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Racconti Erotici Etero

Punto di non ritorno

By 11 Luglio 2013Dicembre 16th, 2019No Comments

Che lo si voglia o meno, le cose succedono. In certi periodi della vita, più spesso che in altri. Nel mio caso, a 22 anni ‘ e qualche mese. Il dove e il quando? Se mi guardo indietro, non faccio fatica a trovare il punto d’origine ‘ o di discontinuità: chiamatelo come preferite. Volendo, potrei anche dirvi il luogo esatto, giorno esatto, l’ora esatta. Con qualche fatica in più, il minuto ‘ in quel caso, più o meno esatto. A questo punto, per altro, dopo più di dieci anni e con tutto quel che ne è seguito non credo che suddetti dettagli abbiano chissà quale importanza, e quindi andiamo al fatto.

Ecco, a dire il vero due accenni al dove e al quando ve li devo pur dare. E’ estate ‘ ma non quell’afosa ed opprimente stagione cui ormai ci siamo abituati (sì, effetto serra, global warming, climate change eccetera eccetera). Un’estate calda, asciutta ‘ ma anche piacevolmente ventilata, soprattutto al calar del sole, e che rende tanto piacevole stare all’aria aperta (zanzare permettendo), una delle ultime che la nostra inquinatissima pianura padana seppe concederci prima che la psicosi meteorologica prendesse possesso di tutta la popolazione italiana in età della ragione. Fine giugno, per l’esattezza, quando i giorni ancora si inseguono forsennatamente con l’obiettivo di regalarci i giorni più lunghi e luminosi, ed i tramonti più tardivi, e in qualche modo spettacolari. Il giorno perfetto per una festa ‘ ancor più perfetto se questa festa è un matrimonio.

Dal mio troppo lungo preambolo potreste immaginare si tratti del mio. E sbagliereste: in questo caso, sono solo un invitato. In un certo senso, già quest’evento è in tutto e per tutto un punto di svolta: si sposa Alessandro, ed è il primo di tutta la compagnia ad abbandonare il celibato. Sarà il primo a diventare padre, visto che (girala e rigirala come ti pare, sulla falsariga dell’omelia della cerimonia) trattasi di matrimonio riparatore in perfetto stile. Per carità: circostanza specifica ed età degli sposi a parte (ai nostri tempi, a 23 anni si è poco più che ragazzini, soprattutto se ancora studenti universitari), si tratta dell’urgenza matrimoniale più telefonata della storia… Alessandro ed Elena erano fidanzati dal liceo, ed il soprannome di vinavil non se l’erano certo conquistato per contrappasso. Insomma, lasciamoli festeggiare il matrimonio, la futura maternità/paternità (e mettiamoci anche la nonnità di Osvaldo (sic), il patriarca che, in un angolo, sta meditando se scoppiare di gioia al pensiero di diventare nonno, o mettersi a piangere per lo stesso motivo) e veniamo al sottoscritto.
Non bello, non ricco, e forte di un luminoso futuro alle sue spalle, me ne sto in un angolo della corte affittata per i festeggiamenti a meditare sui massimi sistemi dell’orbe terracqueo. Il vino bianco (sesto o settimo bicchiere della serata) aiuta a diventare raffinati filosofi, specie se fresco e frizzante, ed accompagnato ‘ tra un sorso e l’altro, da una scheggia di grana stagionato. Se non capite quest’accostamento, mi spiace per voi: vuol dire che non siete emiliani, e non avete avuto la fortuna di vivere nella terra più bella del mondo (ok, questa frase l’avrete ormai sentita n volte e riferita ad n+1 luoghi diversi: per favore, state al gioco ed abbandonatevi alla sospensione dell’incredulità anche su questo dettaglio). Comunque sia, me ne sto lì, in un angolino, con pochissima voglia di chiacchierare, irrealmente meditabondo. Why? Perché per me si tratta, in un certo senso, di un addio.
I bicchieri di vino che svuoto uno dopo l’altro sono una serie di brindisi con i quali saluto la mia terra, le mie colline, il sole che d’estate spacca le pietre, il gelo che d’inverno che ti congela i pensieri, la nebbia che d’autunno avvolge tutto con un malinconico velo di mistero, il grande fiume che da sempre scosse su questa terra argillosa e ribelle ‘ indifferente a tutto e tutti.
E qui urge lo spiegone. L’ultimo, lo prometto. In barba alla mia età, nelle due tasche della mia giacca ho due pergamene. La prima dichiara che, in ottemperanza alla legge tal dei tali e del decreto ministeriale dei tali tale, il magnifico rettore dell’università di … mi nomina Dottore in Medicina e Chirurgia. Don’t ask, don’t tell. Non mi reputo chissà quale genio ‘ anzi, non mi reputo un genio per niente. Ma sono riuscito a finire gli studi molto presto, e per questo motivo ho deciso di mettermi in gioco: nell’altra tasca (ovviamente, anch’essa metaforica: per quanto sia sbadato è chiaro che non giri con un diploma universitario) ho infatti una lettera scritta in bell’inglese, redatta di suo proprio pugno da Herr Drexler, direttore della cattedra di Chirurgia Pediatrica del Policlinico Charité di Berlino. Brogliaccio che annuncia urbi et orbi che suddetto policlinico sarà lieto di accogliermi, quale medico in formazione specialistica in chirurgia generale, a partire dal 1. Settembre di quell’anno.

Avete presente quei cartoni animati in cui sulla spalla destra si posa l’angioletto e il diavoletto sulla sinistra, i quali ripropongono i diversi rispettivi punti di vista delle diverse vicende? A parte che qualcosa di simile, molto meno ridicolo, c’è anche nel Corano ‘ così mi dicono, almeno, la mia situazione era molto simile. Sono ancora in tempo a tornare indietro, in questo caso più propriamente a fermarmi. In realtà, muoio dalla voglia di partire. Tra l’altro, con gli accordi di Schengen ormai rodati ed attivi, le formalità sono ridotte all’osso e tutte le settimane che mi separano dalla partenza sono una lunga, inattesa vacanza (teoricamente piena di ozio, in realtà … beh, come tutti i malati di chirurgia sono mattina e sera in reparto ed in sala operatoria, ma questo è un altro discorso).
Litigando su ogni altro argomento, diavoletto levogiro e angioletto berlusconiano concordano però sul fatto che dovrei andarmela a spassare, perché i mesi che verranno rischiano di essere freddi (e su questo pochi dubbi) e parecchio duri (idem).
‘Al diavolo!’ penso e, appoggiato l’ennesimo bicchiere sul più vicino tavolino, mi immergo fra i convitati, ancora moderatamente sobri, ancora moderatamente freschi. La cena vera e propria, a conti fatti, non è ancora iniziata e quindi anche gli alcolici non hanno preso a girare come Dionisio comanda.
In un certo senso, il mio duplice status di freschissima laurea e di invidiatissima amissione in uno dei più invidiati ospedali d’Europa, mi rende tanto inviso quanto desiderato: lo so, e la cosa non mi crea realmente dei problemi. Salvo uno: vorrei evitare di parlare di me, e delle mie cose. Parliamo della morte termica dell’universo, piuttosto (argomento cui mi sono abbandonato un paio di volte, ammirando le bellissime stelle di questa notte), ma non di me.
La cosa, me ne accorgo rapidamente, è piuttosto difficile: deo gratias, l’alcol mi ha sciolto la lingua e disinibito a sufficienza da tagliare rapidamente i discorsi che rischiano di farmi ricadere su quell’argomento, e così passo alcuni minuti a balzare da un crocicchio all’altro. Finché non mi imbatto, dovrei dire finché non inciampo, nel professor B… illustre primario di pediatria, invitato a tale evento dal soprannominato Osvaldo, sia per ragioni di vera amicizia, sia per ragioni di opportunità politica ‘ ma di ciò, su queste righe, preferisco non parlare.

