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ED IO VENNI… (come da femmina divenni maschio)

By 21 Luglio 2023One Comment

Ed io venni davanti a te, che, distesa
sul divano tra morbidi cuscini, oziavi;
a piedi scalzi intrepida avanzai, anzi,
spogliata d’ogni veste, nuda t’apparvi;

accosciata, ai tuoi piedi mi sedetti,
dal basso verso l’alto alto ti osservai.
Eri bella con le labbra vermiglie,
nel tuo caschetto nero;eri bella nel tuo

celato seno dalla fasciante striscia
a balconcino che reggeva, moderato,
il petto, che pur florido pareva, tant’era
stretto. Ammirando la tua linea perfetta

che sulla morbida pelle del sofà giaceva,
con le dita scesi sul bianco pancino vellutato
che degradava languido verso lo scollo a V
del tanga di pizzo da cui s’intravedeva,

fra ramati ricami di foglie e fiori
neri, il turgido disegno del frutto tuo
maturo. Commozione e delizia mi rapì all’istante
al dono di quel magnifico concerto di natura.

Lentamente, per non infrangere l’aura
di magia che circondava quanto mi si offriva,
scostai l’elastico dal bordo e intrepido
innanzi balzò, l’ardito tuo stupendo attrezzo.

Con le dita tremanti carezzai il capino, lo tenni
fra trepidanti mani, delicato, palpitante uccellino
dal smarrito nido. Ma subito turgido si fece il piccino
ed arrossì, tanto che, per conforto, le labbra accostai

al suo carnoso capo. E lo baciai; sì, baciai quel che
divenne un grosso uccello di rapina che in un secondo
lasciò le sue spoglie bambine per divenire famelico rapace.
Stupita, di meraviglia piena, abbagliata dal vigore

del magnifico volatile di terra, rapita dal fiero aspetto,
a lui mi abbandonai. Lesto tra le labbra lui scivolò;
crogiolandosi al caldo fra lingua e glottide pronto si mosse,
mentre duro si fece il celere suo andare, puntando

in su e giù, vellicando il goloso ingresso che l’accolse,
donando il mio e il suo piacere. Più si moveva e più
io ne godevo, finché una smania divenne il suo processo
dedito al mio possesso. Entrambi volevamo nell’altro

confluire, annullarci così nelle reciproca suprema voglia
di raggiungere il nirvana dei sensi, ma ad ostacolo s’erse
qualcosa, dicendo: “Attendi…!”. E così sfornasti il tuo dolce
fagotto ben dorato e gonfio, ben duro e non ancora cotto.

Il goloso cannolo, ardente divenne nella mia mano
e, come il “Maestro” guidò l’attento “Allievo”
agli inferi, prima, e poi, per gradi, alla Vetta
Estrema che l’anima diletta, così con lui feci io.

E presolo per mano lo condussi per tortuose vie
che l’affanno gli davano e infami propositi creavano.
Ed io lo assecondava, mostrandogli, però, il sentiero
arduo e giusto che non finiva mai e ansia gli dava.

Al bordo del precipizio lo portai, innestando la marcia
che il motore spingeva; lui andava, con pena e con fatica
(la mia era pari), ogni ostacolo affrontava anche se,
forzata la porta stretta che a stento si dischiuse, piena

la sua forza provai; violenza percepii nella sua voglia.
Lasciai che ansimasse stremato nello spanato, cieco cunicolo,
al piacere votato; ogni remora, ormai, divelta d’ogni lato,
riprese il fiato prima che l’opera al termine fosse girata.

Sapeva bene la meta prefissata e il cammino iniziato con spedito
passo percorreva. Il moto continuo sbandò; alterno si fece e così
profondo prese l’andazzo che lo sentii arrancare, come se d’improvviso
fallasse, fermando la corsa prima che giunto al centro del bersaglio fosse.

Ammettere non potevo che mi facesse un simile affronto! Mi ribellai
e tosto, sfilato il ferro dalla guaina, decisi di prenderlo di petto.
Così, smarrito, distolto dal suo scopo, all’aria giunto, soffiai con quanta
forza avevo nei polmoni per spegnere di colpo del suo incendio la vampa.

Si contorse la disorientata biscia, ma presto grata si mostrò e mi baciò
la coscia col viscido secreto, prodromico segno del contenuto
occluso nelle volute oscure della fonte scrotale. Gioia immensa
le prese, al dolce compagno, quando s’accorse d’essere sfuggito

alla debacle finale e con maggiore lena s’attizzò il fervore, limonammo
di bocca e tanto che d’improvviso il mio dardo si ritrovò nel segno
che le si apriva fra le morbide sue chiappe. Frenetica si mosse l’eletta
mia preda, e mi sconvolse il sangue, alle tempie batteva, mentre la bestia

rotto ogni indugio, infuriato correva a perdifiato. Ed io fui preso
da sconcerto, le cosce stringendo per contenere la cavalcatura
indomita che, invece, ancor più stimolata dalla carne che preme
e sfrigola sul rene come idrovora dal midollo a me succhiava

tutto quel che poteva. Resistere fu un pensiero, ma, affranto,
su lei crollai e il seme, dal rigurgito violento, in uno
due, tre, quattro, cinque, sei, sette fiotti densi si disperse.
Stretto ai capezzoli del suo seno, stetti, arcuando il capo

all’indietro, gli occhi serrati nello sforzo immane di donare
tutto me stesso in quell’amplesso. E, perduto nel nulla, io venni!

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Nina Dorotea

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