Michele affondò la testa nel cuscino, le dita aggrovigliate nei capelli castani della ragazza inginocchiata fra le sue gambe. Non ricordava come si chiamasse – Francesca? Federica? Una di quelle che aveva adocchiato al bar dello sport la sera prima, con le amiche che la spingevano verso di lui dopo aver sentito i soliti pettegolezzi.
Lei lavorava con una dedizione quasi religiosa, la lingua che tracciava cerchi precisi intorno alla corona del glande prima di scendere lungo l’asta. Quando raggiunse la prima perla, esitò per un istante – sempre lo facevano, all’inizio – poi gemette sommessamente, come se avesse scoperto un tesoro nascosto.
«Cazzo» sussurrò contro la sua pelle, la voce vibrante di stupore. «È incredibile.»
Michele aprì un occhio, guardandola lavorare. Era brava, doveva ammetterlo. Aveva quella determinazione tipica delle ragazze che volevano impressionarlo, che avevano sentito le storie e volevano essere all’altezza. Probabilmente si era preparata per settimane a questo momento, aveva chiesto consigli alle amiche, aveva fantasticato su come sarebbe andata.
La sua bocca si allargò per accoglierlo completamente, i muscoli della gola che si contraevano quando le perle toccarono il palato molle. Michele sentì la familiarità del piacere che montava, meccanico quasi, prevedibile come l’allenamento mattutino.
Lei si staccò per prendere fiato, il rossetto sbavato agli angoli della bocca, gli occhi lucidi che lo guardavano dal basso come se cercasse approvazione. Una goccia di saliva collegava ancora le sue labbra alla punta del suo cazzo.
«Ti piace così?» chiese con voce roca, le dita che tracciavano piccoli cerchi sui suoi testicoli.
Michele annuì distrattamente, lo sguardo che vagava verso la finestra dove il sole filtrava attraverso le tende. Poteva sentire i rumori del sabato mattina: auto che passavano, bambini che giocavano nel cortile, la vita normale che scorreva mentre lei continuava il suo devoto lavoro.
Quando tornò a concentrarsi su di lui, la ragazza aveva ripreso con rinnovata energia, alternando succhi profondi a piccoli morsi delicati lungo l’asta. Le sue mani gli accarezzavano i fianchi, scivolavano sui suoi addominali scolpiti, come se volesse memorizzare ogni centimetro del suo corpo.
Michele sentì l’orgasmo avvicinarsi, quella tensione familiare che partiva dalla base della spina dorsale. Lei dovette accorgersene perché aumentò il ritmo, la testa che si muoveva su e giù con precisione matematica, i capelli che gli solleticavano le cosce.
Quando venne, fu con un grugnito sordo, le mani che si chiusero sui suoi capelli mentre si svuotava nella sua bocca. Lei ingoiò tutto, senza esitare, poi continuò con piccoli baci delicati lungo l’asta che si ammorbidiva, come se non volesse che il momento finisse.
Michele si lasciò cadere contro i cuscini, già mentalmente da un’altra parte. Lei si alzò lentamente, pulendosi l’angolo della bocca con il dorso della mano, poi si sdraiò accanto a lui, il corpo nudo che cercava il contatto con il suo.
«Sei stato incredibile» sussurrò, la voce ancora impastata. Le dita iniziarono a tracciare pigri disegni sul suo petto. «Non ho mai… cioè, quelle cose che hai… è stato…»
Michele fissò il soffitto mentre lei parlava, le dita che continuavano quei cerchi irritanti sul suo petto. Aveva quella voce post-sesso che conosceva bene – sognante, quasi sussurrata, come se stesse cercando di convincere se stessa che quello che era appena successo significasse qualcosa di più.
«Non faccio mai queste cose» disse, la testa appoggiata sulla sua spalla. «Cioè, di solito non vengo a casa di uno la prima sera, ma tu… c’era qualcosa di diverso.»
Michele annuì meccanicamente, già mentalmente al campo di calcetto dove aveva appuntamento con i ragazzi nel pomeriggio. Doveva passare prima in palestra, poi una doccia veloce. Forse avrebbe chiamato quella mora di Economia che gli aveva scritto ieri sera.
«Pensi che ci rivedremo?»
La domanda lo riportò al presente. La guardò brevemente – gli occhi che brillavano di quella speranza patetica che vedeva sempre dopo. Come se un pompino potesse costruire una relazione.
«Certo» mentì con facilità. «Ti chiamo.»
Un rumore di piatti dalla cucina li interruppe, seguito dalla voce di Andrea che bestemmiava contro la moka. Altri passi pesanti – Giacomo che andava in bagno, ancora mezzo addormentato.
Lei si irrigidì immediatamente, come se solo ora si rendesse conto di trovarsi in una casa piena di estranei. Michele vide il panico attraversarle gli occhi.
«Dovrei… dovrei andare» disse, scattando in piedi con movimenti nervosi.