Ci conosciamo bene, io e B… in quanto prima di darmi al bisturi frequentai a lungo in Pediatria. L’essere stato un giovanissimo frequentatore (al terzo anno scarso) aveva creato l’effetto mascotte, per cui tutti mi conoscevano ed io conoscevo tutti, soprattutto dei papaveri, i quali mi riservavano sorrisi di fasulla amicizia ‘ ma poiché i sorrisi sono meglio delle sberle, tanto di guadagnato.

B…, che ugualmente sta pasteggiando a bianchino e grana, mi saluta, e sostanzialmente mi chiede come mi senta e come vadano le cose. Bella domanda, esattamente del tipo che ho disperatamente cercato di evitare fino a questo punto, girando i tacchi al primo accenno. Bhe, ad un professore sei costretto a rispondere ‘ almeno per cortesia: eh certo, mi sento emozionato; eh certo i miei passano le sere a piangere ed i giorni ad annunciarmi che sono felicissimi eccetera eccetera. Poiché B… è un boiardo dell’università, ma è anche una persona gradevole, il discorso subisce un’improvvisa deviazione e finiamo a parlare di Berlino, città in cui io non sono mai stato (a grandi linee, so che ci dovrebbe essere qualche resto del Muro, stop) e che lui sembra conoscere come le sue tasche. Ecco: queste sono cose che ascolto invece volentieri, e così – parlando, arriviamo ad un angolo della corte molto meno frequentato ed illuminato, dall’architettura del tutto eterologa rispetto al resto della costruzione. Le tettoie in mattoni e legname erano sostituite da grandi archi a tutto sesto, che quindi andavano a sorreggere un edificio a più piani, il cui aspetto suggeriva l’essere assai più antico del resto della costruzione, e sicuramente abbandonato.
Da tutt’altra strada, giungono allo stesso punto altre tre coppie (badate: ho detto coppie facendo riferimento al significato matematico, diversamente avrei parlato di coppiette). Di quei sei, due non li ho mai visti né mai li rivedrò; gli altri quattro sono miei compagni di corso. Zazà, un siciliano mezzo matto e tutto cuore, che se fosse tanto ricco quanto pelato sarebbe l’uomo più facoltoso del mondo; Riccardo, detto Andrea (don’t ask, don’t tell), al quale l’eugenetica non faceva un baffo ma in compenso aveva regalato un naso che avrebbe potuto utilizzare come timone, ma soprattutto Donatella e Laura. Due compagne di bisturi. Nel senso che parliamo di una specie in piena radiazione evolutiva, determinato dalle recenti pieghe della selezione naturale medica: donne aspiranti chirurghe.
Le due sono giunte insieme, armate di macchina fotografica ed ugualmente incuriosite dalla particolare architettura dell’angolo di corte. E questo è probabilmente l’unico dettaglio che le accomuna, apparentemente estratte da due popolazioni l’una dall’altra estranea quanto la Luna da Giove. Laura è un armonico insieme di contrasti. E’ alta: posto che i superlativi hanno assai poco significato, direi anche altissima non fosse che questo rischierebbe di spacciarla per una spigolosa creatura tutta ossa ed angoli (ciò che assolutamente non è, neanche oggi), del pallido candore di chi ha passato le sue estati sui libri anziché in spiaggia, sul quale il colore nero corvino dei capelli, all’epoca lunghissimi, crea un gioco cromatico che farebbe la felicità di un macchiaiolo.
Quando un uomo dichiara che la parte più bella di una pulzella è il suo sorriso, nel 90% usa una metonimia orientata 30 centimetri più un basso, riferendosi alla taglia di reggiseno. In questo caso, tuttavia, rientriamo nel restante 10%. Può sembrare incredibile (ed è lecito che dubitiate delle mie parole, non conoscendo la persona di cui vi sto parlando), ma quando Laura sorride sembra di avere di fronte lo scintillare della neve più pura, con la particolarità unica che quel sorriso riesce a celare i pensieri più cupi che le albergano dentro, dandoti l’impressione di una creatura fatta di ottimismo ‘ e tutto ciò, aspetto ancor più raro, senza dare l’impressione di forzature. Anche la splendida quarantenne che è diventata conserva questa dote, intatta, e che vale infinitamente più di altre virtù anatomiche spesso idolatrate da membri del mio sesso.
‘Ma guarda chi si vede, Marco…’ mi apostrofa lei, mentre Donatella ‘ dall’alto del suo metro e sessanta scarso, mi scatta una foto con un flash stroboscopico ed ammazzaretina. Mi riprendo, in qualche modo, e mando la Donatellina dove merita: per tutta risposta, lei mi stordisce nuovamente, nel caso con una risata sincera e molto ‘ molto divertita.
‘Ed ecco a voi, il professor Gualardi all’apice della sua maturità maschile!’
In Goodbye Lenin!, a questo punto Michael Br’hl ci piazza un rutto in stereofonia ‘ io mi limito ad essere contagiato dal sorriso di lei, ed in qualche modo ci rido sopra a mia volta. I miei occhi tornano ad abituarsi alla luce soffusa della serata, e non riesco a capire se siano ancora scotomi quelli che vedo intorno ad Donatella, i capelli biondissimi e l’abito dorato impreziositi dallo scintillio di piccoli e raffinati brillanti. Ecco: se dovessi chiarire quale sia la sua principale dote estetica, direi che pochissime altre donne sanno vestirsi e truccarsi con tanta cura da non far capire di essere truccata ed ‘in tiro’, eppure stravolgendo i suoi lineamenti in una creatura così raffinata da non sembrare nemmeno lontana parente della trasandata quasi-adolescente con la quale mi sono ubriacato due o tre volte e strafogato di cinese molto più spesso.

‘Fai l’asociale, Marck?’ ricominciano, non mi ricordo se Dona o Laura. Forse tutte e due.

B… ridacchia, alza le mani e se ne va. ‘L’età media di questo gruppetto si è abbassata troppo per i miei gusti’, abbozza, sparendo nella notte. Tanto so dove trovarlo: non lontano dal tavolo del parmigiano reggiano.
‘Non è che faccio l’asociale… è che i matrimoni mi mettono di cattivo umore’

Considerando che questo è il mio primo matrimonio, direi che non si tratti nemmeno di una grandissima balla.

‘Lascia perdere, Laura, il prof Gualardi si diverte così… e passatempi come il gossip da tavolo, il ballo eccetera eccetera sono solo tempo perso. Che t’aspetti da uno che leggeva Dostoevksy alle elementari?’
‘All’asilo, Donatella… alle elementari scrissi una ricerca sulla Critica della Ragion Pratica di Kant… ormai i romanzi mi annoiavano’

Ovviamente, scherzo: e per quanto la battuta in sé non faccia per nulla ridere, le ragazze la trovano divertente. Nel mentre, quei due marpioni di Zazà e Andrea hanno realizzato che le due ragazze ignote accettino di buon grado la pastura, e se ne vanno blaterando qualcosa sul fatto che hanno notato dei dettagli interessanti sul retro. Quale retro, non è dato saperlo ‘ ma oggi come allora preferisco ignorarlo.

‘E noi, che facciamo?’ dice Laura. Se fossimo in sala operatoria saprei già cosa rispondere. Ma poiché non sono in sala operatoria, mi trattengo senza troppa fatica.
‘Io direi di andare a vedere un po’ meglio là sotto…’ propongo, più che altro per rompere l’impasse creatasi. Le ragazze mi seguono.
La struttura, in sé, non è niente di eccezionale ‘ ma è sorprendentemente articolata per una corte agricola delle nostre parti. Una serie di colonne in mattoni a nudo sorregge una volta a botte, sulla quale sono ricavati due ulteriori piani. Agli angoli opposti, nella semioscurità intravedo due scale a chiocciola: poiché la curiosità è una tipica virtù bipartizan, non mi faccio troppi scrupoli a proporre di andare a vedere dove le scale portino.
In quella, non troppo lontano, attacca la musica: stanno per mettere in tavola le prime portate. Laura vorrebbe tornare, glielo leggo negli occhi ‘ ma non oserà dirlo. In pochi istanti, ci mettiamo d’accordo: io prendo la scala in fondo a destra, le ragazze quella di sinistra. Se poi non troviamo niente, si scende e si ritorna ai tavoli.

