Skip to main content
Racconti erotici sull'Incesto

Consolare gli afflitti

By 26 Dicembre 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Mi trovavo a passare per caso in Via Principe Amedeo, poco distante dalla stazione. Non &egrave una zona che frequento molto, ma avevo lasciato l’auto in un garage dove si posteggia ad ore, e andavo in un piccolo negozio, sotto i portici, dove avevo visto, anni prima, alcuni piccoli coltelli, e ne volevo comprare qualcuno per la mia collezione.
Quindi fu casualmente che passai davanti al negozio di ‘Pane e Pasta’, che aveva antiche e belle insegne, quelle che erano di moda nell’anteguerra. Negli anni ’30. Certo é un antico forno, allora a legna, credo, e mi fermai a guardare attraverso le vetrine.
Alla cassa, una bella donna, giovane, prosperosa e con un volto simpatico e sorridente.
Quello era il ‘Panificio’ di Via Principe Amedeo.
Tornato a casa andai a scartabellare tra le infinite carte, quaderni, cartelle, che si accatastano sugli scaffali di quello che dai miei viene chiamato l’Ossario, soprattutto per contiene resti di accadimenti che non hanno un nome.
Ricordavo bene che, dopo aver ascoltato il lungo racconto, ricco di particolari, ero andato subito a ‘fermarlo sulla carta’, battendo sulla rumorosa Olivetti 40/2, che risultava inventariata, dalla targhetta, nel 1934. La carta era quella sottile, la ‘vergatina’, che dopo un po’ si ingialliva.
Con la caparbietà che mi viene sempre rimproverata, sono riuscito a trovare la cartella grigia dove avevo messo alcuni appunti dell’epoca. Una cartella del R. Esercito, rovesciata, con l’intestazione nell’interno. C’erano diversi fogli di ‘vergatina’. Ecco, questo deve essere quello che cercavo.
Tornai nello studio, poggiai la cartella sulla scrivania; sedetti. Mi misi a leggere.
^^^
Comando Zona BCM, 1945.
Rastrellatore Romolo Bruni, da Roma.
Lo ricordavo benissimo, un gagliardo giovane, simpatico, allegro, che ogni tanto veniva al Comando, quando eravamo sui campi minati, e gli piaceva chiacchierare con me, sapendo che abitavo a Roma.
Aveva una decisa inflessione ‘romanesca’ e usava termini che ora sono passati di moda.
Purtroppo, il filo di una ‘Teller’ a rilascio di tensione fu tranciato dal falcetto del vicino compagno di lavoro, ed ora sono entrambi nel cimitero. Romolo al Verano, ormai nella fossa comune.
Me lo raccontò una sera che cenavamo insieme, nell’osteria del paese dove stava lavorando. Io ero andato a dare un’occhiata ai lavori.
Ci erano stati portati una fragrante pagnotta di pane e un piatto con prosciutto e soppressata, nonché un boccale di vino.
Romolo guardò il pane. Scosse la testa sorridendo.
Mi guardò con uno sguardo che sembrava perdersi nel nulla.

E pensare, signor tenente, che quando sono scappato dalla cattura dei Tedeschi e vivevo alla macchia, c’erano giorni in cui non riuscivo ad avere un tozzo di pane.
E chi te lo dava!
C’era il razionamento, le tessere annonarie.
A me, certo, la carta annonaria non me la consegnavano. Se fossi andato a chiederla mi avrebbero impacchettato e mandato chissà dove. Giravo poco, ogni tanto si fermava un camion militare, scendevano i Tedeschi, a volte anche qualche italiano, della Milizia o della Pai, e facevano la ‘retata’. Arrestavano gli uomini, spesso senza badare all’età.
Io dormivo a casa di nonna, e me la cavavo come potevo. Mamma e papà erano al sud, dai genitori di mamma, ed eravamo divisi dal fronte.
Guardo questo pane e mi ricordo tante cose.
Il Panificio di Via principe Amedeo.
