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Racconti Erotici Etero

Urmia (stella d’oriente)

By 12 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Hans guardò l’orologio. Ancora dieci minuti e per il personale ci sarebbe stato l’intervallo per la colazione.

La segretaria lo informò che era arrivato Monsieur Parmier.

‘Lo faccia entrare.’

Pierre Parmier era intorno ai quarantacinque anni, statura media, appena stempiato, sguardo vivace, intelligente, indagatore. Abito scuro, di ottimo taglio. Andò verso la scrivania di Hans e si fermò presentandosi.

‘Sono Pierre Parmier. Le chiedo scusa per il ritardo, ma il treno é rimasto fermo in una piccola stazione, per oltre tre ore, a causa di un guasto alla linea elettrica. E dire, che avevo preferito il treno, all’aereo, per evitare i possibili inconvenienti dovuti alla nebbia invernale.’

Hans gli tese la mano e gli fece cenno di sedere.

‘Si. Ho ricevuto la comunicazione che mi ha fatto giungere dalla stazione dove ha perduto tutto quel tempo. Sto uscendo per la colazione, rivediamoci tra un’ora.’

Pierre s’alzò, fece un cenno di saluto col capo e uscì.

Parmier sapeva che Mueller era considerato un ottimo tecnico. Aveva lavorato all’estero in posizioni di sempre maggiore responsabilità. Ora gli era stata affidata la direzione generale della società della quale il ‘Gruppo’ aveva acquisito il controllo. Conviveva con una donna divorziata, dalla quale aveva avuto un figlio, rimasta nella precedente residenza a circa centocinquanta chilometri di distanza. Era un tipo solitario e in questa società non conosceva nessuno, per cui aveva chiesto alla ‘capo-gruppo’ di inviargli degli ottimi elementi che gli consentissero di costituire un team sul quale poter contare incondizionatamente. E Pierre era destinato ad esserne il key-man.

Hans mangiò, con non necessaria fretta e svogliatamente, un panino, al bar della vicina piazza, e tornò presto nella Rue Mars, fermandosi a guardare a lungo l’imponente edificio nel quale trascorreva la maggior parte del suo tempo. Nulla di particolare: alto e scuro come tutti gli altri, un po’ tetro, con un portone grandissimo, di legno, anch’esso bruno. Dalle ampie finestre si vedevano le luci, già accese malgrado l’ora, e i tendaggi che le ornavano. Nulla che ricordasse le linee moderne e i luccicanti vetri della moderna sede della ‘capo gruppo’.

L’ampio scalone di marmo, col corrimano di legno lucido e pomi d’ottone, era coperto, al centro, con un tappeto cremisi tenuto fermo da listelli anch’essi d’ottone, per attutire il rumore dei passi.

L’anticamera di Hans, dal parquet lucidissimo, era arredata con una consolle col piano di marmo, sormontata da uno specchio che recava inconfondibili le tracce del tempo, divano e poltrone verde scuro, come le cortine del balcone. Alla parete dov’era il sofà era affissa, in una cornice dorata, la ‘Patente’ con la quale S.M. le Roi autorizzava la Società ad esercitare l’attività per la quale era stata costituita.

Accanto alla pesante porta che conduceva nello studio di Hans, una pergamena recava i nomi dei Presidenti succedutisi nel tempo. Nomi illustri, di gente cui era stata affidata la presidenza in riconoscimento dei servizi resi allo Stato. Nomi appartenenti alla nobiltà d’un tempo, alla finanza di sempre.

La porta s’aprì e la segretaria l’informò che Monsieur le Directeur Générale l’attendeva.

Mueller era dietro il grande tavolo in stile ricoperto di carte. Sembrava più piccolo di quanto in effetti fosse. Gli occhi socchiusi per evitare il fumo azzurrognolo che saliva ininterrottamente dalla sigaretta che stringeva tra le labbra. Il volto volutamente inespressivo. Indicò la sedia, tolse la sigaretta dalla bocca.

‘Parmier, conosco a memoria la sua cartella personale e sarò lieto se accetterà di venire qui ad aiutarmi. Per lei, in cambio, un lusinghiero avanzamento nella carriera e un sensibile miglioramento economico. Per ogni dettaglio, sappia che saranno applicate le procedure in vigore nel ‘Gruppo’. Sono a conoscenza che, almeno per il momento, non trasferirà qui la famiglia. Le sarà possibile, in ogni caso, raggiungerla spesso, sia per i nostri interessi in quella città, sia per i rapporti che dovrà curare con le autorità centrali.’

Aveva parlato con tono incolore, aspirando spesso la sigaretta che andava consumandosi rapidamente. Ne spense i resti nel portacenere di porcellana bianca che aveva alla sua sinistra. Strinse le labbra, abbassò la testa, la rialzò e guardò fisso Pierre.

‘Ho letto che ha servito nell’Armée e nella Resistenza, é blessé pour la Patrie, e anche decorato.’

Alzò il mento e tirò il collo.

‘Io, invece, ho collaborato coi Tedeschi. Sono stato, come dite voi, dalla parte sbagliata, ed ho passato lunghi mesi in un campo di concentramento. Sorvegliato dagli uomini della Résistance.’

Si fermò di colpo, come se attendesse risposta.

Pierre restò impassibile. Poi disse calmo:

‘Anch’io ho letto la sua cartella personale, Monsieur le Directeur, prima di decidere se venire a conoscerla o meno. E’ una vecchia deformazione professionale che mi trascino da quando, come sa, ero responsabile del servizio informazioni della Divisione. Ho anche comandato un campo di raccolta di collaborazionisti filotedeschi. Il campo 204. Non una fuga, non una punizione, nessun gesto d’indisciplina da parte degli internati, e dei miei uomini. Anch’io, come lei, trarrò vantaggi di carriera ed economici se verrò assegnato a questa società. Questo dipende da lei.’

‘Per me va benissimo’ -disse Hans- ‘può occupare il suo posto fin da questo momento.’

‘Poiché sono abituato ad esaminare e valutare con i miei familiari i problemi che li coinvolgono, le darò una risposta entro domani.’

‘Telefonerà ai suoi?’

‘Torno a casa subito, col primo aereo. Mia moglie e i miei figli mi attendono per una festicciola familiare. Sarò qui nelle prime ore di domani.’

Hans si alzò e gli tese la mano.

‘Buon viaggio.’

Quando Pierre uscì, accese una sigaretta borbottando ‘te la farò pagare, figlio di puttana’.

* * *

Mueller era entrato a far parte del Consiglio d’Amministrazione, il cui Presidente, molto anziano, apparteneva a una famiglia d’antica nobiltà alla quale da sempre erano stati affidati compiti di altissima responsabilità. Nel regno e nella repubblica, nelle armi e nella finanza.

L’Amministratore Delegato e alcuni consiglieri erano Israeliti.

Hans era rispettosissimo con tutti, cortesissimo, spesso mellifluo, poco meno che servile. Esponeva i problemi con competenza e pacatezza, ascoltava con grande attenzione i vari interventi, per identificare l’orientamento della maggioranza e schierarsi subito con quella parte, nascondendo in un sorriso accattivante la reale portata della macchinazione concordata coi politici, veri detentori del potere economico nel ‘Gruppo’.

Il vecchio presidente era consapevole che sarebbe stato presto sostituito e che Hans lavorava a tal fine. Percepiva, anche, che Hans gli era ostile non tanto per eseguire l’ordine ricevuto dai politici quanto per astio, l’odio atavico del servo verso il padrone. Lui, del resto, considerava Hans un servo, preparato e capace, certo, ma sempre un servo che si prostituiva moralmente cercando di superare il complesso d’inferiorità che non riusciva a vincere malgrado le lusinghiere affermazioni professionali raggiunte. La sua rabbia derivava dalla coscienza di essere, in sostanza, un ‘portaborse’, sia pure importante, della disonesta classe politica dominante.