Un rapido saluto: inizio a salire. I gradini sono alti, e ripidi. Niente di strano: le norme sulla sicurezza non erano granché praticate nei secoli passati. Sono molto pulite, e questo mi suggerisce che, in un modo o nell’altro, la struttura sia tutto fuorché abbandonata. Arrivo al primo piano. Con mia sorpresa, la scala s’interrompe: è una mezza delusione. Inoltre, ciò significa che per incontrarmi con le ragazze dovrò discendere e risalire di nuovo. Amen.

Mi giro, e faccio per scendere.

‘Bum!’

Sarà il buio, sarà l’alcol sarà quello che volete. Mi viene un mezzo colpo. Sento il cuore che mi esplode nel petto, nel quale mi pare di ritrovarmi d’improvviso una palla di fuoco rovente.

E’ quella scema di Donatella. In quel momento, una luce penetra nell’oscurità attraverso una finestra, per sparire un istante dopo. La investe in pieno, e giocando con l’abito, con i gioielli, persino con il trucco, per quell’attimo la transumana in una creatura di fiaba, di una bellezza quasi marmorea.
‘Che ci fai qui?’
Non mi risponde. Si avvicina.
‘Secondo te, professor Gualardi … ?’
‘Dai, smettila di chiamarmi così…’ le dico: quel soprannome non mi è mai piaciuto.
Si avvicina ancora: ora è proprio davanti a me. La luce passa di nuovo: un pensiero nella mia mente, ribelle a qualsiasi tentativo di sopprimerlo, grida ‘Dio mio quant’è bella’. Ancor più bella perché, abituato come sono a vederla in jeans e maglietta, ritrovarmela con un bell’abito da sera, truccata e agghindata come una gran dama della borghesia milanese ‘ cui lei in effetti appartiene, me la mostra come un’altra donna.
Sento il suo respiro su di me. Ed è una sensazione che non mi dispiace.
Non dice nulla: d’un tratto sento la sua mano sfiorare il cavallo dei pantaloni. Il pacco. Insomma, lì.

La sorpresa, lo stupore… frugate nel vocabolario dei sinonimi e contrari: il concetto non cambia. Non reagisco, la lascio fare per quell’istante che ancora ti consente di tornare indietro. In un istante, abbassa la cintura lampo e con la sua mano sfiora i miei boxer: il stretto mi stimola più di quanto credessi. In un istante, il mio membro è in piena erezione.
Se fossi un uomo tutto d’un pezzo, sposterei Donatella e le direi: basta così, non facciamo sciocchezze. Poiché NON lo sono, e l’alcol ha fatto la sua parte, mi limito ad articolare qualche monosillabo. Quando la luce della festa invade la sala, la vedo diventare ogni istante che passa più bella, più desiderabile… o forse non è cambiato niente, e sono io ‘ i miei istinti che prendono il controllo, e mi dicono di lasciarmi andare.
‘Ti piace, vero… Laura?’ sussurra lei, con una voce animalesca ‘ in qualche modo diabolica.
‘Laura?’
‘Sì, Laura… ti ho visto. Ho visto come la guardi. Ti ho visto come la sbirci quando nessuno ti vede. Ho visto il tuo sguardo quando si cambia, nello spogliatoio… ti piace, vero? Confessa: ti sei mai toccato pensando a lei?’
Le parole di Donatella sono come un pugno nello stomaco. E’ tutto vero. E probabilmente, da come ho parlato di lei poc’anzi, avrete capito che in realtà nutra una cotta post-adolescenziale per Laura. E magari avrete intuito che uno dei pensieri che più mi frullino nella testa è quello di lasciarla, di non vederla più…
“Sei mai venuto, pensando che la fosse la sua mano a stringerti… pensando di afferrarla, stringerla forte, godere con lei…”
“Dona…”
‘Lasciala perdere, Laura… è fatta di legno, lei… baciami, e vedrai cosa posso darti io.’
Al diavolo, penso. Al diavolo tutto. Tanto fra poche settimane me ne andrò. Tanto Laura non mi guarda nemmeno di striscio.
Mi chino su di lei, ed obbedisco al suo ordine ‘ immediatamente. La abbraccio, e le mie mani corrono sulla sua schiena, la palpano tutta ‘ sentono il morbido e fresco pulsare della sua carne, ed i muscoli ben torniti da anni di nuoto. Lei ha ricominciato a toccarmi lì, ed ora le sue dita si sono intrufolate nei boxer, afferrando l’asta rigida ed eretta.

OK, lo confesso. E’ la mia prima volta ‘ ma l’istinto sa sempre cosa fare. Eros è un dio povero, ma di grande ed infinita conoscenza. Con la mano destra, continuo a carezzarle la schiena, a palparle ogni dettaglio fino a risalire sulle spalle. Con la sinistra, scendo, sfioro i lombi, arrivo sentire la salienza degli slip. Mi fermo, per un istante ‘ anche quello è un punto di non ritorno, e lo so.
Lo dimentico subito, e scendo sulle sue natiche, rigide e sode; discendo nella piega e da lì più in avanti, sfiorandole con la punta delle dita le piccole labbra. Ha un sussulto, che la spinge a stringersi a me. Nel mentre mi sono chinato su di lei: non la sto più baciando sulle labbra, ma sul collo, sulle spalle, ovunque.
Donatella vorrebbe comandarmi ancora, darmi qualche ordine… ma lei stessa è così posseduta dall’emozione da non sapere da che parte cominciare. Entrambi vorremmo tutto, lo vorremmo subito ‘ ma vorremmo anche che durasse all’infinito.
Si stacca per un attimo, e si guarda intorno. Non ci sono mobili, solo qualche lenzuolo sparpagliato di qua e di là. In un istante, ha deciso cosa fare.

‘Spogliami,’ mi ordina ‘ ed io obbedisco. Sono impacciato: a parte che non ho mai spogliato una donna, si tratta di un abito da sera tanto elegante quanto particolare, con bottoni sparpagliati un po’ ovunque. Lei fa lo stesso con me, con molta più scioltezza. Sono nudo; il suo abito è trattenuto solo da un ultimo nodo di filo nero, che tanto bene contrasta con la schiena ormai spoglia. Lo sciolgo, e le pieghe del vestito ricadono a terra, svelando il sedere ancora avvolto dalle mutandine. Si appoggia ad una colonna, ed in un sussurro confuso mi ordina di prenderla.
Obbedisco, ancora.

Le abbasso le mutandine, che sfila con rapida eleganza facendole scendere lentamente sulle gambe nude e sulle scarpe rosse che ha ancora indosso, e che continua ad indossare per compensare con il tacco la diversa altezza.
Avvicino il mio membro: quando con la punta sfioro la base del perineo, sento il suo corpo scosso da un brivido. Si gira di nuovo verso di me.
‘Al diavolo…’ dice, e appoggia la schiena contro la colonna. Afferra il mio membro, guidandomi verso di lei come se quello fosse il suo guinzaglio. Lo afferra e lo guida verso la sua vagina, umida di desiderio.
Senza che me ne accorga, sono in lei. Una sua smorfia di piacere accompagna il mio ingresso, ed una ancor più forte quando la penetro completamente. Appoggiata contro la colonna, le mani che mi afferrano per le natiche, mi ordina di spingere, forte. Lo faccio, sento il piacere che si diffonde dai miei lombi fino al ventre, mentre la mente si svuota di ogni altra cosa. Ogni centimetro della mia pelle che sfiora la sua trasmette voluttà e desiderio, spingendomi a penetrarla ancora più forte. E lo faccio: lei mi chiama, affinché insista, ancora.
Sento che sta per venire, ed in quell’istante mi ferma.