Alla cassa c’era una bella donna, più o meno dell’età di mia madre. Mi avvicinai e le dissi che avevo fame ‘non mangiavo da ventiquattro ore- si alzò, andò dietro al banco e tornò con uno ‘sfilatino’. Lei lo sa, signor tenente, sono quei filoncini che pesano circa un etto e mezzo. Una razione giornaliera, allora. Mi disse di nasconderlo. La ringraziai, non potevo pagarla, non avevo neanche un soldo. Uscii.
Per quel giorno ero salvo. Andai nei giardinetti di piazza Fanti, scelsi una panchina isolata. Avevo messo lo sfilatino nella tasca dei pantaloni, ne prendevo un pezzo, lo portavo alla bocca, masticavo lentamente, cercando di non farmi vedere dagli altri. Quando lo finii, mi alzai, andai alla fontanella, e bevvi a lungo.
Il pomeriggio successivo, nell’ora di minor afflusso, tornai al panificio.
La donna mi guardò.
‘Ah, aricìcci, sei qui n’antra vorta’ Ho capito’ aspetta’ Però hai capito puro tu che Tuta ci ha er core tenero’ specie si penza ar marito che nun je scrive da ‘n zacco de tempo! Aspetta, regazzì”
Andò alla porta che dava nel locale del forno, e tornò con un altro sfilatino.
E così per diversi giorni.
Ormai sapevo come si chiamava, Tuta, Assunta. E non sapendo come sdebitarmi, ogni tanto le portavo qualche fiore che rimediavo al chiosco del fioraio di Piazza Vittorio.
Ormai erano passate due settimane.
Rimanevo anche a fare quattro chiacchiere, ma non dissi che stavo da mia nonna.
Lei era una belloccia, abbastanza prospera, con grosse zinne e un bel culo.
Io volli farle un complimento, glielo dissi.
‘State proprio bene sora Tuta, siete ‘na bellezza!’
‘Ma che me stai a dì, io vado per i 44, potrei essere tu’ madre’ quanti anni ci hai, tu?’
‘Ventidue!’
‘Visto, er doppio!’
Ormai, la visita alla sora Tuta era divenuta la parte essenziale della giornata, e non solamente per lo ‘sfilatino’, sempre più spesso imbottito, che mi serbava, ma anche per il calore umano di cui avevo tanto bisogno. In quel periodo non pensavo proprio alle ragazze. E poi, ma chi mi avrebbe dato retta nelle condizioni in cui mi trovavo!
Anche la sora Tuta, lo sentivo, attendeva la mia visita.
‘Ciao Romole’, come stai oggi?’
‘Quanno vedo voi sto benissimo, sora Tu’.’
Sarà stata l’abitudine a vederla, ma mi sembrava che la sora Tuta si vestiva con maggior accuratezza, si aggiustava i capelli, che aveva lunghi e belli, con qualche rarissimo filo d’argento.
Ma sì, era una bella donna, di quelle che si definiscono ‘bonacce’.
L’ho detto, zinne e chiappe erano fenomenali!
Questo spingeva anche me ad aver maggior cura della persona: sbarbarsi, scorciarsi i capelli. Insomma mostrarsi meno sciatto e noncurante.
E deve da vedé, signor tenente, come gradiva il fiore che le portavo.
Quel giorno avevo rimediato una bella rosa, rossa, solo che non aveva il gambo lunghissimo. S’era spezzato. Ma era bella, in piena fioritura.
La sora Tuta la guardò.
‘Grazie, Romole’, &egrave veramente bella’ e profuma”
‘E’ bella come voi, sora Tu’, non vedete com’&egrave sbocciata?’
‘A Romole’, io so altro che sbocciata’ me sto ad appassi” me sto a richiude..’
‘Ma che dite, sora Tu’, siete in piena fioritura’. Se sente puro dar profumo”
‘Me so’ rimaste le spine, Romole’, le spine’ ner core”
S’era alquanto accalorata, e l’incarnato delle guance la faceva veramente bella. E poi, c’era, appunto, che non ricordavo da quando ero stato con una donna.