Aveva bazzicato le case di ricchi, da bambino, dove sua madre, nubile, doveva lavorare sodo per farlo studiare. I ricchi, specie al suo paese, erano spesso Ebrei. Razza inferiore, traffichina e subdola, che andava eliminata. La soluzione dei Nazisti, in effetti, era l’unica per liberarsi dai luridi Giudei. E lui li aveva visti, tremanti e imploranti, quando era andato a prelevarli, coi camerati tedeschi, per avviarli ai campi dai quali non sarebbero più tornati.

Ora sedeva in Consiglio, e anche qui i ricchi ebrei avevo i posti di comando.

Il giovane Amministratore Delegato era tra i più affermati nel mondo finanziario, con interessi saggiamente diversificati e sagacemente curati. Avvertiva quasi materialmente l’odio di Hans, sapeva di essere considerato un ‘nemico naturale’, e che s’avvicinava sempre più il momento in cui anche lui sarebbe stato defenestrato dall’incarico. Alla presidenza sarebbe andata una losca figura del marciume politico e Hans avrebbe preso il suo posto e avrebbe seguitato a chinare la schiena, al nuovo e vecchio padrone, indignato e sgomento per le malefatte di cui doveva necessariamente essere complice per conservare il posto cui puntava.

Hans soffriva per il ruolo che doveva sostenere, perché avrebbe volentieri eliminato, anche fisicamente, questi disonesti che, a ben pensarci, erano peggiori degli Ebrei. I nuovi potenti erano incuranti del male che facevano agli altri, schiacciavano inesorabilmente chi non rubava con loro e per loro. Aveva aderito ai nazisti per vendicare le umiliazioni e gli stenti patiti dalla madre, le ingiustizie subite dalla società che aveva consentito a un ignoto ‘signorino’ di ingravidare una povera giovane e poi abbandonarla a fare la serva. Sua madre. Quella società non lo aveva difeso, e allora lui s’era rivolto a chi, anche se straniero e secolarmente nemico del suo Paese, gli consentiva di sparare, di distruggere la causa di tutti i suoi mali. Si sentiva il ‘giustiziere’ che avrebbe annientato i padroni d’un tempo, gli Israeliti, riscattato la madre.

E non sapeva di avere sangue ebreo nelle vene.

Lavorava sodo, la poltrona di Amministratore Delegato gli faceva gola, ma era soprattutto il piacere, la voluttà di scacciare l’Ebreo e di sedersi al suo posto, a dargli la forza di resistere a quel ritmo.

E doveva andar via anche il Direttore Tecnico, per lui doppiamente esecrabile per aver militato nella ‘resistenza’ e per aderire, ora, a un partito di sinistra. Lui, Hans, era un tecnico e avrebbe saputo far andar bene le cose anche se il sostituto Emil Laudel non avesse avuto la competenza e l’esperienza necessarie.

Nel settore finanziario doveva sopportare, almeno per il momento, chi c’era. In tutto il ‘Gruppo’ non avrebbe trovato persone di pari preparazione.

Purtroppo aveva anche bisogno di Pierre Parmier, altro ‘resistente’, per fortuna non simpatizzante per le ‘sinistre’.

Che sciocco, Pierre, aveva legato subito col vecchio Presidente e con l’Amministratore Delegato, con persone destinate al patibolo societario. Il ‘resistente’ Pierre non sapeva resistere al fascino della nobiltà, della ricchezza, non comprendeva la indiscussa superiorità della razza ariana, uber alles.

Quando rimuginava queste cose, Hans dilatava le narici, stringeva i denti fino a sentir male alle mascelle.

* * *

Trillò il telefono. ‘Monsieur Mueller, madame Divani chiede di lei.’

‘Me la passi.’

Un breve ‘clic’.

‘Hans? ho chiamato sul tuo telefono diretto ma non ho avuto risposta. Stai bene?’

‘Si, cara, ma cosa c’é di nuovo? Mi chiami troppo spesso.’

‘Hans, non ti sento da ieri…’

La voce era calda, dolce, lenta, con una seducente inflessione esotica.

* * *

Urmia portava il nome del calmo e splendido lago, Orumiyeh, che specchiava il cielo, poco distante dalla sua Tabriz. Ma come quel lago poteva, d’un tratto, incresparsi, adirarsi, divenire furiosa.

E la furia covava nel suo seno, nel caldo polveroso di Bandar-Abbas, lontana dalla sua terra, a 1600 chilometri dall’Azeirbaigian, dove la sua gente, discendente di Hamdan al-Mansur, il vittorioso, aveva portato la luce del Profeta.

Vivere a Bandar, con un uomo arido come le sue cifre e i suoi calcoli, veri compagni e unico scopo per lui, era un inferno. Tutto il resto non contava. Kadar era Musulmano ma non comprendeva come si potesse perdere tempo a pregare più volte al giorno, o digiunare fino a sentirsi male. Lui era orgoglioso di definirsi ‘cartesiano puro’, logico matematico, uomo della scienza e della tecnica, uscito con la massima classifica da una delle più prestigiose Università del mondo.

Le famiglie avevano combinato le nozze, senza che gli sposi si conoscessero. Per lui andava bene così, tanto una donna vale l’altra, s’era detto, e l’amore in queste cose non c’entra. Quindi niente coinvolgimento dei sentimenti, niente tenerezza, comprensione, passione, neppure nei momenti di fugace e distratta intimità.

Hans era apparso a Urmia come ‘colui che salva’, e lei si considerava Anaita, ‘colei che é liberata dalle catene’, ‘colei che é senza macchia’.

S’era presentata in tutto il suo rigoglioso splendore.

‘Più bella della solitaria rosa del deserto.’ Aveva detto Hans, baciandole la mano. E il marito aveva sorriso per convenienza, perché per lui quella donna era un arido cespuglio di spine che gli rendeva la vita difficile, impossibile, tanto che l’avrebbe già ripudiata se non avesse temuto di scatenare una faida familiare. Ora, forse, si presentava l’occasione per allontanarla, almeno per qualche tempo.

L’aereo che aveva portato Hans a Bandar Abbas sarebbe venuto a riprenderlo, e avrebbe fatto scalo ad Abadan prima di raggiungere Teheran, da dove Hans sarebbe ripartito per il suo Paese. Era un’occasione da non perdere. Con un indefinibile sorriso sulle labbra, Kadar si rivolse alla moglie.

‘Sono certo che senti la mancanza dei tuoi, della tua terra, Urmia, e se a Hans non arreca fastidio potresti profittare del suo aereo per andare fino a Teheran. Da lì potresti prendere il volo di linea per Tabriz. I tuoi ne sarebbero felici, ne sono certo. Questo, logicamente, se non ti pesa troppo lasciarmi per qualche giorno e se Hans lo permette. Io fra due settimane dovrei essere a Teheran, dove potremmo incontrarci per rientrare insieme a Bandar Abbas. Che ne dici?’

A Hans non sfuggì il lampo che attraversò gli occhi di Urmia, ma già represso quando disse che certamente sarebbe stato bello riabbracciare i genitori, che l’aria di Tabriz sarebbe stata un balsamo miracoloso per la sua salute, così provata dal pessimo clima di Bandar Abbas, che si sentiva combattuta tra il piacere di un breve ritorno a casa e il dover lasciare solo il suo sposo, e che, soprattutto, non avrebbe voluto essere di fastidio a monsieur Mueller.

‘Anche l’aereo sarà felice per la sua presenza, madame, e si rammaricherà di doversi separare da lei a Teheran.’

Intervenne galantemente Hans.

Due giorni dopo, il bagaglio di Urmia fu caricato sul Jet della compagnia, la donna salutò formalmente il marito, Hans ringraziò Kadar dell’ospitalità, scambiò con lui un caloroso abbraccio (benché non fosse ariano), s’imbarcò e andò a sedere sul lungo divano, accanto a Urmia.

L’aereo decollò rapidamente.

II

‘Raoul, per favore, chieda di variare il piano di volo e di poter atterrare a Kuwait City.’ Disse Hans, rivolgendosi al pilota attraverso l’interfono.

Urmia era raggomitolata, con una sciarpa di seta che le copriva quasi completamente il volto, come uno chador.

Raggiunta la quota di crociera, Hans le si avvicinò di più, le prese la mano e le parlò in tono sommesso. Cose senza nessuna importanza. Le dita di lei gli percorsero il palmo, in una lieve carezza.

