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Zia Marta mi accolse in top rosa e con gli short cortissimi. Erano di jeans, stretti e così striminziti che le si intravedevano le natiche bianche sopra le gambe tornite e abbronzate.
Li aveva passati i quaranta, e non da poco. Non glielo chiesi mai direttamente ma seppi che era addirittura più vicino ai cinquanta. Il fisico però lo conservava come quello di una fresca trentenne. Una giusta via di mezzo tra l’elasticità delle ragazzine e la cadente morbidezza delle donne mature. Non era un gran pezzo di femmina, nel senso dell’altezza, non era una stangona, anzi, era più bassa della media e non arrivava all’uno e sessanta ma era un tipino molto energico, deciso, pragmatico e frenetico (e non poteva non esserlo, con due preadolescenti da tirar su e un marito sempre in giro per lavoro e che portava a casa un salario appena dignitoso) e sapeva sfoderare una straordinaria sensualità. Muscoli guizzanti addolciti e incorniciati da quelle giuste dosi di grasso sui fianchi e nei glutei, a renderla proprio un bello e generoso bocconcino. Talmente estroversa e brillante che la presi in simpatia fin da subito, cio&egrave da quando ero un frugoletto di sette anni e zio ce la fece conoscere. Con il passare del tempo presi ad apprezzare anche l’aspetto fisico e così oltre a mantenere un rapporto molto confidenziale iniziai a farci su pensieri sempre più arditi e sfacciati, immaginando
questa energica donnina così infoiata da riuscire a spompare persino un marcantonio. E del mio interesse sempre più evidente finì per accorgersene.
Iniziai a fare di zia Marta la protagonista dei miei sogni proibiti da adolescente in esubero ormonale; la protagonista delle mie quotidiane sborrate chiuso nel bagno di casa o nei cessi della scuola. Lei comprese tutto e, consapevole che fosse uno stadio normale della crescita, sorvolò bonariamente sopra le mie occhiate impudenti e spesso insistenti; ma solo quando ho raggiunto una fase accettabile dello sviluppo (due mesi fa, a diciott’anni) che zia Marta ha iniziato ad accogliere quei miei sguardi con interesse e a ricambiarli con un certo ”appetito”.
Quella mattina mi accolse con un sorriso, portandosi dietro l’orecchio una ciocca di capelli che dondolava ribelle davanti un occhio, e si appoggiò al portone semiaperto.
Mi salutò subito e impostando la parlata, così da farmi capire che non era da sola. Dovetti quindi trattenere le battute maliziose e limitarmi a un ‘Ciao’ che ricambiò, mostrandomi però con uno sguardo e un sorrisetto malandrini tutta la pazzia che si era impossessata di noi da una settimana e che avevamo una gran voglia di sfogare.
Quella volta le osservai più attentamente il volto e mi accorsi che là, nelle rughette sotto gli occhi e in quelle che si formavano ai lati delle labbra carnose, si svelavano quegli anni in più che invece il tempo aveva celato altrove. Non fu per niente una scoperta sgradevole anzi, la resero ancor più attraente di quanto non fosse già; quei segni del tempo la trasformarono, per la mia felicità, nella classica donna matura e sensuale, di quelle desiderate da molti giovanotti.
‘Stavamo facendo colazione, entra.’
‘Ah,’ balbettai, ‘grazie.’
Il percorso tra l’entrata e la cucina lo feci passandomi più volte le mani improvvisamente sudate lungo i pantaloni, come a volerle ”ripulire” dalle lascive palpate alle quali si erano date nei giorni precedenti, prima di porgerle, pulite e ”innocenti”, al padrone di casa.
Il passo era lento e timoroso, tanto che lei richiuse il portone e mi superò col suo, più deciso e naturale. Quando svoltò per entrare in cucina notai gli infradito di gomma dello stesso colore del top, volli poi concedermi una frazione di secondo per far salire lo sguardo sul culo, basso e morbido, che faceva ondeggiare con malizia.
