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Racconti Gay

luglio, nell’arsura di un fienile

By 26 Febbraio 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

L’estate in cui compii i miei diciott’anni fu particolarmente afosa, e arida.
Ricordo la campagna riarsa che ospitava la fattoria di mio nonno paterno, le stradine sterrate dense di polvere, campi di sterpaglie, collinette, prati. Fu un periodo bello, per me. Importante, intenso. Subito dopo la maturità classica, in bilico tra la tarda adolescenza e la maturità, stavo elaborando la consapevolezza di quale direzione avrebbe intrapreso la mia esistenza. Stavo crescendo. Ripenso a me come a un ragazzino sensibile, intelligente, intellettualmente molto maturo. Molto solo, tuttavia, inesperto degli aspetti pratici del vivere quotidiano, dei rapporti umani. Smanioso di incontri, di confronto, di relazioni. Di qualsiasi natura fossero. Frugavo in me, smaniosamente, nel tentativo di dare un volto, un nome, alla natura della mia sessualità, di definirla. Affascinato dale mie esigenze pulsionali, che riconoscevo come tali e, nonostante ciò, mi sembravano un mistero, proiettavo la mia sensualità all’esterno. Tutto mi sembrava così denso di mistero, arcano, passionale, intenso: la vita in campagna, la natura, le bestie, i fattori. Tutto così immediato, brutale. E seducente, meraviglioso. Denso di erotismo, era intriso di quello che avvertivo fosse il mistero dell’esistenza: la penetrazione, la procreazione, la spinta pulsionale, la sessualità. Restai dal padre di mio padre, nella sua fattoria, per tutto il periodo estivo, finché non mi iscrissi all’ Università. Me ne stavo in silenzio, perlopiù meditabondo, passeggiando nei boschi, nei campi. Spiando la vita delle stalle, delle bestie, dei lavoranti. Fumavo, leggevo. Mi nascondevo nel solaio di un fienile rustico, realizzato con assi di legno, disteso nella paglia, di schiena, a prendere il fresco, o a dormire. E fu lì, in buona sostanza, che credo di aver penetrato, fin nelle viscere, l’enigma della sessualità.
Me ne stavo assopito, sfiancato dalla calura, nel fienile. Fui scosso, all’improvviso, dal rumore dei cardini della porta che, cedendo, lasciavano che si spalancasse. E, sommessamente, un brusio di voci. Non so perché, ma mi sentii avvinto da una strana frenesia: immotivatamente preso da uno strano terrore, non mi mossi. E una curiosità ottusa, folle, mi spingeva a restare nascosto, in ascolto. Riconobbi le voci, subito: erano quelle di nonno e di un giovane lavorante a giornata, mio coetaneo, o poco più grande. Sentivo il respiro del vecchio, appena ansante; il ragazzo rideva, sommessamente. Piano, intimava mio nonno, ti fai sentire, così… MI fate sentire solletico, se mi toccate così, replicava, sempre ridendo, il fattore. Mi sporsi, dal solaio dove me ne stavo disteso, cercando di non fare il minimo rumore, al limite delle travi che mi sorreggevano: riuscivo a vedere con la coda dell’occhio, ma perfettamente, la mano di mio nonno che si insinuava al di sotto della canotta da lavoro del giovane, tastandogli, con il dorso delle dita, l’addome. Qualche secondo, poi, e prese a scendere, adesso col palmo, tentando di insinuarsi oltre il bordo dei pantaloni, appena oltre il margine. A lui non dispiaceva, al contrario: allargava le gambe, spingeva il bacino in avanti, piano ma ritmicamente, si slacciava la patta. Vedevo la mano del nonno emergere, tirargli giù tutto… Non avevo mai visto, prima di allora, un cazzo che non fosse stato il mio. Non frequentavo palestre, piscine, non giocavo a calcio. Un senso del pudore, pervicace e innato, mi rendeva, in ogni caso, impossibile la sola idea di una mia nudità eventuale, specie se messa a confronto. Aveva un buffo menbro, quel ragazzo. Piccolo, tondo, spuntava dritto, teso fino allo spasmo, da uno scroto peloso e tozzo. Era eccitato. Prese la mano di nonno, lo aiutò a farsi impugare il cazzo, gli diede il ritmo di una masturbazione