Le cinse la vita con un braccio, la attirò a sé, scostò la sciarpa da quel viso incantevole e la baciò appassionatamente. Ardentemente corrisposto.

L’interfono gracchiò: ‘Monsieur Mueller, nessun problema per atterrare a Kuwait City.’

‘Grazie Raoul’ -rispose Hans- ‘lei potrà ripartire per Teheran quando vorrà.’

‘Hans’ -sussurrò Urmia- ‘stiamo facendo una sciocchezza, viviamo dove vige la legge coranica che é inesorabile, non perdona avventure del genere. Mio marito potrebbe invocarla, ripudiarmi con disonore, da noi si arriva anche ad essere bandite dalla società… perfino lapidate. Dobbiamo riflettere. Un momento di smarrimento, l’attrazione, non sono elementi sufficienti per giustificare ciò che può distruggere la mia vita, per sempre. Forse dovremmo andare a Teheran, dovrei proseguire per Tabriz e risvegliarmi da un sogno troppo bello perché possa realizzarsi. Se non vado a Tabriz adesso non potrò andarci mai più. Cerca di comprendermi. Ho conosciuto solo Kadar, non so cosa sia l’amore, non so nulla…’

Hans le sfiorò il volto con una carezza.

‘Devi essere serena, devi riflettere, certamente, ma in fretta. E’ vero: subito Tabriz o forse mai più. E’ anche vero che non dobbiamo offrire a nessuno l’opportunità di farti del male. Ma é soprattutto vero che ho pensato di vivere con te, per sempre, dal primo istante che mi sei apparsa, visione d’incanto. Sarà un’avventura, si, ma durerà tutta la vita, lontani da qui, nel mio Paese che dovrà essere anche il tuo.’

Le sfiorò le labbra, le baciò gli occhi bagnati di lacrime.

‘Se non vuoi restare con me, ti porterò a Tabriz, subito.’

Lo ascoltava col viso che andava perdendo ogni segno di preoccupazione illuminandosi in un sorriso meraviglioso.

‘Hans, fermiamoci a Kuwait City. Solo una sera. Ti seguirò dovunque vorrai, e fino a quando vorrai. Posso scegliere per la prima volta nella mia vita, e scelgo l’uomo che attendo da sempre. Una sola notte, o per sempre, come vorrai…’

La voce del pilota informò: ‘Monsieur Mueller, abbiamo iniziato la discesa per Kuwait City.’

* * *

Non era facile trovare posto in albergo se si giungeva senza prenotazione, ma la telefonata dall’Aeroporto, ‘sostenuta’ dalla promessa di ‘un verdone’ aveva messo a disposizione di mister Mueller l’ultima, ma proprio l’ultima -aveva giurato il recepionist- suite rimasta.

La comoda limousine correva velocemente, sull’ampia autostrada, verso il centro della città, verso l’Intercontinental, vicino al KAC, Kuwait Air Center. Le strade erano affollate, la sera scendeva rapidamente.

Alla ‘Reception’, con un largo sorriso, l’impiegato confermò la sistemazione, mentre ritirava il passaporto di Hans dal quale sporgeva un biglietto da 100 dollari, e assicurò che il bagaglio ‘stava salendo’.

Urmia era silenziosa. Entrò nell’ascensore con Hans, ed esitò un istante prima di uscirne, al piano. Poi avanzò lentamente, vicina all’uomo, lungo il corridoio, fino alla porta che l’accompagnatore aveva aperto. Si fermò istintivamente, per farlo entrare per primo. Hans le sorrise: ‘dopo di lei, madame.’ Con un profondo sospiro varcò l’uscio, solo un passo, restò immobile, sentì la porta richiudersi, la chiave girare nella toppa. Non si mosse.

Hans le posò una mano sul braccio.

‘Sono sicuro che vorrai riposare un po’…’

La sentì trasalire, irrigidirsi.

Continuò cortese: ‘…prima di cena, e che vuoi sentirti libera di farlo. Vedi, su questo salotto si aprono due camere, scegli quella che preferisci, io andrò nell’altra, farò una doccia e scenderò nel bar ad attenderti. Non avere fretta. Prenoterò un tavolo per la cena. Posso ordinare lo champagne?’

Lei gli strinse la mano, annuì con la testa, non poteva parlare, un nodo le serrava la gola. Senza guardarlo s’avviò, rigida, verso la camera di destra, entrò senza chiudere la porta. Hans si avvicinò all’uscio e lo accostò, piano, senza far rumore. Andò nella sua camera.

* * *

La vide subito, quando apparve allorché si aprì l’ascensore.

Una visione irreale, fiabesca. Sangue arabo e sangue armeno uniti in un capolavoro di bellezza e di grazia. Snella, meravigliosamente tornita, fasciata da preziose stoffe tessute dalla maestria della sua gente, con incedere maestoso e languido nel contempo, lasciava intendere il fuoco che le ardeva dentro, donatole da Sahand, il vulcano della sua terra.

Improvvisamente ci fu un silenzio innaturale. Cessò il brusio delle conversazioni, si fermarono tutti, il barman con lo shaker a mezz’aria, ad ammirarla nel suo incedere regale verso Hans che le andava incontro estasiato.

Era radiosa, i lineamenti perfetti, il viso illuminato da un lieve sorriso. Gli occhi sfavillanti comunicarono a Hans la sua decisione, la sua scelta, la sua promessa, il suo desiderio.

Si avviarono verso il ristorante, mentre riprendevano i soliti rumori, il vociare, il tintinnio dei bicchieri.

Il Maitre aveva riservato un tavolo d’angolo, da dove si dominava la sala senza essere visti. Lo champagne era in fresco nel secchiello argentato. Le coppe attendevano scintillanti, riflettendo la fiamma della candela. Guardò Hans e al di lui cenno di assenso riempì le coppe. Si rivolse a Urmia in inglese e lei gli rispose in inglese, come se non avesse compreso il commento che l’uomo aveva sussurrato in arabo nel vederla.

Lo champagne era proibito dal Corano, ma Urmia trascurò la regola. Ormai!

Cena leggera, con champagne appena centellinato. Caff&egrave arabo.

Bighellonarono intorno alle vetrine della galleria, si fermarono appena al tavolo che esponeva giornali di tutto il mondo.

Hans indicò un gioiello esposto in una bacheca. Urmia gli prese la mano e s’avviò all’ascensore.

Erano ancora così quando entrarono nella suite. La donna si staccò da lui, gli gettò un bacio con la punta delle dita e entrò nella sua camera. Chiuse la porta.

Hans rimase un istante senza saper cosa fare, poi andò nella propria camera, gettò la giacca sulla poltrona accanto al tavolino, sfilò la cravatta e la pose sulla giacca, dopo fu la volta della camicia. Quando uscì dal bagno indossava i soli pantaloncini del pigiama. Sedette sul letto pensando a quello che era accaduto negli ultimi giorni. Le cose stavano prendendo una piega inaspettata. Lui non aveva ben valutato gli eventi né li aveva saputi gestire. Una frase buttata là, per cortesia, per galanteria, era all’origine di quanto stava avvenendo. Poi tutto gli era sfuggito di mano, ed era stato travolto come in un film di cui sentiva di essere interprete malgré lui.

Urmia era bellissima, affascinante, sexy, desiderabile, certo, ma lui, all’inizio non aveva puntato nemmeno a una fugace avventura. Ora erano insieme, e aveva acquistato anche per lei un biglietto per il suo Paese.

Donna affascinante, e lui, che conosceva quasi esclusivamente ‘professioniste’, si sentiva a disagio fino a paventare il realizzarsi di quello che pur desiderava. Temeva il ripetersi, come troppo spesso gli capitava nel momento meno opportuno, di ciò che lui giustificava con l’improvvisa caduta di desiderio, ma questa volta lo avrebbe ridicolizzato, e non se la poteva cavare, certo, con qualche bigliettone in più e una generica scusa.

