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Era già da parecchio tempo che la osservavo, riflettendo e ponderando chi potesse essere quella leggiadra, graziosa e amabile ragazza, che di frequente in bicicletta e occasionalmente a piedi, si recava per raggiungere l’interno di quell’abitazione nobiliare, entrando dal retro del grande giardino poco distante dalla mia dimora, poco distante dal parco Massari di Ferrara con quel maestoso ed enorme cedro del Libano al suo interno, con le loro alte chiome arrivando a superare i venti metri d’altezza.

Quella piacente e garbata ragazza, aveva cominciato ad andare dentro quell’appartamento di quella signorile e gentilizia dimora nei pressi del parco, per trarre profitto ricavando qualche soldo, rimpiazzando una coabitante, o meglio sorvegliante di quella dimora, che per motivi di salute si era dovuta assentare per diverso tempo, subentrando per svolgere le mansioni domestiche in sostituzione della donna assente. Io la osservavo seduto di fuori accomodato a un tavolino del bar pasticceria Ariosto della via Palestro quando transitava in quei paraggi, perché quella ragazza m’aveva infiammato le membra aizzandomi e attraendomi come non mai, sicché decisi di tallonarla senza farmi notare troppo.

Avevo scoperto che lei si chiamava Simonetta, avendolo udito una tarda sera di giugno, allorquando transitavo con la mia bicicletta nelle vicinanze di quella casa gentilizia, intanto che una signora sull’uscio la chiamava per entrare. Nelle prime occasioni, lei non fece caso alla mia presenza né mi notò, mentre con il mazzo delle chiavi nelle mani, accedeva varcando a rilento l’uscio di quella dimora. Io ipotizzavo che lei eseguisse quanto le venisse demandato, adempiendo ed espletando quanto le era stato comunicato e s’allontanasse sprangando bene la porta. Lei, secondo me, soggiaceva al carisma riguardoso e all’influsso delicato di quella stanza nel sottotetto, perché alcune volte l’avevo vista affacciarsi, mentre alzavo lo sguardo dal lato opposto del viale, perché probabilmente quella era la sua camera privata.

Io, essendo lattoniere e stagnino d’una lunga discendenza, mestieri ormai già in disuso qua da noi, in quanto oggigiorno è difficile reperirli e nonostante siano richiesti, non c’è un adeguato ricambio. Sono invero attività antiche, oggi forse molto meno diffuse e conosciute che in passato, al punto che non riescono più a fungere da richiamo per la forza lavoro locale. Strano però a dirsi, perché mentre tutto attorno s’accavallano dati e polemiche sulla disoccupazione che sale, i giovani che restano a casa, l’industria e l’artigianato vivono una stagione tra le più difficili dal dopoguerra, eppure sono attività che nessuno vuole più fare.

Per buona sorte, o per via del risolutivo fato, oppure perché la provvidenza stavolta girava in mio favore non voltandomi le spalle, mi capitò la vicenda che giammai avrei confidato né sperato d’ottenere in vita mia. Il proprietario di quell’abitazione signorile, infatti, commissionò al mio principale incaricandolo che avrebbe dovuto effettuare dei lavori di ristrutturazione improrogabili attinenti alla sostituzione dei pluviali, delle scossaline e dei canali di gronda, perché la nostra ditta aveva i prodotti adatti per la posa in opera e in aggiunta a ciò, l’esperienza necessaria per soddisfare tutte le sue esigenze, essendo fatte con un’attenzione particolare rivolta sia alla qualità che all’estetica. Altresì, perché quella dimora, aveva dei problemi con il drenaggio dell’acqua piovana proveniente dai tetti, causando problemi come infiltrazioni e seri danni alle strutture. Io ebbi sennonché il via libera dal mio titolare, di svolgere quell’opera presso quella casa nobiliare, perché in tale maniera sarebbe stato per me più semplice, agevole e vantaggioso, poter conoscere Simonetta e in ultimo intrattenermi con lei.

Nel primo istante che entrai in quella nobiliare residenza, la prima cosa che mi colpì, furono i soggetti dei quadri appesi alle grandi pareti, che discordavano opponendosi con la sobrietà e con la frugalità delle ampie camere, perché erano sistematicamente per la stragrande maggioranza pitture e dipinti di ritratti femminili, in maggioranza nudi, che si potevano definire vivaci sia nel colore quanto nelle posture delle indossatrici.

