Skip to main content

La vita concentra i suoi momenti chiave in pochi attimi, in pochi gesti.
Molta gente, alla fine della propria esistenza, si guarda indietro e scopre che i momenti veramente decisivi, quelli che hanno indirizzato il destino in una direzione piuttosto che in un’altra, sono pochi e casuali.
Un incidente, un incontro, una telefonata….come per me, quel pomeriggio di ottobre.
Stavo per uscire, ma accesi un’ultima volta il computer e controllai la posta elettronica.
Avevo comprato un libro su Amazon e volevo verificare se fosse stato spedito. Non era particolarmente importante, ma avrei dovuto avvisare mia madre che facesse attenzione alla posta.
Mi collegai al mio account e vidi che c’erano due messaggi nuovi.
Il primo era Groupon e mi proponeva una cena piemontese a 19 euro.
Lo cancellai senza neppure aprirlo.
Il secondo, invece, mi colpì.
L’oggetto era:”LaTuaVitaSegreta”.
Aprii la mail e lessi il testo, sentendo il cuore accelerare ad ogni riga.

Ciao Claudia,
Sono a conoscenza della tua vita segreta.
So quello che fai al lavoro per avere più soldi, so che ti diverti a scrivere storie erotiche, so dei tradimenti al tuo ragazzo.
Non è mia intenzione crearti problemi, prima di vederti.
Per iniziare devi ripagare il mio silenzio con qualche foto nuda.
Hai 12 ore dalla notifica di lettura della mail per inviarmele. Non risponderò a nessun messaggio se non contenente quello che chiedo.
Dopo avrai ulteriori direttive.
Mi piaci da molto, ma non voglio ricevere domande.
Rendimi felice.

tuo,
daddy

Mi sedetti davanti al computer e accesi una sigaretta.
Chi era questo qui?
Il nome non mi diceva nulla, ma sarebbe stato strano il contrario.
Piuttosto, come era arrivato a me?
I fatti che menzionava nella mail erano veri, ma in certi ambienti virtuali che frequentavo non erano certo ignoti. Però accennava al mio lavoro, e di questo non avevo mai parlato in rete, lo consideravo troppo rischioso.
Ad ogni modo, non potevo sottostare ad un ricatto, soprattutto così blando.
Cliccai il tasto “Rispondi” e digitai velocemente:
“Non ti credo, non sono una sprovveduta”.
Inviai.
Il telefono mi informò che era arrivato un messaggio.
Guardai: era di Francesca che mi chiedeva se ero già uscita.
Era effettivamente tardi, gli altri di lì a breve sarebbero arrivati al ristorante.
Risposi che stavo finendo di prepararmi e sarai uscita a brevissimo.
Promisi a me stessa che avrei aspettato una risposta per cinque minuti, poi sarei andata via.
Ancora un messaggio.
“Frà, che cazzo, dammi tregua!”, imprecai tra me.
Presi il telefono e mi si fermò il cuore.
Il messaggio diceva:”Ti ho detto niente domande”.
Sentii mancarmi il fiato.
Era vero, cazzo, era vero! Questo mi conosceva veramente, aveva addirittura il mio numero di telefono!
Presi il telefono e provai a chiamare il mittente del messaggio, ma una voce elettronica mi informò che il numero era inesistente.
Scaraventai il telefono sul letto, sull’orlo di una crisi di pianto.
Suonò nuovamente e mi precipitai a rispondere.
“Pronto!”, dissi con il cuore in gola, quasi sperando di sentire il mio ricattatore.
“Clà, sono Francesca! Noi siamo tutti qui, a che punto sei?”.
“Senti, Frà, non posso venire. Non sto bene”.
“Non stai bene? E cos’hai?”
“Un po’ di febbre, niente di che”.
“Vuoi che venga lì?”, si offrì.
“No, non ti preoccupare. Sto a casa e mi passerà da sola”.
“Gaurda che non è un problema, vengo lì un attimo, ti tengo compagnia…”.
“FRA’, PORCA EVA, TI HO DETTO CHE VA BENE COSI’!”.
Chiusi la comunicazione e mi accesi un’altra sigaretta.
Cosa potevo fare?
Questo sapeva chi ero, ormai non avevo più dubbi.
Avrei potuto minacciarlo, dirgli che avrei girato la sua mail alla polizia?
Avrei potuto farlo, anzi, per certi versi sarebbe stato giusto, ma poi?
Cosa avrei fatto, affrontato un processo? Come avrei fatto a spiegare in famiglia cosa stava capitando?
Non avrei certamente potuto affrontare una cosa del genere all’insaputa del mio ragazzo.
Cosa voleva questo stronzo, delle foto nuda?
Sicuramente non sarei stata la prima a farne e a mandarne in rete, ma non mi andava di far girare foto di me in quella maniera.
Cercai di riflettere.
Questa persona mi conosceva, ma sicuramente non mi aveva mai vista senza vestiti, diversamente non mi avrebbe chiesto quel tipo di foto.
Aprii Explorer e mi collegai in rete.
Digitai alcuni chiavi come “foto”, “amatoriali”, “nuda” e consultai i risultati.
Sfogliai un paio di pagine, fino a quando non ne trovai un paio di una ragazza che, più o meno, aveva la mia corporatura. Erano il massimo dell’amatoriale: era ritratta nuda sul letto, probabilmente appena dopo un rapporto.
Scaricai le foto sul computer, poi con un programma di grafica cancellai il volto con un tratto nero.
Recuperai la mail del ricattatore e premetti il tasto “rispondi”.
Scrissi rapidamente:”Ti mando le foto che mi hai chiesto, ritengo che questo porrà fine al nostro rapporto. Ho preferito oscurare il volto per ovvi motivi, sono certa mi capirai”.
Allegai le foto che avevo scaricato e inviai.
“Pezzo di merda, eccoti le mie foto!”, pensai.
Mi accesi una sigaretta, veramente soddisfatta di come avevo condotto la vicenda.
Mi ero fatta prendere dal panico in principio, ma poi avevo assunto il controllo della situazione e l’avevo risolta.
Mi sarebbe piaciuto sapere chi fosse quell’uomo, ma non sarebbe stato il caso di stuzzicarlo ulteriormente.
Pace, meglio così.
Mi promisi che, nel futuro, sarei stata più accorta nel divulgare informazioni su di me in rete.
Indossai il pigiama e mi infilai nel letto, ero stanca.
Presi in mano il libro, intenzionata a leggere qualche pagina prima di dormire, quando sentii arrivare un messaggio sul telefonino.
Lo lessi e raggelai.
“Ti ho dato fiducia e mi hai preso in giro. Accendi il computer immediatamente o ti rovino”.
Posai il telefono in preda ad un tremore incontrollabile.
Come aveva fatto a capirlo?
Poteva essere che stesse bluffando e volesse valutare la mia reazione?
Accesi il portatile e, non appena la connessione fu attiva, vidi che stava arrivando una chiamata su Skype da un account chiamato “daddy”. Era lui.
Risposi con timore parecchio timore addosso, ma anche curiosa di scoprire chi fosse.
“Tu evidentemente pensi che sia stupido”, disse una profonda voce maschile non appena instaurai la comunicazione.
Il mio interlocutore non aveva la webcam accesa, notai con disappunto.
“No, non è vero! – risposi, cercando di sembrare tranquilla – Perchè mi dici questo?”.
“Lo sai benissimo, ti consiglio di smetterla di provarci. Hai preso quelle foto su internet, solo che non hai guardato bene e non hai notato che sul comodino c’era una rivista scritta in caratteri cirillici”.
Meditai se fosse il caso di inventare una scusa più o meno credibile che avrebbe giustificato la presenza di un giornale russo in camera mia, ma capii che sarebbe stata una pessima idea.
Avrebbe potuto chiedermi di mostrargliela, e il mio bluff sarebbe subito stato svelato.
Ero stata una stupida.
“Scusami”, dissi solo.
“No, carina, non basta dire scusami. Ora sarai punita”.
Rimasi in silenzio, in attesa di conoscere la mia punizione.
“Ora spogliati!”, mi disse.
Immaginavo che sarebbe stata quella la richiesta.
Trassi un sospiro, pensando solo che tra poco tutto sarebbe finito.
Mi sfilai la giacca del pigiama e i pantaloni, rimanendo in perizoma.
“Togliti tutto!”, mi esortò.
Mi sfilai anche gli slip, coprendomi il sesso con una mano.
“Togli quella mano e allarga le gambe!”, sbraitò.
Eseguii l’ordine, anche se mi sentivo tremendamente a disagio.
Non l’avevo ancora notato, ma quando lo vidi il riquadro con la mia immagine oscena mi mise terribilmente in imbarazzo.
Chiusi subito le gambe.
“Chi ti ha detto di chiuderle? Riaprile immediatamente!”.
Feci un sospiro e mi rimisi nella posizione precedente.
“Bene. Ora stuzzicati i capezzoli”.
Mi appoggiai con i gomiti al materasso e con i polpastrelli presi ad accarezzarmi i capezzoli.
Si inturgidirono dopo un istante.
“Bene. Ora passati le unghie sulla pancia e sull’interno coscia”.
Staccai la mano destra dal seno e con quella mi sfiorai la pelle.
Mi stavo eccitando, nonostante tutto.
Socchiusi gli occhi.
“Con la stessa mano, sfiorati la fica”.
Esitai un attimo, ma poi feci passare le unghie sulle mie labbra.
Sentii un brivido lungo tutto il corpo.
“Ti piace, vero?”, disse.
Non risposi.
“Ti ho fatto una domanda!”.
“Sì, mi piace”, ammisi.
“Continua a toccarti in questa maniera fino a quando non ti dico di smettere”, mi disse.
Ripassai le dita sul mio sesso, cercando di agire sui punti che sapevo essere più sensibili.
Sentii i capezzoli irrigidirsi ancora di più e il mio sesso cominciare ad inumidirsi.
Passai ancora le dita tra le labbra.
“Allarga le gambe al massimo!”, mi ordinò.
Feci quello che mi chiedeva. Ero consapevole che, vista la posizione in cui ero messa, la mia topa era perfettamente esposta alla webcam, ma decisi di non pensarci.
Continuai a sfiorarmi la pelle, chiedendomi se stessi facendo bene a comportarmi così.
Quell’uomo mi stava ricattando, non era il mio ragazzo o un mio amante.
Mi stavo esponendo ad uno sconosciuto.
“Aumenta il ritmo, zoccola!”.
Restrinsi il raggio di azione, concentrando il lavoro sul clitoride. Vi appoggiai un polpastrello sopra e cominciai a descrivere un movimento circolare.
Socchiusi leggermente gli occhi.
Non potevo farci nulla, era il mio corpo che comandava.
Mi stava piacendo.
Appoggiai la schiena al materasso e chiusi gli occhi.
Ero completamente bagnata, e – paradossalmente – più pensavo al fatto che mi stessi toccando davanti ad uno sconosciuto più mi eccitavo.
Sentii il mio respiro aumentare e lo assecondai accelerando con la mano.
Infilai due dita nella topa, allargandomi le labbra e andando più a fondo possibile.
Non sospiravo più, gemevo.
Venni quasi singhiozzando, poi mi ranicchiai sul letto.
Solo la sua voce mi ricordò che non ero sola.
“Brava, Claudia, sei stata brava”, disse.
Istintivamente mi passai una mano tra i capelli, come se dovessi rendermi più presentabile.
“Grazie. Direi che ora siamo pari”, dissi.
Sentii una risata.
“No, non siamo pari. Questa era la punizione per aver provato ad ingannarmi”.
Mi sentii di nuovo sconfortata, tutta l’eccitazione era scemata.
“Cosa vuoi ora?”.
“Tra poco ti manderò un link via mail. E’ un sito di webcam: ti colleghi e la gente ti guarda, molto semplice. E anonimo, fortunatamente per te”.
“Cosa devo fare?”, chiesi ansiosa.
“Domani, alle sei del pomeriggio, dovrai collegarti a quel sito e, davanti alla telecamera, scopare con uno sconosciuto”.
Sgranai gli occhi.
“No, dai! Ti prego!”.
“Scopare con altri non mi pare sia mai stato un problema per te – mi rispose con una punta di sadismo nella voce – Ora lo condividerai con altra gente. Con molta altra gente, temo”.
Chiusi gli occhi per l’umiliazione che già sapevo avrei provato.
“E non fare la furba – mi ammonì – Conosco i tuoi amici e le persone che frequenti, non provare a coinvolgere gente che già conosci. Hai già verificato come sia bravo a scoprire i tuoi trucchetti e a punirti. Siamo d’accordo?”.
Trassi un sospiro.
“Siamo d’accordo”.
“Bene. Ora vai a letto, ma non rivestirti e non spegnere la webcam. Ti controllerò”.