Urmia sembrava essere stata assalita dal ‘pudore dell’ultimo minuto’, e questo, in fondo, lo traeva d’impaccio. Aveva risposto ai suoi baci languidamente, voluttuosamente, appassionatamente, s’era lasciata cullare sulle ginocchia come una bambina in cerca di rifugio, aveva indossato un abito che la rendeva ancor più desiderabile, era stata dolcissima, tenera. Poi era andata nella sua camera e aveva chiuso la porta. Forse il suo vero fine era fuggire dal marito, da Bandar Abbas, e ogni mezzo era utile.

Sulla porta apparve Urmia.

In una lunga vestaglia, ampia, ricca di fili d’oro intessuti in una trasparentissima seta fucsia. Capelli sciolti, serici, lucidi. Le labbra dischiuse sui candidi denti.

Hans s’alzò di scatto, sorpreso da quell’improvvisa apparizione celestiale, e a disagio per il suo abbigliamento.

La donna gli si avvicinò sorridendo, gli si rifugiò tra le braccia cercandogli avidamente le labbra, aderendo a lui col ventre fremente, mentre le piccole unghie gli sfioravano lievemente la schiena nuda. Si allontanò appena, per far cadere la vestaglia, e tornò a stringersi a lui, eccitandolo con lenti e sapienti movimenti del pube e delle gambe. Indietreggiò fino alla sponda del letto. Vi si sdraiò, le gambe semiaperte, le narici frementi, le braccia tese verso Hans che, intanto, s’era liberato dell’unico indumento che indossava. Le mani s’incontrarono, le dita s’intrecciarono. Lo attrasse su di sé, gli afferrò il sesso, con prepotenza, lo condusse con avidità in sé, ingoiandolo, inarcò le reni, alzò le gambe incrociandogliele sulla schiena, stringendolo ritmicamente, sollevando il bacino. Si sentì invasa da un tepore che non la dissetava, seguitò a muoversi, ad agitarsi, a stringerlo sempre più, a strofinarsi a lui, gemendo, sussultando, con un rantolo che finì in un gorgogliare roco.

Hans era in balia di quella magnifica femmina, oggetto, più che partecipe, della passione, dell’impeto, della foga che lo travolgevano.

Ora le era accanto. Le carezzava dolcemente il ventre.

Lei ansimava, pronunciava parole in una lingua che lui non comprendeva. Poggiò la sua mano su quella di Hans.

‘Quì c’é tuo figlio, Hans. Lo concepisco vicino alla mia terra, lo metterò al mondo nella tua terra. E’ il sigillo che ci unirà per sempre.’

III

Le giornate si susseguivano grigie, uniformi, noiose, monotonamente uguali. Hans usciva presto, al mattino, e tornava a sera inoltrata quasi sempre con una borsa gonfia di documenti che consultava dopo aver frettolosamente cenato.

Urmia non riusciva più a sopportare questo genere di vita.

Si era iscritta a un corso per migliorare la conoscenza della lingua locale, era stata cordialmente accolta all’Ospedale pediatrico dove s’era offerta come volontaria. Fra l’altro, il permesso di guida del suo Paese non era valido in quello stato e lei aveva sempre rimandato di conseguire quello che le avrebbe permesso di condurre l’auto. Gran parte del suo tempo fuori casa, quindi, lo trascorreva in attesa di taxi e mezzi pubblici e su di essi.

Hans era tormentato dalla fretta: s’alzava in fretta, si preparava in fretta, usciva in fretta, a volte senza nemmeno salutarla. Le poche volte che notava la presenza della donna, a letto, faceva tutto in fretta, come quando osservava uno dei suoi tanti doveri.

Urmia era seduta sul divano dello studio.

‘Hans’ -disse- ‘lavori troppo, sei sempre immerso nel tuo lavoro. Forse non ti sei accorto che alcuni vestiti mi vanno un po’ stretti…’

‘Dev’essere l’aria di questa città il nostro cibo’ -la interruppe- ‘non vi sei abituata. Ma non preoccuparti, esci e compera quello che ti serve.’

‘Hans’ -proseguì sarcastica- ‘é l’effetto dell’aria del Kuwait. Devo andare in pre-maman…’

Lui alzò la testa dalle carte che stava consultando, la guardò con aria sorpresa, interrogativa.

‘Hans, te l’ho detto nello stesso istante che l’ho concepito. Aspetto tuo figlio.’

‘Scusa, Urmia, é vero, ma la maternità non ha fatto che aumentare ancora la tua bellezza, e mi ha fatto dimenticare tutto il resto. Ho seguitato a fare l’amore con te… forse, dato il tuo stato… non avrei dovuto farlo, vero? A te dà fastidio? Vuoi che io dorma qui, sul divano?’

Non avrebbe smesso di parlare se lei non lo avesse interrotto.

‘Hans, ora più che mai sento il desiderio, il bisogno di averti. Ma tu hai così poco tempo da dedicarmi, per tenermi tra le tue braccia, cullarmi… Lo capisco. Forse ho fatto male a venire con te. Tu hai bisogno di sentirti completamente libero. Ho pensato che sarà bene che mi trovi un’occupazione, appena possibile. Ho confidato tutto a mio padre, e lui ha compreso quale e quanto amore io nutra per te. E’ un uomo che pensa in modo occidentale e moderno. Mi ha telefonato preannunciando una sua prossima visita, e sono certo che sarà felice di divenire nonno. Io non voglio costituire un peso per te, sotto tutti i punti di vista. Mi basterà tuo figlio. Lui mi parlerà di te in ogni momento, e tu sarai in lui.’

Lo guardava col volto triste, gli occhi pieni di lacrime, con dolore e rassegnazione. Hans non l’amava, non le voleva bene, era pentito di averla condotta nella sua casa. Lo sentiva. La fugacità dei loro rapporti sessuali lo confermava. Era quello che lei aveva letto nei romanzi, una ‘sveltina’, ‘una botta e via’. Per lui era come quando mangiava: non sapeva cosa mangiava e alla fine non ricordava neppure se avesse mangiato o meno. Quell’accostamento al cibo le fece tornare alla mente la definizione di ‘appetito sessuale’. Si, lei desiderava l’uomo, aveva fame di uomo, ma rimaneva sempre insoddisfatta. Come chi pregusti un lauto e succulento banchetto ed abbia solo un insipido antipasto. Ricordi di scuola: ‘dopo il pasto ha più fame che pria’. Solo che lei non aveva mai un vero pasto. Avrebbe voluto saziarsi di Hans, farne una vera scorpacciata, fino a sentirsi sfinita. La sua giovane ed esuberante natura cominciava a farle considerare se, poi, era proprio vero che solo in Hans avrebbe potuto trovare quanto desiderava. Un proverbio della sua terra dice che non c’é amore senza sesso ma ci può essere sesso senza amore. Se la tua fonte é arida chiedi al tuo vicino di farti dissetare alla sua. A Bander Abbas non aveva conosciuto l’orgasmo. Quella notte, in Kuwait, ne fece la meravigliosa scoperta, ma forse solo per la forza della sua volontà. Aveva voluto vivere fino in fondo, intensamente, quel senso di liberazione totale che la rendeva così disponibile ad essere felice, a godere.

Hans s’avvicinò a lei, la guardò con dolcezza, con un lieve sorriso sulle labbra, una luce di felicità negli occhi. La bellissima Urmia gli avrebbe dato un figlio. Quella splendida creatura, da lui così poco curata, che lo metteva a disagio quando incontravano gli altri, perché non sapeva come presentarla, era la madre di suo figlio. La baciò sugli occhi, sulla bocca, sul collo. Sbottonò la camicetta, carezzò il seno, baciò i capezzoli, li tenne a lungo tra le labbra succhiandoli dolcemente, mentre le dita facevano scorrere la chiusura della gonna, abbassavano maldestramente le piccole mutandine. La sua lingua scese sul ventre, in grembo, si fece strada tra i morbidi cespugli della valle dell’amore, ne lambì le pareti, si soffermò sul colle dell’ebrezza, corse verso il precipizio della voluttà, risalì lentamente e tornò giù di nuovo, ancora ed ancora, mentre lei gli passava le sottili dita tra i capelli, accompagnando discretamente il movimento del capo. Era una cosa meravigliosa, che attendeva da sempre. Quella lingua palpitante la frugava, la sconvolgeva nell’intimo, nel più profondo del suo essere, dolcissima rugiada vivificante, carezza paradisiaca, che l’inebriava, la faceva godere nel languore voluttuoso che l’invadeva.

