Ora che tutto era finito e che tutto sembrava tornato a posto, mi sentivo finalmente serena e felice. A volte, il solo tornarci su col pensiero, mi faceva ripiombare nell’inferno di quegli ultimi mesi. Quel tormento mi era ormai dietro alle spalle, ma quella mattina in cui le cose nel seguito cambiarono, non camminavo certo col solito passo spedito. Non m’importava più di niente. Non m’importava, in quel momento e come facevo sempre di risparmiare il più piccolo istante per poi spendermelo al bar a gustarmi in santa pace il rito della colazione per iniziare bene la mia giornata di lavoro. Purtroppo sono pigra e mi piace alzarmi solo all’ultimo momento, per cui è sempre un rincorrere il tempo; troppo bello centellinare l’ultimo minuto acquattata al caldo sotto le coperte. Quel giorno non pensavo minimamente a quell’allegro scambio di parole con gli altri soliti “abitué” della colazione che normalmente mi lasciavano allegra e di buon umore per buona parte della mattinata. Cupi pensieri mi stavano facendo vagare in una palude infernale. In quel momento stavo vivendo nel pieno del mio incubo infinito. Ero stanca! Stanca di tutto; anche fisicamente. Non riuscivo a capacitarmi di ciò che mi stava accadendo. Stanca anche di combattere e poi non sapevo nemmeno contro chi o che cosa. Passando davanti alla chiesa una donna, uscendo, mi fece bloccare di botto ed evitai con fatica di andarle addosso, ma quel contrattempo mi fece percepire improvvisamente quel remoto odore familiare che ricordai come amico e che mi riportò ad anni indietro. Quell’insieme di cere per mobili un po’ speziate, d’incenso, un odore di antico e pulito, mescolato all’acre fumo delle candele di cui era impregnata la cappella delle mie suore. Avevo cominciato lì, dall’asilo ed era stata la mia scuola fino alla maturità; poi ero andata all’università. Ormai sembravano passati mille anni da quei bei tempi spensierati. Seguii il mio istinto e deviai, come per trovare un momentaneo rifugio. Spinsi quella porta e mi ritrovai dentro. Era da quando tutto era cominciato che non ero più entrata in una chiesa e non so dire neppure il perché. Lì tutto mi era familiare. M’inginocchiai e nella genuflessione all’ingresso vidi da lontano il ritratto di Santa Rita. Mi diressi verso l’immagine della Santa. Raccolsi due euro dal borsellino che ruppero per un attimo quel silenzio magico, quando scesero nella cassetta delle elemosine; presi un cero, lo accesi e andai all’inginocchiatoio. Avevo bisogno di raccogliere le idee, mormorai una preghiera, poi come se la santa mi ascoltasse, le parlai senza muovere le labbra.
“Perdonami! È da molto non che vengo qui. Ultimamente non sono più stata un’assidua della chiesa come una volta, ma sono disperata. Tu che sei l’Avvocata dei casi impossibili, ti prego, aiutami tu! Dimmi tu cosa mi resta da fare. Io non so più dove sbattere la testa!”
Le dedicai ancora una preghiera di commiato, poi mi alzai e uscii all’aperto, riprendendo il cammino di tutti i giorni, con l’animo in qualche modo alleggerito da quella breve disgressione.
Al bar c’erano le solite facce. Alfredo, il barista mi salutò cordiale come al sempre.
“Ciao Rosa; ti porto il solito?”
Sapevo che lui aveva una simpatia per me, ma non gli avevo mai consentito col mio comportamento di oltrepassare il lecito e non avevo mai dato spazio a equivoci: non volevo chiacchiere sul mio conto.
Poi c’era il signor Gino: il tabaccaio. Un toscanaccio burbero dal cuore d’oro; ogni settimana comprava da Hamed dei calzini variopinti che poi non gli avevo mai visto indossare. Probabilmente a casa ne aveva un baule pieno. Anche Hamed ormai faceva parte della combriccola. Aveva una fisionomia gentile ed un portamento nobile che, nella mia fantasia, era così che doveva essere quella di un principe del deserto. Dicevano anche che fosse anche un bravo muratore e non di rado si assentava per giorni. Si serviva di un angolo del bar come vetrina per la merce del suo borsone e non mi aveva mai rivolto la parola, a meno che non fossi io a salutarlo per prima; credo che fosse solo per una profonda educazione e pudore nei miei confronti e delle donne in genere.
