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Il personaggio di Diodata, la serva di mastro Don Gesualdo, celebre novella del Verga, e il linguaggio dei racconti di Camilleri, a me familiare fin dall’infanzia, mi hanno spinto a narrare la storia (di fantasia) di una serva di una Sicilia lontana. Trovate il resto del racconto sul mio blog. Buona lettura.

Lu suli, como ogni jorno, chianu chianu si sta andando a curcare, e iu, comu fazzu sempre quannu arriva la sira, mi vaiu a assittare davanti a la porta, acciancu a la sua seggia, la seggia di Mimì.
Guardo in silenzio la palla di foco che si assuttigghia lontano tra li arvuli di alivo e accumenzu a pinsari.
La me vita da quando se ne è andato in Palermo non è cangiata molto: c’è la casa da puliziari e rassittari, li gaddini a cui dare a manciari, le ova da vendere a mastro Petru, le vacche da mungere e pascere, il latte da vendere e poi ancora controllare che lu mezzadro e li so omini facciano il loro doviri nei campi.
Durante lu jorno ho poco tempo per pinsari. Quannu c’era Mimì non avevo tempo di pinsari manco la sira: assittata in terra, accianco a iddu, mi facivo accarizzari la testa. Li so manu mi sbacantavano la testa di ogni cosa. Arristavamo accussì, fermi a guardare il tramonto, in silenzio, finché Mimì aveva gana. Poi si susìa e con un gesto della mano mi faciva capiri come sarebbe finuta la sira. C’erano notti che era sereno, senza pinzeri o molto stancu. Si andava a corcare solo nel letto e pigghiava sonnu appena poiava la testa sul cuscino. Poi c’erano notti che inveci li pinzeri e li preoccupazioni non gli avrebbero fatto per chiuriri occhio…e allora la me compagnia nel suo letto era indispinsabili. Chissà comu fa Mimì a dormiri senza di mia. Ci pensu e nun trovo risposta, picchì Mimì ha vivuto sempri ccà, ‘nta sta casa. E iu sono stata sempri parte de la so casa i di la so vita.

Nata due anni prima di Mimì, da sempre sugnu parte del corredo di sta casa, uguale a una delle tante vestie che ci vivono, come le vacche, le addrine, lu cane o come un piatto o una pignata. Sono una serva e da sempre ho il dovere di travagghiari e di compiaciri i miei padroni. Non è una cosa molto difficile da fare, ti ci abitui man mano che crisci, imparanno a non sbajari a suon di lignate o rimanendo senza manciari per più giorni. Serva figlia di serva, anche lei nata e cresciuta in questa casa, anche lei corredo della casa. Non so chi sia mio padre, mia madre non me l’ha mai voluto dire. Alcuni degli omini che travagghiano i campi un giorno mi dissero che sono un capriccio di Don Mario, il padre di Mimì, che dedicava a mia madre attenzioni particolari in un periodo in cui non andava molto d’accordo con la moglie, Donna Susanna, la matri di Mimì. Crederci o non crederci non mi cangiava la vita, non avendo prove l’unica cosa che rischiavo andando reclamare qualcosa a Don Mario era quella di essere assicutata. Ho preferito accettare la condizioni che ho, approfittando dei vantaggi. Primo è aviri di manciari a pranzu e cena. Il secondo quello di poter vivere accianco a Mimì essendo coetanea. Quanno ero nica la famigghia di Mimì mi considerava come un giocattolo per il figlio; il mio travagghio era jocari con lui, avere sempre torto se ci azzuffavamo, fare e jocare a quello che voleva il signorino. Mimì era buono con me, ero sì il suo giocattolo ma non mi maltrattava. Passavamo tanto tempo insieme, spesso ci annavamo a nascondere nel pagghiaro e jucavamo a marito e mugghieri, a padrone e serva e, a volte, a frate e soro. Quest’ultimo era un joco che ci avevano proibito dopo che Donna Susanna ci aveva visti e sentiti. La cosa non le era piaciuta per niente, tanto che aveva accomenzato a gridare come una foddre, più forte di quella volta che avevamo iniziato a costruire un castello con la merda delle vacche o quando nel pollaio avevamo iniziato a impiccare le addrine.

Passato il periodo del jocu di picciriddri ci allontanammo un po’. Mimì iniziò ad annare alla scola e io a fare alcuni travagghi come pelare le verdure, puliziari la casa e dare da manciari agli animali.
Anche se la scola e li compiti lo impignavano tanto, io e Mimì truvavamo un poco di tempu per stare nziemi, ci annavamo a ammucciarci nel pagliaro e iniziavamo a cuntarci le cose. Io gli dicevo la mia jurnata, quasi sempre uguale a quella del jornu prima. Lui mi spiegava che era la scola, degli amici che si era fatto dentro questa scola e delle cose che gli nzignavano ogni volta che ci andava. Li so racconti erano sempre accussì beddri che io arristavo a sentirlo perdendo la nozioni del tempo. Andava sempre a finire che Donna Susanna o me matri mi venivano a pigliare di peso per darmi lignate perché mi toccava di fari questo o quel travagghio. Ma io al tempo passato con Mimì non ci volevo rinunziare anche al costo di essere presa a vastunate ogni giorno.

