facendo si fece coinvolgere anche lei dall’atmosfera creata dal quel gran figlio di Taide che rispondeva al nome di Eros, (se aveva voglia di rispondere, naturalmente) quando non era impegnato a scopare od a lanciare freccette. Si accostò al mucchio selvaggio e procedette verso il punto focale di tutto quel gran casino, facendosi strada a sberle, pestoni e qualche colpo proibito tra le cosce dei più resistenti.

Quando riuscì ad arrivare al bordo dell’ara del sacrificio, le si presentò uno spettacolo stupefacente: Poly, a cosce larghe, giaceva di schiena sul corpo di Ares che le teneva l’uccello saldamente piantato nel foro posteriore, mentre Hermes la scopava senza ritegno in quello anteriore. Efeso le aveva piantato  in bocca il suo enorme gelatone che la ragazza continuava a leccare ed a succhiare con gli occhi in bianco per la goduria. Zeus era sdraiato sul suo lettino ed Ippocrate lavorava di brutto per tirarlo fuori da una crisi cardiaca che avrebbe ammazzato chiunque non fosse stato il Capo degli Dei.. Aveva gli occhi in bianco e continuava a strillare “Bastaaaa, nun je la faccio ppiù! Portatemela via prima che m’ammazza!” Aphry si avvicinò a quella specie di piccolo, delizioso polpo, l’afferrò per la punta di un capezzolo e tentò di farla scendere dal giaciglio.

“Adesso lei viene con me!” proclamò con lo sguardo tra il feroce e l’infoiato.

“Mollami, stronza, non ho ancora finito, con questi!” si sentì rispondere.

“Vienitene via, ho detto! Sono quattro Eoni, che ho voglia di scoparti e adesso m’hai proprio scassato il cazzo, tu e ‘sti quattro ghigni! E sbrigati pure, che ci ho i negri che m’aspettano col cazzo dritto, e pure a te!”

“T’ho detto di scordarteneeee! Io sto bene qua, mi scopano da Dei ed in questo momento sono in fase solo-etero! Quindi, vedi d’andartene, e di corsa, pure!”

“Aho, ma l’hai capito chi sono, io?! Con chi credi di parlare, porca zozza miseria?”
“Zitti, zitti tutti, che mo’ ce lo dice….”

Nella Berluscroom scoppiò una risata grassa ed irrefrenabile. Gli Dei, i Semidei e le Deette di servizio si pestavano per l’ilarità.

Aphrodite era immobile, attonita. Non era mai successo, mai, ti dico, che qualcuno la prendesse per il culo in questo modo. Tutta la famiglia la guardava con sorrisetti del cazzo stampati sulla faccia. Le camistion continuavano ad intrecciare stacchetti idioti sbattendo le chiappe da una parte all’altra. Sentì un mormorio di Efeso: “Finalmente, ‘sta stronza ha trovato qualcuno che le legge la vita!” E poi, da sotto il mucchio selvaggio si alzò una voce anonima resa acuta dagli stravizi: “A scema, ma l’hai capito che questa ti fa barba e parrucca?! Non ti ci guardi mai, nello specchio? Guarda che  cominci ad avere le muffette…”

La Dea stette lì lì per scoppiare dalla rabbia. Con uno scatto felino acciuffò un fulmine dalla faretra del padre e Plutone, che era stato richiamato dal chiasso infernale, fece appena in tempo a levarglielo dalla mano. Efeso, incazzatissimo perché la sorella gli aveva interrotto il pompino più favoloso della sua vita alzò la mano enorme e le rifilò una pizza terrificante.

Aphry si sbloccò, sconvolta:

“Andate affanculo tutti quanti siete. Adesso ve ne accorgete, come vi siete tagliati le palle da soli, tutti quanti!” La rabbia la confondeva e le faceva ripetere le parole. Girò di spalle e se ne andò verso il suo lettino, dove i Nubiani, sbuffando e guardando verso l’alto con lo sguardo impaziente, continuavano a guardare nervosamente l’orologio

“Ci hai messo un sacco, a sbrigartela! E noi, qui, ad aspettare come coglioni!”

“M’avete rotto! Tutti, pure voi!” Uno zut, l’ennesimo, ed i neri si ritrovarono improvvisamente nel Tempio di Iside, in Egitto, legati ad un tavolo chirurgico a rimirare Sekhmet, la Dea egiziana della salute e del male nello stesso tempo, che con un bisturi in mano si preparava per un’operazione di enucleazione delle loro palle. In altre parole, loro, tutti i poveri negri, stavano per acquisire una voce bianca da coro degli angeli. I bianchi, invece, se l’erano cavata tutti. Come sempre. Alla faccia di Nelson Mandela. Qualcuno aveva anche ricevuto un premio. “Fascisti di merda!” disse infatti uno dei Nubiani, un attimo prima che il bisturi di Sekhmet gli incidesse lo scroto.