Mi alzai il mattino seguente in preda allo sconforto.
Uscii dal letto e gettai un’occhiata al computer: mi stava osservando?
Ero nuda, ma non mi importava particolarmente, dopo quello che era successo la sera prima.
E ora, cosa avrei potuto fare?
E se me ne fossi andata?
Sarei semplicemente sparita, avrei cambiato casa e numero di telefono e vaffanculo a te, ricattatore di merda.
Però non sapevo chi fosse, e avevo già appurato come probabilmente lui mi conoscesse realmente. Se fosse stato un mio collega, quanto ci avrebbe messo a rintracciarmi di nuovo?
Mezza giornata al massimo.
Fosse stato un amico del mio ragazzo magari qualcosina di più, ma non molto.
Non avevo possibilità di uscirne bene, senza che la cosa trapelasse in famiglia, e non ne avevo alcuna intenzione.
Andai al lavoro e feci passare le ore, senza produrre nulla.
Ogni uomo che incontravo mi chiedevo se potesse essere lui a ricattarmi, e un attimo dopo se avrebbe potuto essere lui il predestinato per la scopata di quella sera.
Pensai se non avrei potuto contare su un vago conoscente, qualcuno che con estrema probabilità il mio ricattatore non conoscesse, ma non mi venne in mente nulla, oltre a chiedermi cosa sarebbe cambiato.
Come avrei potuto andare dal mio edicolante, per dire, e chiedergli se avesse voluto scopare con me?
A questo punto meglio uno sconosciuto.
Alle cinque e qualcosa mi avviai lentamente verso casa, sempre più sconfortata.
Non avevo trovato nessuno, glielo avrei detto.
Magari avrei barattato la scopata con un’altra masturbazione, anche se questa volta saarebbe stata  in mondovisione.
Pensa te cosa stavo progettando, cose che fino a ventiquattr’ore prima non avrei neppure osato immaginare!
Posteggiai a qualche isolato da casa, dovevo fare un po’ di spesa.
A pochi metri, un agente immobiliare fumava una sigaretta appoggiato alla porta del suo ufficio.
Era un ragazzo caruccio, improvvisamente capii che avrei potuto avere la soluzione.
Andai verso di lui sorridendo.
“Ciao!”, lo salutai gioviale.
Lui mi guardò un po’ stupito, poi ricambiò il saluto.
“Senti, devo farti una proposta al volo – dissi – Sono in vena di cambiamenti, e pensavo di cambiare casa, però prima dovrei vendere la mia. Avresti la possibilità di fare un salto da me e dare un’occhiata, in modo da dirmi quanto potrebbe valere?”.
Il ragazzo colse subito la palla al balzo.
“Certo, è il mio mestiere. Fissiamo un appuntamento”.
Feci la mia miglior faccia da culo.
“Mi piacerebbe venissi subito. Sono molto impulsiva, è capace che già domani cambio idea. Poi io sono sempre in giro per lavoro, mentre invece ora sono disponibile”.
Cercai di calcare l’accento sulla parola “disponibile”, cercando allo stesso tempo di non rendere tutto troppo squallido.
Il ragazzo guardò l’orologio, poi annuì.
“Va bene. Ho un appuntamento fra tre quarti d’ora, ma il tempo dovrebbe bastare”, rispose.
Lo condussi in casa mia e lo feci accomodare in salotto.
Si guardò in giro, fece qualche domanda, poi chiese di vedere le altre stanze.
“Dammi solo un secondo che do una rassettata alla stanza da letto – dissi – Stamattina sono uscita senza prevedere che avrei avuto ospiti”.
Entrai nella stanza e mi sedetti sul letto, prendendomi la testa fra le mani.
In quel momento avrei potuto ancora tirarmi indietro.
Mi avrebbe valutato la casa e amici come prima.
E poi, come avrei vissuto? Il mio ricattatore non sembrava uno tenero, rischiavo che raccontasse tutto al mio ragazzo, o – forse peggio – che mi chiedesse qualcosa di più come punizione, come era capitato il giorno prima.
Accesi il computer e mi collegai al sito di webcam.
Sembrava già asserci una grossa attività, notai con disappunto.
Attivai il salvaschermo, in modo che non si potesse capire che era acceso e dove fosse connesso.
Mi spogliai, rimanendo in reggiseno e perizoma neri.
Mi sentivo in un film degli anni settanta, quelli con la Fenech e Lino Banfi.
Feci un sospiro e chiamai l’agente  immobiliare.
Questo entrò e, quando mi vide, rimase come scioccato.
“Mi sono messa un po’ in libertà”, dissi tenendo basso lo sguardo.
Il ragazzo si avvicinò a me e mi abbracciò.
Sentii una decisa protuberanza all’altezza del suo cavallo.
“Non te ne frega nulla di vendere la casa, vero?”, mi chiese.
“No, niente”, risposi.
”Dov’è la fregatura? – chiese – Stai per uccidermi? Oppure tra poco arriverà tuo marito e sarà lui ad ammazzarmi?”.
Scherzava, ma evidentemente avvertiva qualcosa di strano nella situazione.
“Non c’è nessuna fregatura, però sbrigati prima che cambi idea”.
Si liberò velocemente dei vestiti, mentre anche io finivo di spogliarmi.
Gli indicai il cassetto del comodino, dove recuperò un pacchetto di preservativi.
Fece per infilarsi tra le lenzuola, ma lo fermai.
Daddy non aveva detto nulla in proposito, ma mi sembrava ovvio come, in una situazione come questa, avrebbe voluto vedere il più possibile.
Mi misi a carponi sul letto, cercando di smetterla di guardare verso la telecamera.
Non potevo smettere di pensare che stavo praticamente girando un film porno, oltretutto gratis.
Il ragazzo – di cui, realizzai, ancora non sapevo neppure il nome – mi penetrò da dietro, in vagina.
Io non riuscivo ad eccitarmi, a differenza sua che invece sembrava subito molto coinvolto.
Mi affferrò i fianchi e mi stantuffò violentemente.
Aveva un bel fisico, era discretamente prestante: non fosse stato per tutto il contorno sarebbe stata anche una prestazione valida.
Per fortuna venne in pochi minuti; a quel punto anche io simulai, sia per il “pubblico” che per lui.
Si abbandonò sul letto sudato, poi guardò l’orologio.
“Odio comportarmi così, ma devo andare”, disse.
Gli risposi che non c’era problema, lo sapevo già.
La webcam era ancora accesa, così – non appena si fu rivestito, lo condussi in salotto.
“Non una parola con nessuno, mi raccomando”, gli dissi.
“No, tranquilla. Posso chiamarti, piuttosto?”, mi chiese.
“No, se servirà ti chiamerò io, so dove lavori”.
Annuì.
“Posso darti almeno un bacio?”, mi chiese.
Gli dissi di sì, e ci scambiammo un bacio meno frettoloso di quanto avrebbe dovuto.
Lo feci uscire e tornai in camera.
Mi scollegai dal sito di webcam e, dopo un istante, vidi pulsare Skype.
Era Daddy, ovviamente.
“Brava, zoccola, hai visto che a rispettare i miei ordini si fa più in fretta ed è anche più facile?”, disse.
Non dissi nulla.
“Se ti può interessare, la tua performance è stata vista da circa milleduecento persone. Non male, devo dire”.
Sentii un colpo al cuore. Milleduecento persone, come se da ragazza avessi scopato di fronte a tutta la mia scuola!
Vabbè, almeno era andata.
“Con oggi abbiamo finito”, dissi lapidaria.
Sentii una risata dall’altra perte.
“Con oggi abbiamo iniziato, amore mio. Riceverai a breve nuove istruzioni”.
Il collegamento si spense, mentre io mi abbandonavo sul letto in preda allo sconforto.

Trascorsero un po’ di giorni senza contatti con Daddy, tanto che ad un certo punto sperai che la storia si fosse conclusa.
“Magari ha avuto pietà – pensavo – O forse è sposato e sua moglie ha scoperto tutto”.
L’illusione crollò un mattino di pioggia, mentre ero da un cliente, e arrivò sotto forma di un sms.
“Stasera alle 18.30 in chat. Non mancare”.
Dovetti inventare un leggero malore per giustificare il senso di mancamento che mi pervase.
Alla sera, puntualissima, ero davanti al computer.
Vidi pulsare il simbolino di Skype e lo accesi.
Lui era ancora con la webcam spenta, potevo sentire solo la voce.
“Ciao Claudia, ti sono mancato?”.
“No”.
“Lo immaginavo. Però sono ancora qui, e tu sei di nuovo davanti a me, ed è questo che conta. Ho un nuovo ordine per te”.
“Sentiamo”.
“Tu conosci un certo Roberto XXXXX”.
Effettivamente era un nome noto, era un mio cliente.
“Sì, lo conosco”.
“Non era una domanda, lo so. Fa il fotografo”.
“Esatto”.
“Bene. Il tuo compito è questo: entro 24 ore devi metterti in contatto con lui e dirgli che vuoi che ti faccia un servizio fotografico erotico”.
Deglutii secco.
“Io non sono sicura sia una buona idea. Abbiamo dei rapporti di lavoro, lui mi vede in un certo ruolo…”.
“Non me ne frega niente dei vostri rapporti di lavoro, questo è un ordine preciso. E non è tutto”.
Sospirai, non osando neppure immaginare cosa avrebbe chiesto.
“Quando si tratterà di pagare, gli proporrai di pagarlo in natura”.
“No, dai, questo non farmelo fare! Ci conosciamo, sarà uno sputtanamento pazzesco!”.
“Ti ricordo che l’altro giorno un migliaio di persone ti hanno vista scopare, non è che la tua immagine sia così fulgida”.
“Va bene, però questo mi conosce. Come faccio la prossima volta…”
“Claudia, questo è un ordine e non si discute! O devo intendere che non vuoi ubbidirmi?”.
“No, però….”
“Sì o no?”.
Chiusi gli occhi.
“Sì, lo farò”.
“Bene. Entro domani voglio sapere la data in cui farai il servizio fotografico. Fa in modo che sia  a breve, inventati che deve essere il regalo di anniversario per il tuo ragazzo o una scusa qualunque che giustifichi l’urgenza. Mi sono spiegato?”.
“Sì, perfettamente”.
“A scanso di equivoci, specifica bene che dovrà essere un servizio hard. Non un erotico patinato con trasparenze e sfumature, ma un calendario da camionisti”.
“Senti, io non credo di farcela”.
“Io invece credo che lo farai, semplicemente perchè ti conviene”.
Non risposi.
“Bene, aspetto tue notizie”, disse; poi chiuse la comunicazione.

Il giorno dopo passai da Roberto, il fotografo.
Non avevo la minima idea di come avrei impostato l’argomento, così mi recai da lui anche con il prospetto di un investimento. Avrebbe aiutato a rompere il ghiaccio.
Mi accolse volentieri, come sempre era stato.
Era un uomo di una sessantina d’anni, sempre molto gioviale e allegro.
Si fece spiegare le caratteristiche dell’investimento che gli volevo proporre, poi mi disse che ci avrebbe pensato. Ero certa che non avrebbe fatto nulla, ma non mi aspettavo nulla di diverso.
“Senta, devo poi chiederle un piacere”, dissi, prendendo coraggio. “Volevo fare un regalo particolare al mio ragazzo quest’anno – dissi – E pensavo di fare un servizio fotografico e regalarglielo”.
Roberto annuì convinto.
“Sì, va molto ultimamente. E’ una bella idea”.
“Grazie. Mi piacerebbe lo facesse lei”.
Mi guardò stupito.
“Non è il mio genere. Io faccio matrimoni, paesaggi, cose del genere”.
“Lo so. Però non me la sentirei di andare da qualcuno che non conosco. In fin dei conti è quasi una cosa intima…”.
Capii dallo sguardo che stava cominciando a sospettare di che tipo di servizio avessi bisogno.
“Che genere di scatti vuole? Tipo calendario?”.
“Esatto. Una cosa…sexy, non so se mi spiego”.
“Sì, ovviamente. Ripeto, non è il mio genere, ma se vuole mi posso organizzare”.
“Sarebbe ottimo, gliene sarei molto grata. Per quando possiamo fare?”.
Aprì un’agenda e la consultò rapidamente.
“Gli scatti possiamo farli anche martedì sera”, disse. Era venerdì.
“Va bene”, risposi.
“Viene in studio da me, dopo la chiusura, così non entra nessuno a disturbare. Se poi vuole anche la stampa ci va un po’ di tempo, e dobbiamo vedere come impaginarle, e tante cose”.
Scossi la testa.
“No, non serve stamparle, bastano le foto in digitale. Il regalo è quello”.
Annuì rapidamente.
“Allora i tempi si riducono. Diciamo che in questa maniera gli dò una passata di photoshop – nulla di drastico, tolgo solo gli occhi rossi e le sbavature – tra martedì e mercoledì, e per il giorno dopo gliele mando. Tra una settimana scarsa avrà tutto pronto!”, disse contento.
Sorrisi, cercando di dissimulare al meglio la paura che stavo provando.

Tornai a casa e comunicai l’accordo a Daddy. Gli mandai una mail, non avevo voglia di parlargli.
Passai i rimanenti giorni pensando in ogni momento che ancora potevo tirarmi indietro.
Dovevo essere scaltra: avrei potuto inventarmi un malanno, un’influenza, e nel frattempo cercare di capire chi fosse Daddy.
Questo era inevitabile: fino a quando non avessi capito chi c’era dietro quel nome, non avrei potuto sottrarmi ai suoi ricatti.
Divenni sospettosa di tutti: sul lavoro, tra gli amici, anche in famiglia cercavo di cogliere qualunque indizio che mi potesse portare a lui, ma fu inutile.
E così lunedì sera, quando ricevetti un’email con cui mi chiedeva semplicemente se ero pronta per il giorno dopo, non potei che rispondere di sì.
Mi presentai da Roberto alle nove e mezza, dopo aver mangiato un kebab al volo.
Mi strinse la mano ed entrammo nel suo studio.
Era una semplice stanza, neppure troppo grande; a ridosso di una parete erano accatastate  luci e lampade, su un’altra era montato un telone.
“Ok, Claudia – disse Roberto – Questo è il set. Visto così sembra spoglio, ma sono convinto che verrà un bel lavoro. Ora sta a lei, devi dirmi cosa si sente di fare”.
“In che senso?”, domandai.
“Abbiamo parlato di un calendario sexy. Intende dire nudo integrale?”.
Deglutii asciutto.
“Sì”, dissi.
“Bene. Che stile vogliamo dare? Ammiccante? Ironico? Trasgressivo? Mi dica lei”.
Che gli potevo dire? Da zoccola?
“Credo che il mio ragazzo apprezzerebbe qualcosa di…esplicito?”.
Mi vergognai non appena pronunciai l’ultima parola.
Roberto annuì, sorridendo appena.
Indicò un paravento.
“Si può spogliare lì dietro. C’è una vestaglietta, la indossi, io intanto preparo le luci”.
Mi spostai lì dietro e mi liberai della camicetta.
Cercai di pensare di essere dal medico. Dal medico ci si spoglia, no?
Mi liberai dei vestiti ed indossai la vestaglia di stoffa rossa.
Uscii dal paravento.
“Bene – disse Roberto – Possiamo iniziare. Si metta lì, davanti al telo, e si comporti naturalmente. Io scatterò centinaia di foto, quindi non si preoccupi di mettersi in posa, avremo molte foto tra cui scegliere”.
Ancora meglio; ci sarebbero state centinaia di foto di me nuda in giro…
Mi piazzai davanti al telone e, imbarazzatissima, mi spogliai della vestaglietta.
“Bene, non stia lì come una statua. Si muova, sorrida, muova le braccia!”.
Provai a giocare alla modella; mi tirai su i capelli, mandai baci all’obiettivo, cercai di essere ammiccante.
“Brava, sta venendo bene!”.
Ruotai su me stessa, mi misi in ginocchio.
“Ok, abbiamo parecchi scatti in piedi. Ora però si ricordi che è un servizio sexy. Si tocchi un seno, si sfori la pelle….faccia lei, non sta a me dire cosa deve fare”.
Mi passai la punta delle dita sulla pancia, poi mi toccai un seno.
Roberto continuava a fotografare, io cercavo di immaginare che non ci fosse.
Con le mani a coppa mi strinsi entrambi i seni, socchiudendo gli occhi.
“Brava, molto brava. E’ proprio quello che volevo!”.
Inarcai la schiena e con la mano destra scivolai verso l’inguine.
Mi fermai a qualche centimetro dal sesso, mentre Roberto continuava a fotografare.
Chiusi gli occhi e con la mano scesi ancora di una spanna, coprendomi la topa.
Timorosa, insinuai un dito tra le labbra.
Mi stava piacendo.
Cominciai a massaggiarmi lentamente, scoprendomi eccitata.
“Brava, molto brava!”, diceva Roberto.
Mi distesi a terra appoggiandomi alla schiena, piegando e allargando le gambe in modo da facilitare il mio tocco.
Introdussi mezzo dito dentro di me, prima di ricordarmi dove mi trovavo e soprattutto che non ero da sola.
Ritrassi la mano e chiusi le gambe.
“No, le gambe andavano bene come prima”, mi disse Roberto.
Le allagai nuovamente.
“Allargale un po’ di più…se vogliamo fare questo tipo di foto facciamolo bene, non un abbozzo”.
Era passato a darmi del “tu”.
Allargai le gambe. Probabilmente era solo un’impressione, ma sentii come se una corrente d’aria puntasse tra le mie gambe, raggelandomi.
Roberto scattò una decina di foto.
“Bene, ora siediti con i talloni sotto alle natiche”.
Mi misi nella posizione richiesta.
“Brava, ora mani dietro alla nuca. Petto in fuori, mostra le tette!”.
Adottai la nuova posizione, subito immortalata da una mezza dozzina di scatti.  
“Ottimo! Allarga da bene le gambe, mostra il taglietto!”.
Sembrava avere abbandonato certi formalismi – e ci stava – anche se mi sembrava un po’ troppo eccitato.
Scattò un’altra sequenza di foto frontali.
“Ora, da brava, mettiti a quattro zampe”.