Hans la prese in braccio, la portò nella loro camera, sul loro letto. Si liberò dei vestiti, le fu sopra, la penetrò con lentezza esasperante, sentì le palpitanti contrazioni di lei che l’attirava sempre più profondamente in sé. Movimenti lenti e lunghi, dosati, sapientemente corrisposti da quella meravigliosa creatura uscita dalla schiera delle al-hur per il piacere del suo signore.

Giacque esausta, come non mai, gli prese la mano e la baciò. ‘Signore’ -gli sussurrò con affanno- ‘se la tua sazietà é come la mia, ciò é la completezza concessaci dalla grazia di Dio, clemente e misericordioso. Allah akbar!’

* * *

Husayn era venuto a visitare la figlia, ma il motivo ufficiale del suo viaggio era un altro. Per la sua gente, infatti, Urmia era colpevole di vivere con un kafìr, un uomo di un’altra fede. Ciò é contro lo scritto, perché nessun uomo che non sia soggetto alla legge di Allah può aver come moglie una donna musulmana.

Husayn aveva vissuto gran parte della sua vita in occidente, nel Paese dove risedeva Urmia. Lì aveva studiato, partecipato agli immancabili movimenti studenteschi, assorbito Cartesio, Voltaire ed altri, assimilandone il pensiero. Si era perfezionato negli Stati Uniti. Questo gli faceva comprendere e tollerare determinate realtà che erano in pieno contrasto con la religione, gli usi, le tradizioni della sua gente. La sua preparazione e la sua esperienza gli avevano fatto raggiungere un posto di preminenza nella finanza del suo Paese e ciò lo portava a girare il mondo. Quando aveva salutato la moglie, prima di partire, Amina l’aveva fissato a lungo, in silenzio. Lui la rassicurò: ‘Le porterò il tuo abbraccio, sta sicura, e non le mancherà nulla. Urmia é nostra figlia, la luce degli occhi miei.’

Hans e Urnia erano andati ad accoglierlo all’aeroporto.

Husayn, alto, elegante, disinvolto, non aveva ancora cinquant’anni. Quando apparve sulla porta, Urmia gli corse incontro e si chinò per baciargli la mano. Lui la ritrasse e strinse a sé la figlia, meno forte di quanto avrebbe voluto, però, per la gravidanza che sapeva. Tese la mano a Hans e la strinse vigorosamente.

Un giovane, impeccabilmente vestito, attendeva a rispettosa distanza. Husayn gli consegnò la valigetta che aveva con sé e gli parlò in Azerbaijani. L’uomo s’inchinò con deferenza e si allontanò.

‘Noi possiamo andare’ -disse rivolgendosi alla figlia- ‘Syro penserà al resto e mi aspetterà in albergo.’

Fuori l’attendeva la limousine della Mel Bank, con l’autista e un incaricato dell’Ambasciata che lo accolse con profondo rispetto.

Hans disse che lo avrebbe seguito con la sua auto, e che se Urmia lo desiderava poteva stare col padre.

Husayn rispose sorridendo che la donna non deve mai lasciare il suo uomo e lui non voleva separarsi dalla figlia. Per questo, sarebbero andati tutti con la limousine. Bastava dare le chiavi dell’auto al giovane dell’Ambasciata e Hans l’avrebbe ritrovata nella rimessa dell’Albergo.

‘O forse ti stanchi troppo?’ Chiese premuroso alla figlia.

‘Nessuna stanchezza, e sto benissimo con voi due!’

Il direttore dell’Albergo si dichiarò felice di rivederlo. Lo trovava in splendida forma. Gli era stata riservata la solita ‘vip suite’. Gli augurava buona permanenza.

Era un appartamento molto accogliente: isolato dai rumori della strada, munito di ogni comfort.

Urmia bevve avidamente le notizie che il padre le portava da casa. Si informò minutamente di tutti e di tutto. Abbassò la voce quando gli ripeté che era profondamente commossa e grata per la comprensione e il perdono dei genitori per il suo comportamento, e voleva tornare a spiegarne le ragioni, già lungamente scritte e ancor più dettagliatamente esposte in telefonate che sembravano non dover mai finire.

Husayn fece cenno con la testa e con le mani che la figlia non doveva proseguire oltre. Sentiva che era profondamente commossa e non voleva turbarla, specie in quelle condizioni.

‘Assez’ -disse- ‘va bene, cara, va bene. Io e tua madre crediamo di aver compreso le tue ragioni. Lei ed io ne abbiamo parlato a lungo. Riteniamo che alla base di tutto vi sia un nostro errore, mio e di Amina, che ci atteggiamo a ‘moderni’ ma agiamo secondo anacronistici usi, perseverando nell’errore tipico della nostra generazione: credere che quello che noi riteniamo essere il bene dei nostri figli sia veramente il bene che loro vogliono. Vorrei che Hans non mi consideri, per quello che ho detto, un cinico, un dissoluto, un rinnegatore della mia fede. Cerco di essere un uomo pratico, soprattutto rispettoso delle scelte degli altri. A parte tutto, credo che sarete lieti di apprendere che il matrimonio tra l’uomo di Bandar Abbas e Urmia é stato annullato.’

Urmia gli prese le mani e gliele baciò, Hans sorrise chinando il capo.

‘Voi’ -riprese Husayn- ‘siete liberi di vivere come desiderate, ma ritengo che, almeno per il momento, non sia consigliabile una vostra visita a Tabriz.

Scusate se affronto subito un argomento molto delicato, e se dico tutto e subito, ma vorrei, in seguito, dedicare il poco tempo che potrò stare con voi al piacere della famiglia e non alle chiacchiere. Avete già in mente un nome per la creatura che nascerà?’

Hans rispose senza esitazione: Louis Mueller, se sarà un maschio, di Hans Mueller e di Urmia Hamdan Divani. Se sarà una bambina si chiamerà Louise. Urmia ed io siamo d’accordo.’

‘E non vedo come e perché non dovrei essere anch’io d’accordo’ -disse Husayn- ‘ma vi sarò molto grato se al nome di Louis vorrete aggiungere, sia pure separato da una virgola o da un trattino, Hasan. Io e Amina ne saremo felici. Se, invece, sarà una femmina, ci piacerebbe che Louise fosse anche Fatima.’

E guardò fisso la coppia, col sorriso sulle labbra e una luce ferma e decisa negli occhi.

Hans e Urmia si scambiarono un’occhiata.

‘Sarà un vero piacere, per noi, venire incontro ai vostri desideri, monsieru Hamdan.’

‘Io e Amina ve ne siamo grati, ma devo ricordare a Hans che per lui sono Husayn, non monsieur Hamdan. Sai, Hans, Husayn era il fratello di Hasan e figlio di Fatima. E ancora un ultimo ‘argomento delicato’. Urmia, pur rispettando i suoi doveri di sposa e madre, potrà certo dedicare una piccola parte di tempo alla raccolta delle notizie, che di volta in volta le chiederò, e che potrà rilevare dalla stampa economico-finanziaria locale. Per questo incarico le verrà corrisposto un assegno mensile che potrà, forse, esservi utile.’

Husayn disse la cifra che inizialmente Urmia avrebbe percepito, aggiunse che a ciò avrebbe pensato la Mel Bank locale, e Hans sussultò perché era più di quanto guadagnava lui.

Seguì un certo silenzio. Lo ruppe Husayn: ‘Ed ora diamoci una rinfrescata. Di là c’é quello che può servirvi. Poi andremo al ristorante, credo che sia più allegro che non farci servire in questo salotto.’

Si alzò e andò nella sua camera.

* * *

Hans era furioso verso sé stesso.