Pensai a che gran figata sarebbe stata uscire con lei; portarmela a spasso mostrandola come la mia donna (mi eccitava enormemente definirla in quel modo). Ostentarla, stringermela al fianco ed osservare le espressioni degli amici. Rispondere con un occhiolino ai loro cenni lanciati tra il malizioso, il compiaciuto e l’invidioso. Era come se, con quella strizzata d’occhio, inviassi loro questo messaggio: “Tranquilli, tranquilli… me la scopo. Chi se la fa scappare una così!”. Ottenendo la loro totale approvazione.

Entrai in cucina. Sollevai lo sguardo un attimo prima che potesse farsi pescare addosso a quelle splendide chiappe ondulanti.
Lui mi fissò salutando, io evitai di incrociare i suoi occhi e, appena ricambiato il saluto, finsi un goloso entusiasmo per la ciambella alle mele affettata sul tavolo.
‘Proprio te cercavo!’ Sbottò a bocca piena facendomi bloccare intimorito. ‘Beh, col cazzo che hai riparato la rete in giardino! Per non parlare degli altri lavoretti. Ma te vieni qui solo per stravaccarti sul divano e rincoglionirti coi videogiochi dei miei ragazzi!?’
‘Eh,’ sfoggiai un sorriso da ebete e mentalmente risposi: No, vengo anche per scoparmi tua moglie.
Emise una sorta di grugnito dopo aver addentato un altro pezzo di torta. Ingollò del caff&egrave da una grossa tazza bianca e si alzò dal tavolo. Con ancora il boccone da mandar giù uscì dalla cucina, e quando fu davanti al portone rimbombarono nel corridoio le parole del suo invito.
‘Assaggiala pure la ciambella ma guai a te se spazzoli tutta la crosticina, come la volta scorsa!’
Stavo effettivamente staccando la crosta con le mele caramellate, senza invece dedicarmi alla fetta che zia Marta mi aveva allungato. Un’azione assai fastidiosa e ingiusta, perché tutti hanno diritto di trovare la striscia di crosta sulla loro fetta.
‘E vedi di sbrigarti, che oggi mi aiuti con la legna e ripari la rete, finalmente.’
Sentimmo il cigolare poi il chiudersi della porta e, la testa china sul piatto con la ciambella, sbirciai verso mia zia senza riuscire a vedere la sua faccia.
‘E’ rientrato ieri sera,’ interruppe un silenzio di pochi secondi, ma che l’imbarazzo fece sembrare molto più lungo. ‘Hanno chiuso prima un lavoro e alé, weekend lungo.’ Da come lo disse immaginai la smorfia di fastidio che le fece arricciare le labbra.
Annuii dando un morso alla generosa fetta (la seconda) che mi ero appena tagliato. Non mi sarei mai sognato di alludere al motivo della visita, per me non c’era nessun problema. Ammetto di essermi recato lì per dare continuità a quella passione che ci aveva investiti da giorni; per ”battere il ferro finché fosse stato rovente,” pensai quella mattina appena alzato – cosa che a dirla tutta avevo come primo pensiero tutte le mattine. Piombare in casa sua (casa loro) e trovarci il padrone fu così una doccia fredda, ma l’assorbii discretamente. A differenza di zia Marta, che prese a rassettare nervosamente, poggiando, con molta poca delicatezza, nell’acquaio, le tazze con le quali lei e il marito avevano fatto colazione.
Borbottò a lungo appigliandosi ad ogni suo difetto (e gliene ravvisò così tanti che a un certo punto una sorta di solidarietà maschile mi portò a provar pena per quell’uomo che, dopotutto, era mio zio e a cui volevo anche bene) mentre sbuffava sbattendo tra loro le posate, e le ante della credenza. In pratica ripercorse tredici anni di matrimonio con lo stesso fastidio con il quale un giudice intransigente scorrerebbe la fedina penale di un delinquente.
Trovai quell’atteggiamento alquanto esagerato per giustificare una scopata saltata; era chiaro ci fossero motivazioni ben più profonde sotto. Motivazioni che non avevo nessunissima voglia di ascoltare. Continuando a imprecare mi sfilò (forse senza neanche rendersene conto) il piatto con la ciambella da sotto il naso, imboccai l’ultimo pezzo tenuto in mano e mi alzai.
‘E dove cazzo pensi di andare?’ Le sue pupille verde bottiglia puntarono dritte su di me. Le sentivo forti, come se fossero dita premute sulla tempia; pur evitando di incrociarlo percepivo benissimo il suo sguardo.