Un giorno Donna Susanna, venuta a cercarmi per darmi vastunate, si fermò davanti al pagghiaro in silenzio e si mise a ascoltari quello che Mimì con tanta enfasi mi stava contanno. Era la storia delle guerre che un certo Napoleone aveva fatto in mezzo munno. La signora, dopo aver ascoltato un poco, nveci di pigghiarmi per un vrazzo e trascinarmi fora dal pagghiaro se ne tornò in casa così como era venuta. Qualchi tempo dopu si era arricampata me matri anche lei senza fari vuci e senza pigghiarimi a timpulate. Ci venne a dire di tornare a casa. Non capii il pirchì di sto cangio di Donna Susanna e di mia madre fino a quanno fu ora di coricarci. Inchiuse nello stanzino dove ci corchiamo, quella sera mia madre mi cuntò che Donna Susanna era rimasta affatata di quello che aveva sentito nel pagghiaro: Mimì che mi cuntava la lizione che il maestro gli aveva spiegato qualchi jorno avanti. Lo aveva fatto con tanta esaltazioni che la signora era corsa a contarlo a Don Mario. Inzieme avevano deciso di non farmi fare i travagghi che mi attoccavano dopo la cena a patto che io e Mimì ce ne annassimo nel pagghiaro a parlare di cose di scola.

Una sira d’estate, una degli ultimi jorni di scola, Mimì fece un raggionamento che mi lassò a bocca aperta. Mi disse che quanno avrebbe preso in casa il posto di Don Mario mi avrebbe nzignato a leggiri, scriviri e fare di conto. Secunno Mimì c’era bisogno di persone fidate che controllassero gli affari della casa e nulla di più fidato poteva essere che una serva come me. Quel complimento mi fece arrussicare. Non fu l’unica cosa che mi lassò senza ciato quella sera. Dopo avermi detto quelle cose Mimì si avvicinò a me e mi diede un bacio sulla vucca.

Malgrado la scola fosse finita Donna Susanna decise di continuare a lasciarci andare nel pagghiaro dopo cena. Mimì tornò a vasarmi sulla vucca, iniziando a contarmi che uno dei suoi compagni, Fofò, l’aveva fatto con sua sorella maggiore, o meglio che sua sorella maggiore, pigghiannulu di lati aveva fatto a lui. Iniziò il periodo in cui durante il jorno Mimì andava a trovare a Fofò con la scusa di jocare con lui e si faceva contare altre cose e poi la sera nel pagghiaro mi veniva a contare le cose nove che Fofò faceva con sua sorella. Senza che ci fosse bisogno di chiedercelo, iniziammo a fare le stesse cose, all’inizio più per curiosità. Capimmo quasi subito perché la sorella di Fofò fosse così interessata a fare ste cose: da li vasi sulla vucca passammo presto a quelli sul resto del corpo: la schiena, li spaddri, lu coddru, la panza e…in mezzu a le cosce.

Quando Mimì mi vasava le minne sospiravo molto più forte di quando lo facevo io a lui. Per un periodo pinzai di non essere abbastanza brava ma i dubbi mi passarono quando iniziammo a concentrare li vasi uno tra le cosce dell’altro. Li suspiri addivintavano vuci e alla fine arristavamo tutti e due senza ciato. Con il passare del tempo cambiarono i nostri corpi ma non le cose che facevamo nel pagghiaro: a me cominciarono a crescere le minne e a lui la minchia. Quanno era ora di vuciare più forte, il sapore della sua minchia cangiava di colpo, un sapore che mi piaceva sentire nella vucca e che diventava sempre più sapurito. Un giorno glielo dissi e lui lo volle provare. Gli diedi nu vasu nella vucca cercando di passargli con la lingua il sapore che stavo sentendo. Finimmo per jucare a quel gioco novo che nessuno ci aveva contato, dove la sua lingua si stricava contro la mia. Il jorno dopo fu Mimì questa volta a contare a Fofó quello che gli era capitato. A quanto pare anche Fofò sapeva già la storia del sapore strano anche se lui ancora non lo aveva: era una cosa bianca che si chiamava sburra e che usciva dalla minchia quando si arriva al massimo del piaciri. Sentire quel sapore nella vucca stava a significare che ero stata brava.

Una sira che facemmo più tardi del solito mia madre ci venne a cercare nel pagghiaro. Videnno quello che stavamo facendo avrebbi potuto fari voci e fari succediri un finimunno: le cose di scola non c’entravano niente. Inveci si arrassò un poco dal pagghiaro e fece un poco di scruscio per farci capire che era ora di finirla. Quella sira uscimmo a razzo dal pagghiaro sicuri che quella sira qualche cosa sarebbe successa. E così fu. All’ora di corcarmi mia madre mi guardò dritto negli occhi dicendomi che aveva visto quello che avevamo fatto. Non aveva fatto vuci, ci aveva protetti, soprattutto aveva protetto me che come serva potevo ottenere solo lignate e punizioni da quella situazione. Mi chiese di contarle tutto promettendomi di non dire niente a Donna Susanna e a Don Mario. Gli contai di Fofò, della sorella, degli esperimenti, della sburra e tutto. Lei rimase impassibile tutto il tempo: non sembrava arrabbiata ma solo prioccupata…

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