Mi fa uscire, per un attimo ‘ come se avesse paura di arrivare troppo presto all’acme. Si rimette nella posizione di prima, rivolta verso la colonna e mi ripete di prenderla. La prendo da dietro. Con la destra, afferro il suo fianco, mentre la sinistra corre verso il suo seno. Lo stringo, con forza ‘ con tanta forza che lei emette un gemito, eppure mi ripete di continuare, di non lasciare, di non smettere di toccarla lì. Arriva a coprire la mia mano con la sua, quasi tema che la allontani. Spingo ancora, e sento come se i muscoli del suo corpo stessero stritolando il mio membro per impedirgli di uscire. Non me ne accorgo, ma sto aumentando il ritmo, sento i pensieri sempre più confusi, ed un montare violento del piacere che dentro mi è cresciuto.
Gridiamo insieme, mentre eiaculo dentro di lei.
Mi appoggio su di lei, mentre riprendo fiato. Ma Donatella non ha voglia di accontentarsi. Si è accorta che il membro sta perdendo un po’ di tono: dovrà aspettare un attimo per essere nuovamente soddisfatta, e lo sa.
‘Prendi il lenzuolo,’ mi ordina, indicando quello che sembra più pulito e meno impolverato. In effetti, non era affatto sporco. Lo distendo sul pavimento, e lei si dispone su di esso. Io faccio per coprirla con il mio corpo, ma Donatella mi ferma: che mi giri, svelto.

Inizia ad armeggiare con il mio membro con le mani, quindi con la lingua, le labbra, tutta la bocca, ed io faccio lo stesso. Sento i miei umori ed i suoi, e lei lo stesso ‘ una sensazione che in condizioni normali mi avrebbe fatto ribrezzo, e che ora in qualche modo mi eccita in modo perverso.

Affidandomi all’istinto, titillo il clitoride con la punta delle dita ‘ ed infine inizio a leccarlo, a sfiorarlo, accelero e rallento il ritmo, esattamente come sta facendo lei con me. Né io né lei ce ne accorgiamo, ma i nostri corpi si dimenano come quelli di due serpenti avvinghiati.
Non so quanto tempo sia passato, ma il mio membro è di nuovo ‘ per così dire, ‘operativo’.
Donatella se n’è accorta.

Mi fa sdraiare e quindi sale su di me. Afferra il mio membro con le mani, lo stimola ancora per un attimo, sia con le dita che con la lingua ed infine si dispone su di esso. I nostri umori, la nostra passione, fanno sì che quello entri senza la minima fatica. Quasi non mi accorgo di averla penetrata finché lei non stringe i muscoli del perineo: una fitta di piacere mi attraversa tutto. Lei inizia a muovere il bacino, lentamente, mentre con il capo descrive nel cielo un otto immaginario.
‘Afferrami’, mi dice, portandomi le mani sulle areole delle mammelle ‘ dure come la pietra. Le sfioro, ad un tratto mi tiro su fino a baciarle.
Lei viene, almeno un’altra volta, mentre con i denti sfioro la carne del capezzolo.
Si riprende quel tanto che basta a capire di volere ancora di più: riprende a cavalcarmi, con rapidità, in qualche modo con una certa brutalità.
Veniamo ancora, insieme.
Lei crolla su di me, spossata.

E’ passato parecchio tempo: dal numero di canzoni passate in sottofondo saranno almeno al secondo piatto ‘ macchisenefrega.

La stringo: mi piace stare al suo fianco, mentre i nostri corpi ancora avvertono l’onda dei dissoltosi orgasmi. Stupidamente, le faccio la domanda più inutile…
‘Perché, Donatella?’
Non sono tanto sciocco da pensare che sia innamorata pazza di me.
Donatella si solleva, sedendosi al mio fianco ‘ ma senza perdere il contatto con il mio corpo.

‘Perché ti volevo… come tu guardavi Laura, così io guardavo te… ma tu non te ne sei mai accorto. Perché lo so come finiscono queste storie. Ora tu partirai, andrai a Berlino, a Londra, chissà dove. E passerai i prossimi anni a fantasticare di Laura, di ciò che sarebbe potuto essere fra voi due se… probabilmente non amerai nessuna donna, o se l’amerai a quella disgraziata non perdonerai mai di non essere Laura.
‘Ma in tutto questo, c’è qualcosa che sarà sempre e solo mio. Questa notte. In questa notte, Laura non c’è … e non ci sarà mai, se non come uno spettro. Lontana. Un giorno, quando ripenserai alla notte in cui la tua vita è cambiata, penserai a stanotte. Penserai a me. In un certo senso, sarei sempre e soltanto mio.
‘Se non posso averti con me, almeno avrò questa parte di te…’