Andò avanti ancora qualche minuto, con il tempo che veniva scandito anche e soprattutto dal click dell’otturatore.
Alla fine di questo tempo infinito, mi disse finalmente che potevo rivestirmi.
Certo, non fosse che i miei doveri per quella sera non erano finiti.
“Roberto, volevo parlarti di una cosa”, iniziai.
“Dimmi. Ma vestiti, che prendi freddo”.
“Senti, era per il pagamento….”
“Va bene, ma non c’è nessuna urgenza, ne possiamo anche parlare dopo. O nei prossimi giorni”.
“Senti, lascia che te lo dica. Io non posso pagarti. Non con del denaro, almeno”.
Abbassai gli occhi, non sapendo se sperare che avesse capito per non farmi spiegare oltre, o augurarmi che non avesse inteso e avessi ancora la chanche di cambiare versione.
Mi guardò dritto negli occhi, e da quello sguardo compresi che aveva capito perfettamente.
“Claudia, cosa sta succedendo? Non ti ho neppure detto la cifra, ti farei comunque un prezzo di favore…”.
Scossi la testa. Che gli potevo dire?
“E’ che proprio non posso spendere….avrei dovuto dirtelo prima”, dissi.
Mi sentivo veramente in imbarazzo.
Roberto scosse la testa.
“Claudia, sono sconcertato. Me l’avessi detto prima…io poi non sono neppure nella condizione di accettare, sono sposato….”.
Si mise una mano davanti alla bocca, pensando, poi mi guardò negli occhi.
“Va bene, accetto la tua offerta. Però dobbiamo fare in fretta, non vorrei arrivasse qualcuno. Inginocchiati!”.
Rimasi spiazzata. Ormai ero persuasa che la cosa non sarebbe andata in porto.
“Dai, Claudia, prima che cambi idea!”.
Mi misi in ginocchio, lui si avvicinò.
Aprì la zip ed estrasse il suo membro.
Era eretto, segno che non era solo per fare un piacere a me che si stava comportando così.
Lo presi in bocca, chiudendo gli occhi per non vedere a chi apparteneva quell’organo.
Lo spinsi dentro di me fino in fondo.
Ora che ero lì, era importante che venisse il prima possibile.
Stavo ragionando proprio come una puttana!
Estrassi il pene e gli umettai il glande con la lingua.
Roberto sospirò.
Gli bacia la punta con le labbra, poi lo introdussi nuovamente dentro.
Con una mano gli solleticai i testicoli, con un dito mi insinuai fino al suo ano.
Con la punta di una falange gli stimolai l’ano e lo sentii reagire con un mugolio.
Circondai con pollice e indice la base del suo pene e strinsi leggermente.
Serrai le labbra attorno alla sua asta e lo sentii contrarsi.
Chiusi gli occhi, sentendo il fiotto del suo sperma colpirmi il palato.
Lasciai che si sfogasse, poi inghiottii.
Mi alzai in piedi.
“Posso rivestirmi?”, chiesi.
Mi fece cenno con una mano di andare dietro al paravento mentre si rimetteva il membro nei pantaloni.
Quando uscii da dietro la barriera si era nuovamente ricomposto.
“Ok, Claudia, ti farò avere le foto via mail – mi disse come se nulla fosse successo – Dammi solo un paio di giorni”.
Gli dissi che andava bene e lo ringraziai.
Mi porse la mano.
“Mi raccomando – mi disse – Non conviene a nessuno che questa cosa si sappia”.

Tornai a casa e accesi il computer. Daddy era lì ad aspettarmi.
“Allora?”, mi chiese.
“Ho fatto tutto”, risposi. Gli raccontai l’accaduto.
“Brava, questa volta non mi ha deluso”, mi rispose.
“Ne sono lieta. Possiamo considerare risolto il nostro rapporto?”.
“Siamo solo all’inizio”.

“Il tuo prossimo incarico avrà dei risvolti positivi anche per te”, mi disse Daddy.

Non risposi neppure, limitandomi a fissare lo schermo del pc.

“Quanti clienti devi vedere domani?”, mi chiese.

Avevo l’agenda proprio accanto al computer, così la consultai.

“Tre”, risposi.

“Chi sono?”, chiese.

Non capivo la domanda.

“Vuoi sapere i nomi?”, chiesi.

“No. Voglio sapere cosa fanno nella vita e a quale dei tre tu tieni di più”.

Controllai i nomi sull’agenda sforzandomi di ricordare qualcosa di loro.

“Il primo è un impresario edile. Non so ancora se vuole investire, ci siamo parlati solo per

telefono”.

“Dove vi vedete?”.

“A casa sua”.

“E’ sposato?”.

“Non lo so”.

“Ok. Il secondo?”.

“Il secondo è un veterinario. L’ho già incontrato una volta, ci rivediamo nel suo studio. È

probabilmente lui il più promettente dei tre”.

“Sposato?”.

“Mi pare di sì”.

“Ok. Ora dimmi del terzo”.

“E’ un operaio, ci vediamo a casa sua. Non è sposato perché vive con la madre”.

Daddy rimase qualche minuto a pensare.

“Ti dico cosa devi fare. Il primo cliente gestiscilo come vuoi, non ti dico nulla. Organizzati come

preferisci, però dal secondo devi andarci in minigonna e camicetta, e sotto non devi indossare nulla.

È chiaro?”.

Deglutii.

“Certo”.

“Dovrai fargli capire in maniera inequivocabile che sotto non hai nulla, se ti sbircia lascialo fare.

Dovrà essere molto chiaro che la sua decisione ad investire o a non investire con te determinerà una

disponibilità sessuale da parte tua. Inventati la scusa che credi, digli che sei in corsa per un premio

e ti manca proprio quel contratto, digli cosa vuoi. Però lui saprà che se ti firma un assegno avrà una

ricompensa. Mi sono spiegato?”.

“Sì, perfettamente. Però, senti, io corro anche dei rischi….”.

“Non me ne frega un cazzo. Tanto sicuramente ti è già capitato di fare un po’ l’oca con qualche

cliente per fargli firmare il contratto, non provare neppure a negarlo. Noi uomini siamo abituati,

sappiamo che tanto non si batte chiodo ma ci facciamo comunque abbindolare da gente come te.

Stavolta invece andrai fino in fondo”.

“Ma se non ci stesse?”.

“Sei non ci sta, fai la stessa cosa con il terzo. E se neppure il terzo volesse investire con te, ti farai

scopare comunque. Digli che lo trovi figo…”.

“E’ un cesso inconcepibile”, lo interruppi.

“Peggio per te. Se c’è la mamma in casa lo porti in macchina e ti fai sbattere come una zoccola, cosa

che per altro sei. Non fare la furba perché hai già capito che tanto ti scopro sempre. Domande?”.

“No”.

“Bene. Vedo che stai imparando”.

 

Il primo appuntamento non fu fonte di soddisfazione, né professionale né di altro tipo.

Si comportò da persona educata e gentile, ma mi disse chiaramente che la cosa non gli interessava.

Prima di incontrare il cliente successivo, il veterinario, mi fermai a pranzo in un bar nei paraggi.

Daddy non poteva saperlo, ma sarebbe stato veramente molto utile per me che il prossimo cliente

 

firmasse il contratto.

Mi avrebbe permesso di raggiungere una soglia tale da ricevere un bonus su tutti i contratti già

stipulati, e sarebbero stati bei soldi.

Per altro, eravamo prossimi alla fine del mese, e non avevo tante altre opzioni che mi avrebbero

permesso di raggiungere quel risultato.

Finito il pranzo, andai nel bagno e mi liberai della biancheria intima, riponendola in borsa.

Era una mossa squallida da fare, ma non avevo scelta.

Su una cosa Daddy aveva ragione: lui mi scopriva sempre.

Non era il caso che facessi la furba.

Mi presentai dal cliente e lo salutai con un ampio sorriso.

Mi fece entrare nel suo studio e lasciò che parlassi.

Tempo qualche minuto e ebbi conferma di quello che temevo, e cioè che aveva accettato di fissare

l’appuntamento solo in seguito alla mia insistenza.

Eravamo seduti di fronte, la sua scrivania stava tra noi.

Feci scivolare una brochure sul tavolo e la avvicinai a lui, poi mi piegai per indicargli con un dito

una frase stampata. In quella maniera la camicetta si staccò dal mio corpo e gli offrì una panoramica

del mio seno.

Se ne accorse e diventò rosso, pur non dicendomi niente.

Bofonchiò qualcosa, dicendo che doveva pensarci e che mi avrebbe richiamata.

Lo sapevo benissimo: non avrebbe mai richiamato.

Decisi di dirgli la verità.

“Dottore, non le nascondo questo è un contratto molto importante. Se lei lo firma, per me scatta un

bonus a cui tengo molto”.

“Sono contento per lei. Però capisce anche lei che per me sono soldi, non sono tempi floridi..”.

“Lo so benissimo. Però tanto tra farlo ora o farlo tra un mese non cambia molto, se non per me, che

perderei il bonus. Saprò ringraziarla se mi permetterà di raggiungere quel traguardo”.

Cercai di pronunciare l’ultima frase senza sembrare in un film porno di bassa qualità.

Rimase in silenzio per qualche secondo, riflettendo su quello che gli avevo appena detto.

“Venga qui, signorina”, mi disse

Mi misi vicino a lui, lui mi appoggiò una mano su un fianco.

Lo lasciai fare.

“Ho capito bene?”, mi chiese.

Ebbi un attimo di esitazione, poi risposi come dovevo.

“Ha capito bene. Mi metta una firma e le prometto che non andrò via subito”.

Mi fece scivolare una mano sotto la camicetta, sulla pelle.

“Prima la firma, dottore. Sbrighiamo subito le formalità, poi pensiamo al resto”.

Ritrasse la mano, sospirò e prese il blocchetto assegni.

 

Pochi minuti dopo riponevo il contratto firmato nella borsa.

Tornai da lui.

Mi fece sedere sulla scrivania e prese a slacciarmi i bottoni della camicetta.

“Lei fa così ogni volta che devo chiudere un contratto?”, mi chiese.

“No. È la prima volta”, risposi. Era vero.

“E come mai ha scelto questa nuova strategia?”.

Slacciò l’ultimo bottone e mi tolse la camicetta. Ero nuda dalla vita in su.

“Perchè sapevo che avrei visto lei”, risposi.

Mi fece sdraiare sul piano della scrivania e prese a palparmi il seno.

“Non ci credo, ma è una buona risposta”, mi disse.

Mi toccò per qualche minuto, poi insinuò una mano sotto la mia gonna.

Rimase di stucco quando realizzò che non portavo nulla sotto.

Me la sfilò rapidamente e prese a toccarmi il sesso.

Non aveva un tocco delicato, però la situazione era obiettivamente eccitante.

 

Io ero completamente nuda, lui perfettamente vestito; io sdraiata sul tavolo, lui preso a toccarmi.

Allargai le gambe per permettergli di toccarmi meglio, a quel punto forse equivocò e si slacciò i

pantaloni.

Quando vidi che aveva intenzione di penetrarmi dovetti fermarlo.

“Non si scopa, mi spiace”, gli dissi.

Daddy aveva parlato di disponibilità sessuale, non di un rapporto completo, e non avevo intenzione

di concederglielo.

Si bloccò per la delusione, così gli presi subito il membro in mano.

“Ci si possono togliere delle soddisfazioni anche senza scopare, no?”.

Gli scoprii il glande e glielo baciai, poi presi a descrivere dei piccoli cerci con la punta di un dito.

Lui si abbandonò sulla poltrona, preso dall’intensità del momento.

Mi inginocchiai accanto a lui, proseguendo con il movimento.

Cercai di essere lenta e costante, in modo da procurargli un piacere prolungato.

Andai avanti per qualche minuto, fino a che non mi resi conto che stava per venire.

A quel punto gli coprii il membro con una mano e lasciai che mi venisse sul palmo, poi mi pulii con

della carta.

Era tutto finito.

Mi rivestii e lo salutai.

Mi salutò con un sorriso e una carezza.

 

Tornai a casa dopo le otto e mandai una mail a Daddy raccontando quanto era capitato.

Non avevo voglia di parlargli e sentirmi magari rimproverata per non aver scopato con il cliente.

Avevo fatto ben di più di quello che avrei dovuto.

Presi il bicchiere in mano e lo feci tintinnare contro quello della mia amica Francesca.

Eravamo state inseparabili al liceo, due sorelle, e poi la vita ci aveva separate. Senza nessun motivo, come spesso capita in casi come questi: non abitavamo vicine, diverse amicizie, il lavoro.

“E’ stato un bene che Alberto abbia organizzato questa rimpatriata”, commentò Francesca.

Mi guardai attorno: non eravamo tutti, ma una dozzina di persone della vecchia classe erano state radunate da un nostro amico nel suo grande appartamento e stavamo rievocando i tempi andati.

Alcuni erano arrivati alla meta in condizioni tremende: calvizie più o meno pronunciate, pancette prominenti, e anche culi grossi e seni cadenti.

Però non era importante: era bello che fossimo nuovamente tutti assieme, e che si fottessero gli assenti.

Compreso Daddy, che fortunatamente era qualche giorno che non si faceva vivo.

Andai a salutare Michele. Lui era stato veramente un buon amico per me, peccato che non mi fosse mai piaciuto fisicamente, se no avremmo potuto essere una bella coppia.

Poco dietro notai Monica. Lei era una di quelle che non avrei voluto incontrare.

Sempre falsa, sempre bugiarda, essenzialmente stronza.

Avevamo avuto un brutto litigio, proprio in quinta, e difatti da quella volta non ci eravamo più parlate.

Avevamo concorso entrambe per una borsa di studio e l’avevo vinta io.

Non era una cifra inimmaginabile, ma per delle studentesse squattrinate come eravamo noi era un piccolo tesoro.

Mi accusò pubblicamente di aver vinto solo grazie a non ben precisati “lavoretti”; io le risposi che lei neppure dandola a tutta la giuria avrebbe potuto vincere.