Iniziò a cercare i vestiti sparsi per la stanza, raccogliendo il microvestito nero che aveva indossato la sera prima al bar. Era uno di quei vestiti che lasciavano poco all’immaginazione – aveva funzionato perfettamente per quello che doveva fare.
Michele la osservò mentre si chinava a raccogliere la sua roba, il culo sodo che si muoveva davanti a lui. Il modo in cui i muscoli si contraevano quando si allungava verso la scarpa finita sotto il letto. Sentì il sangue tornare al cazzo, che iniziò a indurirsi di nuovo.
«Non trovo le mutandine» disse frugando sotto i vestiti ammucchiati.
«Lascia perdere» disse Michele, la voce resa roca dall’eccitazione rinnovata. «Non ne hai bisogno.»
Lei si voltò verso di lui e vide la sua erezione che cresceva contro la coscia. Per un momento sembrò tentennare, come se stesse considerando un secondo round.
Il rumore della doccia che partiva dal bagno la riportò alla realtà.
«No, devo proprio andare» disse, infilandosi velocemente il vestito. «I miei coinquilini si preoccupano se non torno.»
Michele si alzò, nudo, e le si avvicinò. Poteva sentire il suo profumo misto al suo, al sesso della notte.
«Vai così» disse, la mano che le sfiorò il fianco. «Ti sta meglio.»
Michele si fermò davanti al grande specchio che aveva montato sulla parete della camera l’anno scorso. L’aveva comprato su Amazon dopo aver letto che le donne amavano guardarsi durante il sesso – un investimento che si era rivelato più che proficuo.
La sua immagine gli restituì quello che vedeva ogni mattina: spalle larghe, addominali definiti, il tatuaggio tribale sulla spalla sinistra che sembrava danzare quando contraeva i muscoli. Si passò una mano sui capelli scompigliati, poi lo sguardo scese inevitabilmente al suo cazzo, ancora leggermente gonfio dai ricordi della notte.
Lo prese fra le dita, sentendo il peso familiare, le perle che correvano lungo la parte inferiore come piccole promesse di piacere. Un sorrisetto gli curvò le labbra mentre immaginava quella ragazza – ma come cazzo si chiamava? – piegata sopra il letto per un ultimo giro. Il culo sodo, le gambe tremanti, i gemiti soffocati nel cuscino.
Non l’avrebbe richiamata, ovviamente. Non ce n’era bisogno. Tornavano tutte, prima o poi. Sempre.
Si massaggiò pigramente, sentendo il sangue affluire di nuovo, poi si fermò. Aveva cose da fare, gente da vedere. Si tirò su un paio di pantaloncini della tuta grigi e una maglietta del Napoli e si diresse verso la cucina.
«Eccolo, il nostro stallone nazionale!»
Andrea alzò la tazza di caffè in un brindisi ironico mentre Giacomo fischiò come se stesse chiamando un cane. Erano seduti al tavolino pieghevole che faceva da cucina, ancora in mutande e canottiera, i capelli arruffati del sonno.
«Madonna che figa» disse Giacomo, gli occhi che brillavano di ammirazione. «Quella di ieri sera. Come l’hai presa?»
«Al solito posto» Michele aprì il frigo, cercando qualcosa da mangiare. «Bar dello sport, dopo la partita dei quarti.»
«Era con le amiche?» chiese Andrea, versandogli un caffè dalla moka già pronta. «L’ho vista uscire stamattina, sembrava ancora in trance.»
Michele prese il caffè, ingoiandolo in un sorso. Era amaro, forte come piaceva a lui.
«Tre amiche» confermò. «Di quelle che ti spingono verso il tipo che vogliono scopare loro ma non hanno il coraggio.»
«E tu ovviamente hai accontentato la prescelta» Giacomo ridacchiò, grattandosi la pancia pelosa. «Cristo, a me non capita mai. Quando arrivo al bar, le fighe migliori sono già state adocchiate da qualcun altro.»
Andrea annuì solidale. «Anch’io ieri sera ho provato con quella bionda al bancone, ma appena ha saputo che stavo con voi due si è praticamente buttata su Michele.»
«È questione di attrezzatura, ragazzi» Michele appoggiò la tazza vuota sul lavello, il sorrisetto che gli tirava l’angolo della bocca. «Non tutti nascono benedetti dalla natura.»
«Comunque» disse Andrea, alzandosi per rovistare nel frigo, «quella di stanotte ha gemito così forte che ho pensato stesse morendo. Giacomo si è pure affacciato per controllare.»
«Vero!» Giacomo scoppiò a ridere, quasi sputando il caffè. «Ho sentito ‘sti urli e ho pensato che l’avessi strangolata. Poi ho capito che era solo il solito concerto.»
Michele si appoggiò al bancone, le braccia incrociate. «Le perle hanno questo effetto. Quando le sentono per la prima volta, perdono proprio il controllo.»
