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Racconti Erotici Etero

Telefonata, inaspettatamente

By 18 Settembre 2010Dicembre 16th, 2019No Comments

UNO

Mia moglie non c’era, era via.

Al mare, con i bambini. Avevo deciso di fermarmi in città, a lavorare. Il nostro appartamento vuoto mi gettava in uno stato d’animo singolare, strano, che credo di poter definire piacevole. Mi sembrava di rivivere sensazioni appartenute al passato, trascorse, e, adesso, nuove, ancora una volta. E tornavo indietro, a quando studiavo come ricercatore all’ Università. A quando ero solo, e l’unica cosa che potevo permettermi era un appartamento di due stanze che aprivano su un balcone assolato, disposte, stranamente, alle estremità di un lungo corridoio. L’avevo lasciato non arredato, l’appartamento, tolti una specie di branda-letto, un tavolo di legno scuro piuttosto grosso, un fornelletto elettrico poggiato accanto al rubinetto, sul ripiano del lavabo e una cassapanca. Per il resto, a terra, rasente i muri, montagnole di libri, fogli, appunti, quotidiani. L’impressione di cui quel posto mi faceva fare esperienza era quella della vastità: dell’ampiezza, sconfinata, di uno spazio infinito. Vuoto. Pieno soltanto di luce. Sublimemente trasandato, minuziosamente sciatto, organizzatamente caotico, meditatamente invivibile. Sentivo quanto mi appartenesse, come potesse rappresentarmi. Mi caratterizzava, mi connotava. Mi rendeva, a me stesso, la mia immagine. Ci vivevo con Rodrigo, un rottweiler, allora cucciolo, che è poi arrivato a pesare quasi sessanta chili. Ci pensavo, ci scrivevo, ci ascoltavo musica, ci suonavo. Ci scopavo, e, qualche volta, riuscivo a farci anche all’amore. Ci stavo, insomma. La casa dove vivo adesso, con la famiglia, pare essere la realizzazione tangibile delle manie estetico-esistenziali di mia moglie, nonché della sua capricciosità inverosimile, incommensurabile, infinita. Mi innamorai, credo, di come fosse in grado di tradurre, immediatamente, le sue idiosincrasie in esigenze di ordine esteriore, in un’ideale di bello veicolato da riviste di arredo e di moda, velleità dell’apparire. Mi innamorai, insomma, di quello che me la rende odiosa e lo feci proprio per questo, perché è quello che, in lei, detesto. Penso questo, quando ci penso. Poi penso anche che è insensato, inverosimile, illogico. Ma è così, mi sento sicuro di non essere nel torto. Mi innamorai di lei perché mi era insopportabile. Mi innamorai di lei perché rappresentava quanto mi vantavo di essere riuscito a non essere, e che aborrivo. La volli perché mi sentivo superiore a lei, moralmente e intellettualmente. Cedetti, lasciandomi affascinare da lei, a un perverso bisogno di non soccombere all’angoscia di essere non all’altezza di niente, innato in me, e che mi angustiava da quando ero bambino. Non bisogna intendere, con questo, che non fossi sinceramente e autenticamente preso da lei. Anzi. Credevo di impazzire dal desiderio di averla, di entrarle dentro, sotto la pelle. Di possederla, mentalmente anche più che fisicamente soltanto.

Scopavamo brutalmente, con foga. Senza amore, in realtà. Di questo, però, allora ancora non mi rendevo conto. La prendevo così, dove capitava. Appoggiata al davanzale della finestra, sul ripiano in marmo della cucina, per terra. Sulle sedie. Capitava spesso che la piegassi la schiena sul tavolo del mio studio e la prendessi così, da dietro, in fica e nell’ano. Mi eccitava farlo all’improvviso, magari fingendo di strapparle i vestiti di dosso. Le piaceva, erano le nostre fantasie erotiche.

Mi piaceva sentirla schiava, e lei godeva nel sentirsi violare.