Evitai lo sguardo di Monica e andai a salutare Stefano.

Anche lui lo rivedevo volentieri, era una cara persona.

Notai una fede al dito.

Stavo giusto per chiedergli dei ragguagli quando mi squillò il telefonino.

Immaginai fosse il mio ragazzo e risposi gioviale.

“Hey, bell’uomo!”, dissi nella cornetta.

“Grazie per il complimento. Anche tu non sei male”, rispose la voce, che non era quella del mio ragazzo.

Rimasi di sale.

“Daddy?”, chiesi, pur conoscendo già la risposta.

“Certo. Come sta andando la festa con gli ex compagni?”.

Istintivamente mi guardai in giro.

“Come fai a sapere dove sono?”, chiesi.

Mi rispose con una risata.

“Io so tutto, dovresti averlo già capito”.

Stefano, di fronte a me, mi guardò interrogativo.

Gli feci cenno di aspettare e mi allontanai di qualche passo per non essere udita.

“Bene – gli risposi – allora avrai capito che sono impegnata. Ci sentiamo un’altra volta, magari, oppure anche mai”.

“Se riattacchi sei finita!”.

Rimasi impietrita.

“Sento che non hai riattaccato – proseguì – Ora voglio che tu faccia qualcosa per me”.

Sentii la fronte coprirsi di sudore.

“Senti, ora non posso. Ci sono tutti i miei amici”.

“Non posso lo dici al tuo ragazzo. Tu fai quello che voglio io, anche adesso. Sono stato chiaro?”.

Deglutii.

“Sì, certo. Scusami”.

“Bene. Quello che voglio che tu faccia è molto semplice: raduna tre o quattro amici – uomini o donne non importa – e proponigli di giocare a strip poker. Immagino che tu conosca le regole”.

“No, per piacere. Lo so che tu dai gli ordini, ma questo è veramente troppo!”.

“Non è troppo e non iniziare neppure a cercare di farmi cambiare idea, perché non succederà”.

Sentii le gambe cedermi. Lì c’erano tutti i miei amici di infanzia, non potevo sputtanarmi così.

“Ti prego, ti offro qualunque altra cosa in cambio, ma non questo!”, lo implorai.

La comunicazione si interruppe.

Guardai il telefono: la chiamata era arrivata con numero anonimo, non avrei potuto richiamarlo.

Tornai da Stefano.

“Problemi?”, mi chiese.

“No – risposi – non preoccuparti. Ma torniamo a noi: vedo che ti sei sposato, nel frattempo”.

“Eh, sì, sono sposato da tre anni. Mia moglie lavora con me…”.

Suonò nuovamente il telefonino, e vidi che era ancora un numero anonimo.

Risposi titubante.

“Con chi stai parlando in questo momento?”, mi chiese Daddy.

“Un mio amico”, risposi evasiva.

“Passamelo!”.

“Cosa?”.

“Hai capito benissimo. Passa il telefono al tuo amico, hai tre secondi”.

Allungai il telefonino verso Stefano, che lo prese con aria interrogativa.

Lo portò all’orecchio e rimase qualche secondo all’ascolto, annuendo più volte.

Al termine della conversazione disse:”Stai tranquillo, non ci saranno problemi”, e mi ripassò il telefono.

Quando lo riportai all’orecchio sentii la voce di Daddy ridacchiare.

“Credo che i tuoi compagni cambieranno opinione su di te, ammesso che ne avessero una positiva. Ricordati una cosa, Claudia: tu questa sera giocherai per perdere intenzionalmente”.

“Ti prego, dammi almeno la possibilità di giocare!”, lo implorai.

Ero una pessima giocatrice, ma avrei potuto almeno vendere cara la pelle.

“No. Non sei nella posizione di negoziare, Claudia. Buona serata”.

Mise giù il telefono.

Sentii un brivido correre lungo la schiena.

Come avrei potuto sottrarmi a quella situazione?

Stefano mi guardò sorridendo.

“E brava Claudia! Simpatico il tuo amico!”, commentò.

“Cosa ti ha detto?”, chiesi. Cercai di mascherare il panico.

“Mi ha detto di non dirti nulla. Ma non preoccuparti, penso a tutto io!”.

Mi strizzò l’occhio e si allontanò.

Si avvicinò ad Alberto e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio.

Vidi l’altro annuire, poi sorridere e portare il pollice in su.

Stefano gli diede una pacca sulla spalla, poi si avvicinò a Michele.

Anche con lui parlottò per qualche istante, poi si strinsero la mano e Stefano battè le mani per attirare l’attenzione di tutti.

“Ragazzi, diamo una senso a questa serata!”, disse ad alta voce.

Tutti si voltarono verso di lui.

“Visto che siamo adulti e non abbiamo più quindici anni, questa sera si gioca da adulti. Quindi non rubamazzetto, non risiko, ma il gioco per adulti per definizione, lo strip poker!”.

Francesca scosse la testa:”Io non gioco!”, disse subito.

Stefano le sorrise.

“Per ora a giocare siamo io, Alberto, Michele e Claudia. Qualcuno o – meglio ancora – qualcuna si vuole aggregare a noi?”.

Nessuno rispose all’invito, anche se sia Francesca che Monica guardarono dalla mia parte con sguardo stupito.

Stefano lasciò passare qualche istante, poi proclamò chiuse le iscrizioni.

Nel frattempo Alberto aveva sgomberato un tavolino basso posto tra quattro poltrone e vi aveva deposto un mazzo di carte.

Francesca venne verso di me e mi prese sottobraccio, allontanandomi dagli altri.

“Ma sei scema? – mi chiese – Cosa ti salta per la testa?”.

Alzai le spalle.

“Dai, si fa per giocare – le dissi – Non siamo più ragazzini”.

Lei scosse ancora la testa.

“Fai come vuoi”, mi disse.

I tre uomini presero posto.

Trassi un sospiro e mi sedetti anche io.

“Non ci sono le fiches”, osservai.

Mi rispose Stefano.

“Per evitare di dilungarci, giochiamo senza. Si danno le carte, si cambiano e poi si scoprono. Chi ha il punto più basso perde un indumento e lo dà a chi ha il punto più alto. Facile. Giochiamo per un’ora”.

 

Venne distribuita la prima mano di carte.

Io non avevo assolutamente nulla, così scartai un re e me ne vidi restituire un altro.

Vinse Alberto con una doppia coppia, io ero senza alcun dubbio il peggior punto dei quattro.

“Mmm, Claudia – disse Alberto – cominciamo male. Posso avere i tuoi sandali?”.

Mi sfilai le scarpe e glieli depositai sul tavolo davanti a lui.

Venne dato un nuovo giro di carte.

Questa volta mi trovai in mani una coppia di regine, tutto sommato un punto discreto.

Fortunatamente la poltrona su cui sedevo era appoggiata alla parete per cui nessuno, alle mie spalle, avrebbe potuto vedere il mio bizzarro modo di giocare.

Scartai le due donne e ricevetti in cambio un dieci e un sette. Cioè nulla.

Anche la seconda mano, vinta da Stefano, si chiuse con il peggior punto.

“Vorrei la tua camicetta, Claudia”, mi disse.

Cercando di non guardare le persone che ci circondavano, slacciai rapidamente i bottoni della camicetta e gliela sporsi.

Sotto indossavo un reggiseno nero e, benchè nulla si vedesse, mi sentivo già come se fossi nuda.

Cercai di coprirmi con le carte della mano successiva.

Anche in quel caso non ebbi molto da inventare per ottenere una mano orribile, ma la sorte volle che Michele riuscisse ad avere un punto peggiore.

Si tolse il gilè e lo porse a Stefano.

Ancora un giro di carte, ancora batticuore.

La sorte voleva prendersi beffe di me, servendomi un tris di Jack servito.

A malincuore ne scartai due, e accolsi con una smorfia di insoddisfazione il sette e l’asso che arrivarono al loro posto.

Anche questa volta avevo il punto peggiore.

“Non ti gira proprio bene, eh Claudia – disse Michele, il vincitore – Ci togliamo i pantaloni, ora?”.

Mi alzai in piedi, slacciai i jeans e li feci scendere lungo le gambe.

Sotto avevo un perizoma coordinato con il reggiseno, in microfibra nera.

Qualcuno fece un fischio, ma non capii chi.

Sui volti dei miei compagni di gioco si dipinse un sorriso malizioso.

Era evidente a tutti che io o non sapevo giocare, oppure la fortuna non girava dalla mia parte.

Ed era altrettanto evidente a tutti quanti come il prossimo passo sarebbe stato scoprirmi il seno.

Vennero distribuite le carte.

Scartai un sette e ne ricevetti un altro in cambio.

Scoprimmo le carte.

Alberto aveva vinto e io, ovviamente, avevo perso.

“Ok, ora basta! – disse Francesca – Il gioco è carino, ci siamo divertiti, però ora stiamo esagerando. Claudia, rivestiti e finiamola qui!”.

Stefano si rivolse a Francesca.

“Frà, stiamo solo giocando. E Claudia si è offerta volontaria, nessuno la sta costringendo. Vero Claudia?”.

Sì, come no, pensai.

“Certo”, dissi invece.

“Ha trent’anni, potrà scegliere come passare una serata, no?”, questo lo disse Monica, e mi fece capire come in realtà questo sputtanamento la stesse riempiendo di soddisfazione.

Calò un attimo il silenzio, poi parlò Alberto:”Claudia, stiamo aspettando che tu paghi la mano”.

Mi alzi in piedi e, senza guardare nessuno, mi slacciai la chiusura del reggiseno.

Lo buttai ad Alberto e mi rimisi a sedere.

Nessuno faceva neppure finta di non guardarmi le tette.

Rimasero tutti bloccati per qualche secondo, poi Stefano riprese le carte in mano e le distribuì nuovamente.

Scartai due assi e attesi le carte degli altri, come un auto in sbandata attende lo schianto contro al muro.

Avevo perso nuovamente, come era prevedibile.

Francesca alzò le mani e disse:”Io non dico più niente, fate come volete!”, e si allontanò.

Io mi alzai di nuovo in piedi e, velocemente, mi sfilai il perizoma.

Lo appallottolai in una mano e lo porsi a Michele, il vincitore.

Mi sentivo avvampare dalla vergogna, non avrei potuto trovarmi in una situazione più imbarazzante.

Rimasi in piedi qualche secondo, poi mi allontanai dal tavolo.

“Ragazzi, bravi – dissi – avete vinto. Ora ridatemi i miei vestiti e arrivederci”.

Non vedevo l’ora di andarmene.

Stefano mi guardò stupito.

“Forse non hai sentito prima – disse – Ho detto che giochiamo un’ora. Mancano ancora venti minuti”.

Rimasi di stucco.

“Ma come? Io non ho più nulla addosso, cosa potrei togliermi se perdo ancora?”.

Stefano sorrise malizioso.

“Qualche cosa ci inventeremo, non temere. Siediti, Claudia, giochiamo”.

Mi sedetti nuovamente, sentendo il cuore battere sempre più forte.

Cosa mi sarebbe successo ora?

Vennero distribuite le carte.

 

 

Il giro di mani successivo mi fece mordere le labbra per il nervoso, perché mi trovai servito un colore.

Avessimo giocato a soldi avrei avuto la vittoria in tasca.

Scartai due carte e accolsi con indifferenza i due semi inutili che mi arrivarono in cambio.

Vinse Michele, e perse la solita persona.

“Che le facciamo fare?”, chiese Alberto.

Stefano meditò per qualche istante.

“Io direi che Michele potrebbe toccarla per un paio di minuti”, propose.

Ci fu un mormorio di approvazione tra tutti.

Mi alzai in piedi e misi le mani dietro alla nuca.

Ero perfettamente esposta, tutti mi stavano guardando.

Chiusi gli occhi per non vederli.

Michele si sistemò dietro di me. Sentii distintamente la sua erezione a contatto con il mio sedere.

Mi circondò con le braccia e prese a toccarmi il seno.

Non era un tocco brusco o indifferente, tanto che mi eccitai.

Rimase sui miei capezzoli per qualche secondo, poi – senza interrompere il contatto tra le sue mani e il mio corpo – si spostò sul mio sesso.

Con un dito mi allargò le labbra e prese a giocare con il mio clitoride.

Mi stavo eccitando, speravo non si capisse, anche se difficilmente Michele avrebbe potuto ignorare l’umore che si stava diffondendo sulle sue dita.

Sentii la sua erezione sempre più intensa e – forse involontariamente – si strinse ancora più a me.

Sentii il suo fiato sul collo e delicatamente mi poggiò un bacio sotto l’orecchio.

Sorrisi.

Affondò ancora di più le dita nella mia vulva, e contemporaneamente con l’altra mano prese a toccarmi il seno. Mi feci scappare un piccolo gemito, sperai che nessuno l’avesse sentito.

Sentii la voce di Stefano.

“Basta, sono finiti i due minuti!”.

Ci sedemmo nuovamente al tavolo.

Io non osavo guardare verso gli altri, soprattutto verso Francesca.

Altro giro di carte, altra sconfitta.

Questa volta il vincitore fu Alberto.

Meditò qualche secondo, poi emise il suo verdetto.

“Noi qui siamo al secondo piano. Prendi l’ascensore, vai fino al decimo e scendi giù a piedi. Io verrò con te”.

Ognuno fece qualche commento, io mi alzai e seguii Alberto sul pianerottolo.

“Mi hai veramente stupito, non pensavo avresti fatto qualcosa del genere”, mi disse mentre eravamo sull’ascensore.

“A volte la gente si pensa di conoscerla, ma non è vero”, dissi, tanto per dire una banalità qualsiasi.

“Posso toccarti?”, mi chiese.

Alzai le spalle.

“Tanto ormai…”, risposi.

Mi passò una mano sul seno, ma probabilmente capì dalla mia espressione che non stavo gradendo.

Si aprirono le porte.

Trattenni il fiato, perché avremmo potuto trovare qualcuno in attesa dell’ascensore.

Per fortuna non c’era nessuno e uscimmo sul pianerottolo.

Il marmo era freddo al contatto con il mio piede.

Prendemmo le scale a scendere.

“E così al tuo ragazzo piace che tu faccia queste cose?”, mi chiese Alberto.

“Prego?”, risposi io.

“Stefano mi ha detto che ha parlato al telefono con il tuo ragazzo, il quale gli ha detto che a te piacciono queste cose e a lui piace che tu le faccia. È un po’ strano in una coppia, no?”.

Pezzo di merda.

“Sì. Ma sono giochi innocui, solo per giocare un pochino”.

Scendemmo di un paio di piani.

“Sarà – rispose lui – Io però non avrei piacere che la mia ragazza facesse quello che tu stai facendo, soprattutto quando non ci sono. Potrebbe anche essere pericoloso”.

“Pericoloso?”.

“Certo. E se a qualcuno scattasse la molla nel cervello e ti violentasse? O più di uno?”.

Con mio stupore, sentii un brivido di eccitazione correre lungo la spina dorsale.