Il resto di quella notte è come un sogno: ci rivestiamo, torniamo alla festa, restiamo insieme tutta la notte. Balliamo tutta la notte. Torniamo a casa, ciascuno con la sua auto – insieme: i miei sono via, week end al mare, ed è tutta per noi. Appena parcheggiate le auto in giardino, entriamo in casa: siamo stanchi, ma Eros non conosce la fatica. Sono le tre del mattino quando chiudo la porta: non ricordo quante altre volte ci siamo baciati, quante volte ci siamo abbracciati, quante volte abbiamo gridato insieme. Quando mi sveglio, e sono le quattro del pomeriggio, Donatella non c’è: mi ha lasciato un biglietto sul tavolo della cucina.
‘Chiamami. Dona.’
Non c’è scritto altro.
Afferro il cellulare, e mentre cerco il suo numero nella rubrica, mentre lotto con un mal di testa che mi stritola le tempie, realizzo pienamente cos’è successo, e soprattutto cosa Donatella mi ha detto. Soltanto adesso metabolizzo la situazione, ed inizio a chiedermi il senso ‘ di tutto.
Cambio lettera della rubrica: è il numero di Francesco quello che compongo, sperando che il suo cellulare sia acceso. Lo è. Sono fortunato: trovare la linea con Francesco è più improbabile che fare un terno secco al superenalotto. Gli chiedo se ha tempo per fare un salto da me… e se non ce l’ha, andrò io da lui. Non fa domande, non chiede niente: Francesco è Francesco, e mi assicura che in un quarto d’ora sarà da me. Traducendo in lingua italiana, ho circa mezz’ora di tempo, qualcosa di più, per farmi passare il mal di testa. Non è molto, ma il Tachidol fa miracoli.
E qui vi devo uno spiegone. Versione mignon, lo prometto.
Francesco è quel tipico personaggio che in una compagnia non manca mai: non si sa bene cosa faccia nella vita, né cosa vorrebbe fare; la sua vicenda personale è un tale coacervo di casini da sembrare un nodo gordiano fatto però con filo di titanio (e quindi tanti saluti ad ogni tentativo di scioglimento in stile Alessandro Magno). In barba alla sua storia personale, è però il più lucido consigliere che conosca. A volte, ti da dei suggerimenti più o meno paradossali ‘ ma raramente sbaglia. Anche se quello che ti dice è compreso fra due rutti stereofonici, vale la pena ascoltarlo fino in fondo.
‘Dunque, fammi ricapitolare…’, mi dice levandosi gli occhiali da sole e sorseggiando la Heineken ghiacciata che gli ho preparato (per la cronaca: è arrivato alle 17 e rotti, ed io al solo pensiero di bere qualcosa di alcolico sento tutte le anse intestinali sollevarsi in ribellione, e quindi gli sto facendo compagnia con dell’estaté al limone… amen), ‘… ieri notte hai scopato selvaggiamente con la Orlandi, lei ti ha detto di richiamarla e tu non hai ancora alzato il telefono perché pensi che si sia trattato di una ripicca nei confronti di quella figa di legno della Laura?’
Credo di avere assunto tutte le tonalità di rosso esistenti in natura. A maggior ragione – visto che, come al solito, Francesco ha colto nel segno.
Balbetto qualcosa – più che altro cerco di inventarmi qualche scusa per non fare proprio fino in fondo la figura del pirla … con il risultato di apparirlo ancor più del preventivato. Amen.
‘Che dovrei fare, secondo te?’
‘Pessima domanda,’ mi risponde con la sua voce gracchiante di fumatore incallito ‘ a proposito, è qui da dieci minuti ed è già alla seconda sigaretta. Se sopravvive più di cinquant’anni senza distruggersi i polmoni giuro che brevetto il suo DNA.
‘Pessima domanda: mai chiedere ad un amico cosa farebbe al tuo posto, perché nessuno è al tuo posto. La grande domanda è: cosa vuoi fare tu, adesso?’
E lascia perdere, mi dice, discorsi complicati: Donatella è una donna, ma è anche un’aspirante chirurga. In altre parole, appartiene a quella rarissima frazione del genere femminile che, se deve andare dal punto A al punto C passa per il punto B. E se questo punto B è troppo fuori mano, si arma di bisturi e tira una riga dritta da A a C, e chissenefrega di tutto il resto. Detto fuori dai denti: ha fatto ciò che voleva fare perché lo voleva fare, e se ha detto di richiamarla è perché vuole probabilmente farlo ancora. E ancora. E ancora…
‘Però vedi… qui ci sono due problemi di fondo. Le posizioni del kamasutra sono ‘ boh? Centouno? Boh, non importa. Quando le avrete provate tutte, che fate? Ricominciate daccapo?’
‘Può essere un’idea…’ scherzo, ma Francesco non accenna a sorridere. Anzi: parte più serio di quanto non l’abbia mai visto.
‘Con una donna bisognerebbe anche parlarci… e si tratta di capire se Donatella ti può dare la compagnia che ti serve ‘ e non ti parlo di quella fra le lenzuola. Se una donna è bravissima a spompinare ma quello è l’unico uso che conosce di labbra e lingua, beh, meglio starle alla larga. Peggio ancora se quando parla stai ad ascoltare e scopri che il tuo cervello si è preso una pausa di riflessione … comunque sia, questo lo puoi scoprire ‘solo vivendo’, come si suol dire.
‘E il secondo problema?’, gli chiedo sorseggiando dell’altro the.
Siamo sulla veranda, ai confini della campagna. Tutt’intorno è silenzio. Forse per questo la pausa di Francesco mi pare ancor più lunga.
‘Il secondo problema… lo conosci benissimo: tu te ne andrai di qua fra due mesi. Tre al massimo. Dopodiché ti vedremo in cartolina ‘ forse.’
‘Beh, anche Donatella lo sa …’
Francesco scuote la testa.
‘Wally,’ mi apostrofa usando la maccheronica anglicizzazione del mio cognome, ‘Wally, Wally… si vede che è stata la tua prima volta. Le storie possono iniziare con l’idea che sarà una scopata e via, e poi magari questa diventano due, tre, quattro, venti … e poi ci si rende conto che si vuole dell’altro. E lì iniziano i guai. Prima di farti del male ‘ e prima di farlo ad altre persone, dovresti decidere cosa vuoi da questa storia. Giusto per mettere le mani avanti.’