Quando la conobbi aveva, su di me, un potere di fascinazione incredibile. Lei no, non era particolarmente presa, c’è stata perché le è capitato. Non mi ha mai non dico amato, che è cosa grossa, ma no, niente: neanche voluto, in qualche modo desiderato veramente. Mi ha preso perché ha intuito che le avrei dato tutto, tutto quello che mi avrebbe chiesto, incondizionatamente. Tutto, le avrei concesso: tutto, per farmi amare. Eh, già. Mi sentivo migliore di lei, e non è detto che non lo fossi veramente. Ma mi ero sbagliato, mi ero sbagliato di grosso: la sua inferiorità mi rendeva succube, inerme. Avrei voluto che se ne fosse resa conto, e che per questo mi adorasse, mi venerasse. E mi fosse grata per questa venerazione concessa. Non fu così, mi lasciai consumare dall’esigenza, esigenza sfrenata, che questo accadesse: le divenni succube. La corteggiai, mi ridussi a vivere in funzione di lei, mi lasciai dominare. E fui io, alla resa dei conti, ad adorarla. La nostra casa, casa che io avevo pagato e lei messo in piedi, era la sua casa. Non c’era niente, lì dentro, che mi appartenesse. Non mi piaceva, no, la nostra casa ‘sua’. Questi i pensieri che mi assalivano quell’estate, quando mi ci ritrovai solo. Presi quella vacanza come un momento di respiro. Non ci sopportavamo, stare insieme era, reciprocamente, un farci violenza. Non che fosse stato mai altro da questo, ma si capiva che era peggio, adesso. Avevo rinunciato a farmi volere da lei, a che mi fosse moglie veramente. E avevo smesso di correrle dietro, correrle dietro a ogni costo. Questo feriva il suo narcisismo e la sua mania di grandezza. Fa sempre male, si sa, quando ci si rende conto di non poter essere veramente al centro del mondo, in generale come di nessuno. Significa crescere, e lei era una bambina. Una bambina stronza.

DUE ‘ prima telefonata

Insomma ero solo, da qualche giorno, in questo cazzo di casa.

Sera, una sera di fine luglio. Caldo, umidità, stanchezza. Allungato su una poltroncina spostata accanto l’ingresso sul balcone, piedi sbattuti su una sedia, lavoravo a una mia pubblicazione che sarebbe stata prossima. Improvviso, perentorio, lo squillo del telefono. Cercai di trascinarmi, indolentemente, di malavoglia. Arrivai al ricevitore, sbraitando. Avevamo un fisso soltanto, mio figlio più piccolo era riuscito a mettere fuori uso anche l’ultimo wireless comprato.

‘Pronto’, feci. Niente, silenzio. Un respiro, lievemente precipitoso, come in preda a un’ansia appena accennata, si intuiva a stento. ‘Pronto’, dissi ancora.

‘Professore? Professore, sei tu?’ dal telefono mi pervenne una voce giovane, di donna.

‘Sì, sono Micale, il professor Micale. Ma lei…’ ero perplesso, praticamente certo di non capire di chi potesse trattarsi. Stavo per chiedere qualcosa, magari una studentessa di cui non avevo ricordo, quando: ‘Sei sull’elenco, sull’elenco telefonico. Faccio i numeri a caso. Cioè, non proprio a caso. Leggo i nomi, e cerco di immaginare le fisionomie, i volti… I caratteri, la vita che questa gente fa. Poi chiamo, chiamo per sentire la voce. Per capire se era come avevo pensato che fosse, per vedere se ci avevo preso’. Mi sentivo confuso, perplesso. Mi sentivo strano, perché tutto questo era assurdo, eppure… Eppure ci sentivo un che di affascinante, dentro. Ci sentivo un’intelligenza, un perché che mi sfuggiva. Avevo voglia che continuasse a parlare, avevo voglia di quella voce anonima. ‘Non c’è nessuno, in casa, i miei sono fuori… Mi sentivo sola. Vorrei stare un po’ con te, al telefono. Vuoi?’. Cazzo, se volevo. Volevo, neanche sapevo perché. Capivo che non volevo che attaccasse, la chiamata era anonima: avevo avuto paura, d’un tratto, di poterne perdere le tracce irrimediabilmente. Non volevo perderla, non prima di aver capito chi fosse, perché fosse come fosse, cosa volesse da me: anzi, cosa volesse darmi. Cosa potesse darmi, e perché. Mi sentivo trasportato verso di lei, affascinato, attratto. Erano sensazioni nitide, nitide e semplici. Forti, erano sensazioni forti. Mi lasciavano basito, inerme, senza che riuscissi a capire…