Mi meravigliai di me stessa.

“Non credo. Siamo tra amici, in fin dei conti”, risposi.

Poi pensai all’erezione di Michele, ma non dissi nulla.

Passammo davanti ad una porta e sentii qualcuno che, all’interno dell’appartamento, parlava a voce alta.

La porta si spalancò e ne uscì un ragazzo più o meno della nostra età.

Mi guardò e rimase di sale, poi guardò Alberto.

Io mi coprii con le braccia il seno e il sesso, cercando di non sembrare tanto ridicola.

“C’è una festa in casa mia – spiegò – lei ha perso una scommessa”.

Il ragazzo sorrise.

“La prossima volta invita anche me, allora. Anche se…”, indicò con il pollice alle sue spalle verso la porta da cui era uscito, dove probabilmente viveva con la moglie o la fidanzata.

Rimanemmo sul pianerottolo in silenzio per qualche secondo, in imbarazzo estremo.

“Alberto…”, gli dissi.

Lui si scosse e sorrise al vicino.

“Noi rientriamo, forse è meglio”, disse, e porse la mano al ragazzo.

Lui ricambiò, poi allungò la mano verso di me.

Scostai il braccio dal mio seno e glielo porsi.

Mi guardò le tette, poi sorrise e disse:”Piacere di averti conosciuta”.

Tutto suonava surreale.

Percorremmo gli ultimi piani in silenzio, poi rientrammo nell’appartamento.

A sguardo basso tornai a sedermi al mio posto.

Stefano guardò l’ora.

“Ad occhio direi che abbiamo tempo solo per una mano. Peccato”.

Distribuì le carte e giocammo.

A suggello della serata di merda, quella volta non ebbi neppure da impegnarmi per perdere. Ricevetti delle carte assolutamente estranee tra loro, ne cambiai una e mi preparai e scontare l’ultima penitenza.

“Posso proporla io?”, chiese una voce femminile.

Era quella di Monica.

Stefano, il vincitore, guardò verso gli altri, poi annuì.

“Va bene”.

Monica sorrise con il sorriso più falso che avessi mai visto.

“Ci risulta che, nonostante tutto, tu riesca a trovare persino eccitante la situazione in cui ti trovi”.

Michele aveva evidentemente parlato mentre io ed Alberto eravamo in giro sulla tromba delle scale.

“Per cui, non voglio privarti della soddisfazione di apprezzare in pieno il tuo stato. Per cui, mia cara, ora ti dovrai masturbare sul divano”.

Sentii un colpo al cuore.

Che potevo dire?

Daddy aveva parlato con Stefano, non so cosa gli aveva detto.

Se avesse saputo che mi ero rifiutata di eseguire una penitenza, cosa avrebbe potuto fare?

E poi era vero che fossi eccitata.

Anche gli occhi del vicino di casa su di me mi avevano in qualche maniera lusingata.

Se tutti erano così contenti che avessi preso parte a questo gioco significava che forse non ero così male.

Non dissi nulla e mi sdraiai sul divano.

Chiusi gli occhi.

Con la mano destra mi accarezzai il seno, poi scesi lentamente verso l’inguine.

Quanti di quei ragazzi mi avevano pensata al liceo?

Michele credo proprio di sì, ma non penso fosse l’unico.

E, soprattutto, quanti di loro avrebbero ripensato a me da quel giorno in poi?

Stefano era sposato; si sarebbe mai masturbato pensando a me e a quello che stavo facendo proprio in quel momento?

Insinuai un dito nel mio sesso.

Ero bagnata.

Introdussi il dito fino in fondo.

Aprii per un attimo gli occhi e vidi che un paio di persone avevano estratto il telefonino e stavano filmando.

Che facessero pure.

Monica guardava con soddisfazione.

Cazzo di stronza….sono più che certa che nessuno aveva mai pensato a lei come a me.

Inserii anche un secondo dito nella vagina, e inarcai la schiena per il piacere.

Nessuno di loro avrebbe più guardato la foto di classe con gli stessi occhi.

 

Cinque minuti dopo mi alzai dal divano e sorrisi, soddisfatta.

Nessuno parlava, c’era nell’aria un misto di imbarazzo e di carica erotica.

Però la serata non avrebbe potuto andare oltre.

“Mi date i vestiti, che vado a casa?”, chiesi.

Stefano mi guardò stupita.

“Perchè, quando tu giochi a poker a soldi, quando vai via ti restituiscono i soldi?”.

Ci misi un attimo a capire cosa intendesse.

“Stefano, dai…non posso andare a casa nuda!”.

Indicò l’appendiabiti accanto all’ingresso.

“Il soprabito è ancora tuo. Vai a casa con quello”.

E sorrise.

Evidentemente il mio supplizio non era ancora finito.

Indossai il soprabito, aprii la porta e uscii in strada, diretta verso l’auto.

 

Parcheggiai davanti a casa, ringraziando la sorte per avermi fatto abitare in una villetta unifamiliare anziché in un condominio.

Non sarebbe stato facile entrare in un palazzone nello stato in cui mi trovavo.

Chiusi la macchina in garage e entrai nella tromba delle scale.

Percorsi a piedi nudi le prime due rampe di scale e, proprio mentre passavo davanti all’appartamento di mio fratello, la porta si aprì.

Era lui.

“Mi pareva di aver sentito arrivare la tua macchina – mi disse sorridendo – Ci sono qui Franco e gli altri, vieni a salutarli?”.

Istintivamente guardai verso i miei piedi nudi.

“No, grazie, vado a casa”, risposi.

Lui seguì il mio sguardo.

“Cosa ci fai senza scarpe? Cosa è successo?”.

“Te lo racconto poi. Ora vado su”.

Proprio in quel momento fece capolino dalla porta Franco, un amico di mio fratello.

Non so come facesse lui a trovarlo simpatico, perché io l’avevo sempre considerato un idiota.

“Claudia! Quanto tempo! Come stai?”, urlò da sopra la spalla di mio fratello.

Da come trascinava le parole potevo intuire che avesse bevuto un po’ troppo.

“Bene, grazie. Ora però devo andare”, risposi piatta.

“No, non esiste! – quasi urlò Franco – Entra con noi a farti un bicchierino!”.

Si sporse dalla porta e mi afferrò per il polso.

Provai a sottrarmi, ma la stretta era poderosa.

“Dai, cinque minuti! È tanto che non ti vedo, mi racconti qualcosa!”, insistette Franco.

Mio fratello mi guardò con uno sguardo che diceva:”non guardare me, non posso farci nulla”.

Mi lasciai trascinare in casa, fin verso il salottino.

Lì c’erano anche Ivan – un altro amico di mio fratello che non suscitava da parte mia di una stima maggiore rispetto a Franco – Lorenzo e Gianluca, mai visti prima.

Mi fecero sedere quasi a forza sul divano e mi misero in mano un cocktail.

Franco era particolarmente loquace e volle sapere un numero infinito di informazioni su di me.

Mi chiese del mio fidanzato, del mio lavoro, delle vacanze e se volevo cambiare auto.

Chiacchierando finii il primo cocktail e lo sostituirono subito con uno nuovo.

Solo allora Franco si accorse che ero senza scarpe.

“Cosa è successo? Perché sei scalza?”.

Alzai le spalle.

“Nulla. Abbiamo fatto un gioco e ho perso”.

“Che gioco?”, chiese mio fratello.

“Strip poker”, risposi.

Franco sorrise a trentadue denti.

“Ma brava la nostra Claudia! E hai perso solo le scarpe?”.

Solo con un attimo di ritardo si rese conto come dovevano essere andate le cose.

“Fammi capire… tu sei nuda lì sotto?”, mi disse con gli occhi sgranati.

“Eh sì”, gli risposi.

Per un attimo nessuno fiatò.

“Non ci credo – disse Franco – Facci vedere!”.

“Ma non ci penso neanche!”, dissi.

“Dai! Non puoi dirci una cosa del genere e poi lasciarci a bocca asciutta!”, rincarò Ivan.

Mi alzai in piedi.

“Ragazzi, io vado a casa che sono stanca”.

Mi diressi verso la porta.

Ivan giunse le mani, come per pregarmi.

“Ti prego, facci vedere!”.

Mi divertiva avere questi allupati che mi imploravano.

Aspettai un attimo, poi sciolsi la cintura del soprabito e, in un lampo, lo aprii e lo richiusi, permettendo loro una visione solo fugace del mio corpo.

Aprii la porta e mi voltai ancora verso di loro.

“Ciao ragazzi, buona notte!”.

 

Andai nel mio appartamento e mi spogliai, poi mi buttai subito sotto alla doccia.

Ero stata a piedi nudi nella tromba delle scale di Alberto, ero stata con il sedere sulla sua sedia e sul sedile della mia auto.

Mi sentivo sporchissima, e poi avevo bisogno di rilassarmi un attimo.

Era stata una serata elettrizzante, alla fine dei conti.

Ne avrei fatto a meno, ma appurato il fatto che non avevo alternative, ero orgogliosa di aver gestito la faccenda in maniera composta.

Mi spiaceva solo che Francesca pensasse che ero una zoccola; forse avrei dovuto spiegarle il motivo per cui tutto questo stava capitando.

Magari avrei fatto meglio a parlarne con Daddy, onde evitare sgradevoli rappresaglie.

Uscii dalla doccia, mi infilai un perizoma e il pigiama e mi buttai sul divano.

Non era tardi, ma ero stanchissima.

Probabilmente per la tensione.

Mi versai due dita di cognac e sentii suonare alla porta.

Sicuramente era mio fratello, venuto a rimproverarmi per come mi ero comportata con i suoi amici.

Avrebbe avuto ragione, ma io questi morti di figa non li ho mai sopportati.

In primis Franco: un ragazzo veramente brutto, con in più modi di fare del playboy da strapazzo.

Erano anni che ogni volta che mi vedeva accennava una battuta su me e lui, come se una nostra storia potesse essere probabile.

Un coglione.

Andai ad aprire la porta, pronta a dire a mio fratello di non rompermi, ma rimasi di stucco.

Non era mio fratello. Erano loro.

“Disturbiamo?”, chiese Franco, ma non aspettò una mia risposta, spalancò la porta e entrò lo stesso, seguito dagli altri.

“Sì, disturbate – risposi – Non vi sembra tardi?”.

Guardò l’ora, faticando a tenere fermo il polso con l’orologio.

“No, non mi sembra”.

Aveva ulteriormente bevuto.

Si disposero tutti attorno a me.

Cosa stava succedendo?

Mi avrebbero violentata?

A quest’ora della notte, con la casa silenziosa, sarebbe bastato un urlo per richiamare mio fratello.

Non urlai.

Pensai alla sensazione di eccitazione che mi aveva attraversata qualche ora prima quando avevo ipotizzato che i miei compagni di scuola mi volessero violentare.

Anche in quel momento sentii i capezzoli sfregare contro il tessuto felpato del pigiama.

Ivan chiuse la porta di casa, Franco mi fece una carezza.

Come sarebbe stato trasformare in realtà quella fantasia?

Sentii il cuore accelerare.

Non avrei urlato.

“Ragazzi – dissi – se siete qui per qualcosa, dovrete impegnarvi per prenderla!”.

Feci un balzo indietro, sorprendendoli.

Franco incespicò in una sedia, Lorenzo – probabilmente più sobrio – si mosse nella mia direzione.

Girai attorno al tavolo, ma vidi che Gianluca mi stava venendo incontro nell’altro senso.

Mi bloccai, permettendo a Lorenzo di afferrarmi un braccio.

Mi divincolai, gli diedi un calcio, ma il mio piede nudo non sortì nessun effetto.

Caddi a terra.

Lorenzo perse la presa per un attimo, ne approfittai per rialzarmi.

Ma era troppo tardi:Ivan mi prese una caviglia e mi fece nuovamente cadere.

Gianluca mi immobilizzò le braccia, Ivan si attaccò all’elastico dei miei pantaloni del pigiama e me li abbassò.

Continuai a divincolarmi, ma ancora non urlai.

Franco mi sollevò la felpa, scoprendomi i seni.

In due fecero passare la mia testa attraverso il collo e me la sfilarono.

“Portiamola in camera da letto”, disse Franco.

Mi sollevarono di peso e mi sbatterono sul letto.

Ivan mi immobilizzò i polsi sopra alla testa, mentre Lorenzo mi bloccava le caviglie.

Franco afferrò il perizoma e me lo sfilò con enfasi, gettandolo quindi per terra.

Mi passò una mano sul seno, provocandomi un brivido.

“Franco – gli dissi – fai quello che vuoi, ma ti informo che nel primo cassetto del comodino ci sono dei preservativi”.

Sorrise soddisfatto e andò a prelevare la scatola, mentre Lorenzo e Gianluca mi tenevano ferme le caviglie.

Franco si abbassò i calzoni e i boxer.

Era già in erezione, e in quel momento mi ricordai quello che mio fratello mi aveva detto di lui anni prima. Era il ragazzo con il membro più lungo che avesse mai visto.

Capii che non aveva esagerato.

Calzò il preservativo e si rivolse a me.

Lorenzo e Gianluca mi allargarono le gambe, mentre Ivan continuava a immobilizzarmi i polsi.

Franco mi infilò due dita nella vagina, senza nessuna grazia.

“Sbaglio o sei bagnata?”, disse.

Non risposi.

Si piegò su di me e mi penetrò.

Nonostante fossi bagnata e il preservativo, sentii male.

Mi lamentai, ma non urlai.

Mi afferrò i seni e prese a entrare e uscire.

Faceva male, ma era bello.

Ero talmente eccitata per la situazione che venni dopo pochissimo, molto prima di lui.

Quando fu il suo turno di venire, assunse una strana espressione, come se stesse ridendo, poi chiuse gli occhi e eiaculò.

Uscì da me, si sfilò il preservativo e si rivestì.

“Chi vuole accomodarsi?”, chiese.

Gianluca si fece avanti, così si scambiarono di posto.

Anche lui mi penetrò.

 

Diversi minuti dopo, anche Lorenzo usciva da me.

Io ero venuta altre due volte, pur rimanendo in silenzio.

“Ivan – disse Franco – sei rimasto solo più tu. Scopatela e andiamo”.

Era ancora intento a tenermi i polsi, che un po’ mi facevano male.

“Vorrei rimanere solo con lei”, disse.

Gianluca lo guardò strano.

“Ti vergogni a scopare davanti a noi?”, chiese.

“Sì – rispose Ivan – Dai, uscite, per piacere”.

I tre ragazzi, pur perplessi, lasciarono la stanza.

Mi misi a sedere sul letto.

“Senti – mi chiese – tu ti sei lasciata fare tutto questo, vero? Non ci saranno guai per noi, vero?”.

Gli sorrisi.

“Avessi voluto fermarvi avrei urlato – dissi – Stai tranquillo”.

Annuì, poi si alzò in piedi di fronte a me.

Si slacciò i pantaloni, si abbassò i boxer e tirò fuori il pene.