Chiedo a Francesco di restare con me mentre chiamo Donatella. Figurarsi se si tira indietro: nel mentre, ordino due pizze ‘ modesta forma di ricompensa per lo sbatti d’essersi subito i miei deliri post-adolescenziali.
Già mentre compongo il numero, sento la testa girarmi e la labbra intorpidirsi: il resto del dialogo ha qualcosa di così involontariamente fantozziano che ancora non capisco come Fra non si sia messo a ridere. Il testo esatto ve lo risparmio.
Donatella è piuttosto scocciata: mi fa notare, in modo piuttosto secco, che ho impiegato parecchio tempo per richiamarla. Francesco mi fa una smorfia e con un lento cenno della mano mi dice di andare avanti: tanto, come avrei imparato in seguito, se anche avessi chiamato un nanosecondo dopo la sua uscita di casa … anzi: se avessi fatto squillare il suo cellulare mentre l’ultimo nanometro quadrato della sua ombra usciva fuori dal giardino, sarebbe stato COMUNQUE troppo tardi.
Mi scuso, dicendo che mi sono svegliato tardi ‘ ed è vero, e che non stavo troppo bene ‘ ed anche quello è vero. Oddio, non è che ora mi senta un drago ‘ ma almeno riesco a tenere gli occhi aperti senza sentirmi esplodere le orbite.
All’accenno del malessere, la sua voce cambia all’improvviso. Diventa calda e dolce. Quasi comprensiva. Quasi. Anche lei, del resto, lotta da tutt’oggi con un mal di testa fuori scala. Eppure ha voglia di vedermi. Anch’io. Me la sento di raggiungerla? Perché no: non è la prima volta che passo a trovarla e dieci minuti di bicicletta mi aiuteranno soltanto a smaltire del tutto la sbornia.
‘No, scusa…’ dice Francesco appena metto giù: ‘tu ora pensi di andare da Donatella in bicicletta? Ma ti devo insegnare tutto? Lascia perdere la bicicletta: ti ci porto io. E vatti a fare SUBITO una doccia. Deodorante anche sotto le ascelle…’
‘Deodo…’
‘Sì, quella cosa che probabilmente hai visto impiegare da tua sorella almeno un paio di volte. Alla peggio, usa il suo … a meno che non sappia di violette. E non temere: non è tossico. E non morde.’
Mestamente, obbedisco ai consigli di Francesco, che nel frattempo divora entrambe le pizze. Poco male: dopo aver parlato con Donatella ho lo stomaco bloccato.
Venti minuti dopo sono sotto casa di Dona, ai confini del centro. Scendo dall’auto: non c’è nessuno, nemmeno gli immancabili cani randagi.
Francesco inforca gli occhiali da sole (mi sembra giusto, visto che il sole è appena tramontato):
‘Chiamami,’ aggiunge, ‘se vuoi un passaggio per tornare a casa.’
Ovviamente non lo farò, e lo sappiamo entrambi. Ma non importa.
Donatella, come accennavo, appartiene alla borghesia ‘ quella ricca, di Milano. Non ho mai capito cosa sia venuta a fare a Parma: anche il suo status sociale mi era pressoché ignoto fino a pochi mesi prima, quando avevo avuto la (s)fortuna di incrociare il di lei genitore, la sua Cayenne turbo e la sua seconda moglie. Prima di naufragare nel luogo comune del milanese in completo bicolore bianco/nero, gemelli d’oro, Rolex d’ordinanza e moglie più giovane della figlia, sarà meglio che suoni il campanello, che Donatella mi apra e che salga al secondo piano. La porta è già aperta.
Donatella vive in un tipico monolocale per studenti gaussianamente al di sopra della media. A ben vedere, l’unico elemento lussuoso di quel complesso è l’assegno che ogni mese le tocca staccare per avere l’onore di risiedere in dieci metri quadrati: ve lo risparmio, perché aprirebbe un interminabile discorso sugli affitti degli studenti.
‘Ciao Dona…’ la saluto.
E’ seduta sul suo lettone, a gambe incrociate, e da lì mi guarda mentre chiudo la porta alle mie spalle.
‘Ciao Marco’.
La voce di Donatella ha sempre un qualcosa di strano. Riuscirebbe ad essere sensuale anche raccontando una barzelletta da caminiosti: è quel tono ruvido, quasi abrasivo, risultato di troppi anni di troppe sigarette. Forse. O forse è qualcosa di innato. Anche prima di ieri sera, la sua voce mi era sempre piaciuta, moltissimo.
Non mi muovo. Lei nemmeno.
‘Vieni qui…’ mi dice, toccando con la mano il materasso, sul bordo.
Obbedisco. Imbarazzi dell’imbranato, capitolo ennesimo: mi siedo tanto vicino da sfiorarla? Le stringo la mano? La abbraccio? O dovrei comportarmi in modo più distaccato?
Perché non inventano un collegamento telefonico per via subeterica come nei romanzi di Asimov? Sarebbe il momento giusto per chiamare Francesco e chiedergli cosa fare. La vita era decisamente più semplice al tempo di Cyrano: allora bastava nascondersi sotto una siepe e suggerire le parole giuste…
‘Sai che ti dico? O la va o la spacca…’ e mi siedo proprio al suo fianco. Donatella non solo non si sposta, ma appoggia i suoi lunghi capelli biondi sulla mia spalla.
Dalla finestra aperta entra nella stanza la musica del bar di fronte, ancora soffusa: tempo un paio d’ore e diventerà quasi assordante.
‘Ma non dovevano farli smettere?’
‘Lo sai,’ sospira Donatella, ‘che il sindaco è cicì-e-ciciò con il padrone del locale…’
Silenzio, di nuovo.
E’ ancora una volta Donatella a rompere il ghiaccio: a ripensarci, è sempre stata lei a tenere le redini, almeno fino a questo punto.
‘Che facciamo, Marco…?’
Francesco, un giorno mi spiegherai come tu faccia ad avere sempre ragione.
‘Che intendi dire, Dona?’
Sposta il capo: ora mi guarda dritto negli occhi.
Il seguito potrebbe essere il trionfo dei luoghi comuni. Potrebbe essere una macedonia di frasi riciclate in miriadi di film, telefilm e telenovele di serie A, B, C fino ai dilettanti passando per l’interregionale e il campionato provinciale di Catanzaro. Potrebbe. In realtà, ci guardiamo negli occhi e non diciamo nulla.
Struccata, i capelli in disordine, gli occhiali sul naso – Donatella è sempre bellissima. E soltanto il prosciutto di una cotta inutile poteva nascondermelo. O forse è un’altra cotta, quella che ora sto provando per lei, a farla sembrare più affascinante di quanto non sia. Non importa.
La bacio.
Lei appoggia le mani sul mio torace, per respingermi.
In un’altra vita, mi sarei ritirato, avrei chiesto scusa… stavolta no.
Mi sporgo su di lei, riversandola sul letto con il mio peso. Le afferro le mani, e le stringo.
Ha già smesso di opporsi. Le sue labbra si sono aperte, le nostre labbra si sfiorano, si strigono. Le lingue si intrecciano, come le dita delle nostre mani. Mi stacco solo per un istante: le tolgo gli occhiali, e li appoggio sul comodino; con la stessa mano, le sfioro le guance, e da lì scorro sul collo, e dal collo sul seno. Le slaccio la camicetta, con tutto l’impaccio che ancora non mi sono tolto di dosso. Infilo una mano sotto il tessuto bianco e sottile, e quella sfiora il pizzo del reggiseno. Mi accorgo del ferretto anteriore: lo slaccio, e in un attimo denudo il seno sinistro. Sfioro l’areola, il capezzolo ‘ già durissimo, ed inizio a baciarlo, quindi a mordicchiarlo.
Sotto di me, sento il suo corpo dimenarsi per il piacere crescente.
Le libero anche l’altro seno: inizio a tormentarli a turno, uno dopo l’altro, quindi insieme, usando entrambe le mani. Le sue, ora libere, corrono fra i miei capelli, li annodano, e da lì sul capo, sulla schiena. Molto più avanti di me, e quindi molto più confusa di me, cerca di liberarmi dagli abiti. In pochi istanti siamo nudi, uno di fronte all’altra.
Mi afferra il membro, come ha fatto ieri sera: questa volta, non per tirarmi a sé, ma per tirarsi lei su di me. Con un rapido movimento di polso, lo rende più duro di quanto già il desiderio non avesse fatto. Quindi inizia a carezzarlo con le labbra, e con la lingua. Mi sembra di impazzire di piacere: le stringo il capo fra le mani con tanta forza che temo di farle del male ‘ ma evidentemente non se ne accorge nemmeno.
Sto per eiaculare: lei se ne accorge in tempo, e si stacca. Si butta indietro, sulla schiena ‘ le braccia aperte sul letto come (non me ne vogliano i credenti) un Cristo in croce.
Sorride maliziosa.
‘Vieni, ti sto aspettando…’
Non me lo faccio ripetere. Mi butto su di lei. Il membro, eretto, ha un attimo di incertezza: i suoi umori non sono ancora così abbondanti, ed avverto sul suo viso un istante di dolore, seguito dal piacere di sentirmi completamente dentro di lei. Inizio a spingere, e da questo momento il suo volto si trasforma in una smorfia di piacere ‘ e questo piacere accresce il mio, spingendomi a colpire più forte, più a fondo, più in fretta, trattenendo con uno sforzo l’impulso a riempirla di me.
Alla fine, siamo una cosa sola, ed urliamo come una persona sola, abbandonandoci l’una sull’altro.