La sora Tuta mi fissò, con espressione seria, quasi pensierosa.
‘Romole’, te verresti a magnà un piatto de spaghetti da me, stasera?’
L’invito non poteva essere più allettante. Spaghetti. Da quando non li vedevo.
‘Certo che ce verrei.’
‘Alle nove’ abito qui de dietro, in via Napoleone III. Ecco, te lo scrivo.’
La ringraziai, presi il biglietto.
‘Alle nove precise, sora Tuta’. E grazie”

Non sapevo cosa portare. Del resto, non avevo che qualche centesimo che m’aveva dato nonna. Andai subito a Piazza Vittorio, al chiosco dei fiori. Gli chiesi se potevo aiutarlo in qualche modo, perché mi serviva una piantina, magari anche piccola, e inventai che era per la festa di mia nonna.
Il proprietario, Cesare, mi dette un’occhiata furbesca.
‘Ho capito, Romolo. Tié, portaje sta pianticina de violette, a tu nonna’. E sta attento a tiratte indietro, quanno te la scopi’ a qull’età &egrave facile rimanecce”
E così, avevo rimediato una bella pianticella.
Solo allora ricordai che alle nove scattava il coprifuoco, come avrei fatto per tornare a casa? Non era lontanissima, dovevo arrivare in via Cimarra. Mah, avrei viso a suo tempo.
Nelle orecchie mi risuonavano le parole di Cesare: ‘quanno te la scopi’
E le associavo alla sora Tuta -veramente nel pensiero era divenuta solamente ‘Tuta’- al suo viso, al suo sorriso’ alle sue zinne’ al suo bel posteriore’
Le nove. Santa Maria Maggiore scandiva l’ora, lentamente, e io bussavo alla porta di Tuta.
Era molto elegante, con un vestito scuro che la fasciava ed esaltava il suo personale. Capelli perfettamente in ordine, e un lieve strato di rossetto sulle labbra.
Mi accolse festosa.
‘Vieni, Romoletto’ grazie’ che belle violette’ non ti dovevi disturbà’ vieni’ togli la giacca’ mettiti comodo”
Mi fece entrare nella stanza da pranzo dove la tavola, al centro, era già apparecchiata.
‘Siedi pure, Romoletto, siedi’ se vuoi direttamente a tavola, vado a scolare la pasta’ l’ho fatta all’amatriciana’. Te piace?’
A parte che con la fame arretrata che avevo mi piaceva tutto, l’amatriciana era proprio il mio piatto preferito.
Tuta giunse con una terrina fumante e profumata, mi riempì generosamente il piatto, e fu altrettanto prodiga nel cospargerlo di pecorino.
Anche la sua porzione non era scarsa.
Mangiai curando di non mostrarmi ingordo e affamato, e il vinello leggermente frizzante accompagnava piacevolmente il tutto.
Tuta mi guardava compiaciuta.
Le dissi che avrei portato io i piatti sporchi in cucina.
‘Tu fermo lì, regazzi’. Ci penso io. Ora c’&egrave abbacchio al forno con patate, e poi anche la crema caram&egravel…’
Ed anche all’agnellino feci onore. Ottimo il dolce.
Il cibo, il vinello, il tutto, ci avevano resi un po’ euforici.
Andammo a sedere sul divano, e Tuta portò due bicchierini e due bottiglie di liquore: ‘Triple Sec’ e ‘Doppio Kummel’. Riempì i bicchierini.
‘Alla salute, Romolo”
‘Alla vostra”
‘E piantala’ dì almeno alla ‘tua” mi ci vuole proprio un augurio’ so’ così afflitta”
Un pasto del genere, dopo tanto tempo, e il vino, il liquore, erano divenuti in me come un super-carburante che aveva rimesso in moto quanto la debolezza aveva sopito.
Un po’ commosso, ma soprattutto eccitato, abbracciai Tuta per consolarla.