Lo prese con una mano e lo indirizzò verso il mio volto.

Scoprì il glande e me lo passò sulle labbra.

Era pronto, così aprii la bocca.

 

 

 

Inviai la mail a Francesca sentendo una grossa sensazione di liberazione dentro di me.

Le avevo raccontato tutto.

Non ero entrata nei dettagli più scabrosi per non impressionarla, ma ora anche lei sapeva.

Ci avevo pensato per un’ora prima di farlo, combattuta tra il desiderio di aprirmi con qualcuno e la paura di eventuali ritorsioni; poi avevo deciso.

Dopo tutto, la vicenda con Daddy sembrava ben lontana da essere arrivata alla fine e non sapevo quanto avrei potuto ancora sopportare; era necessario che qualcuno mi aiutasse.

Francesca non era né un poliziotto né nulla del genere, però era un’amica e mi avrebbe potuto dare qualche consiglio.

Al minimo, avrei avuto una persona fidata con cui confrontarmi e, finalmente, sfogarmi.

Non feci in tempo a chiudere il computer che mi arrivò la sua mail di risposta.

Mi diceva di essere stata sconvolta da quanto le avevo raccontato, ma di non temere che avremmo trovato assieme la soluzione e che sarebbe passata da me in serata per parlarne con calma.

Sorrisi al monitor: avevo fatto bene a rivolgermi a lei.

 

Francesca si presentò alle dieci di sera precise con una bottiglia di brachetto e lo sguardo agguerrito.

“Ora ci sono io – mi disse stappando il vino – e vedrai come la faremo pagare a quello stronzo!”.

Si fece raccontare con dovizia di particolari tutti gli eventi, cercando di scoprire un punto comune tra i vari episodi, pur senza successo.

Daddy sembrava procedere a caso, coinvolgendo sia elementi del mio lavoro, sia quelli della vita privata.

Stavamo cominciando a indagare sui luoghi di residenza delle persone coinvolte, quando il mio telefonino vibrò sul tavolo.

Era lui.

“Che faccio?”, chiesi a Francesca.

“Rispondi – mi disse – e sii naturale con lui. Non deve capire che stiamo stringendo il cappio attorno a lui”.

Non stavamo stringendo proprio nulla, ma risposi lo stesso al telefono.

“Accendi Skype”, mi disse senza garbo.

“Non posso – risposi – non sono a casa e non sono sola”.

“Non provarci neppure. Sei a casa, anche se è vero che non sei sola. Sei con la tua amica Francesca e stavate parlando di me”.

Rimasi senza parole.

“La tua amica è bruna, ha la carnagione olivastra, è magra e ha poche tette. Però ha un bel culo. Io so tutto, dovresti averlo imparato”.

Deglutii.

“Ora accendo Skype”, dissi.

Francesca mi guardò interrogativa.

“Era lui – dissi, benchè lei già lo sapesse – sa che sei qui. Vuole parlare con me attraverso Skype”.

Lei non perse un grammo della sua grinta.

“Non c’è problema. Tanto è una delle ultima volte che gli parlerai, sono pronta a scommetterci”.

Accesi Skype e attesi che si collegasse.

Come al solito, la sua immagine era nera.

“Ciao ragazze – disse – avevo voglia di fare due chiacchiere. Francesca, so che sei lì, vieni davanti alla webcam”.

La mia amica si sedette accanto a me.

“Bene. Mi fa piacere vederti – continuò – anche perché ti conosco così bene”.

Francesca guardò verso di me, interrogativa.

“Mi conosci?”, chiese, con un nota di titubanza nella voce.

“Certo. Io so tutto di tutti, e quindi anche di te; Claudia avrebbe dovuto dirtelo. So che ti sei sposata un anno fa, in aprile, ad esempio. E so che siete andati in viaggio di nozze alle Mauritius, dove una sera, forse un po’ brilla, hai fatto un pompino a un cameriere. Però questo tuo marito non lo sa”.

Francesca mi guardò con lo sguardo sgranato.

“Giuro, non gliel’ho detto io!”, le dissi sottovoce.

Era vero.

“Così come non sa – proseguì Daddy, mentre Francesca mi prendeva la mano e me la stringeva per la paura – che due anni fa, mentre ti credeva a cena con Claudia, tu invece sei uscita con il tuo capo e ti sei fatta scopare. In cambio di questo hai avuto un premio speciale con cui hai saldato un cospicuo debito con la boutique da cui ti servi da qualche anno”.

Francesca si prese la testa tra le mani.

“Ma tutto ciò rimarrà tra noi, ovviamente – proseguì Daddy – Claudia sa che io mantengo la parola”.

Francesca si morse il labbro inferiore, palesemente turbata.

Io non sapevo cosa dire per consolarla, tanto mi sentivo in colpa per averla coinvolta in quel tipo di situazione.

Ma come faceva Daddy a conoscere quelle cose?

“Claudia – Daddy interruppe i miei pensieri – vai sul sito di cam4, tu sai come fare”.

Automaticamente aprii la pagina; dopo qualche secondo un riquadro mostrò l’immagina sgranata di Francesca e me.

“Porta il computer in camera da letto”, mi ordinò.

Ci spostammo nell’altra stanza; Francesca mi seguiva come un’automa.

“Brave, ragazze – disse Daddy – Ora baciatevi. Vedete di realizzare una performance credibile, oppure i vostri uomini si uniranno presto agli spettatori di questo show. Per ora ci sono quaranticinque persone che vi guardano, solo sulla fiducia. È incoraggiante, fossi in voi sarei contento”.

Francesca si voltò verso di me, avvicinandosi leggermente.

Anche io mi accostai a lei, sentii le sue labbra sulle mie.

“Brave, ragazze! Siate convincenti e vedrete che tutto finirà presto”.

Sentii la sua lingua accarezzare il mio palato.

Era dolce, aveva un tocco piacevole.

La abbracciai e la strinsi a me.

Chiusi gli occhi e, più istintivamente che consapevolmente, infilai una mano sotto la sua maglietta.

Sentii la sua pelle, era calda e morbida.

Le mi passò una mano tra i capelli, reclinai la testa assecondando il suo movimento.

Sentii ancora un bacio, questa volta appena sotto all’orecchio.

Un brivido mi percorse la nuca.

Spostai la mano e le accarezzai la pancia, procurandole una risatina di solletico, poi risalii.

Non portava il reggiseno, così incontrai subito il suo capezzolo.

Lo strinsi tra le dita come fosse una piccola sigaretta, mentre si irrigidiva in maniera decisa.

“Non pensare a nulla – le sussurrai nell’orecchio, coperta dai capelli in modo che Daddy non vedesse – Rilassati e tutto passerà in fretta”.

Mi diede ancora un bacio, nuovamente sulle labbra.

Sentii una sua mano accarezzarmi il seno attraverso la stoffa della camicetta.

“Spogliamoci”, mi disse.

Ritrassi la mano dal suo seno e mi slacciai i bottoni della camicetta.

Lei si liberò della maglietta e dei jeans, rimanendo in perizoma; io mi sfilai i pantaloni.

“Rimani così?”, mi chiese Francesca, indicando il completo intimo con cui ero rimasta.

Mi slacciai il reggiseno e lo gettai a lato, poi mi sdraiai sul letto a pancia in su.

Un attimo dopo anche Francesca era sdraiata accanto a me.

“Così è più comodo”, le dissi, e ripresi ad accarezzarle il torso.

Era eccitata e si vedeva. Si lasciò accarezzare ad occhi chiusi per qualche minuto, poi mi prese la mia mano e la guidò verso il suo inguine.

Sfiorai il tessuto delle sue mutandine, era umido.

Mi posi in ginocchio, afferrai l’elastico del perizoma e glielo sfilai.

Esitai un attimo, poi le passai un dito tra le labbra.

Era eccitata.

Nonostante fossimo molto in confidenza, era la prima volta che la vedevo nuda.

Aveva un bel fisico, molto atletico; non a caso aveva sempre avuto successo con i ragazzi.

Le accarezzai il clitoride, constatando quanto grande fosse.

Lo presi tra le dita e lo strofinai delicatamente.

Francesca emise un lungo sospiro e si morse le labbra.

Continuai a stimolarla con il palmo della mano.

Lei si mise le mani tra i capelli, inarcando la schiena.

“Claudia..”, mi disse con un mezzo sospiro.

“Dimmi”, le risposi, senza smettere di stimolarla.

Ora era decisamente bagnata, le introdussi un dito dentro senza incontrare la minima resistenza.

“Spogliati – mi disse – voglio fare una cosa con te”.

Mi sfilai le mutandine e rimasi in attesa di capire cosa volesse.

Mi fece coricare sulla schiena nel senso opposto al suo, con la mia testa all’altro capo del letto, poi si avvicinò a me.

Intrecciò le sue gambe con le mie, fino a fare in modo che i nostri sessi si toccassero.

Sentii il suo umore tra le mie gambe, unito al mio.

Lei prese ad ondeggiare il bacino, sfregandolo sul mio.

Io feci lo stesso.

“Non assecondare il mio movimento – mi spiegò – muoviti in senso opposto”.

Feci quello che mi diceva, realizzando come, in quella maniera, i nostri organi si stimolassero a vicenda.

Mi chiesi dove lei avesse imparato questa tecnica, ma non le dissi nulla.

Aumentammo il ritmo della frizione, aumentando il piacere.

Non potevo dimenticare come Daddy stesse guardando, e chissà quante altre persone nello stesso momento, ma in quel frangente non mi interessava.

Sentii Francesca ansimare, mentre anche io sentivo i brividi lungo il corpo.

Andammo avanti per qualche minuto, fino a quando Francesca non si sollevò leggermente.

Allungò le mani verso il nido formato dai nostri sessi e toccò il mio clitoride.

Sentii come una scarica elettrica. Era qualche minuto che desideravo mi toccasse, ora ero veramente eccitata.

Anche io alzai la schiena e allungai la mano verso il suo inguine.

Era molto calda, tant’è che – non appena mi chinai verso di lei – mi ghermì la nuca con una mano e mi baciò nuovamente.

“Fammi venire! – mi sussurrò tra un bacio e l’altro – Ti prego!”.

“Ora godrai, dammi un attimo”.

Ripresi in mano il suo clitoride e presi ad accarezzarlo tra il pollice e l’indice.

Francesca accusò il colpo, prese a gemere sempre di più e chiuse gli occhi, tanto che mi venne il timore che stesse per piangere.

Risolsi il dubbio qualche istante dopo, quando spalancò la bocca e si produsse in una specie di gemito prolungato, segno che stava venendo.

Il suo corpo venne attraversato da un leggero tremito, poi si abbandonò sul materasso.

“Ma brave! Che bello spettacolo!”, disse Daddy alle nostre spalle.

Francesca sembrò ricordare solo in quel momento della sua presenza, e istintivamente si coprì il seno con le mani.

“Vi hanno visto circa ottocento persone – proseguì – Non male per delle esordienti, ancora complimenti. Tu, Francesca, avevi già avuto esperienze con una donna?”.

Francesca scosse il capo.

“Sei stata molto brava. Claudia, interrompi il collegamento con cam4”, mi disse.

Chiusi la finestra con un certo senso di liberazione.

 

Ora ho bisogno di un’ultima cosa da te, Francesca”, disse Daddy.

“Ti prego, basta! Abbiamo fatto quello che ci hai chiesto!”, lo implorò lei. Non sembrava più la stessa persona che pochi minuti prima mi chiedeva di farla godere.

Forse era una di quelle ragazze che durante l’eccitazione sessuale si trasformano.

“Sarà una cosa molto facile – spiegò Daddy – e se eseguirai bene tutto quello che ti ordinerò ti garantisco che non avrai più a che fare con me”.

Francesca annuì.

“Cosa devo fare?”.

Daddy si rivolse invece a me.

“Ci sono delle corde in casa?”.

Avevo un rotolo di spago spesso, e lo andai a recuperare per lui.

“Ora, Francesca, con quello spago devi legare la tua amica Claudia al letto. Fallo ora, io vi guardo”.

Francesca mi guardò interrogativa, ma scossi la testa per dirle che non doveva preoccuparsi.

Dopotutto, quella vicenda era una cosa tra me e Deddy, lei ci era entrata solo per caso, e aveva già scontato la sua colpa.

Mi coricai sul materasso, lasciando che mi bloccasse i polsi e le caviglie ai quattro angoli del letto.

Mi sentivo estremamente vulnerabile, ma allo stesso tempo eccitata da quella postura.

Daddy, attraverso la telecamera, aveva sicuramente un punto di osservazione molto diretto del mio sesso. La cosa mi dava una certa soddisfazione.

“Brava, Francesca. Ora vieni qui davanti alla telecamera, voglio farti qualche foto”.

Francesca avanzò fin verso quel punto.

“Solleva le braccia, voglio vederti bene”.

Lei eseguì la disposizione.

“Bene, Francesca – disse Daddy – a parte un’ultima cosa che farai tra un minuto, le nostre strade si dividono. Per quanto riguarda me è stato un piacere, anche se temo che non sia stato lo stesso per te. Anche se, devo dire, mi pare tu abbia goduto non poco….”.

Francesca arrossì violentemente.

“Le nostre strade si dividono, dicevo – riprese Daddy – Sappi che se tenterai qualche scherzo, il filmato che avete appena girato finirà nella casella di posta di tuo marito prima e in rete dopo, con tanto di nome e cognome. Ti consiglio di non verificare se sto scherzando”.

Francesca abbassò lo sguardo.

“Non succederà, stai tranquillo”.

“Bene. Ora passiamo all’ultimo compito che ti chiedo. Intanto vestiti”.

Francesca si rimise i vestiti.

Daddy le indicò una sequenza di tasti da premere sul computer, in seguito alla quale lui avrebbe potuto vedere e sentire attraverso la telecamera ma il computer sarebbe sembrato spento.

Francesca eseguì diligentemente e lo schermo diventò subito nero.

“Ora prendi il telefonino di Claudia e digita il messaggio che ti dirò”, proseguì Daddy.

Prese il mio telefono, cliccò su qualche menù, poi annunciò di essere pronta.

“Scrivi: vieni subito da me. Non badare a quello che dirò o a come mi comporterò, capirai subito qual è la cosa migliore da fare. Fai presto prima che cambi idea”.

Francesca digitò velocemente sui tasti.

“Ho scritto”, disse.

“Bene. Ora prendi la tua borsetta, le chiavi della macchina e quello che ti serve per uscire, perché non avrai molto tempo dopo che avrai inviato”.

Non riuscivo a capire. Quando ho visto che mi legava avrei scommesso che sarebbe arrivato Daddy. Ma allora che senso aveva mandare un messaggio?

Francesca recuperò la borsa e la mise a tracolla.

“Sono pronta”, disse.

“Ok. Ora invia il messaggio al fratello di Claudia, credo tu lo conosca”.

Francesca guardò verso di me.