«Ma secondo te» chiese Andrea, tirando fuori un cartone di latte scaduto da tre giorni, «se ce le facessimo mettere pure noi, funzionerebbe lo stesso? Cioè, non abbiamo il tuo… equipaggiamento di base.»
«Non è solo questione di larghezza» Michele si grattò la pancia, pensieroso. «È l’insieme. Il fisico, l’atteggiamento, il modo in cui le tratti. Le perle sono solo il tocco finale.»
Giacomo annuì saggiamente, come se stesse ricevendo una lezione di vita. «Tipo come mettere lo spoiler su una Punto. Può essere figo, ma resta sempre una Punto.»
«Esatto» Michele rise. «Voi due siete delle Punto con l’aria condizionata rotta.»
«Stronzo» Andrea gli tirò il cartone del latte vuoto. «Almeno noi non ci facciamo forare il cazzo come dei selvaggi.»
«Selvaggi che scopano ogni sera» replicò Michele, schivando il cartone. «Mentre voi due vi fate le pippe guardando YouPorn.»
«Quello solo il martedì» disse Giacomo con finta serietà. «Il resto della settimana abbiamo una vita sociale molto intensa.»
«Sì, FIFA e birra al bar sotto casa» Andrea rovesciò gli occhi. «Che vita sociale del cazzo.»
Michele si versò un altro caffè, lo sguardo che vagava verso la finestra. Il sole era ormai alto e poteva sentire i rumori della vita universitaria che si svegliava: motorini che sfrecciavano, voci di ragazze che tornavano dalla notte precedente, musica che usciva dalle finestre aperte.
«Comunque ragazzi» disse, tornando serio per un momento, «stasera si va al Mexcal. Ho sentito che c’è una comitiva di quelle di Lettere che organizza pre-serata.»
«Quelle fighissime che stanno sempre in biblioteca?» gli occhi di Giacomo si illuminarono. «Madonna, sono mesi che ci provo con quella mora con gli occhiali.»
«Quella ti mangia vivo» rise Andrea. «È troppo intelligente per te.»
«Per questo ci penso io a rompere il ghiaccio» Michele finì il caffè. «Poi voi due potete raccogliere gli avanzi.»
«I tuoi avanzi valgono più dei nostri piatti principali» sospirò Giacomo, ma sorrideva mentre lo diceva.
L’appartamento si riempì di nuovo delle loro risate, quel suono familiare che accompagnava ogni mattina, ogni conquista condivisa, ogni fallimento collettivo. Era questo che Michele amava di più: non essere giudicato, non dover fingere, poter essere completamente se stesso con loro.
Michele si stiracchiò, sentendo i muscoli delle spalle che si allentavano dopo la notte. Il sapore del caffè amaro gli rimaneva in bocca, mescolato ai ricordi della ragazza di cui ancora non ricordava il nome.
«Vado a farmi una doccia» annunciò, spingendosi via dal bancone. «Poi palestra e campo.»
«Noi usciamo verso le due» disse Andrea, già tornato a rovistare nel frigo alla ricerca di qualcosa di commestibile. «Se vuoi venire al centro con noi.»
«Vedremo. Dipende da come va l’allenamento.»
Michele si diresse verso il bagno, lasciandosi alle spalle le loro voci che discutevano animatamente su quale fosse il modo migliore per approcciarsi alle ragazze di Lettere. Li sentiva ridere, scherzare, pianificare la serata come se fosse una missione militare.
Una volta sotto la doccia, l’acqua calda che gli colava addosso, Michele chiuse gli occhi e si lasciò andare. Questo era il suo momento, l’unico in cui non doveva essere il Michele che tutti si aspettavano. Solo lui, l’acqua e il vapore che riempiva il piccolo bagno.
Pensò alla giornata che lo aspettava: palestra, calcetto, forse una chiamata a quella di Economia. La routine perfetta di una vita che aveva costruito pezzo dopo pezzo, conquista dopo conquista.
Quando uscì dal bagno, avvolto in un asciugamano, Andrea e Giacomo erano ancora seduti al tavolo, ormai vestiti e pronti per uscire. Lo guardarono con quel misto di invidia e ammirazione che conosceva bene.
«A stasera, stallone» disse Giacomo, alzandosi e dirigendosi verso la porta.
Michele sorrise, tornando in camera sua. Si vestì con calma, scelse il profumo giusto, si guardò un’ultima volta allo specchio. Era pronto per un’altra giornata, un’altra avventura.
La porta di casa si chiuse dietro di loro con un click secco, lasciando l’appartamento nel silenzio del sabato mattina.



scusa, al quarto sono bloccato!
ti ringrazio, mi fa molto piacere sapere che ti sia piaciuto! il secondo capitolo l'ho completato. nel terzo sono bloccato.…
ne ho scritti altri con altri nick...spero ti piacciano altrettanto.
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Ti ho scritto, mia Musa....attendo Tue...