Aveva continuamente sorriso a Husayn, aveva seguitato a far cenni di assenso a ogni parola di lui. Era stato accattivante, ai limiti dell’adulazione. Non aveva saputo decisamente respingere l’offerta di danaro fatta in quel modo così contorto e strisciante. Era stato il cortigiano ai piedi del principe. Ancora una volta, di fronte al ricco e potente si era sentito inferiore. E lo era stato verso un asiatico, non uno della sua stessa razza pura. S’attaccava al fioco barlume d’indipendeza esteriore che aveva affermato col dire che il nome del nascituro era già stato scelto. Ma si era affrettato ad accettarne la barbara aggiunta.

In auto, tornando a casa con Urmia, stringeva le mascelle fino a sentirle dolere. Non avrebbe detto nulla alla donna di quello che gli passava per la mente. Meglio attendere la partenza di Husayn per mettere le cose in chiaro, per sottolineare che la sua gentilezza non doveva essere scambiata per debolezza.

Urmia era felice. Gli occhi le scintillavano. Hans era stato meravigliosamente affettuoso e gentile col padre. Gli avrebbe dimostrato tutta la sua gratitudine. Andò a letto indossando la sua più provocante e sexy camicia da notte. Bellissima anche nelle sua evidente maternità, anzi più bella che mai.

Hans si accostò al letto, la baciò in fronte, e le chiese scusa se doveva lasciarla per esaminare alcuni documenti. Andò nello studio, sedette dietro la scrivania e restò a lungo a pensare, a ruminare, con lo sguardo nel vuoto, senza neppure aprire la cartella che aveva davanti. Forse era stato frettoloso a dichiarare che il nome era già stato scelto e ancor più a sottolineare che quel ragazzino ‘mezzo-sangue’ si sarebbe chiamato Mueller.

* * *

Quando nacque, alla Mairie il bambino fu iscritto come Louis-Hasan Mueller. E lo chiamarono affettuosamente Lousan.

Un bambino molto bello, che ora correva nel giardino dell’esclusiva école maternelle offerta da ‘nonno Hus’, dove ogni mattina lo accompagnava lo scuola-bus, lo stesso che nel pomeriggio lo riportava nel vasto ed elegante appartamento di Rue de la Liberté.

Hans, Direttore della nuova società, dedicava a Lousan il poco tempo che riusciva a sottrarre al lavoro. Per Urmia, solo qualche parola, gentile, a volte formalmente affettuosa, ma senza amore, senza passione per la donna che si sforzava di considerarlo il suo unico uomo, anche se i rari momenti di distratta e frettolosa intimità la lasciavano sempre più triste e insoddisfatta.

Urmia insegnava il ‘pharsi’ a Lousan, e nonno Hus gli parlava in Azerbaijani.

Giorni vuoti, con la speranza di avere Hans a pranzo e in attesa del ritorno di Lousan. Mattinate dedicate ad annoiate visite a qualche museo, a cerebrali e presuntuose conferenze spesso pseudo-culturali.

* * *

L’oratore aveva una smorfia di dolore sul volto. Con voce bassa e monotona, incolore, cercava di convincere lo sparuto uditorio, della tesi che sosteneva a favore degli Irochesi. Qualcuno si dimostrava attento, anche se non capiva.

L’uomo che le sedeva accanto si chinò appena verso di lei: ‘Meglio andare a godersi il sole’ -sussurrò- ‘a prendere un caff&egrave…’ E senza attendere risposta la prese sottobraccio, l’aiutò ad alzarsi, la condusse fuori. In punta di piedi. Appena fuori della sala, emisero, insieme, un lungo sospiro liberatorio e scoppiarono a ridere.

‘Mi chiamo Benjamin Aurole, e qui ci devo venire per scrivere un articolo per il giornale, ma lei é veramente interessata agli Irochesi?’

La guardò con aria interrogativa, ironica.

Era un bel giovane, bruno, simpatico, in un abito sportivo di buon taglio.

‘Sono Urmia Mueller. Grazie per avermi detto l’argomento della conferenza’ -gli disse con un sorriso incantevolmente sbarazzino- ‘e per avermi spinta ad uscire dalla sala. Da sola non ne avrei avuto il coraggio. Adesso, però, devo lasciarla. Lousan fra poco sarà a casa e cercherà la sua mamma. Adieu!’

Benjamin le porse un biglietto.

‘E’ per il concerto di domani mattina, venga, é bellissimo. L’aspetto.’

Le prese la mano e ne baciò dolcemente il palmo.

Lei s’allontanò senza voltarsi.

IV

Pierre attendeva nel salotto.

Gli avevano detto che madame non era ancora rientrata. Forse non l’attendeva o aveva dimenticato l’appuntamento.

Desiderava un drink, un caff&egrave, qualcosa d’altro?

Pierre rifiutò cortesemente, e quando rimase solo s’avvicinò al mobile posto di fronte alla finestra, sovrastato da un grande specchio antico. Sul ripiano, incorniciato d’argento, il volto splendido d’una donna. Occhi profondi, sguardo languido e denso di promesse. Chissà per chi, pensò Pierre, e andò a sedersi sul divano.

La porta s’aprì ed entrò l’originale del ritratto, molto più bello di quanto appariva in fotografia.

Pierre s’alzò e le andò incontro guardandola intensamente negli occhi, per trasmetterle con tutte le sue forze il suo improvviso e prepotente desiderio di averla.

Lei gli tese la mano, con un sorriso che non riusciva a nascondere il suo turbamento. Aveva ricevuto il messaggio e ne era sconvolta, assalita da un’onda che la stava travolgendo e alla quale, pur dovendolo, non poteva e non voleva sfuggire.

Pierre le baciò la mano e la trattenne tra le sue mentre la conduceva verso il divano. La fece sedere e le si mise accanto, vicinissimo, sentendone il tepore del corpo attraverso il vestito.

‘Madame, sono Pierre Parmier.’

Urmia sorrise, immobile, rigida.

‘Lo so, monsieur Parmier, Hans mi ha parlato spesso di lei.’

‘Madame, la prego, mi chiami Pierre. Hans non verrà domani perché un’imprevista riunione ad alto livello lo ha costretto a partire subito. Dato che dovrò raggiungerlo, mi ha chiesto di mettermi a sua disposizione e di accompagnarla durante il viaggio, perché desidera mantenere la promessa di farle visitare Roma.’

Lei aveva lasciato la sua piccola mano tra quelle, molto curate, di lui e si sentiva protetta, sicura, come se lo avesse conosciuto da sempre. Il calore di Pierre, che le premeva sull’anca, la invadeva lentamente, deliziosamente, la eccitava violentemente.

La sua voce era calda, alquanto arrochita.

‘Dev’essere stata davvero improvvisa la partenza di Hans’ -disse- ‘se non ha avuto il tempo di avvertirmi. Ha mandato lei con l’incarico di impacchettarmi e di portarmi da lui, come un oggetto, e solo per mantenere la promessa. Credo che non andrò a Roma… Pierre.’

Lo aveva chiamato per nome, guardandolo diritto negli occhi, stringendogli le mani, con le narici frementi.

Prima di rispondere, Pierre portò la mano della donna alle sue labbra.

‘Madame…’

Lo interruppe.

‘Urmia…’.

‘Urmia, Roma é bella, la conosco bene perché mia madre é romana e l’italiano é la mia seconda lingua. Hans sarà occupato, certo, ma io le mostrerò l’incanto di quella città. Mi faccia questo regalo, venga a Roma. Con me.’

Aveva poggiato la mano sulla gamba della donna, che inarcò la schiena percorsa da un brivido, presa da una sensazione sconosciuta, dalla smania da averlo subito, ora, lì, dalla improrogabile urgenza d’una fregola improvvisa, dalla voracità imperiosa del suo sesso che si contraeva spasmodicamente, dolorosamente vuoto.

S’alzò di scatto, andò alla porta, la socchiuse, chiamò la cameriera: ‘Marie, venga qui con Lousan, per favore.’

Restò vicino alla porta, senza guardare Pierre rimasto sul divano.

Lousan e Marie entrarono dopo pochi istanti. Il bambino salutò Pierre con un gesto familiare. Urmia lo prese per mano e si curvò su di lui, ponendo in risalto la tornita flessuosità del suo corpo.