Intuivo cosa stesse pensando: una sera mio fratello era tornato a casa pesantemente ubriaco e mi aveva proposto di scopare con lui. L’avevo mandato a cagare, ovviamente, ma la cosa mi era rimasta impressa e il giorno dopo ne avevo parlato in chat proprio con lei.

“Francesca, o invii il messaggio, o tuo marito sarà costretto a porsi delle domande sulla tua sessualità. E sulla tua fedeltà, ovviamente”, la incalzò Daddy.

Francesca guardò ancora verso di me.

“Mi spiace, Claudia”, disse.

Inviò il messaggio, posò il telefono e imboccò velocemente la porta.

Sentii Daddy ridacchiare.

“Ora credo che ci sarà da divertirsi. Non fare scherzi, Claudia, tu sei ancora sotto il mio potere. Lascia che tuo fratello dia libero sfogo alle sue fantasie. Magari non ne ha…”.

Da come pronunciò quest’ultima frase, intuii che anche lui era informato dell’episodio.

Cercai di liberarmi dei legami, ma Francesca aveva fatto un buon lavoro.

Sentii dei passi avvicinarsi alla porta di ingresso, poi il rumore di chiavi nella toppa.

Chiusi gli occhi, mentre dalle casse del computer sentivo Daddy ridacchiare.

Sentii i suoi passi avvicinarsi verso la camera da letto.

Il mio cuore batteva fortissimo, ero veramente preoccupata.

Come avrebbe reagito ad una scena così?

“Claudia?”, lo sentii chiamare, ancora senza vederlo.

Fece capolino dalla porta e rimase immobile.

“Cazzo sta succedendo?”, chiese.

Io mi vergognavo a guardarlo.

Ero nuda, legata, e soprattutto temevo che a breve avrei avuto ulteriori motivi di imbarazzo.

Si avvicinò al letto con circospezione, quasi temendo che ci fosse una trappola.

“Ti sei legata da sola in questa maniera?”, mi chiese.

Annuii.

Trasse un sospiro di sollievo.

“Meno male. Avevo temuto fossi stata aggredita”, disse.

“No, per fortuna”, dissi.

Anche la voce mi uscì strozzata.

Si sedette sul letto accanto a me.

“E quindi, quale è il motivo di tutto questo?”.

Presi fiato.

“Mi piace”, dissi semplicemente. Che altro avrei potuto dire, in fin dei conti?

Lui annuì lentamente, pensoso.

Il silenzio tra di noi era carico di imbarazzo.

“Tu sei sempre stata attratta da queste cose”, disse. Non era una domanda.

Veramente lo sapeva?

Non me ne ero mai resa conto.

“Ricordo una volta, avevi circa quattordici anni, avevo trovato un tuo quaderno nascosto nel cassetto sotto ai tuoi vestiti. Avevi scritto dei pensieri, delle canzoni. Ad un certo punto c’era un racconto, in cui tu venivi rapita, legata e seviziata da dei malviventi. Era scritto a mano, conoscevo la tua scrittura. Mi era piaciuto molto”.

Deglutii nervosa. Non mi ero mai accorta avesse trovato il mio quaderno segreto.

Lo ricordavo bene: non c’era solo quel racconto, c’erano anche altre fantasie, anche su persone che lui conosceva. Tipo nostra cugina Cristina, o il suo amico Alessandro. Aveva letto anche quelle?

Mi passò un dito sul torace, tracciando una linea tra il mio collo e il mio ombelico.

Sentii un brivido.

“Poi, circa un anno dopo – proseguì – una sera ero tornato a casa e ti avevo trovata completamente nuda nel letto. Dormivi, non ti sei accorta di me. Sono rimasto a guardarti per un po’, è stata la prima volta che sono stato attratto da te, che avrei voluto accarezzarti. Non l’ho fatto, ovviamente, eravamo entrambi troppo piccoli per gestire una situazione del genere”.

Invece io ricordavo benissimo quella sera.

Erano tutti fuori di casa e avevo fatto un gioco con me stessa.

Avevo scritto alcuni bigliettini, ognuno dei quali recava una specie di penitenza, e li avevo messi in un’insalatiera, poi avevo cominciato ad estrarre.

Seguendo le disposizioni dei biglietti, mi ero toccata numerose volte – una delle quali anche sul tavolo della cucina – e mi ero provocata dei piccoli dolori. Cose leggere, con mollette da bucato e con la cera fusa.

Poi, l’ultimo bigliettino mi aveva imposto di dormire nuda, tenendo scostato il lenzuolo e lasciando accesa l’abat jour sul mio comodino, in modo che mio fratello mi vedesse.

Mi ero accorta del suo arrivo e avevo fatto finta di dormire. Lui era rimasto parecchio accanto al mio letto, ed era stato veramente difficile per me non cedere al mio istinto e coprirmi.

Solo quando era andato a dormire mi ero rilassata, non senza registrare come prima di mettersi nel letto si fosse soffermato per qualche minuto in bagno.

Passò ancora una mano sul mio torace, questa volta toccandomi il seno destro.

Era un tocco caldo e piacevole.

“Poi, due anni dopo, era successa una cosa strana – riprese – Era un sabato sera, i nostri genitori erano in montagna e io ero uscito con gli amici. Dopo qualche ora ci eravamo tutti trasferiti da Mario. Ti ricordi, abitava nel palazzo di fronte al nostro”.

Sentii un colpo al cuore.

Se la serata a cui stava facendo riferimento era quella che avevo in mente, lo sputtanamento sarebbe stato totale.

A parte che, nello stato in cui mi trovavo in quel momento, non avevo più molta dignità da preservare.

“Stavamo guardando un film – continuò – quando ad un certo punto Mario era arrivato trafelato a chiamarci sul balcone. Siamo usciti e abbiamo visto te, in casa nostra, nuda e immobile di fronte alla finestra. Io mi ero incazzato, gli avevo detto che eri mia sorella e che non mi piaceva che stessero tutti a vedere, ma nessuno mi aveva dato retta”.

Non mi sbagliavo, purtroppo.

Era la sera in cui avevo eseguito gli ordini di un tizio conosciuto su internet, la prima volta in cui avevo avuto contatti con una persona reale, seppur attraverso un computer.

“Puoi immaginare, Claudia, il mio imbarazzo quando hai aperto la porta del balcone e, così come eri, ti sei seduta a terra e hai cominciato a masturbarti”.

Chiusi gli occhi, non avevo il coraggio di guardarlo in faccia.

E così lui sapeva tutto!

Mi aveva vista, sapeva e non mi aveva mai detto nulla!

Avrei voluto morire.

Ancora una carezza, questa volta sul seno sinistro.

“Lo spettacolo è durato qualche minuto, poi sei rientrata. A quel punto ti sei allontanata e non si è visto più nulla; ho dovuto combattere contro i miei amici che volevano che andassimo tutti in casa nostra. Quello non l’avrei permesso”.

Prese fiato, ma non smise di accarezzarmi.

La sua voce – calma e calda – e il suo tocco mi stavano facendo accelerare il battito cardiaco.

“Sono tornato a casa un paio di ore dopo. Quando sono entrato in casa mi è venuto il dubbio che tu stessi dormendo, poi ti ho trovata. Eri sul letto dei nostri genitori, bendata e con la musica nelle orecchie. Per questo non mi avevi sentito. Ti stavi masturbando con una candela”.

Sentii il mio volto avvampare.

Avrei preferito morire piuttosto che continuare a sentire quelle cose. Perché non mi aveva detto nulla?

“Ti ho guardata per un po’, poi, quando sei venuta, sono uscito nuovamente di casa. Ho fatto qualche giro dell’isolato, poi sono rientrato. A quel punto eri nel letto, sembrava dormisse, così non ti ho svegliata”.

Con la punta di un dito cominciò a disegnare il contorno delle mie grandi labbra.

Ero bagnata, ma a quel punto la dignità era comunque persa.

“Da quel momento – proseguì – Ho cominciato a tenere d’occhio le candele in casa. Ho fatto caso al candelabro che tenevi sul comodino, e ho notato che le candele non venivano mai accese, ma ogni tanto le cambiavi. Il motivo era evidente”.

Introdusse l’ultima falange nel mio sesso.

Emisi un sospiro.

“Io ti conosco bene – continuò a parlare, sempre con quel tono di voce caldo e calmo – e notavo le tue stranezze. Mi accorgevo delle volte che uscivi senza biancheria intima, o che tenevi delle mollette per il bucato nel comodino accanto al tuo letto”.

Inserì tutto il dito dentro di me.

“Non devi preoccuparti che io ti giudichi, perché io ti vorrò sempre bene e non ti tradirò mai. Se ti piacciono certe cose, non c’è problema. Anzi, se posso aiutarti…”.

Inserì un secondo dito, provocandomi un’onda di piacere.

Aveva forse torto?

Di cosa mi stavo preoccupando, che mio fratello mi giudicasse male?

Se non di lui, di chi avrei potuto fidarmi?

Sentii un’altra ondata di piacere, e vidi che mi aveva appena passato la lingua sul sesso.

Questo non era normale, ma cosa potevo farci?

Daddy ci stava guardando, non avrei potuto fare altro.

Sarebbe stato troppo rischioso chiedergli di slegarmi e di lasciarmi stare.

E poi, non potevo nasconderlo a me stessa, mi stava piacendo.

Francesca non mi aveva fatto venire, l’avrebbe fatto lui.

È peggio andare con un’amica o con un fratello?

Difficile rispondere.

Si tolse la maglietta e si inginocchiò tra le mie gambe.

Si chinò, prese il mio clitoride tra le labbra e lo succhiò, come fosse un piccolo gelato.

Chiusi gli occhi e ansimai di piacere.

Tirò fuori la lingua e me la passò sulla pancia, risalendo verso il mio volto.

In un attimo il suo viso arrivò all’altezza del mio.

“Non posso baciarti”, gli dissi.

“Neppure io”, mi rispose, ma non si spostò.

Il suo torace era appoggiato sul mio, sentivo il suo calore e il suo odore.

Il suo inguine era sul mio, e pur attraverso i pantaloni, sentivo la sua erezione.

Portò la mano all’altezza del suo giro vita e si slacciò la chiusura.

Senza cambiare la posizione, si liberò dei calzoni.

Appoggiò il suo pube, ancora coperto dai boxer, sul mio.

Il tessuto era intriso dei suoi umori, la sua eccitazione traspariva anche a livello olfattivo.

Sentii la pressione del suo pene sul mio inguine.

La sua mano risalì lungo la mia coscia, il mio fianco e il mio seno.

Lo afferrò rudemente e me lo strinse, chiudendo la stretta sul mio capezzolo.

Mi lamentai.

Si liberò anche dei boxer.

Arcuò il bacino e appoggiò la punta del pene sulla fessura delle mie labbra.

Chiusi gli occhi.

Potevo ancora fermare quello che stava per capitare?

C’era Daddy che guardava, e poi io ero legata.

Dubito che, giunto a questo punto, mio fratello si sarebbe fermato.

Per quanto costretta dalle corde, allargai leggermente le gambe, per fargli capire la mia disponibilità.

Non so se comprese il gesto, oppure fece semplicemente quello che desiderava.

Mi penetrò.

Io e lui sospirammo assieme mentre entrava a fondo dentro di me.

Sentii il suo bacino aderire al mio, mentre affondava il volto nei miei capelli.

Era dentro di me.

Uscì di qualche centimetro, poi entrò di nuovo.

Dentro. Fuori.

Dentro. Fuori.

Mi persi nei movimenti, mentre una parte di me continuava a pensare a questo ragazzo che da anni mi sognava nuda nel mio letto, apparentemente addormentata.

Sollevai il bacino per sentire meglio i suoi movimenti.

Lui andava sempre più veloce, sentivo il suo corpo coprirsi di sudore.

Lo sentivo dall’odore, quell’odore così familiare quando era adolescente.

Mi afferrò i seni e li strinse tra le mani.

Contrassi i muscoli, ma i legami mi bloccarono.

Inarcai la schiena, sospinta dai suoi colpi di bacino.

“Claudia…”, mi sussurrò, e venne.

Venni anche io, e l’orgasmo mi sorprese talmente che quasi urlai.

Tremai per qualche secondo, mentre lui si abbandonava sopra di me.

Rimanemmo inerti per un paio di minuti, ognuno preso dalle sue sensazioni e dalle sue emozioni.

Uscì da me e si mise a sedere sul letto.

Guardò verso di me, mi sorrise e mi fece una carezza.

“Ora ti slego”, disse.

Si infilò i boxer e i pantaloni, poi si avvicinò al mio polso destro.

Osservò la corda per qualche secondo.

“Qui c’è qualcosa che non va”, disse.

Non capivo.

“Cosa c’è?”, domandai.

Scosse la testa.

“Questi nodi. Non è vero che ti sei legata da sola. Non avresti potuto con questi nodi”.

Si alzò in piedi.

“Non eri da sola. C’era qualcuno che ti ha legata così!”.

Il panico mi assalì.

“Slegami, per piacere!”.

Scosse la testa.

“Claudia, cosa sta succedendo? Perché mi hai chiamato qui? Sei stata tu, almeno? Chi ti ha legata così?”.

Sentii le lacrime affiorare.

“Per piacere, slegami. Non lasciare che il mio ragazzo mi trovi così, ti prego!”.

Mi guardò con un’espressione difficile da decifrare.

“Io non sto cosa stai combinando, Claudia. Ti slego, ma sono preoccupato”.

Sciolse i nodi in silenzio, mentre io voltavo la testa dalla parte opposta per non guardarlo.

Una volta finito, si alzò e uscì dal mio appartamento senza neppure salutarmi.

Mi raggomitolai sul letto, sentendo il sangue che pulsava ai miei polsi e alle mie caviglie, dove fino a un attimo prima c’erano delle corde.

Sentii una risata sommessa provenire dal computer.

Toccai la placca del mouse e il monitor si accese.

“Sei soddisfatto, stronzo?”, chiesi.

“Sì, sono soddisfatto. Ma non credo di essere l’unico ad aver goduto questa sera. Mi pare che i due fratelli si siano divertiti non poco”, rispose.

“Non sono cazzi tuoi. Questa è l’ultima volta, Daddy. Abbiamo chiuso”, risposi furente.

Mi rivestii. Dovevo andare a recuperare mio fratello e, prima di questo, dovevo inventare una scusa credibile per quello a cui aveva assistito.

“Non una parola, Claudia – mi ammonì Daddy, come se mi avesse letto nel pensiero – Mi raccomando”.

Lanciai uno sguardo carico d’odio verso lo schermo nero di Skype.

“Sei un pezzo di merda!”, gli dissi.

Sentii ancora la sua risata mentre chiudevo il laptop.

 

Mi feci una lunga doccia, mi rivestii e uscii.

Avevo bisogno di distrarmi dopo questa esperienza e non c’è nulla meglio dello shopping per tenere la mente occupata.

Allo stesso tempo, però, dovevo assolutamente scoprire chi fosse Daddy.

Fino a quando ero stata solo io coinvolta potevo anche dirmi di essermela meritata, ma ora stava diventando troppo.