incalzante. Dopo poco, con la mano libera si denudò anche il vecchio. Mi accorsi che spuntava un pene nerboruto, scappellato, svettante, scuro. Si fermo, lasciando il giovane alla soglia dell’orgasmo. Gli fece pressione sulle spalle, facendolo cadere, davanti a sé, in ginocchio: aprì la bocca, vidi quel cazzo sparirvi dentro. Sentivo che succhiava, lo percorreva tutto, dalla punta allo scroto, a a labbra strette. Lo estraeva, di tanto in tanto, leccava il glande, e, con un polpastrello, stuzzicava il frenulo. Gli sosteneva i coglioni, col palmo della mano libera. Li stringeva, quasi a fargli male, li mordicchiavva, coprendo, con le labbra, i denti. Nonno gli diede, lievemente, una spinta, lasciandolo cadere, di schiena. Gli prese le gambe, mettednosi sulle ginocchia a sua volta, poggiando, sulle spalle, i polpacci di lui. Si abbassò, con un’agilità inusitata, a lappargli il cazzo. Quel piccolo, buffo, tondo cazzetto. Che vidi, nuovamente e ancora una volta, intrurgidirsi fino al parossismo. Per l’eccitazione, paonazzo. La lingua riusciva a ricoprirlo tutto, a ingurgitarlo, quasi, glande, asta, fino a volteggiare intorno ai coglioni. Lo prese tra le labbra, l’altro spingeva, portava avanti il bacino, ansimava. Il nonno lo stava scopando, così. Godeva. Si fermo, credo, per la seconda volta, un attimo prima che venisse. Si passo un dito sul cazzo, quel cazzo non lunghissimo, ma grosso, largo, robusto, pulsante. Si passo l’indice sul glande, lo bagnò della propria eccitazione, e, sempre con le gmbe del ragazzo sulle sue spalle, con un colpo solo, secco, glielo spinse nell’ano. Questi contrasse l’addome, in un istante di godimento dolente. Nonno iniziò a spingere, alacremente, insistentemente, mentre lo masturbava. Finché, per l’ennesima volta, smise. Si spostò, lasciandolo di schiena, disteso. Si adagiò su di lui, il viso sul suo cazzo. Ripresero a leccarsi, a scoparsi in bocca, a leccarsi l’ano. Il nonno gli divaricava le natiche, penetrava dentro, con la lingua. Poi, interrompendo all’improvviso, lo sentii chiedergli: ti va se t’inculo? L’estate in cui compii i miei diciott’anni fu particolarmente afosa, e arida.
Ricordo la campagna riarsa che ospitava la fattoria di mio nonno paterno, le stradine sterrate dense di polvere, campi di sterpaglie, collinette, prati. Fu un periodo bello, per me. Importante, intenso. Subito dopo la maturità classica, in bilico tra la tarda adolescenza e la maturità, stavo elaborando la consapevolezza di quale direzione avrebbe intrapreso la mia esistenza. Stavo crescendo. Ripenso a me come a un ragazzino sensibile, intelligente, intellettualmente molto maturo. Molto solo, tuttavia, inesperto degli aspetti pratici del vivere quotidiano, dei rapporti umani. Smanioso di incontri, di confronto, di relazioni. Di qualsiasi natura fossero. Frugavo in me, smaniosamente, nel tentativo di dare un volto, un nome, alla natura della mia sessualità, di definirla. Affascinato dale mie esigenze pulsionali, che riconoscevo come tali e, nonostante ciò, mi sembravano inesplicabili, proiettavo la mia sensualità all’esterno. Tutto mi sembrava così denso di mistero, arcano, passionale, intenso: la vita in campagna, la natura, le bestie, i fattori. Tutto così immediato, brutale. E seducente, meraviglioso. Denso di erotismo, era intriso di quello che avvertivo fosse il mistero dell’esistenza: la penetrazione, la procreazione, la spinta pulsionale, la sessualità. Restai dal padre di mio padre, nella sua fattoria, per tutto il periodo estivo, finché non mi iscrissi all’ Università. Me ne stavo in silenzio, perlopiù meditabondo, passeggiando nei boschi, nei campi. Spiando la vita delle stalle, delle bestie, dei lavoranti. Fumavo, leggevo. Mi nascondevo nel solaio di un fienile rustico, realizzato con assi di legno, disteso nella paglia, di schiena, a prendere il fresco, o a dormire. E fu lì, in buona sostanza, che credo di aver penetrato, fin nelle viscere, l’enigma della sessualità.