Nel medesimo giorno, mentre allestivo il ponteggio esterno nel grande cortile, conobbi Simonetta appena rientrata con la sua bicicletta, io mi presentai riferendole che mi chiamavo Ennio. Dialogando e confabulando, facemmo all’istante amicizia. Nei giorni seguenti, approfondendo di più gli argomenti e sviscerando maggiormente nei ragionamenti, Simonetta mi riferì che spesso e volentieri, avendo lei stessa la totale libertà di girovagare per le stanze, si tratteneva sostando davanti a quei numerosi dipinti esposti, ma scrutandoli avvertiva dentro se stessa un bizzarro e un astruso disagio, nell’osservare un seno o un inguine così sfacciatamente presentato e immoderatamente offerto, come se fossero là esposti di proposito, esortando in modo spudorato e lascivo l’attenzione di chi li osservava. Quelle immagini un poco le turbavano l’indole, le impressionavano l’animo, per il fatto che lei scostava la concentrazione per rivolgerla altrove, esaminando altri quadri con delle donne raffigurate all’aperto, in un esteso giardino dall’aria alleggerita e spensierata con un’atmosfera dall’aspetto idilliaco e sognante.

Io tentavo, alla mia maniera, pur non essendo un grande intenditore d’arte di rincuorarla e d’incoraggiarla che le sarebbe passato, perché concludevo il mio il lavoro e dopo rientravo verso casa, anche se mi rimaneva indosso la trepidazione d’un ghiribizzo sconosciuto, d’un desiderio inconfessato per una trasgressione abbozzata e non terminata. Una mattina, mentre prendevo delle misure per la canalizzazione delle tubature di rame da un lato dell’abitazione, Simonetta mi fece cenno d’avvicinarmi perché aveva adocchiato un quadro che l’aveva stuzzicata sobillandola sennonché in maniera intensa e libidinosa: si trattava nientemeno del rifacimento del celebre quadro “L’origine del mondo” di Gustave Courbet, il ritratto dal vero della vagina più celebre della storia dell’arte, con la faccia d’una donna che prestò la sua intimità al maestro che lo dipinse in tutta la sua crudezza espressiva, raffigurante in primo piano i genitali d’una donna, lascivamente adagiata sopra un letto in tutta la sua esplicita e chiara nudità.

Io rimasi sbalordito e un poco eccitato per quella visione, anche perché era stata Simonetta a farmelo notare, senza che io le avessi chiesto nulla. Mentre osservavo quel dipinto le dissi d’avvicinarsi a me, riferendole che quel dipinto era d’una bellezza enorme e d’un fascino accattivante, lei annuì con lo sguardo, rimanendo però in leggera soggezione di fronte a quel quadro. Un tardo pomeriggio però qualcosa accadde, Simonetta era affaccendata nello sgrassare i verti delle finestre, quando io smisi di sgobbare per guardarla, scrutandola lussuriosamente con un’attenzione silenziosa che mi mandava il sangue in ebollizione scompaginandomi le membra. Simonetta in quell’occasione, compiaciuta e insperatamente attratta dal mio sguardo, si sfilò per la calura la camicetta facendomi intravedere i capezzoli nudi. Io l’osservai inebriato domandandole se avesse altro addosso e Simonetta, in maniera ubbidiente e remissiva stuzzicandomi oltremodo, fece scivolare le mutandine fino alle caviglie lasciandole cascare sul pavimento. In quell’istante scesi da dove mi trovavo e la raggiunsi. Simonetta era in subbuglio, fremeva, notavo che era affannata, inebriata dal fervore che l’attraversava. Irrazionalmente Simonetta arrossì, ma io le enunciai di stare così e di farsi guardare, perché per me era un vero portento, una meraviglia come poche. M’avvicinai e la baciai tirandola verso di me, mentre con le mani le palpeggiavo la pelle seguendo le tondeggianti forme delle chiappe affondando nella loro fenditura, infilandomi appresso sull’inguine e scoprendo con mia sbalorditiva ed emozionante sorpresa, che Simonetta aveva una fica pelosissima, folta e trasandata, precisamente come quella del quadro “L’origine del mondo” di Gustave Courbet. Io stavo sragionando, ero in pieno fermento.