‘Sì, sì… Certo. Tu vai a scuola, che fai?’ Riuscii a dire.

‘Sì. Cioè no, non più’.

‘Come mai, hai smesso?’. La sua voce era matura, da donna, ma con un che di infantile, acerbo ancora… La sentii ridere, dall’altro capo del telefono. ‘No, no… studio in università’.

‘Quanti anni hai?’.

‘Diciotto appena, sono entrata a scuola un anno in anticipo, con la primina… Dalle suore’.

Poi rise, ancora. ‘Perché? Perché ridi?’ avrei voluto che quella risata avesse potuto non cessare mai… ‘ Sai, le suore… Suore un corno, sono zoccole. Zoccole nell’animo’. Disse, furbetta. Divertita.

Mi stava intrigando, non riuscivo a non lasciarmi coinvolgere… ‘Eh, cosa?’ replicai così, a caso, non sapendo che dire. ‘Mmm… Come cosa? Zoccole, le suore sono zoccole, è semplice! Vivevo con loro, in collegio. Ti spiego, mia madre suona, è sempre via. Mio padre le fa tipo da manager… Insomma, non ci sono mai. Sono cresciuta con le suore, le conosco bene… Sapessi tra loro, che tresche!’. Veniva da ridere a me, adesso. ‘Ridi tu, ora? Che c’è, non mi credi?’, finse di essere lì lì per offendersi. ‘No, certo, ti credo… E’ che pensavo alle suore, tutto qui’.

‘Già già, mmm… Dimmi a cosa pensavi, a cosa pensavi veramente’. Era capricciosa come solo un’adolescente quasi donna sa essere, meravigliosa. Avevo quarant’anni, allora: mi faceva sentire emozionato, vulnerabile, vulnerabile come un ragazzo. Mi sarei innamorato, credo, se l’avessi avuta davanti. ‘Pensavo a come lo sai’, la buttai lì.

‘A come so cosa?’, giocava il gioco della titubanza studiata.

‘Questa delle suore, che sono…’, ‘Zoccole!’, soggiunse.

‘Ecco, sì. Come lo sai? Vi molestavano?’ chiesi.

‘Ma no, certo, come sei sciocco! Andavamo a spiarle di nascosto, di notte.

Non tutte, si capisce, c’erano delle coppie fisse.

Si incontravano nella cella ora dell’una, ora dell’altra… E facevano all’amore, ecco’.

‘Ti piaceva spiarle?’, ormai rispondevo senza pensare, ero preso… C’ero dentro.

‘Oh, si capisce, sì! Avrò avuto dieci, undici anni, ma capivo cosa significasse sentirsi eccitati. Mi piaceva toccarmi, già. Poi, verso i sedici anni, quando avrei voluto avere la mia prima esperienza con un uomo, mi masturbavo pensando ancora a quello che le avevo viste farsi reciprocamente’.

‘Quanti anni avevi quando sei stata sverginata?’, forse fui brutale.

‘Diciotto, è stato non molto tempo fa. Un mese’.

‘Ah… Ti chiedo scusa, comunque, forse sono troppo diretto’.

