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Ubbidire è l’unica cosa che conti…

By 14 Gennaio 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

il campanello suona in una maniera che sembra strillare, in una maniera diversa dal solito. un urlo che riempie la stanza e mi fa sobbalzare. vado ad aprire, alzo la cornetta, non chiedo nulla, schiaccio il pulsante d’apertura e vedo la mano tremare leggermente. “stupida” mi dico, sorrido, sento il clang del portone che si è chiuso. devo muovermi.
cammino sulle punte dei piedi sentendo il pavimento freddo sotto le dita tese, gli ultimi passi li faccio quasi correndo. indosso le scarpe e prendo la sciarpa di seta nera, l’avevo già piegata, era tutto pronto già da tempo. la poso davanti agli occhi, faccio il nodo, sulla tempia e non sulla nuca. stringo.
buio.
devo solo aspettare, poco spero. ansimo. smetti di ansimare. ho le guance rosse. smettila di avere le guance rosse. stringo i muscole delle gambe. sono eccitata. non voglio smettere di essere eccitata.
la porta sbatte e urla come aveva fatto prima il campanello. nessuna voce. se non fosse lui allora chiederebbe se c’è qualcuno, chiederebbe dove sono. deve essere lui. mi fido di lui, è sempre puntuale.
io sono qui, in piedi, bendata, vestita come mi ha chiesto “come la prima volta che ci siamo visti”. pensavo non mi sarei mai ricordata. ci ho dovuto pensare poco. una maglietta nera, una gonna normale, abbastanza ampia e colorata, un paio di semplici scarpe nere, tacco medio. spero di aver ricordato anche la biancheria giusta.
sento i suoi passi, sono i suoi passi, lo devono essere. è qui. non c’è nessun rumore nell’aria, solo il suo profumo, mi entra in bocca, mi entra nelle orecchie. inizia a salire sotto la gonna. lo odio. lo voglio.
si muove e cerca di fare piano. non sento più le scarpe, deve averle tolte, sento tutti i sensi esplodere, anche la vista, vedo oltre il nero, cerco di vedere cosa sta facendo, di immaginarlo.
all’improvviso le prime note invadono la stanza, picchiano sul vetro e mi rimbalzano addosso, probabilmente mi fanno rizzare i peli sulle braccia. questo non l’avevo immaginato. ha messo i massive lo stronzo. s’è limitato a spingere play lo stronzo. s’è ricordato di ieri quando mi aveva chiesto (ordinato?) di masturbarmi coi massive. voleva controllare che fossero ancora lì. stronzo. ti odio. ti voglio.
sono immobile, i polpacci mi fanno un po’ male, sposto leggermente il peso da una gamba all’altra. una fitta di dolore mi prende la nuca, spalanco la bocca alla ricerca di aria per urlare.
– come devi stare? – chiede quasi soffiando le parole al mio orecchio destro.
stronzo stronzo stronzo. ti odio. ti voglio.
– ferma – e anche nel tono della voce cerco di essere come mi vuoi. ferma, decisa, non mi vuoi arrendevole, vuoi domarmi stronzo? vero? ti voglio. domami se ne sei capace.
mi solleva la benda e una mano mi tappa la bocca. chiude naso e bocca, forte. non ho fatto tempo a prendere fiato e dopo pochissimo l’ossigeno manca. perché? vuoi guardarmi negli occhi? stronzo. ti odio. ti voglio. mi vuoi guardare strabuzzare gli occhi mentre mi manca l’aria, mi vuoi veder soffrire, vuoi gli occhi che soffrono.
adesso mi fa respirare, adesso mi fa respirare. se non mi fa respirare, adesso, dovrò spostare la mano. prenderla e spostarla, so che non vuole ma lo dovrò fare. devo spostarla, devo respirare. devo. perché stai rovinando tutto? perché?
l’aria nei polmoni entra come se avessero aperto un rubinetto. e ho sete, ho sete e quasi mi strozzo con tutta l’aria-acqua che riesco a inghiottire. tossisco e ansimo, ansimo e tossisco. di nuovo buio.
– lasciati guardare un po’ più a fondo, finché si può – mi dice, questa volta soffiando all’orecchio sinistro. si mette anche a fare le citazioni musicali. e io sono lì sulla corda, di qua si continua a giocare, di là si chiede “ti prego, scopami, ti prego, ti prego”. rimango di qua, continuo a giocare.
ansimo ancora un po’. di nuovo mille spilli mi si conficcano nella nuca.
– come devi stare? – 
– ferma – 
e il soffio della sua voce stavolta arriva frontalmente, a pochi centimetri dalle mie labbra. le voglio, le voglio, le voglio le tue labbra, stronzo.
me le dà e sono brava, tengo la testa ferma e dio solo sa quanto vorrei riempirmi le mani delle sue spalle, ma quello che posso avere adesso sono solo queste labbra. il buio, le sue labbra, il suono delle nostre lingue che si esplorano e il sapore delle nostre bocche che si mischia. stringo le mani. voglio abbracciarti stronzo, ti prego, dimmi che lo posso fare. ti prego. ti voglio.
ancora, i capelli tirati, ancora, male, ma meno di prima, mi sto abituando. ancora, la bocca si spalanca.
– ferma! – 
quel punto esclamativo lo senti graffiarmi sul collo, scendere lungo le braccia, arrivare alle mani e aprirle. stronzo, hai visto che le avevo chiuse. stronzo. ti voglio. ti prego.
– inginocchiati – 
lo faccio lentamente, al buio. voglio che veda come sono ubbidiente, come sono vulnerabile, come sono devota. il pavimento freddo mette in circolo ulteriore adrenalina. inginocchiandomi ho sentito le labbra della mia fica muoversi, sono fradicia. fradicia, stronzo.
sento il tuo odore, il suo profumo, è lì a pochi centimetri da me. lo voglio, voglio che mi violi la bocca, voglio che la usi. ti prego. ti voglio. in bocca, adesso. non voglio godere, voglio solo stringere la tua eccitazione tra le labbra, voglio farti vedere che sono la migliore, voglio, voglio, voglio…