Me ne stavo assopito, sfiancato dalla calura, nel fienile. Fui scosso, all’improvviso, dal rumore dei cardini della porta che, cedendo, lasciavano che si spalancasse. E, sommessamente, un brusio di voci. Non so perché, ma mi sentii avvinto da una strana frenesia: immotivatamente preso da uno strano terrore, non mi mossi. E una curiosità ottusa, folle, mi spingeva a restare nascosto, in ascolto. Riconobbi le voci, subito: erano quelle di nonno e di un giovane lavorante a giornata, mio coetaneo, o poco più grande. Sentivo il respiro del vecchio, appena ansante; il ragazzo rideva, sommessamente. Piano, intimava mio nonno, ti fai sentire, così… MI fate sentire solletico, se mi toccate così, replicava, sempre ridendo, il fattore. Mi sporsi, dal solaio dove me ne stavo disteso, cercando di non fare il minimo rumore, al limite delle travi che mi sorreggevano: riuscivo a vedere con la coda dell’occhio, ma perfettamente, la mano di mio nonno che si insinuava al di sotto della canotta da lavoro del giovane, tastandogli, con il dorso delle dita, l’addome. Qualche secondo, poi, e prese a scendere, adesso col palmo, tentando di insinuarsi oltre il bordo dei pantaloni, appena oltre il margine. A lui non dispiaceva, al contrario: allargava le gambe, spingeva il bacino in avanti, piano ma ritmicamente, si slacciava la patta. Vedevo la mano del nonno emergere, tirargli giù tutto… Non avevo mai visto, prima di allora, un cazzo che non fosse stato il mio. Non frequentavo palestre, piscine, non giocavo a calcio. Un senso del pudore, pervicace e innato, mi rendeva, in ogni caso, impossibile la sola idea di una mia nudità eventuale, specie se messa a confronto. Aveva un buffo menbro, quel ragazzo. Piccolo, tondo, spuntava dritto, teso fino allo spasmo, da uno scroto peloso e tozzo. Era eccitato. Prese la mano di nonno, lo aiutò a farsi impugare il cazzo, gli diede il ritmo di una masturbazione incalzante. Dopo poco, con la mano libera si denudò anche il vecchio. Mi accorsi che spuntava un pene nerboruto, scappellato, svettante, scuro. Si fermo, lasciando il giovane alla soglia dell’orgasmo. Gli fece pressione sulle spalle, facendolo cadere, davanti a sé, in ginocchio: aprì la bocca, vidi quel cazzo sparirvi dentro. Sentivo che succhiava, lo percorreva tutto, dalla punta allo scroto, a a labbra strette. Lo estraeva, di tanto in tanto, leccava il glande, e, con un polpastrello, stuzzicava il frenulo. Gli sosteneva i coglioni, col palmo della mano libera. Li stringeva, quasi a fargli male, li mordicchiavva, coprendo, con le labbra, i denti. Nonno gli diede, lievemente, una spinta, lasciandolo cadere, di schiena. Gli prese le gambe, mettednosi sulle ginocchia a sua volta, poggiando, sulle spalle, i polpacci di lui. Si abbassò, con un’agilità inusitata, a lappargli il cazzo. Quel piccolo, buffo, tondo cazzetto. Che vidi, nuovamente e ancora una volta, intrurgidirsi fino al parossismo. Per l’eccitazione, paonazzo. La lingua riusciva a ricoprirlo tutto, a ingurgitarlo, quasi, glande, asta, fino a volteggiare intorno ai coglioni. Lo prese tra le labbra, l’altro spingeva, portava avanti il bacino, ansimava. Il nonno lo stava scopando, così. Godeva. Si fermo, credo, per la seconda volta, un attimo prima che venisse. Si passo un dito sul cazzo, quel cazzo non lunghissimo, ma grosso, largo, robusto, pulsante. Si passo l’indice sul glande, lo bagnò della propria eccitazione, e, sempre con le gmbe del ragazzo sulle sue spalle, con un colpo solo, secco, glielo spinse nell’ano. Questi contrasse l’addome, in un istante di godimento dolente. Nonno iniziò a spingere, alacremente, insistentemente, mentre lo masturbava. Finché, per l’ennesima volta, smise. Si spostò, lasciandolo di schiena, disteso. Si adagiò su di lui, il viso sul suo cazzo. Ripresero a leccarsi, a scoparsi in bocca, a leccarsi l’ano. Il nonno gli divaricava le natiche, penetrava dentro, con la lingua. Poi, interrompendo all’improvviso, lo sentii chiedergli: ti va se t’inculo?

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