‘No, mi piace. Mi piace che parliamo di sesso. Mi piace che chiedi. Non ti ho detto la verità, prima…’, assunse un tono colpevole, vagamente…

‘Mi hai mentito? Perché?’, mi vergognavo di sentirmi preoccupato, in ansia.

‘Non ti ho telefonato per farmi tenere compagnia… Io, io… Ecco, chiamo per fare sesso al telefono.

Mi sentivo eccitato, ormai chiaramente. Seppi dare un nome, finalmente, alla complessa natura delle sensazioni che mi stavano cullando, esaltando, da quando avevo sentito la sua voce, mezz’ora prima. E, finalmente, mi accorsi del mio pene: teso. ‘Ah, e… Come si fa?’ chiesi, senza neanche rendermene conto. ‘Non hai mai fatto sesso al telefono?’, ogni impressione di colpevolezza era scomparsa dalla sua voce. ‘No, mai…’, mi trovai a confessare.

‘Ah, va bene. Tu ascoltami…’, era compiaciuta. Compiaciuta di potermi insegnare qualcosa.

‘Ti ho detto che, quando ero ancora vergine e avevo voglia di sesso, mi masturbavo ripensando a quello che facevano le suore, in collegio. Mi toccavo il clitoride e poi scendevo, piano, massaggiavo le labbra. Movimenti circolari, lenti, anche se intensi. E, con la mente, tornavo a quelle cose intraviste nell’oscurità della notte, seduta sul ramo di una quercia, spiando attraverso i vetri angusti della finestrina di una cella di convento.

Si spogliava prima una, quella più giovane, completamente. Andava vicino all’altra, le si metteva dietro, col mento poggiato sulla spalla. Poi, lentamente, cominciava a passarle il dorso della mano sui seni, senza fare pressione. Li massaggiava entrambi, cercando di eccitare i capezzoli, di farli indurire… Poi si capiva che li stringeva, si capiva che li stringeva tra indice e medio, anche se di mezzo c’era il tessuto della veste monacale. Poi scendeva, ne afferrava i lembi, la scopriva dal basso, tirandoglielo sotto il mento. La sua mano cingeva, a coppa, il pube. Apriva e chiudeva, apriva e chiudeva, apriva e chiudeva… Le dita si infilavano, poi, sotto la mutanda, e le vedevo frugare, muoversi… E finalmente la denudava, la denudava completamente. Tornava a massaggiarle i capezzoli, stuzzicandoglieli. Mentre, con l’altra mano, le faceva divaricare le cosce e andava, direttamente, con le cinque dita a cuneo, a infilarsi nello spacco delle grandi labbra della sua vagina. E spingeva, spingeva, spingeva… Mimando, da dietro, il ritmo di un’inculata passionale e frenetica. Poi le si accovacciava tra le gambe e le lappava, ancora da dietro, la fica, finché non la si sentiva godere. Poi, esausta per l’orgasmo, si stendeva a terra, sulla schiena. E, quella che le aveva dato piacere, le dava a succhiare gli umori umidi dell’eccitazione, mettendosele a sedere sul volto. Godeva così, a forza di botte di lingua… Finché, credo, non finisse col pisciarle in faccia, anche.

E anch’io, all’apice del ricordare quei momenti di intensità al culmine, facevo in modo che le mie dita, ben dentro di me, mi dessero piacere’.

Mi stavo toccando. Ero eccitatissimo, sentivo il cazzo teso al massimo. Pulsante, duro. Ma non avevo fretta, no. Non avevo urgenza. Volevo godere di questa necessità di godere che avevo, volevo che arrivasse al culmine. Volevo impazzire dal desiderio. Mi massaggiavo col palmo di una mano, aperta, stringendo di tanto in tanto anche i coglioni. Colavo, avevo bagnati i pantaloni che non avevo ancora tolto. Era il mio primo tradimento, se così si può dire. Non avevo mai provato desiderio per un’altra, né con un’altra ero mai stato. Continuavo a volere mia moglie, anche se i nostri rapporti sessuali avevano cessato di esistere dopo la nascita dell’ultimo figlio, definitivamente. Erano sei anni almeno che non scopavo, quando quella ragazza mi telefonò. Ansimavo, non riuscivo a parlare.