In quell’istante le nostre lingue s’unirono saggiandosi e ispezionandosi, dopo io digradai e puntai verso i suoi irti e formosi capezzoli, iniziando a leccarglieli bramosamente. Simonetta era piuttosto eccitata, perché il suo fluido mi riempì le dita appena accennai a toccarle la fica, intanto che m’inabissavo delicatamente immergendomi e risalendo sul bottoncino del clitoride, per stimolarlo manualmente fino a farlo indurire. Simonetta cominciò a godere, io mi genuflessi di fronte a lei ispezionandole quella folta e spessa inebriante boscaglia. La tenevo sollevata mentre pigiavo la faccia contro la sua fica odorosa e impregnata, setacciando e approfondendo con la lingua, infilandomi fra le pieghe di quella umida cavità, assaporandomi quelle deliziose e succulente labbra madide di secrezioni.

Dopo pochi istanti, udii un prolungato gemito fuoriuscirle dalla bocca, là in quella congiuntura, compresi intuendo all’istante d’averle magistralmente procurato con grande perizia un qualcosa di magnifico e di spettacolare, che Simonetta non aveva mai provato né vissuto. Io mi sganciai da Simonetta tenendola in uno stato di fermento, d’eccitazione e di provocazione pressappoco insostenibile, aggredendole le tette e quel pelosissimo e focoso inguine, senza però mai attardarmi sul suo nucleo palpitante, che attendeva unicamente una pressione un po’ più veemente per prorompere, per dare in definitiva in piena escandescenza.

Il supplizio e la soddisfazione, erano adesso incrementati dal turbamento e dalla verecondia d’essere mostrata, d’essere impiegata come un manufatto da indagare e da sviscerare, d’essere in pieno potere del mio pervertito estro e della mia viziosa inventiva, nel ruolo di maschio, dove volevo adesso afferrare e incollare il piacere, giustappunto un attimo prima che si scatenasse. Simonetta aveva il corpo accaldato, poiché quel velo luccicante di sudore ricopriva la sua chiara epidermide, i suoi occhi mi guardavano in modo avido e assetato, mentre io mi scatenavo oltremodo sondando quella calorosa femmina. Simonetta era sobillata al massimo, con un’espressione lussuriosa m’intimò di scoparla, allorquando con il cazzo eretto le pigiai le chiappe per sondarle le carni.

Io l’accontentai all’istante, mi collocai al meglio e le conficcai il cazzo nelle fica nella postura della pecorina, appoggiandomi sopra i suoi fianchi per imprimere meglio gli affondi. Ben presto lacerai affliggendo la quiete di quella canicolare e accogliente deliziosa grotta, introducendomi là dentro e padroneggiando globalmente quel territorio, dominando e vessando quelle appassionate e vogliose pareti, scivolando con un lussurioso andirivieni, scoprendo di tanto in tanto il netto fulgore e il distinto luccichio del mio cazzo rigonfio.

Il resto doveva ancora sopraggiungere, perché Simonetta aveva per me in serbo una gradita sorpresa. Voleva sperimentare che la scopassi come aveva per lungo tempo adocchiato, come raffigurato nel quadro “L’origine del mondo” di Gustave Courbet, che l’aveva fatta entusiasmare e infervorare più di tutti. Lei s’adagio comoda su d’una grande ottomana, mentre io gl’introducevo il cazzo facendolo sdrucciolare in quella foltissima e spessa boscaglia, strappandole poderosi e fervidi gemiti ogni volta che pigiavo, inabissandomi più a fondo e sprofondando dentro quel grandissimo paradiso, all’interno di quell’incantevole e magica vallata.

Le nostre mani fremevano, Simonetta si dimenava contorcendosi con più veemenza, mentre io proseguivo a invadere profanando quel lussurioso e celato forziere, fino a quando Simonetta si perse dentro un oceano d’indicibili sensazioni e d’inesprimibili turbamenti, intanto che io seguitavo a scoparla violando la sua focosa e torrida fica.

In un baleno avvertii i suoi poderosi e travolgenti spasmi di massima goduria, percepii che lei stava venendo, perché mi resi conto che comprimeva il cazzo con decisione, avvolgendomelo con le pareti della sua fica, strepitando un piacere indisciplinato, primitivo e forestiero, così come lo sbraito gigantesco e vigoroso che proruppe dalla sua bocca.

La parte finale spettò a me, perché non ci misi molto a farcirla con il mio denso e lattescente nettare vitale, perché percepii fluire dalla parte bassa dei testicoli tutto il liquido che avevo accumulato, gradualmente spandersi e velocemente convogliarsi, per poi in ultimo sfociare defluendo come un flutto travolgente, imbottendola e inzaccherandola in definitiva con la mia abbondante sborrata, mentre i getti dello sperma finivano sulla sua villosissima fica, adagiandosi dissolutamente e libidinosamente a vanvera qua e là.

{Idraulico anno 1999} 

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