C’era poi la signora Gianna, la moglie del salumiere; una matrona emiliana che trattava le forme di parmigiano come fossero senza peso; matta come un cavallo, che come apriva la bocca, col suo vernacolo colorito e a volte sconveniente e sboccato, ma tremendamente simpatico, ti faceva sbellicare dalle risa anche quando mesta ti raccontava che era appena tornata da un funerale. Quella mattina c’era anche Renato, il bellone del negozio all’angolo; lui si arrabbiava se gli dicevi che vendeva scarpe perché lui vendeva invece calzature. È simpatico, ma a volte un po’ meno, specie quando si sforza di farsi accreditare come grande “tombeur de femmes” e, forse per colpa del mio rigido moralismo un pochino bigotto e intransigente, mi fa sentire in imbarazzo quando racconta delle sue occasionali avventure amorose senza tralasciare i particolari più lubrici. Pur non parlando direttamente con me, vedevo sempre che mi guardava di sottecchi, sicuramente per essere certo che lo stessi a sentire e verificare un eventuale mio riflesso concupiscente nella mimica del mio volto, ma fino ad allora, poverino, non aveva avuto fortuna. Ogni volta poi che indossavo la gonna anziché gli abituali pantaloni, guardandomi platealmente le gambe, m’invitava sempre ad andare da lui a provarmi quel bellissimo ed elegante sandalo o quel primaverile decolté che sul mio piede starebbe stato certamente al posto giusto. Prima mi arrabbiavo, ma ormai erano tanto abituali queste sue schermaglie che non sortivano più nella platea quel sapore intrigante che lui avrebbe voluto e erano accettate da tutti come consuetudine e come segnale di commiato, giacché era per tutti l’ora di iniziare a lavorare.
Mi diressi verso un tavolino libero e salutando gli altri avventori, guardai Alfredo che chiedeva: “Cappuccino?” “No. Fammi un caffè forte, ma con un po’ di crema e il solito cornetto.”
Quando mi portò la colazione mi guardò e mi sussurrò:
“Cara Rosa, capisco che siete sposati da poco, ma devi dire a tuo marito di calmarsi. Sembri proprio uno straccio.” E se ne andò facendomi l’occhiolino col sorriso complice di uno che aveva capito tutto. Mi sentii offesa per quell’intromissione nella mia sfera intima, ma diedi un morso al cornetto come per mordermi la lingua, costringendomi a non replicare.
“Buongiorno Rosa.”
Mi salutò il signor Pietro che faceva il ferroviere.
“Non volevo andarmene prima di averla vista; sto meglio se comincio la giornata vedendo qualcosa di bello e ora posso anche andare.” Sorrisi alla battuta perché l’età del signor Pietro, prossimo ormai alla pensione, glielo consentiva e affondai i denti nel cornetto che attirava ora tutta la mia attenzione, intenta a controllare la goccia di crema che poteva cadere o la traiettoria dello zucchero a velo che piovigginando, poteva sporcarmi la giacca scura del tailleur. Ancora masticando, riportai lo sguardo sulla platea e mi accorsi che qualcosa stava accadendo, ma non capivo cosa. Il signor Pietro che voleva andare via ora sembrava non voler più uscire e si era seduto ad un tavolino ammiccando col signor Mario. Tutti erano ammutoliti, anche la signora Gianna. Poi la vidi comparire da dietro la colonna e incrociai il suo sguardo per un attimo, mentre lei si dirigeva al bancone. Alfredo le chiese qualcosa che non capii, ma lo fece con fare mellifluo e tutti sembravano non perdere una mossa di quella giovane e bella signora elegante che a me pareva che tutti conoscessero. Prese il caffè, accanto a Renato, che non perdeva una sua mossa. Pagò e salutando uscì. Giudicai che aveva circa una decina d’anni più di me. Era bella certamente, ma cosa avessero visto in lei, per starle tutti intorno quasi in attesa, non lo capivo proprio.
Fu il signor Pietro a rompere il silenzio e disse:
“Che bella porcona! È davvero una gran bella gnoccolona.”
Poi vedendo il mio volto esterrefatto aggiunse subito.
“Ooops. Mi scusi l’espressione.”
“Ma signor Pietro! Fa sempre così quando entra una donna?”
“Eh cara, quella è un bel miraggio.”