‘Lou, la mamma va a Roma, da papà, starà fuori pochissimo. Partirà domattina presto, con questo signore. A te penserà Marie e io ti porterò un bel regalo. D’accordo?’

‘Va bene, mamma, ma come si chiama questo signore?’

‘E’ monsieur Parmier. Adesso dà un bacione alla mamma e saluta monsieur. Io vado a cena con lui e quando domani partirò tu starai ancora dormendo. Per questo ci salutiamo adesso.’

Il bambino abbracciò forte la mamma, la baciò sulle guance. Fece ‘ciao’ a Pierre e uscì con Marie.

‘Salgo a preparare la valigia, Pierre’ -disse Urmia senza allontanarsi dalla porta- ‘mi aspetta qui?’

‘Sono certo che potrò esserle utile…’

Rispose l’uomo, e s’alzò avvicinandosi a Urmia.

Lei lo guardò senza parlare, uscì nell’ingresso, cominciò a salire al piano di sopra e con una mano tolse il fermaglio dai capelli che le avvolsero le spalle in un lungo mantello serico. Entrò nella camera, seguita da Pierre. Chiuse la porta, girò la chiave. Si tolse i vestiti, con furore, e si gettò riversa sul letto, di traverso, col ventre sussultante, le gambe dischiuse.

‘Adesso, Pierre, adesso… subito… per favore, subito… Pierre…’

E mormorava parole che Pierre non capiva, in una lingua sconosciuta.

Si liberò degli abiti, con sveltezza ma ordinatamente, s’avvicinò alla donna che gli tendeva le braccia, che gli prese le mani e lo tirò su di sé.

‘Entra in me, Pierre… subito, in me… così… sì… così.’

E intrecciò le gambe snelle sulla schiena di lui.

* * *

Urmia giaceva nuda. Gli occhi aperti guardavano il soffitto, il respiro ancora lievemente affannoso.

Era stato meraviglioso Pierre, appagante come non mai. No, il sentimento non c’entrava per nulla, in tutto questo. Solo sensi, pulsioni, istinto, esigenze del sesso, fame di sesso, attrazione fisica, il richiamo del maschio. Conferma della totale appartenenza al regno animale, dell’essere schiavi delle imperiose leggi della natura.

Pierre, poggiato su un fianco, la guardava con sorpresa, interesse, curiosità. Non aveva mai conosciuto una donna così. Ripensava alle volte che, di fronte all’insopportabilità di Hans, lo aveva guardato in faccia, con un sorrisetto a fior di labbra, mentre con la mente si proponeva di fargli il peggiore degli sfregi, ‘scopargli la moglie’, soprattutto sodomizzarla. Quell’imbecille razzista viveva con una non ariana, aveva un figlio mezzo sangue, e lui gli avrebbe scopato la moglie, solo per sfregio, e mentre la scopava le avrebbe sussurrato, senza farsi capire: ‘alla faccia di quello stronzo… beccati questo… beccati questo…’

Aveva preparato tutto accuratamente.

Appena incontrata l’aveva fissata con falsa concupiscenza, le aveva trasmesso un messaggio di cupidigia, di bramosia. Tutta finzione. Le aveva tenuto la mano tra le sue mani, s’era premuto al fianco di lei. Tutta scena.

Il ruolo, invece, s’era completamente e improvvisamente invertito. Urmia aveva posseduto lui. Con calore, passionalità, veemenza, incurante di lui. S’era goduto il maschio che attendeva da sempre. Se ne era saziata, golosamente, ingordamente. Razza e religione non c’entravano affatto. La femmina araba, islamica, aveva capito che quello era il suo maschio, e nulla importava che fosse Ebreo, come Pierre. Forse era proprio l’incoscio richiamo della stessa razza semita a farle desiderare irresistibilmente quell’uomo. E lo aveva goduto. Era paga. Almeno per il momento.

Girò il capo verso Pierre: ‘M’inviti a cena?’

‘Non hai cenato?’

Chiese ironico Pierre.

‘E’ stata solamente l’entrée, chéri’ -rispose sorridendo- ‘bisogna arrivare al… gateaux!’

* * *

Urmia guidò l’auto direttamente nel garage dell’Albergo dove aveva preso alloggio Pierre. Aveva assicurato che il Ristorante era molto raffinato.

In ascensore chiese a Pierre se avesse con sé la chiave della camera. ‘E’ meglio che io lasci da te il mantello, prima di scendere a cena.’

La cameriera aveva già preparato per la notte.

‘ Perché hai le grand lit? Ho sconvolto i tuoi programmi?’

‘No’ -rispose Pierre- ‘non hai sconvolto il mio programma, hai sconvolto me. Meravigliosamente sconvolto.’

Urmia, toltosi il mantello, s’era seduta sul letto. Gli tese la mano.

‘Ti voglio, Pierre.’

Si rovesciò indietro, le gambe fuori dal letto, alzò il vestito, sotto non indossava niente.

Pierre fu subito eccitato. Gettò la giacca sul pavimento, lasciò cadere i pantaloni. Le fu sopra. Atteso, accolto dal palpitare del grembo che lo mungeva voluttuosamente, dalle gambe che gli serravano i fianchi. Quando si abbandonò, sfinita, ricordò la promessa che mentalmente aveva fatto a Hans. Indipendentemente da quanto era accaduto, doveva farlo. Ebbe come un violento ritorno di fiamma. .

Sfilò il vestito a Urmia, la carezzò piano mentre la faceva voltare, lentamente, fino a quando non fu a pancia sotto. Le sollevò le natiche tenendola per i fianchi. Lei donna lasciava fare, quasi abbandonata a sé stessa. Era carponi, sulla sponda del letto, con le braccia sotto la testa.

Pierre era in piedi, con le dita raccolse dalla bocca abbondante saliva, ne avvolse il glande e lo poggiò tra i glutei della donna.

Urmia sollevò un po’ la testa e si voltò verso di lui, sorpresa ma con gli occhi ancora pieni dell’estasi di pochi istanti prima.

‘Est-ce que monsieur désire le dessert? Serve-toi, cheri! Tu seras le premier et l’unique à le gouter, à parcourire cette voie la!’

E s’adoperò per facilitarlo a penetrarla.

Pierre godé doppiamente pensando a Hans.

E per Urmia fu una inimmaginabile scoperta. Le piacque. E fu felice di provare tale sensazione con Pierre.

Poi fecero la doccia, insieme, con naturalezza, come se lo avessero fatto sempre.

E’ scritto: ‘…si lavino ambedue con acqua…’

* * *

Durante la cena non gli tolse lo sguardo da dosso. Lo guardava estasiata, gli prendeva la mano, desiderava lambirla, strofinarsi a lui, annusarlo.

‘Pierre, mettiamo il tuo bagaglio nella mia auto e vieni a casa mia. Domattina partiremo da lì, staremo ancora insieme le poche ore della notte.’

La fissò senza rispondere. Cercava, nella mente, un motivo valido per declinare l’invito, che pure lo lusingava, senza dare la sensazione d’un rifiuto. La stanchezza accumulata, quel sentirsi svuotato, l’età non più verdissima, quanto era meravigliosamente accaduto, la brevità del tempo trascorso dai tumultuosi incontri con Urmia, avrebbero potuto svelare la sua naturale debolezza e deludere quella giovane e fremente femmina.

‘Pierre, voglio solo dormire tra le tue braccia.’

Poche ore prima non si conoscevano, ora sembrava che avessero passato insieme una vita.

Le sorrise scuotendo appena la testa.

* * *

Entrarono in casa curando di non fare il minimo rumore. Salirono le scale, in silenzio. Passando dinanzi alle porte, Urmia tese l’orecchio per accertarsi, dal respiro, che Marie e Lousan dormissero.

La camera era avvolta dalla luce soffusa filtrata dal rosa dei paralumi. Inondava l’alcova, si rifletteva appena negli specchi e tornava sul letto, dove erano nudi, con solo un leggero lenzuolo che lasciava semiscoperto il seno di Urmia.