Donatella rimane immobile, come se cercasse di rinnovare nelle propria membra il piacere di quell’attimo. Si muove, infine, lentamente, e risale a coprirmi. Corre con la mano a cercare il mio membro: è ancora piuttosto reattivo. Bene, sussurra.
Senza che dica nulla, si mette a pecorina sul letto, e mi chiede di prenderla così. Sì, mi chiede. E’ la prima volta che non ordina, ma non ci faccio caso.
Le afferro le natiche, e in un colpo solo sono dentro di lei. Vedo la sua schiena inarcarsi di colpo al mio ingresso, e quindi cedere, ricadere verso il basso ‘ la vedo aggrapparsi al cuscino sottostante, miagolando di piacere ad ogni mio movimento.
Istintivamente, mi chino su di lei a coprirla e con la mano sinistra inseguo il suo pube, ricerco il clitoride ‘ duro e rigido, ed inizio a titillarlo. E’ il deliquio, ed il suo miagolare si trasforma in un grido. La possiedo di nuovo, e questa volta avrò bisogno di tempo per riprendermi.
Passano alcuni secondi di silenzio.
Donatella rimane nuovamente immobile per qualche istante, poi sale su di me. Inizia a parlarmi.
‘Mi piaci, Marco…’ sussurra, mentre gioca con i peli del mio petto.
‘Anche tu, Donatella…’
La fiera della banalità si conclude così. China il capo in modo da guardarmi per bene negli occhi, che non distolgo da lei.
‘Vediamo di fare il punto della situazione:’ riprende, ‘che stiamo bene insieme, è un dato di fatto. Siamo stati amici per tre anni, due anni fa abbiamo scoperto che ci piace ubriacarci insieme sparando cazzate, ed ora abbiamo scoperto che ci piace anche fare sesso insieme. Il passo successivo è decidere cosa fare di noi due…’
Francesco… infallibile Francesco. Un breve silenzio: siamo così ubriachi l’uno dell’altra che il resto è scontato: non solo vogliamo stare insieme ‘ abbiamo BISOGNO di stare insieme. Nessuno ha ancora pronunciato e coniugato il fatidico verbo tanto detestato dai critici tedeschi quando parlano della nostra poesia (amare insomma), impauriti come siamo di dire qualcosa di più grande di quella che potrebbe essere soltanto un’avventura estiva… entrambi l’abbiamo sussurrato nella nostra anima, ed in qualche modo ci siamo sentiti a vicenda.
‘Cerchiamo di fare due conti: tu partirai per Berlino all’inizio di settembre. A me, nella migliore delle ipotesi resta ancora un anno di università ‘ più realisticamente, quasi due. Nel frattempo, tu passerai ogni istante della tua vita a squartare berlinesi obesi di birra e bratw’rst, e non avrai tempo nemmeno per mangiare ‘ figuriamoci per pensare a me. Senti quello che ti propongo…’
Temo chissà che cosa ‘ ma Donatella mi fa una proposta che davvero non m’aspetto.
‘… mio padre conosce il primario di chirurgia addominale del Charité. Non sono una secchiona, e con tutta la buona volontà posso scordarmi di raggiungerti lì… ma un posto dignitoso in un altro ospedale di Berlino me lo può procurare sicuramente, almeno come prova. Parlo perfettamente tedesco, visto che ho studiato alla Deutsche Sch’le per cinque anni…’
Eh sì: Donatella mi propone di lanciarci insieme in un’avventura. In un attimo, nei suoi occhi è stato concepito ed è nato un progetto che al momento sembra più grande di noi.
‘Per i prossimi due anni, tu andrai a Berlino, e ci vivrai da solo… ci vedremo quando potremo, e questo servirà anche a capire meglio se questa è solo una storiella…’
Continua a parlare, e intanto sale su di me. Sento il suo pube sfiorarmi l’asta, che torna a rizzarsi ‘ lentamente, ma inesorabilmente quanto più vicina essa diventa alle sue piccole labbra.
‘Però adesso ascoltami bene: io sono così pazza di te che, per inseguirti in quest’avventura, sono pronta a mettere in gioco … tanto. Nei prossimi due anni, fai quello che ti pare. Voglio essere ancora più chiara: scopa chi ti pare, come ti pare, quanto ti pare…’
Ha afferrato il mio membro, e lo sta guidando dentro di sé…
‘Però, quando io sarò con te, non ci dovrà più essere nemmeno l’ombra di Laura, non ci dovrà essere nessuna. Soltanto io…’
Grido io, stavolta, mentre la penetro: grida animalesche che crescono sempre più alte ad ogni movimento dei suoi fianchi. Quelle parole mi si scolpiscono nella mente, mentre le mie dita affondano nella carne dei suoi fianchi, imponendole un movimento opposto a quello che lei stessa si dà.
Veniamo insieme, ancora una volta, mentre un clacson fuori dalla finestra interrompe la relativa calma della sera…
Il resto di quell’estate trascorre come un sogno. Più tempo stiamo insieme, più vorremmo averne solo per noi due. Lunghe passeggiate al fare della sera, chiacchiere infinite, carezze e baci. E poi, certo: ogni volta che possiamo. Ed ogni volta a legarci c’è una tensione crescente, fatta di rabbia malcelata, e di rimpianto ‘ perché entrambi sappiamo che ogni minuto che passa ci avvicina alla mia partenza, ed in un certo senso ci allontana.
Verso Agosto, quando il caldo è ancora opprimente ‘ ma le giornate iniziano a farsi percettibilmente più brevi, l’evidenza è di fronte a noi: pochi giorni, e partirò. Una breve ricognizione, per ora. Un paio di giorni, e niente di più ‘ abbastanza, però, per scoprire il nodo che fino ad ora ci siamo celati.
‘E se andassimo via, un paio di giorni ‘ soltanto io e te?’
Propongo una sera ‘ mi sembra fosse un giovedì sera, sicuramente prima di ferragosto.
Donatella ci pensa su un attimo: come vi ho fatto capire, era ed è una donna molto pratica ‘ forse fin troppo. Il suo sospetto (ma possiamo pure dire la sua certezza) è che non ci sia un buco libero in tutte le riviere, nostrane e transalpine, ad oriente ed occidente. E probabilmente ha ragione, ma io ho una carta da giocarmi.
La famiglia di Lorenzo, un mio ex compagno di studi, possiede una casetta a Vernazza. Nulla di che, intendiamoci: appena più grande del monolocale di Dona, ma più che sufficiente per un breve soggiorno. Ci vivevano i suoi nonni, prima che il progresso trasformasse i pescatori in operai, e le Cinque Terre da povere e bellissime in ricchi paeselli di plastica, perfetti per quell’immagine da cartolina che gli Inglesi ci hanno appioppato dai tempi di Camera con Vista.
In realtà, è bene dirlo, gioco in casa. La sera prima, durante una mano di poker, Lorenzo mi ha confidato di avere le palle attorcigliate: una coppia di Milano, che aveva affittato la casa fino a fine agosto, si è tirata indietro all’ultimo momento. Risultato: fino a ferragosto, si ritrovano con l’appartamento libero.
Il caso e la necessità: connubio perfetto, non solo in questo caso.
In pochi minuti, la nostra breve vacanza è perfettamente pianificata. Arriviamo in treno ‘ del resto, arrivare e girare in auto per le Cinque Terre è un metodo molto efficace per farsi del male, a meno che non si abbia parecchia fretta di giungere sul posto ed andar via, e chiaramente non è il nostro caso. Per una serie di ragioni, partiamo di notte, con l’ultimo treno: arriveremo intorno alla mezzanotte. Siamo nel mezzo della settimana lavorativa e, nonostante la stagione estiva ormai inoltrata, il compartimento è completamente vuoto. Gli ultimi pendolari ci abbandonano a Borgotaro, e tutto ciò ha qualcosa di irreale: fino a Pontremoli non ci sarà nessuno. Donatella sta (ri)leggendo il capitolo del Sabiston sulle colecistectomie, fotocopie così usurate da avere i bordi ormai smangiati, e sottolineate tante di quelle volte da rendere alcune parole del tutto illeggibili. Io la abbraccio, e penso. Anzi, scusate: cerco di non pensare.
Piano piano, le mia mani sono discese sul suo inguine e, in un colpo solo, si sono insidiate all’interno dei pantaloncini, sfiorandole la carne dei fianchi.
Donatella ha un sussulto. Con la mano libera dalle fotocopie mi fa un cenno: ‘Ma che stai facendo?’ sembra dirmi.
Ormai la conosco, conosco il suo corpo e le sue reazioni: so che sentirsi sfiorare lì, sul lato esterno della coscia, le piace particolarmente. Senza essere per forza uno stimolo erogeno, le trasmette quella sensazione di rilassata voluttà che spesso e volentieri prepara ben altri e più radicali approcci.
Come in questo caso.
Mi alzo in piedi e controllo meglio lo scompartimento. Non c’è proprio nessuno. Per quanto riguarda il controllore, sta dormendo nell’altra carrozza: l’ho visto prima, e credo non si solleverà dal suo sedile prima di La Spezia.
Donatella scuote il capo: ‘Sei completamente pazzo…’, ma il suo sorriso ha tutt’altro significato.
‘Quanto abbiamo prima della prossima fermata?’
‘Venti minuti buoni, credo…’