sento le ginocchia pizzicare sulle piastrelle, i muscoli della schiena tesi, dovresti vedermeli i muscoli della schiena tesi. ma tu non capisci. 
e dove sei? dove sei adesso? non sento più il tuo odore, ti prego fatti leccare, fatti mordere, fatti mangiare.
alzi il volume, daydreaming scuote i muscoli della schiena e tu li stai guardando. ti odio. ti voglio.
sei di nuovo di fronte a me, hai fatto rumore, hai voluto farmi capire che eri tornato davanti a me. sei ancora eccitato? ti eccita vedermi qui, tesa, con le labbra semichiuse, in attesa del permesso di darti piacere. stai pensando a quanti vorrebbero essere nella tua situazione. vero, stronzo?
ma quelli penserebbero “guarda che troia” nel loro modo viscido e schifoso, tu no. tu mi sussurri “sei la mia troia?” e io non riesco a fare altro che muovere la testa quasi impercettibilmente. su e poi giù. chiedimelo ancora stronzo, ti prego.
“leccalo” mi dici. non chiedi ma nemmeno ordini, è il naturale corso delle cose, mi stai solo dando il permesso. ti odio. ti voglio.
cerco con le mani la cintura e mi colpisce uno schiaffetto secco sulla guancia sinistra. perché? che c’è? non fa male ma è stato umiliante. non mi vuoi? non vuoi il piacere dalla mia bocca? ti odio.
“leccalo”, di nuovo il mio gesto, di nuovo lo schiaffetto. mi viene da piangere, vorrei gridarti in faccia che cosa vuoi che faccia. sono qui, bendata, in ginocchio, muoio dalla voglia di succhiarti, mi dai il permesso e mi prendi a schiaffi? ti odio.
“ti ho detto di slacciare i pantaloni?”. stupida, sei una stupida. ti voglio.
il jeans è ruvido, il jeans sa di te il profumo e il sapore della tua eccitazione li sento, passano il tessuto. cerco di mordertelo attraverso il pantalone. sei durissimo, se tu sapessi quanto mi piace saperti eccitato per me. lo mangio, te lo mangio, guardami mentre lo lecco, guarda la mia lingua lasciare una scia sul tuo inguine. te li consumo. te li consumo. sono brava?
quasi cado in avanti quando ti sposti. sei dietro. eccole, finalmente, anche le mani legate. eccomi, finalmente. ti voglio, non ti odio più. ti voglio e basta.
dammelo stronzo. ti prego, dammelo.
sei qui a pochi centimetri da me, sì, qui alla mia sinistra e mi fai sentire il rumore della cintura che si apre, dei bottoni che si sfibbiano, dei boxer che scivolano a terra. è qui, lo sento, è caldo e non dici nulla e posso farci quello che voglio. lo annuso e il fiato si accorcia e voglio che mi esplodi nel cervello. voglio che la tua eccitazione mi esploda nel cervello, che le papille della lingua comunichino direttamente con tutte le mie sinapsi neuronali e le facciano esplodere.
e tutto, ti voglio tutto. collegati. una cosa sola.
non usi le mani, vorrei che le usassi, sai che vorrei ma non le usi, mi lasci a giocarci e io vorrei fare talmente tante cose e vorrei farle così bene che non mi ricordo cosa volevo fare e non riesco a farlo bene come vorrei.
ti sposti di lato, uno, due, tre passi ma non ti lascio. sei mio, ti ho preso e non ti lascio. dovresti vedere i miei occhi come si spalancano quando cerco di prenderti tutto e ti sfugge un “brava” e mi sfugge un gemito e mi sfugge un “grazie” per quella parola e mi sfugge un sorriso in testa e mi sfugge un orgoglio tutto di donna in quel gemito. tu comandi ma io ti piego.
esci. no, ancora, ti prego. esci e mi spingi la schiena giù e la mia testa si poggia al letto. sei veloce. mi sollevi la gonna sui fianchi e io dipingo nella mente la mia immagine, l’oscena immagine che ti sto donando. sono bella vero? ti piaccio vero?
“sei stupenda”. io pensoe  tu parli e dici le cose giuste. grazie, voglio essere stupenda e oscena e torbida per te e solo per te.
sfili le mutandine senza sfiorarmi, probabilmente mi vedi luccicare e so quanta voglia avresti di toccarmi. toccami, ti prego. toccami. ti voglio, non ti odio più.
il mio profumo riempie la stanza, mi riempie le narici, mi sfonda il cervello, sfondami la carne, ti prego. ti voglio.
io pensavo fossi stronzo ma non così tanto, guarda che lo sento che hai poggiato le mutandine zuppe della mia eccitazione a un centimetro dal mio naso. lo sento, mi esplode dentro insieme a safe from harm. io inspiro e tu non fai nulla. guardi. spero tu ti stia masturbando. guardami, eccitati e toccati. poi usami per godere.
ti prego. ti voglio. no, non ti odio, ti voglio e basta.

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