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Racconti Erotici Etero

Un pomeriggio qualunque

By 4 Novembre 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Sono scesa in cantina.
Buio, silenzio e fresco mi hanno subita avvolta come un mantello. Qui sotto non mi sono mai sentita persa, ma al contrario, sicura. Ricordo quando da bambina mi rifugiavo dietro alla grande porta di legno, rovinata dal tempo. Arrivavo a malapena ad intravedere l’ingresso per la chiave. Faticavo per aprire la serratura arrugginita, con la chiave lunga e nera. Sembrava quella delle fiabe, quella che pende dalla cintura dell’orco cattivo. Appena aperta la porta mi ci catapultavo dentro, richiudevo il chiavistello alle mie spalle e cominciavo a gironzolare per la grande stanza, con il soffitto a volta in mattoni rossi. Una piccola finestra a ridosso del soffitto, dalla quale filtravano pochi raggi di luce, era l’unico contatto con l’esterno. Ero sotto il livello strada, lontano dai rumori, dalle persone. Ero sola ed in pace. Questo cercavo quando fuggivo: la pace, ma allora non lo sapevo. Sentivo il bisogno di fuggire e l’unico luogo solitario e lontano dagli altri era qui; la cantina che i bambini temono per me era il rifugio.
Ci sono tornata oggi ed inaspettatamente rivivo le medesime sensazioni di allora. Silenzio, pace, serenità. Ma oggi sono un donna. Oggi ho il fardello dei miei errori che grava sulle spalle. Oggi mi fanno compagnia i dolori, le sofferenze, le paure. Oggi la solitudine non &egrave una scelta, ma una condanna. Oggi il silenzio grida. Sono fuggita sapendo bene da chi e da cosa. Ho corso, ho percorso tanta strada tentando disperatamente di giungere a destinazione, ma non sapevo quale fosse la mia meta. Così un giorno mi sono fermata e mi sono guardata. Non sono stata orgogliosa dell’immagine che lo specchio mi ha reso.
Ed ho deciso di cambiare.
Solo che mi sono accorta che la vita ci offre la possibilità di accorgerci dei nostri errori, ma non sempre ci consente di ripararvi del tutto. Non sempre possiamo ripartire cancellando con un colpo di spugna tutto ciò che abbiamo creato. Ci sono persone, vite, amori che ruotano intorno a noi ed il solo fatto che non condividiamo più lo stesso spirito non &egrave stato, per me, motivo sufficiente per negare loro la felicità di continuare la strada. Non me la sono sentita di gettare nei rifiuti la loro vita e nemmeno la mia.
Così a volte fuggo da questo.
Fuggo dalla necessità di affrontare da sola la vita, di decidere quale strada intraprendere, di fare sempre le scelte sensate, senza mai la possibilità di ‘tentare’. Fuggo dal bisogno che hanno gli altri di me, fuggo dalla malinconia, fuggo dalle responsabilità, dai doveri che a volte mi schiacciano al suolo.
Fuggo per sorridere, fuggo per piangere. A volte scappo anche solo per il bisogno di vedere se qualcuno riesce ad arrestare la mia corsa senza fine. Se a qualcuno interessa cercare di comprendere cosa mi mette le ali ai piedi o se esiste qualcosa che asciughi le mie lacrime.
Così corro, o almeno sembra, ma in realtà aspetto.
E nella mia attesa osservo.
Così, un giorno, intenta ad osservare la gente, ho visto lui, anzi lui ha visto me.
Seduta ad un tavolino di una famosa pasticceria del centro ascoltavo rapita la conversazione di tre signore sedute al tavolino accanto al mio. Civettavano sugli uomini, ridacchiando ogniqualvolta qualche riferimento alludeva ai loro sessi. Tre signore perbene, del tipo che nemmeno sanno cosa significhi lavorare oppure contare i soldi per far quadrare il mese. Quelle signore le cui preoccupazioni sono limitate all’organizzazione della festa del figlio, della cena al club oppure alla scelta delle prossime vacanze. Beh, insomma, quelle sciocche signore perbene, senza grinta né spina dorsale, che tanto piacciono agli uomini perbene.
In realtà ero incuriosita e sorridevo sola immaginandomi di subentrare nella conversazione e farle inorridire di disgusto con le mie idee malsane e maschili.