Era distesa su un fianco, appoggiata sul gomito, con la testa nel palmo della mano, i capelli sparsi sul petto di Pierre che, con le mani intrecciate sotto la testa. stava, immobile, guardando nel vuoto.

‘Buon riposo, Pierre.’

Gli sussurrò. Si chinò su di lui, lo baciò sulla bocca, gli passò la lingua sulle labbra, la introdusse tra i denti che si dischiusero lentamente. Col capezzolo, gli sfiorò il petto. La mano libera lo carezzò lungo il corpo, lievemente, sapientemente. Incontrò il sesso, ancora non sazio, turgido, prepotente. Ebbe un brivido, sentì contrarsi il ventre.

‘Voglio solo dormire tra le tue braccia’, aveva detto, ma questo sarebbe avvenuto dopo, forse.

Gli montò sopra, lo attrasse in sé, voracemente, golosamente. Cominciò a muoversi lentamente, accompagnandosi col dondolio della testa, i capelli sul petto di Pierre, gli occhi socchiusi. Un mormorio indistinto usciva dalle sue splendide labbra, una nenia sconosciuta, un lamento dolce e trascinante, uno struggente inno al piacere che andava sempre più invadendola, sommergendola, travolgendola, sfinendola. La bocca dischiusa, il volto rapito in un’estasi inebriante, il grembo insaziabile.

* * *

La sveglia li richiamò alla realtà.

Erano profondamente addormentati: Urmia tra le braccia di Pierre. Gli voltava la schiena. Lui la teneva stretta, una mano artigliata sul seno, l’altra tra le gambe. Urmia si voltò verso di lui, pigramente, gli s’incollò addosso, completamente nuda, deliziosamente tiepida.

‘Restiamo così Pierre’ -disse senza aprire gli occhi- ‘é meraviglioso.’

Pierre la baciò sulle palpebre..

‘Si, é meraviglioso, incantevole, favoloso, voluttuosamente eccitante, ma l’aereo non ci attenderà oltre l’orario stabilito.’

Le carezzò la schiena, e si svincolò dolcemente dalla stretta possessiva.

‘Sei crudele, Pierre. Sottrai la fonte delle delizie a chi arde per la sete.’

E sedette sulla sponda del letto.

Fuori era ancora buio.

Non scambiarono molte parole. Si prepararono in fretta e scesero in garage. Avrebbero fatto colazione in aereo.

Urmia sedette alla guida, mise in moto, spinse il pulsante dell’apertura automatica della rimessa e uscì lentamente sulla strada bagnata dall’umidità della notte. I lampioni erano ancora accesi, circondati da un alone opalescente. Rimasero in silenzio lungo tutto il non breve percorso.

Invece di andare al parcheggio dell’aeroporto, Urmia proseguì verso l’edificio delle partenze e si fermò davanti a una delle porte scorrevoli. Tirò la leva che apriva il portabagagli e scese.

Pierre la seguì, pensando che la donna intendesse scaricare il bagaglio e parcheggiare dopo. Alzò il coperchio e guardò Urmia: ‘E la tua valigia?’

‘Non c’é’ -rispose freddamente lei- ‘io non parto. Non vedo Hans da diversi giorni, e vorrei non rivederlo mai più.’

La sua voce divenne tremante, bassa, profonda, passionale.

‘Come potrei, Pierre, andare a Roma, stare con lui mentre tu sei li, a pochi metri da me senza che io ti possa avere. In un momento la mia vita é radicalmente e definitivamente cambiata. Forse era già scritto che dovesse accadere, solo che attendevo te. Un fuoco sconosciuto s’é impadronito di me, ma solo tu puoi domarlo. Dopo te, anche il miele mi sarà amaro. In meno d’un giorno ho vissuto tutta la mia esistenza. Sarà quello che sarà, e ciò dipenderà solo dal tuo volere. Addio Pierre.’

Gli prese la testa fra le mani, lo baciò sulla bocca, tormentandogli le labbra, salì in auto e partì sgommando.

***

v

I mesi erano trascorsi rapidamente.

Hans era sempre più immerso nel suo lavoro, radioso per l’incarico che lo aveva elevato al livello di quelli che nella sua fanciullezza lo avevano evitato. Non aveva tempo, per il resto.

Lousan aveva i suoi piccoli amici, i suoi giocattoli, le festicciole, e nonno Huy. Non gli mancava nulla. Andava nella miglior scuola materna della città, con i figli e i nipoti dei VIP.

Urmia, da quando non aveva raggiunto Hans, a Roma, per un lieve disturbo, sembrava un’altra. Sempre gentile e premurosa, ma sempre più distaccata, quasi assente.

Hans attribuiva il mutamento della moglie alla nuova gravidanza, giunta malgrado le scrupolose cautele che lui aveva posto nei rari rapporti avuti con la donna. Doveva recarsi negli Stati Uniti per un paio di settimane, ne avrebbe informato Urmia rientrando a casa.

La moglie, però, spesso non c’era, tornava a sera inoltrata. Era tutta presa dal bridge, da conferenze che trattavano gli argomenti più astrusi, da concerti d’ogni genere, e si mostrava contenta di quella sua vita. La vedeva rincasare, da quelle uscite sempre più frequenti, cogli occhi ancora pieni dell’incanto della musica, o del rapimento del racconto, o dell’eccitazione del giuoco.

Hans seguiva con indifferente mutismo il come la moglie viveva la sua seconda maternità.

La sorprendeva, a volte, in poltrona, con un’espressione di beata felicità sul volto, con le mani sul ventre, a carezzare quello che si muoveva in lei. Solo Lousan sembrava essere rimasto nel cuore della donna. Lei gli faceva lunghi discorsi, sottovoce, sorridendo; gli prendeva la manina e la portava sulla sua pancia facendogli ‘sentire’ il fratellino che sarebbe venuto a fargli compagnia. Era sempre bellissima, Urmia, e sembrava voler dire a tutti: ‘venite e vedete, qui é custodito il figlio’.

* * *

Urmia e Pierre avevano una piccola mansarda, arredata con coquetterie, piena di ninnoli orientali, col grande letto proprio di fronte alla finestra che dominava i tetti.

A volte, quando Pierre non poteva raggiungerla, si svestiva completamente, indossava sulla pelle nuda la vestaglia di Pierre, e si raggomitolava sul letto inebriandosi del profumo dell’uomo.

* * *

La camera della Villa del Sole sembrava una serra in piena fioritura.

Il bambino era bello, sano e robusto.

Urmia sembrava emergere da una riuscitissima cura di bellezza. Sprizzava felicità dai pori. Si voltava ad ammirare estasiata il suo piccolo. Lousan era vicino alla culla del fratellino.

‘Lasciatelo qui per qualche minuto, mettelo tra me e il bambino.’

Era un enorme cestino con splendidi fiori. Di gran lunga il più bello di tutti gli altri, numerosi, che aveva ricevuto. Sul biglietto che l’accompagnava, unicamente la firma: Pierre Parmier.

Hans poté raggiungerla solo il giorno successivo, portandole un collier con uno splendido rubino. Lei lo ringraziò e gli porse la guancia. Lo pregò di portare a casa il gioiello, lo avrebbe indossato al suo rientro.

Appena restarono soli disse di volergli parlare del neonato e del ‘battesimo’.

‘Forse per te é un fastidio dichiarare agli uffici anagrafici la nascita di un altro figlio, Hans, per questo ho pensato di dargli il mio cognome.’

‘No’ -la interruppe l’uomo- ‘sarà come per Lousan…’

‘Come vuoi’ -riprese Urmia senza dargli il tempo di seguitare- ‘ma il battesimo deve esserci perché desidero che sia Cristiano.’

Hans non batté ciglio.

‘Sarà una cerimonia molto intima. Pochi amici e, naturalmente, le parrain. Chiederò a Parmier di essere lui il padrino di questo bimbo, é di razza ebrea, ma da tempo la sua famiglia ha abbracciato il cristianesimo. Parmier é l’uomo che incarichi spesso di sostituirti, e sembra che lo faccia bene e con ottimi risultati, Vero? Quale miglior padrino dunque, per Hans Pierre. Perché é così che si chiamerà, Hans Pierre. Padre e padrino.’

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