Al mio viso interrogativo, fu la signora Gianna a rispondere guardando gli uomini e poi me:
“Oh, ben, ben! Brisa fèr l’èsen! Voi uomini ci avete in mente sempre una cosa sola! Mo non hai capito, cara, che quella è una corpivendola? Mo non vedi che “ci” hanno tutti il naso più lungo di una messa cantata?”
Le replicò ancora il signor Pietro:
“Ma no signora Gianna, qui non c’è nessun dice le bugie. Noi non abbiamo nemmeno aperto bocca.”
E lei ridacchiando:
“Ma no, non parlavo di quello, ma del naso che “pissa” nel vaso, che siete lì che non vi sta più dentro.”
E partì una gran risata da parte di tutti, ma quasi non l’avvertii: ero rimasta folgorata.
“Grazie Santa Rita.”
Pensai, ma quel pensiero improvviso mi apparve malsano e blasfemo e subito me ne vergognai. Pagai in fretta e uscii, sperando di poterla ancora rintracciare.
Anche questo era un altro segno che mi aveva mandato Santa Rita, pensai, vedendola da lontano osservare la vetrina del mio negozio che velocemente raggiunsi. Non potevo porre indugi!
“Buongiorno signora, dentro ho anche tutti i nuovi arrivi che non sono riuscita ancora ad esporre in vetrina. Venga se ha tempo che glieli mostro in anteprima.”
Le dissi aprendo la porta con la chiave e ponendomi di lato invitandola ad entrare.
“Buongiorno. Ah, lei è la ragazza che era al bar!”
Contraccambiò lei con un sorriso, entrando nel negozio mentre le tenevo la porta aperta.
“Ha davvero dei capi molto belli.
Disse piacevolmente sorpresa dopo che le avevo mostrato vari modelli.
“Sì, sono gli ultimi arrivi per la primavera.”
Guardò ancora qualche capo, poi aggiunse:
“Ha anche della lingerie?”
“Sì, qualcosina c’è, ma certamente non di quella che può piacere a lei.”
Risposi incautamente e troppo precipitosamente.
Piccata, la signora aggiunse freddamente:
“Perché? Qual è quella che piace a me?”
“Mi scusi non intendevo offenderla. Avrei bisogno di parlarle.
“Ma io non desidero parlare con lei!”
Mi sentii mancare. Avevo rovinato tutto, Arrendevolmente, quasi piagnucolando, replicai:
“Ho bisogno di parlare con lei di lavoro.”
La signora mi fissò freddamente per qualche secondo di troppo. Poi riprese:
“Mi spiace. Non lavoro con le donne.”
Sentivo che tutto mi si stava sgretolando in mano e che una vampata doveva avermi acceso il viso di rosso vivo, ma ebbi ancora la forza di replicare:
“No. No. Non è per quello.”
La signora mi fissò come soppesandomi nuovamente e aggiunse dandomi del tu:
“Hai bisogno di qualche extra? Ora ho da fare, non posso. A che ora hai la pausa pranzo?”
“Dalle dodici e un quarto alle quindici e trenta.”
E allungandomi un biglietto da visita:
“Vieni a mezzogiorno e mezzo a quest’indirizzo.”
E uscì voltandomi le spalle, senza salutarmi. Scoraggiata e mesta lessi il biglietto:
“Luana
massaggi tantrici
massaggi thai
riceve solo su appuntamento
Via dei Tigli n. 3.”
Pensai:
“Ma per chi mi ha preso? Ma chi crede che io sia? … Chissà in che pasticcio mi sto cacciando.”
Però il posto era abbastanza vicino.
Sempre più pazzesca..vorrei conoscervi..anche solo scrivervi..sono un bohemienne, cerco l’abbandono completo ai piaceri.. e voi.. Scrivimi a grossgiulio@yahoo.com
Grazie mille, sapere che il mio racconto sta piacendo mi riempie di soddisfazione! Se non vuoi aspettare i tempi di…
Ma che bello vedere la complicità, l'erotismo e l'affinità costruirsi così! Davvero ben scritto! Attendo il seguito! E ho già…
Questo racconto diventa sempre piu' interessante, bellissimo..... direi che e' al di sopra di tutto quello publicato da molto tempo,…
Beh... Le crepe nel muro ci sono. Forse più che altro, la domanda è quanto ci metterà. Personalmente un po'…