Ascoltavo e mi chiedevo se forse non stesse proprio qui la chiave di lettura della mia solitudine. Il fatto di essere tanto, troppo forte per aver bisogno di un uomo? Oppure il fatto di non aver trovato mai un uomo che accettasse la sfida che sempre lancio a chiunque?
Socchiudevo gli occhi lasciando che le due parti del mio cervello, perennemente in conflitto, tentassero l’una di avere il sopravvento sull’altra. Lasciavo che nella mente si susseguissero accuse, condanne, alibi, motivazioni, scuse e non so che altro, mentre giocavo con la cannuccia ed il ghiaccio rimasti nel bicchiere.
Le signore continuavano a cinguettare, la calura era sempre più insopportabile e, sinceramente, lo stavano diventando anche i loro discorsi.
Ero ormai decisa ad incamminarmi verso l’ufficio, quando il cameriere mi portò, senza che lo avessi chiesto, un’altra bibita ghiacciata. Ricordo che ringraziai e che ridendo dell’equivoco gli spiegai che probabilmente si trattava di un errore.
‘Nessun errore signora! Gliela offre quel signore seduto in fondo’!’
Girai la testa, ma prima di individuarlo il mio sguardo aveva attraversato il tavolino delle signore sciocche che, ascoltata la conversazione con il cameriere seguivano la scena tra l’invidioso e l’incuriosito.
Un signore di mezz’età, alto e prestante stava comodamente seduto in fondo alla sala, leggermente in penombra. Le lunghe gambe accavallate dentro pantaloni bianchi di lino, una camicia azzurra appena stropicciata e le maniche rivoltate. Mi fissava dal buio, con tale intensità che percepivo persino la direzione dello sguardo. Non sapevo cosa dire, ma il cameriere mi sciolse dall’imbarazzo suggerendomi di invitarlo a sedere al mio tavolo.
‘Sssi grazie’..glielo dica lei’.’ riuscii a balbettare.
Era strano per me trovarmi in imbarazzo. Eppure quell’uomo che con classe ed innegabile audacia si stava avvicinando lentamente a me mi metteva in difficoltà.
Lanciai un ultimo sguardo vittorioso alle signore invidiose e mi tuffai attentamente nei suoi occhi.
Mi ci tuffai letteralmente dentro, così a fondo da non poterne più uscire. Lo ascoltavo quasi come in trance, mentre mi riempiva di complimenti, parole, domande, come se ci conoscessimo da sempre. Parlavamo con una tale naturalezza che le ore trascorrevano velocemente. Le signore ci avevano abbandonato senza che me ne accorgessi. D’un tratto udii le parole che, mi accorsi solo allora, erano tutto ciò che volevo sentire’.’usciamo, voglio baciarti!’
E lo seguii.
Attraversammo il viale pedonale antistante il bar, dirigendoci verso il muro di cinta del castello. Al riparo dal sole accecante lo osservai girarsi, poggiare la schiena alla parete, attirarmi a sé mentre gli occhi bucavano il mio sguardo perso di bambina. Le mani stringevano le spalle, le labbra accennavano un sorriso che non avrei saputo definire in alcun modo. Il desiderio di lasciarmi guidare era irresistibile. E così feci. Il suo respiro caldo e profumato mi inebriava. Cercai di chiudere gli occhi, ma me lo impedì. Voglio guardarti, fino a quando lo sguardo non scompare nel mio, fino a quando la dolcezza delle tue labbra diventa nettare sulle mie. Voglia l’immagine di te impressa per sempre nella mia mente.
Voglio’..
Non so dire quanto rimanemmo in quell’angolo di paradiso, con la gente che passava fingendo noncuranza. Non so quanto la sua bocca abbia assaggiato la mia, il mio desiderio, la mia voglia rivelata dai seni duri e gonfi che premevano contro il suo petto. Non so dire quanto le sue mani abbiano carezzato il mio viso.
Arrivò il buio della sera, il silenzio dei passanti, la necessità di lasciarsi.
Non ci scambiammo recapiti, né promesse che non avremmo mai mantenuto. Oggi conservo il sapore dei suoi baci, il calore dei miei ed i nostri sguardi fusi nello spazio di un pomeriggio qualunque.

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