‘Ti stai toccando?’, chiese.

‘Sì’.

‘Raccontami’.

‘Cosa?’.

‘Raccontami il tuo cazzo’.

Tacqui, un secondo.

‘Sì, raccontami il tuo cazzo’, ingiunse, ‘voglio sapere come ce l’hai. Guardalo, descrivilo. Toccalo, dimmi cosa senti, anche con le dita’.

‘Non ho tolto i pantaloni, aspetta…’.

‘Non li hai tolti?’.

‘No’.

‘Ti sto eccitando?’.

‘Potrei venirmi nelle mutande…’.

‘Togliti tutto, voglio che resti nudo. Completamente, capito?’.

‘Sì’.

‘Raccontami il tuo cazzo. Guardalo soltanto, senza toccarlo. Guarda e dimmi’.

‘Sono in piedi, nell’ingresso. Nudo, completamente nudo, con la mano con cui mi sono masturbato fin’ora abbandonata lungo un fianco e il ricevitore nell’altra. Ho le gambe schiuse, leggermente. Mi sento i coglioni gonfi. Sono pesanti, ingrossati. L’erezione folle del cazzo li spinge verso l’alto, li tiene su. Sembrano un’unica, enorme palla color carne scuro. La cappella è fuori, di un colore rossastro che tende al violaceo, completamente scoperta. La pelle del prepuzio sembra scomparsa, si è ritirata lungo l’asta. Dalla base alla punta il mio cazzo non è lungo, saranno dieci centimetri, più o meno… Ma è tozzo, ampio di diametro. Mia moglie diceva che le piaceva come si sentiva allargare la fica. Cola sperma, adesso’.

Rispose solo dopo qualche secondo: ‘Toccati, adesso. Raccontami le sensazioni che hai, masturbandoti…’. ‘Come vorresti che mi toccassi?’, avevo una voglia matta che fosse lei, almeno con le intenzioni e con le parole, a farmi godere.

‘Sfiorati la cappella con la punta di un dito, lentamente… Fai un movimento circolare, massaggiala. Poi scendi, sempre con un dito soltanto, scendi giù, fino ai coglioni… Poi risali. Su e giù, più di una volta… Prendi la pallotta che hai, stringila, strizzala un po’…’.

‘Sì, lo faccio… Lo sto facendo’, stavo impazzendo dal godimento.

‘Ne godi?’.

‘Sì’.

‘Impugnalo, adesso. Masturbati. Fermati, di tanto in tanto, strizzati un po’ la cappella, stringendola alla base del prepuzio… Vorrei che mi venissi tra le labbra della fica, aperte’.

‘Ah…’ non riuscii a trattenermi, mi sfuggì un gemito.

‘Cosa?’.

‘Dimmi di te’, le chiesi.

‘Ti sto parlando in viva voce. Distesa sul letto, di schiena. Gambe divaricate, al massimo, ginocchia piegate, in direzione delle spalle… Raccontami cosa mi faresti, adesso’.

‘Ti prenderei le piccole labbra, le aprirei al massimo… Ne leccherei la forma, poi dentro, con la lingua, fino a penetrarti. Vorrei sentire il rumore della fica bagnata fradicia che sbatte contro le mie labbra. Poi ti farei girare, sempre distesa, ma sulla pancia… Ti aprirei le gambe, ti allargherei le natiche… Ti leccherei il buco del culo, mi divertirei a titillarlo, con la lingua e con le dita. E poi ti slinguerei, da sopra in sotto, fino a leccarti ancora la fica. E poi l’inverso, dalla fica all’ano… Su e giù, su e giù. Ci potrei stare ore, cazzo, senza fermarmi mai’.