Non dice altro. Fruga nella mia borsa e recupera la scatola dei preservativi; con l’altra mano mi abbassa dalla cintura lampo e libera il mio sesso, già pronto ed eccitato dalla situazione. Lo manipola un paio di volte, con divertita brutalità: alle mie smorfie di piacere e dolore reagisce ripetendosi, ancora, un paio di volte. Si china, e manipola il frenulo del prepuzio con la lingua. Sento i muscoli delle gambe contrarsi, brutalmente. Con delicatezza, applica il preservativo e, calate appena le braghe corte, si siede su di me, dandomi la schiena. Con rapidità, scosto le mutandine e prendo confidenza con il suo seno, già umido e pronto ad accogliermi. Entro: come sempre, ha un vibrante sussulto. Inizia a cavalcarmi. Cerco le sue mammelle, le afferro: ormai so che questo le da piacere, e quando più forte stringo ‘ fin quasi a lasciarle dei lividi, quanto più le piace.
L’orgasmo è rapido, svelto, brutale e selvaggio. Facciamo sparire il preservativo appena prima della fermata di Pontremoli, e restiamo stretti, abbracciati fino all’arrivo.
Dalla stazione alla casa di Lorenzo non c’è molta strada. Arriviamo, e poco prima dell’una siamo a letto. Nonostante la brezza marina, il caldo è asfissiante e la casa di Lorenzo non ha il condizionatore: troppo vecchia. Restiamo completamente nudi, immobili, cercando di rilassarci e di conciliare il sonno, che non arriva. E’ in qualche modo strano, fianco a fianco, la nostra carne che si sfiora, ci guardiamo nel buio quasi assoluto e non sentiamo il bisogno di avvinghiarci. Quel contatto ci da piacere, ed ancor più piacere i baci che ci scambiamo, dolci, a volte brutali, di tanto in tanto.
Lo so: fa molto ‘Antonio, fa caldo…’ ma credo che questa scena ce la siamo vissuta tutti, prima o poi.
Ad un tratto, Donatella si alza e corre alla borsetta. Spalanca la finestra della camera, aperta sul mare. Un breve luce, calda e rossa, mi rivela che i miei tentativi di farla smettere di fumare hanno sortito lo stesso risultato della predica di San Francesco al Sultano del Cairo.
Mi alzo a mia volta. La luce della sua sigaretta è l’unica che illumina la camera: la luna c’è, ma è velata. Intravedo appena il suo corpo e, come al solito, mi pare bellissimo. Minuto ma perfetto, tornito da anni di sport, ma non eccessivamente muscoloso ‘ asciutto, ma non secco.
Mi sporgo dalla finestra e guardo il mare: si sente il rumore delle onde e della risacca. Poco oltre, c’è una specie di grotta: lo so, ma non voglio pensarci. Ogni volta che rivedo gli scogli appuntiti che ne guardano l’accesso, ogni volta che sento il tipico rumore delle onde che su quelli si vanno ad impattare, ripenso a Stefano. Un anno prima, una corrente l’aveva trascinato verso il fondo, e sbattuto contro quegli scogli. L’avevano ripescato due giorni dopo, gonfio come il ventre di una rana, il corpo divorato dalla fame insaziabile del mare.
‘Posso farti una domanda?’
Annuisco: qualsiasi cosa, anche la più sgradevole ‘ pur di non pensare a Stefano.
Donatella si avvicina e, incurante del fatto che qualcuno possa intravederne la nudità per tramite della finestra, si appoggia al mio fianco. Cerca di tenere la sigaretta lontana da me ‘ non sono un integralista, ma detesto il fumo. Sia per ragioni sanitarie che per motivi economici: mio padre dice che è quello spruzzo di sangue ebraico che abbiamo nel sangue. Sarà. Io la chiamo taccagneria bella e buona, ma questo è un altro discorso…
‘Senti… in realtà è una domanda che volevo farti da parecchio tempo. Settimane fa parlavo con Rolli …’
Ahia… Rolli. Il più raccomandato dei raccomandati, e soprattutto la lingua più lunga di tutta la nostra clinica chirurgica. Già prevedo disastri, diluvi universali, meteoriti che impattano contro la crosta terrestre riducendola in magma incandescente… insomma: l’apocalisse.
E non sono molto lontano dalla verità.
‘Rolli mi ha detto che è normale che tu non voglia nemmeno provare la specializzazione a … Diceva che … ah ecco: considerato quello che è successo con l’altro Marco Gualardi, è comprensibile che non voglia farsi vedere da queste parti…’
Benvenuta, Donatella. Benvenuta nel caos esistenziale della famiglia Gualardi, croce e delizia del gossip cittadino da cinquant’anni almeno.
Sospiro profondamente e mi giro verso di lei. Senza che nemmeno possa reagire, afferro la sua sigaretta e, molto maldestramente, tiro una boffata. Quasi mi strangola: tra un colpo di tosse e l’altro, faccio un altro tiro. Va un po’ meglio.
‘Ehi, ma stai bene?’
Per affrontare il tema, mi ci vuole un aiuto. Se la sigaretta di Donatella avesse qualche additivo, sarebbe meglio ‘ ma anche così va benissimo. Le ripasso la sigaretta: tra un colpo di tosse a l’altro, sento la testa vagare leggera. Ora o mai più.
‘Sei sicura di voler sapere tutto?’
Che domande! Certo che vuole sapere tutto quello che riguarda il suo uomo. Il delicato reiterarsi dell’aggettivo possessivo mi da una certa soddisfazione. In un certo senso, ribadisce il legame ormai forte che c’è fra di noi, e che va oltre il sesso.
OK, Donatella… consapevole che stai per scoperchiare il vaso di Pandora, preparati ad un racconto lungo e per nulla piacevole. Un racconto che ha inizio con il mio omonimo. Un mio pseudo-cugino.
‘Pseudo?’
OK, ricapitoliamo. Qui ci vorrebbe uno schema… comunque sia: tutto ha inizio, qualche secolo dopo Adamo ed Eva, dai lombi di mio nonno, Manrico Gualardi. Il quale, poco dopo la guerra, ramificò la mia famiglia nei Gualardi propriamente detti, e nella famiglia di mio padre, risultato di un incontro malandrino con una ragazza un po’ ingenua e molto modesta, abbindolata dall’aura di sovrumanità dell’ex braccio destro dell’ancor più ex potestà fascista. Ai tempi, la cosa non fece nemmeno troppo scandalo: in barba al perbenismo degli anni ’50, storie di questo genere erano all’ordine del giorno. Poiché il ricombinarsi della genetica aveva trasmesso a mio padre la grande maggioranza dei lati positivi dei Gualardi ed apparentemente messo in minoranza i molto più numerosi aspetti negativi, poco prima della sua maggiore età il vecchio Manrico si decise a riconoscerlo come proprio figlio, facendogli il regalo del vetusto cognome, assai più malamente indossato da Serafino, il figlio maggiore ‘ che poi sarebbe mio zio, ma preferisco ricordarlo come un perfetto estraneo. Per dirla breve: Serafino Gualardi, nel corso della sua (fortunatamente) non troppo lunga vita ne combinò più di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, messi insieme. Benché il suo nome figuri fra i grandi baroni della nostra università, giovanissimo e celeberrimo primario di psichiatria, i prodotti della sua arte medica (chiamiamola così…) popolano ancora gli ospedali psichiatrici di tutta la provincia, destinati a portare in sé e con sé i segni della grande scienza di Serafino Gualardi fino alla fine dei loro giorni.
‘E poi c’è Marco, appunto …’
Il mio quasi cugino, figlio maggiore di Serafino – letteralmente un genio. A dieci anni padroneggiava perfettamente quattro lingue straniere, senza il minimo accento. A dodici era in grado di risolvere problemi di matematica avanzata. A diciott’anni lo obbligarono ad anticipare l’esame di maturità per liberarsi di lui il prima possibile. E non esagero, usando il verbo ‘liberare’…
‘Uhm… il classico sapientone insopportabile, immagino…’
‘E immagini male… pensa ad un armadio di un metro e novanta, con spalle da rugbista ed un sorriso gentile, il tutto condito da un’incredibile timidezza ed un’innata simpatia. Ecco: quello era Marco Gualardi, mio cugino.’
Purtroppo, Marco aveva nelle vene il sangue dei Gualardi, ed il suo richiamo a volte è insopportabile.
‘E così, a 17 anni, Marco scagliò sulla famiglia il primo degli scandali … uno scandalo sessuale, per di più…’
‘Per di più?’
‘Se tuo padre si sta candidando alle politiche con il placet del vescovo e della curia, uno scandalo sessuale ad opera del figlio maggiore non è esattamente il miglior biglietto da visita…’
Donatella è incuriosita. Vi sembrerà strano, ma parlare di Marco mi lascia più indifferente di una statua: meglio raccontare gli affari suoi, che accennare a Stefano. Il cui ricordo è sempre una pugnalata al petto.
Molto meglio.
Donatella spegne la sua sigaretta, e mi abbraccia. Vuole che le racconti i dettagli. E sia, mia Sherazhade … per stasera invertiremo i ruoli e sarò io a tenerti sveglia con un lungo racconto.

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