Aphry, intanto, andava avanti ed indietro con le mani dietro la schiena e sul viso l’espressione delle grandi occasioni. Meditava vendette atroci; sognava tutti coloro che avevano preso parte alla Grande Festa per Polipete consumarsi nell’acido solforico sino a liquefarsi del tutto l’uccello o la clitoride; li pensava legati ad  un tavolo operatorio a subire progressive amputazioni, un pezzettino per volta, sino a ridursi a dei tronchi umani  Dopo un po’, però, cominciò a riflettere meglio. Certo, quella gente falsa e crudele, a cominciare da suo padre, si era comportata in una maniera vergognosa. Ma dopotutto, quella era l’unica famiglia che si ritrovava. Era vero, se avesse scelto bene il momento avrebbe potuto sorprenderli tutti nel sonno e consumare la propria vendetta. Solo che sarebbe rimasta sola, solissima, in quel mondo bello quanto si vuole, ma popolato solo da umani.  Lei avrebbe potuto dominare tutta Gaia ed i suoi abitanti con l’uso dei poteri sovrumani dei quali disponeva. Però era sicura che dopo due o tremila anni avrebbe cominciato ad annoiarsi senza rimedio. D’altra parte, sapeva benissimo che la famosa nave di soccorso, tra deviazioni per lavori stellari, scioperi e soste su pianeti vari – con la scusa di fare rifornimento, ma fondamentalmente per folleggiare un po’ – non sarebbe arrivata tanto presto.

Ed allora rinunciò. A colpire i suoi, naturalmente. Ma la ragazzina non apparteneva all’Olympus ed al suo equipaggio: era solo una stronzetta di greca. Checchè ne dicessero i maschi (ed anche le femmine….) del gruppo non era nemmeno degna di dare a lei, Aphrodite, una leccatina tra le cosce. Ed era stata proprio la Grecuzza, dopotutto, a rompere le palle ai suoi uomini ed alle sue donne. Quindi era proprio la ragazzina stronza, che andava punita.

Si, ma come? Non poteva trattarsi solo di qualcosa di normale come un impalamento dalla figa o dal culetto sino alla cervice che la facesse morire lentissimamente tra atroci sofferenze. Quelli erano supplizi che potevano andar bene in casi normali. Ma stavolta occorreva qualcosa che risultasse emblematico, che fosse straziante e che durasse, possibilmente, per sempre. ‘Aspetta’ cercò di ricordare ‘ com’era andata a finire quella storia con quell’altro greco, quel Protetero, Provetero…no, ecco, Prometeo, che aveva avuto la pessima idea di fregarsi il fuoco, per regalarlo ai mortali e così farsi votare alle elezioni? Oh….mi sa che ho trovato la soluzione!’ pensò, con un sorrisetto perfido sulla faccia.

 

*   *   *

 

Polipete si svegliò sudata ed in preda al panico. Aveva cercato di muoversi, al buio, ma si era accorta di essere legata mani e piedi. Non capiva come e perché fosse finita in una situazione simile. Poi, d’improvviso, una luce si accese, accecante, nella sua mente e lei ricordò tutto. Ed urlò. Sapeva di essere vergine. E sapeva anche che, ineluttabilmente, quella sua condizione stava per avere fine. Senza fine.

Glielo avevano detto tutti, sin da piccola: gli Dei dell’Olympos sono potenti, potentissimi. E, soprattutto, vendicativi: l’Umano che li sfida è destinato, sempre, alla perdizione.

D’improvviso, sulla soglia si stagliò una figura: “quella”, figura che lei conosceva sin troppo bene e la cui sola vista aveva il potere di sprofondarla in un nero abisso di terrore e di disperazione. La forma era quasi tutta umana, anche se superdimensionata. Non era umana la testa, enorme e sormontata, ai lati, da due corna che la incorniciavano dandole l’aspetto di un gigantesco, orrendo caprone. Il corpo appariva splendido ed i muscoli, stupendamente scolpiti. E tra le gambe si ergeva un membro di dimensioni terrificanti. Era lungo circa quanto un suo braccio e grosso quanto due teste di neonato. La ragazza urlò ancora, mentre il suo cervello smetteva di pensare, sommerso da un’ondata rossa di paura.

Il mostro si avvicinò lentamente a lei, mentre l’urlo di terrore diventava continuo, ininterrotto. Sapeva che non sarebbe morta, suo malgrado, perché lei NON POTEVA MORIRE. Il letto si curvò sotto l’enorme peso. Il viso animalesco si accostò al suo e quel pene di dimensioni inconcepibili si avvicinò alla sua vulva. Esitò un attimo, come combattuto tra due desideri diversi, vagando tra la vulva e l’ano. Poi la bestia decise………..

 

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