‘Su, Tuta, non fate così’. Scusa’ non fare così’ vedrai che tutto si aggiusterà’ tornerà come prima’ meglio di prima”
Si appoggiò a me, teneramente.
Le carezzai il volto’ poi’ anche perché stavo andando su di giri, le cinsi la vita, la sollevai (lei mi aiutò moltissimo) e la feci sedere sulle mie ginocchia. La cullai come una bambina. Aveva poggiato la testa sulla mia spalla. Ogni tanto mi chinavo per un leggero bacetto sulla guancia.
Alzò la testa, mi guardò con gli occhini lucenti, le labbra tremanti, e ci baciammo con passione, a lungo, mentre andavo sempre più eccitandomi.
Si rimise di nuovo col capo sulla mia spalla.
‘Ninname, Romole’, come prima, &egrave bello’ &egrave la mamma che se fa culla’ dar fijo’ &egrave bello’ sei dolce’ ‘ ‘alzò un po’ la testa, mi guardò- ”che sei ‘tenero’ non lo posso dire’ ammappete’ come te sei ingrifato” ‘mi baciò- ”puro io’ però”
‘Tuta, posso dormire sul divano? C’&egrave il coprifuoco, ma se non vuoi cerco di raggiungere casa.’
‘Ma che, sei matto a uscire? Te raggiunge ‘na schioppettata. Altro che casa.’
‘Allora posso restare qui, sul divano”
Si mosse, sentii le sue natiche che premevano su me’
‘Perché’ nun te piacerebbe dormì ner letto d’una vecchia?’
La strinsi, afferrandole il petto. Era davvero notevole.

Era inutile portarla per le lunghe, dopo cinque minuti eravamo a letto, nudi, e ci cercavamo avidamente: mani, dita, labbra’ Aveva un folto bosco, tra le gambe, e l’immaginazione era battuta dalla realtà. Era veramente attraente, e soprattutto soda.
Non si sapeva chi fosse più impaziente, se il giovane ventiduenne o la matura che aveva il doppio della sua età.
Fu un continuo baciarsi, carezzarsi, lambirsi, fin quando lei non mi tirò su di se, divaricò le gambe, e si fece penetrare fremendo e mugolando.
‘Da quando, Romole’, da quando non lo facevo’ mi sentivo da morire’ dai bello de mamma tua, dai, famme gòde’ ecco… figlietto mio, così’ si’ così’ ammappete quanto sei bravo’ e quanto sei bbono’ me senti amore mio? Me senti? Sto’ a veni”. ecchime’. ecchime’ ecco’ bravo’ vie’ pure tu’ con me’ con me”
Mi incrociò le gambe sul dorso e mi strinse a sé, freneticamente, mentre sussultava e mugolava in un orgasmo che la stava sconvolgendo, e lungamente.
Poi giacque, sempre avvinghiata a me, stringendomi in sé. Il mio sesso era ancora ben arzillo, pur dopo aver riversato in quel grembo palpitante il pieno che da tempo premeva le mie vescichette seminali.
Tuta mi guardò.
‘Sei grande, Romolo, grande. Sei un dio! Te sento’. Sì che te sento’ ma tu sei pronto n’antra vorta’ daje tesoro mio, daje’ che c’ho n’arretrato che nun immagini”
E cominciò a mungermi, con sapiente e raffinata maestria, cercando di godere e di farmi godere.
Ci riuscì, meravigliosamente.
Passammo così gran parte della notte, era instancabile, e anche io feci la mia parte.
Si avvicinava l’ora che il forno si riapriva al pubblico. I fornai aveva lavorato già da molto e stavano per sfornare.
L’abbracciai e la baciai dolcemente.
‘Sei incantevole, Tuta, meravigliosa. Sei la mia salvatrice. Hai messo in atto il dettame di dar da mangiare agli affamati”
‘Si e tu, oltre che sfamarmi hai applicato anche quello di consolare gli afflitti’ Te aspetto stasera, Romolé’ tiette in forza! Stavolta so’ io che aspetto er’ sfilatino!’
^^^

Leave a Reply