‘E poi?’.

‘Poi ti prenderei, da dietro. Te lo sbatterei in fica, tutto in una volta. Vorrei sentire come ti allarghi… Poi dentro e fuori, dentro e fuori, dentro fuori… Piano, ma con forza.

Ti verrei tra le labbra aperte, come vuoi tu’.

Si stava toccando, lei, intanto. Un dito premeva il clitoride, lo carezzava, disegnando un cerchio. Le dita dentro, fino in fondo alla fica, spingevano. Così disse.

Credo che venimmo insieme.

TRE ‘ mia moglie torna, breve incursione

Qualche giorno dopo, inaspettatamente, tornò mia moglie.

Venne sola, senza bambini. Pare che sua madre li avesse raggiunti al mare e lei ne avesse approfittato per venire a prendere biancheria pulita, fare il bucato per mettere a posto quella che aveva portato indietro e, in buona sostanza, starsene un po’ senza figli, in pace. Non era una cattiva madre, ma avere la responsabilità della maternità le costava molto. Il nostro matrimonio era stato un errore, le nostre scelte di vita un disastro. Eravamo infelici, tutti, purtroppo anche i bambini, che intuiscono sempre molto, molto più di quanto non siano in grado di comprendere. Stavo scrivendo, quando la sentii entrare. Mi sembrava di essere tornato ragazzo, in quei giorni di solitudine nella nostra casa vuota. Stavo, come ero stato solito, nudo. Nudo mentre lavoravo, nudo mentre mi preparavo da mangiare, giocavo col cane o fumavo. Quella telefonata me ne aveva risvegliato la voglia, mi sentivo libero. Libero di essere, dopo tanto tempo. Dicevo, la sentii girare la chiave nella serratura… Feci un balzo dal mio tavolo, nello studio, per cercare di arrivare in camera a mettermi qualcosa addosso, ma non ci riuscii. La vidi comparire, fulmineamente, sulla soglia della mia stanza da lavoro. La vidi fissarmi prima attonita, poi più intensamente: uno sguardo strano le attraversò l’espressione e un sorrisetto le fece increspare il labbro superiore. Era un sorriso che significava malizia, e voglia. Indicò il cazzo, sussurrando appena, ma con tono di sfida, forse un po’ derisorio: ‘E quello?’. Abbassai gli occhi, era scosso da sussulti appena accennati, ma sempre più intensi. Stava venendo su duro, stava crescendo. Ci capimmo immediatamente. Avevamo voglia di giocare a scopare. Avevo voglia di prenderla, di sbatterla con foga, quasi violentemente. Aveva voglia di farsi prendere, di farsi prendere come una cagna. Mi avvicinai a lei, le abbassai la gonna, strappandola. Le feci pressione sulle spalle, facendola scivolare, col volto, fino all’altezza del cazzo ormai completamente in tensione: le aprii la bocca con la forza delle dita, glielo ficcai dentro tutto. Spinsi, fino a sentirla scossa da conati di vomito. La scopai così, per qualche minuto. Poi lo tirai fuori, la feci metter in ginocchio, le divaricai le cosce e la penetrai tutto d’un colpo, brutalmente. Mi piaceva la sensazione della sua fica stretta che si allargava sotto la pressione delle mie spinte e, contemporaneamente, si bagnava inverosimilmente sull’onda di un’eccitazione estatica che cresceva fino al parossismo. Mentre la scopavo così le cercai i seni, liberandoli dal tessuto leggero della camicia da mare. Mi piacque torturarle di piacere i capezzoli , facendoli inturgidire, facendoli diventare grossi. Le venni sul buco del culo.

Fu la prima scopata dopo sei anni e qualche mese.

Avrebbe potuto rappresentare, per noi, un nuovo inizio.

Ma sapevamo, e lo sapevamo entrambi, che quello che era successo sanciva la fine di quel poco che, tra di noi, ancora restava. La fine della nostra dignità di coppia.

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