Per superare l’imbarazzo di quei momenti (il suo nervosismo lo si poteva tagliare a fette molto più spesse e compatte del dolce appena mangiato) mi scrollai il davanti della felpa, come a levare le umide briciole rimastevi appiccicate; un modo per distrarmi (e distrarla) e avvicinarmi con disinvoltura all’uscita della cucina.
‘Mi aspetta in gar…’ Mi si fiondò addosso afferrandomi per una manica e strattonandola sbottò un ”eh no! Tu non ti muovi da qui!”
Sorpreso e sorridente le feci capire che mi sarebbe piaciuto molto trattenermi con lei. Impostai la voce con l’intenzione di rassicurarla sul fatto che avremmo avuto tante altre occasioni per divertirci in santa pace, salutarla ed avviarmi, ma lei mollò una presa sull’avambraccio solo per infilare la mano sotto la felpa e dentro i jeans e tastarmi il cazzo, che non aveva perso del tutto il vigore preso quando le sbirciai il culo prima di entrare in cucina. In pochi attimi, e con fare deciso, me li sbottonò.
Aveva un’espressione imbronciata e al contempo determinata, come se il pompino che si apprestasse a fare (e che io osservavo paralizzato) fosse una ripicca e non un piacere come lo era stato nei giorni precedenti.
Balbettai qualcosa indicando il pavimento.
‘Ma cosa vuoi che senta dal garage!’, rispose decisa.
“E se torna a prendere qualcosa dimenticata? Le chiavi? Un cerotto? Il cellulare? Se si fosse nascosto dietro la porta a spiarci?”
Continuai a farfugliare altre stupide obiezioni, (saperlo nelle vicinanze mi rese, e questo non me lo sarei mai aspettato, paranoico).
Non ebbi modo di esporre le mie osservazioni. L’indice, ancora puntato verso il basso a indicare il piano inferiore, si bloccò di colpo quando lei ingoiò buona parte del cazzo che intanto aveva liberato dalle mutande. Appena lo ebbe in bocca vi chiuse attorno le labbra, come a volersi assicurare che non sgusciasse via. La sentii poi rilassarsi un attimo e riprendere a respirare lentamente (perché aveva eseguito il tutto in rabbiosa apnea). E a quel punto iniziò a succhiarmelo con calma e soddisfatta.
Sul momento mi lasciai solo travolgere dalla piccata e ferma volontà di zia Marta, che s’inginocchiò al centro della cucina dopo avermi spinto fino al tavolo. Ripensando però all’episodio capii che quel che davvero voleva non era tanto il farmi un pompino, quanto il dimostrarsi talmente troia, o forse meglio dire ‘libera’, o indispettita, da arrivare a farlo con il marito nei dintorni e non, come le volte precedenti, quando lo sapeva in giro per cantieri a centinata di chilometri. Quella mattina, in pratica, mi usò per fargli dispetto. Me lo succhiava con una soddisfazione diversa dalle altre volte, o almeno questo fu il pensiero di cui andai, col tempo, sempre più convinto. La testa la muoveva avanti e indietro e dopo quei primi movimenti lenti e misurati riprese la foga di poco prima. Arrivava a infilarselo fino a sfiorare, con la punta del naso e delle labbra, la peluria che ammantava la base. E io ne godevo, eccome. Agitato dal pensiero di una sua improvvisa comparsa, magari, proprio come temevo, per prendere le chiavi dimenticate sul mobiletto ad angolo. Sarebbe stato un classico. Nonostante lo strisciante timore, dato dalla consapevolezza del rischio, anche per me quella volta fu diversa. La sensazione provata fu più intensa, la goduria maggiore. Forse proprio grazie a quella situazione. Iniziai a liberare gemiti al ritmo del suo dondolare la testa. Reclinai la mia dopo aver chiuso gli occhi.
Ero nel mezzo della cucina, la ‘loro’; una cucina che frequentavo da così tanti anni da considerarla come fosse quella di casa mia. Ricordo quando mi addossavo allo sportello in noce per lavarmi le mani nell’acquaio prima di mangiare (già allora capitava di frequente che fossi ospite a pranzo, ma con tutta la famiglia), il bordo del mobile a incasso mi arrivava sotto le clavicole e lei era la bella e simpatica ragazza, e già padrona di casa, che mi arruffava scherzosamente i capelli, rigorosamente a caschetto, e, se non avevo fatto i capricci a tavola, mi passava un ovetto al cioccolato che correvo a gustarmi davanti la tele. E ora invece mugolavo e davo lentamente di bacino mentre lei continuava a succhiarmi il cazzo e le palle.
Il lavorio di labbra, lingua e denti era perfetto; le guance e il palato offrivano una meravigliosa avvolgente accoglienza alla mia asta. Nel silenzio dell’ambiente risaltava il suono del respiro che le usciva dal naso e il rumore di risciacquo della saliva che avvolgeva il mio cazzo.
Girai lo sguardo verso la porta e immaginai di trovare mio zio piazzato nell’apertura a fissarci, paralizzato e basito; oppure vidi i più e più modi in cui sarebbe spuntato dal corridoio e il suo rimbrotto per il mio ritardo gli si sarebbe strozzato in gola. Immaginai il tutto godendo come un matto. Mentre lei si sfilò il cazzo di bocca con uno schiocco bagnato e iniziò a leccarmi le palle, provai a vedere la scena ‘da fuori’, come l’avrebbe vista lui passando di fretta per afferrare il portafogli con la patente mentre l’auto attendeva col motore acceso, e con la coda dell’occhio avrebbe notato due figure, una alta e l’altra molto bassa, accucciata, magari per raccogliere qualcosa finita sotto il tavolo. E quante frazioni di secondo, nella penombra dell’ambiente e venendo da fuori, ci avrebbe messo per mettere a fuoco la scena e beccare quindi sua moglie fare un pompino a suo nipote? ”E bada (ora immaginai di sussurrargli) non un pompino qualunque ma un pompino ‘meravigliosamente sublime’, di quelli che solo delle gran vere troie sanno fare. E lei, ‘tua moglie’, la mia cara zietta (staccai una mano dal bordo del tavolo e gliela indicai sorridendo), sì che li sa fare…”.
Inspirai forte. Una volta che ci ha colti in flagrante, pensai, tanto vale offrirgli il gran finale. E così le cinsi la testa. I palmi poggiati sulle tempie e le dita infilate tra i capelli. Lei capì che volevo scoparmi la sua bocca e sollevò le pupille a cercare le mie, si infilò di nuovo l’asta sempre dura tra le labbra e riprese a succhiare. Immaginando la sagoma del padrone di casa stagliata sull’uscio della cucina affondai una serie di stoccate. Quando fu prossimo il culmine premetti i palmi e la tirai verso l’inguine per svuotare tutto nel suo palato. E lo feci, fino all’ultima goccia. Lei ingoiò tutto e riprese a succhiarlo ma in modo leggero, quasi fosse un gesto defaticante, e affettuoso, come si accarezza un cane che ha eseguito l’esercizio ordinatogli. Io le accarezzai la testa sistemandole la solita ciocca ribelle dietro l’orecchio.
‘Beh scendo dai. Zio mi aspetta,’ le dissi. Lei allora si rialzò asciugandosi dal mento la saliva che le era colata, io sistemai l’uccello e camminando mi abbottonai la patta.

‘Oh, ce n’hai messo!’, borbottò lo zio quando mi vide, ‘ti sei spazzolato tutta la ciambella?’ Non risposi ma sfoggiai un sorriso sardonico.
‘Tua zia,’ disse agitando una mano, come a scacciarsi un insetto ronzante da davanti la faccia, ‘ti vizia troppo!’.
Continuai a tacere ma iniziavo a provare fastidio per come era solito trattarmi. Il pompino l’avevo ottenuto ma aver dovuto rinunciare ad una bella scopata mi rese indisponente. Di scopate tra me e zia Marta in verità ce ne furono tutti giorni da una settimana a quella parte e ci presi tanto di quel gusto che saltare un giorno, per colpa di quel burbero, mi fece girare le palle.
‘Sei solo un viziato e un vagabondo… vergognati!’, incalzò.
Non ci vidi più. ‘E tu un cornuto!…’, ribattei con gran soddisfazione.

FINE

per commenti: pensieriosceni@yahoo.it grazie.

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