Coinvolgere Francesca prima e mio fratello dopo era stato veramente troppo.

Presi la metropolitana e m sedetti a riflettere.

Mio fratello.

Che fosse lui Daddy?

Contro di lui c’era il fatto che avesse già manifestato un certo interesse nei miei confronti – pur se ubriaco – e che mi avesse già vista in situazioni imbarazzanti, come lui stesso mi aveva rivelato poco prima.

Sicuramente sarebbe stato in grado di conoscere molte delle accuse che Daddy mi aveva rivolto; alcuni miei tradimenti gli erano sicuramente noti.

Però ero abbastanza certa di non aver mai parlato con lui delle scappatelle di Francesca e sicuramente non lo aveva fatto lei.

Poi c’era un’altra cosa che non quadrava, e cioè l’SMS che Francesca gli aveva mandato.

Se Daddy e mio fratello fossero stati la stessa persona, non ci sarebbe stato bisogno di farlo.

Sarebbe stato sufficiente lasciarmi legata al letto, far andare via Francesca e attendere un po’.

Mio fratello abitava al piano di sotto e spesso veniva su da me, non mi sarei stupita di vederlo arrivare.

Dovevo in qualche maniera restringere il campo su chi fosse a conoscenza dei fatti.

Mandai un SMS a Francesca; capivo la sua posizione, ma dopo quanto era successo non avevo voglia di parlarle.

Le chiesi chi fosse presente la volta in cui mi aveva raccontato di quando aveva tradito il marito.

Avrei potuto iniziare le indagini da lì, anche se – con le amiche pettegole che avevamo – potenzialmente la notizia avrebbe potuto arrivare a chiunque.

Scesi dal metrò e salii in superficie.

Era sabato pomeriggio e il centro era, come di consueto, molto affollato.

Mi soffermai a guardare una vetrina con delle scarpe, avevo bisogno di un paio di stivaletti e poteva essere l’occasione giusta per consolarmi un po’.

Abbandonai la prima vetrina e mi soffermai sulla seconda.

Sostai per qualche minuto, poi mi voltai per riprendere a camminare nella via.

Eseguii il movimento senza guardare, però, e mi scontrai con un passante.

Quando mi ripresi dal colpo e cercai la persona per chiederle scusa, mi resi conto di conoscerla.

Era la mia collega Sara.

“Che ci fai qui?”, chiesi, dopo averle domandato se stesse bene.

“Sto cercando un bar”, mi rispose dopo avermi rassicurata sulla sua salute.

“Sei da sola?”. Conoscevo il suo ragazzo, l’avrei salutato volentieri.

“Sì”, rispose laconica.

Mi guardai attorno, poi vidi un’insegna a qualche decina di metri.

“Il bar è laggiù – le dissi – Se non ti dispiace ti faccio compagnia, ho bisogno anche io di un caffè”.

Esitò un istante, poi mi invitò con lei.

Ci incamminammo in quella direzione.

Non la conoscevo bene, però mi sembrava decisamente strana.

In primo luogo l’abbigliamento: non faceva freddo, e invece lei indossava un lungo cappotto scuro.

Per di più, lei era solita essere molto sportiva, e invece le sue gambe sotto il cappotto erano fasciate da calze autoreggenti e calzavano scarpe col tacco.

Poi mi sembrava decisamente assente, come se avesse qualche pensiero per la testa.

Entrammo nel bar e ci sedemmo ad un tavolino.

Stavo per chiederle cosa avesse e se potessi aiutarla, quando le squillò il telefono.

Rispose immediatamente, come se non aspettasse altro che quella chiamata, ma notai subito come il tono della conversazione fosse molto secco.

“Sono con una mia amica”, disse al suo interlocutore senza neppure salutarlo.

Ascoltò per qualche secondo, poi:”Adesso lo faccio, non temere”.

Mise giù la conversazione, poi mi guardò con gli occhi lucidi.

“Ora farò qualcosa di strano – mi disse prendendomi la mano – Ho bisogno che tu mi aiuti e, soprattutto, che tu ti tenga per te quello che vedrai. Posso contare su di te?”.

“Certo – risposi, leggermente interdetta – Come posso aiutarti?”.

Mi porse il suo telefonino.

“Devi scattare alcune foto”, mi disse.

Si alzò in piedi, si guardò rapidamente attorno, poi si sbottonò il cappotto e lo aprì.

Sotto era completamente nuda.

Rimasi a bocca aperta.

Non solo era un comportamento inusuale, ma lo era soprattutto per lei.

Era molto pudica, non l’avevo mai vista con una scollatura o con la pancia scoperta. Benchè fosse una bella ragazza, alta e con tutte le forme giuste, si vergognava, come mi aveva detto in un’occasione.

E ora cosa stava succedendo?

“Scatta la foto, ti prego”, mi disse.

Lo feci.

Si rimise velocemente a sedere, poi chiamò un cameriere.

“Posso fare una foto con lei?”, gli chiese quando questi le fu vicino.

Il ragazzo annuì.

Lei si alzò, si liberò nuovamente del cappotto e si mise accanto a lui.

Il ragazzo era imbarazzato, tuttavia le cinse la vita come se fosse stata un’amica e sorrise all’obiettivo.

Scattai la foto.

“Mi chiami anche i tuoi colleghi, per favore?”, chiese lei.

Il ragazzo si fiondò in cucina; Sara si sedette nuovamente e si coprì il seno abbondante con le mani.

“Eri al telefono con il tuo ragazzo poco fa?”, le chiesi.

“Claudia, ti prego, non chiedermi niente”, rispose senza neppure guardarmi.

“Dimmi solo questo, forse so…”, la incalzai, ma venni interrotta da quattro uomini che si precipitarono nel locale dalla cucina.

Erano tutti in divisa bianca, un paio anche con il cappello da cuoco.

“Facciamo una foto tutti assieme?”, propose Sara.

Si alzò in piedi e lasciò che gli uomini si disponessero ai suoi lati, due per parte.

Circondò le loro spalle con le braccia, esponendo il seno.

Scattai la foto.

“Qualcuno di voi mi può toccare le tette, per favore?”, chiese.

Uno dei quattro si staccò dal gruppo, si inginocchiò davanti a lei e le piazzò due mani sui seni.

Scattai la foto.

Vidi riflesso in uno specchio come, alle mie spalle, oltre la vetrina si fosse già formato un piccolo gruppo di curiosi.

Sara ritrasse le braccia.

“Grazie a tutti, scusate se vi ho interrotto – disse – Sapete, ho perso una scommessa”.

Rise, ma senza allegria.

Tornò al tavolino, si rimise il cappotto e mi prese il telefonino di mano.

Armeggiò sul touch screen.

“Non c’è una scommessa, vero?”, le chiesi.

“Claudia, ti prego di non chiedermi niente”, mi rispose continuando a fissare il telefono.

“E’ Daddy, vero?”.

Balenò lo sguardo verso di me, ma non rispose.

“Sara – la incalzai – dimmi se è lui! E importante!”.

“Hai letto gli SMS? E’ per questo che me lo chiedi?”, mi accusò.

Le presi una mano e la avvicinai a me.

“Non ho letto nessun SMS, non ne ho bisogno perché ne riconosco i modi. Sta ricattando anche me – le dissi sottovoce – ma se mi dici che ci sei dentro anche tu, possiamo scoprire chi è”.

Abbassò lo sguardo e mi strinse forte la mano.

“Sì, è lui. Va avanti da un mese”, confessò.

La abbracciai e la strinsi forte.

“E’ stato un bene che ci siamo incontrate. Perché se sta ricattando me e te, significa che è una conoscenza che abbiamo in comune. È un indizio importantissimo”.

Sara ricambiò l’abbraccio e pianse in silenzio.

Avremmo preso quello stronzo.

 

 

 

Portai Sara a casa e le diedi alcuni indumenti miei per coprirsi.

Purtroppo non avevo né reggiseni né mutandine della sua taglia e dovette accontentarsi di un mio bikini e una tuta di mio fratello, ma la vidi decisamente rinfrancata quando riuscì a coprirsi.

Ci sedemmo entrambe sul mio letto.

“E’ una benedizione per entrambe che ci siamo incontrate – le ribadii – perché adesso sappiamo per certo che Daddy è una persona che abbiamo in comune. La combinazione è troppo forte, non può essere che così”.

Sara annuì.

“Con cosa ti sta ricattando?”, le domandai.

Per come la conoscevo, non riuscivo a immaginare che lei potesse avere qualche scandalo da nascondere.

“Mi raccomando, che non si sappia in giro, perché rischio il lavoro – mi disse – Ma un anno fa, quando sono stata promossa, è stato grazie ad alcuni contratti che mi hanno fatto salire in classifica. In realtà questi contratti erano falsi”.

“Falsi? – le chiesi – E come è possibile?”.

Alzò le spalle.

“Non è difficile. Ho preso dei nomi a caso dall’elenco telefonico e ho intestato a loro i contratti, poi i soldi del primo versamento li ho messi io usando degli assegni circolari. Conti alla mano, in un anno ho recuperato i soldi con l’aumento dello stipendio e da adesso in poi sono in guadagno”.

“Capisco – risposi – quindi lui ha minacciato di rivelare tutto a Davide?”.

Davide era il nostro capo.

Lei scosse la testa.

“No, ormai non è più quello. Ad un certo punto sono anche andata a parlare a Davide, avrei accettato le conseguenze del mio trucchetto pur di sottrarmi a questo incubo. Davide è stato molto comprensivo, ha detto che non poteva approvare il mio comportamento, ma che avrebbe fatto finta di non sapere in nome degli anni lavorativi trascorsi assieme, a patto che rigassi dritto da quel momento in poi”.

“E quindi? – domandai – Cosa temi ora?”.

“Guarda”.

Prese il mio computer portatile e aprì internet.

Digitò l’indirizzo di un sito, inserì una password e rimasi sbigottita quando vidi la pagina che si aprì.

In alto erano riportate le sue generalità, con tanto di nome, cognome, indirizzo e numero di telefono.

Sotto c’era una nutrita fotogallery.

Aprì la prima con un doppio click.

Era lei, nuda, su una spiaggia che non era evidentemente destinata al naturismo.

Si leggeva sul suo volto l’imbarazzo di trovarsi in quella situazione; gli altri bagnanti attorno a lei ridevano divertiti a guardavano verso l’obiettivo.

Aprì un’altra foto.

Questa la ritraeva – sempre nuda – in un posto che sembrava una fabbrica.

Era issata su tavolo di metallo ed era circondata da una dozzina di uomini in tuta, tutti sorridenti.

Aprì quella successiva.

Anche in questo caso era senza vestiti, era però circondata da quella che sembrava essere una squadra di rugby.

Uno degli atleti le poggiava una mano sul sesso, altri le coprivano i seni.

“Sono tutte così, ce ne sono alcune decine – disse – Ora la pagina è accessibile solo attraverso una password, ma se non gli ubbidisco mi ha minacciata di renderla pubblica. Ogni persona che dovesse cercare qualcosa su di me vedrebbe questa pagina in cima alle ricerche di Google”.

“Queste foto le hai fatte dietro suo ordine?”, chiesi.

“Certo – rispose, quasi offesa – Non avrei mai fatto nulla del genere, diversamente. Solo che ora è un cane che si morde la coda: continuo a fare foto per non contrariarlo, ma ad ogni scatto gli do materiale in più con cui ricattarmi. Come oggi pomeriggio”.

Vidi gli occhi riempirsi di lacrime.

Le feci una carezza.

“Tieni duro ancora per un po’, sono convinta che riusciremo a individuarlo e a fermarlo. Dobbiamo solo ragionare un po’”, le dissi.

Mi soffermai un attimo a riflettere.

“Tu prima hai parlato di Davide. Potrebbe essere lui?”, chiesi.

Lei scosse la testa.

“No, non credo. Quando gli ho raccontato di quello che avevo fatto mi è sembrato veramente sorpreso. E poi una volta ho ricevuto un messaggio di Daddy proprio mentre ero con Davide, per cui direi di no. Piuttosto, sospettavo di Andrea”.

Andrea era uno degli anziani del nostro ufficio. Sposato, non disdegnava le scappatelle, aiutato anche dal fatto di essere piuttosto piacente e simpatico.

Poteva essere?

“No – risposi – Daddy ha ricattato anche una mia amica, e sicuramente Andrea non era a conoscenza dei fatti di cui l’ha accusata”.

Rimanemmo in silenzio a riflettere, quando squillò il mio telefonino.

Quasi trasalii: era proprio Daddy.

“Io non sono qui, mi raccomando!”, disse Sara, presa dal panico.

“Non preoccuparti, faccio io”, le risposi, e presi la chiamata.

“Sei a casa”, mi disse.

“Sì”, confermai.

“Lo so. Tu ti dimentichi sempre che io so tutto. Cosi come so che sei con quella puttana di Sara”.

Rimasi in silenzio.

“Sono molto deluso da voi, ragazze. Gli accordi erano chiari: io vi do gli ordini, voi li eseguite. Non riesco ad immaginare una situazione più semplice di questa. E invece avete voluto cambiare le cose”.

Sara mi guardò, senza capire.

“E’ lui, sa tutto”, le dissi muovendo le labbra.

Vidi la paura dipingersi sul suo volto.

“Accendi Skype, voglio vedervi”, mi ordinò Daddy. Io eseguii.

Come al solito, la sua finestra era oscurata.

“Siccome non avete mantenuto i patti – proseguì Daddy – io ora sono costretto ad informare i vostri fidanzati di quanto so di voi. Non avrei voluto arrivare a tanto, ma mi ci avete portato voi. Vi avevo avvisate”.

Sara parlò con la voce rotta.

“No, ti prego! Dacci un’altra possibilità!”.

Daddy rimase in silenzio per qualche secondo.

“E tu, Claudia, cosa vorresti? Devo parlare con il tuo ragazzo?”.

“No”, dissi a bassa voce.

“Non ho sentito”.

“No”, dissi quasi urlando.

“Bene. Oggi mi sento buono, vi darò un’ultima chanche. Ma sarà l’ultima, chiaro?”.

Annuimmo entrambe.

“Cominciate a spogliarvi. Non completamente, rimanete in biancheria intima”.

Eseguimmo in maniera automatica.

Io avevo un completo in microfibra nero, Sara il mio bikini dentro il quale sembrava esplodere.

“Claudia, recupera quattro pezzi di corda e due foulard. Fai in fretta”.

Tornai davanti al computer con quanto richiesto.

“Ora – mi disse – Sara si sdraierà sul letto, tu le legherai le caviglie tra loro, i polsi dietro alla schiena, e infine la imbavaglierai con il foulard. Io guardo”.

Sara si sdraiò sul letto con un’espressione in volto che era un misto di paura e rassegnazione.

Strinsi i nodi cercando di non farle male, poi la imbavagliai.

“Brava, Claudia. Ora vai al citofono, sblocca il portone di ingresso, poi apri la porta di casa tua e lasciala accostata”.

Sentii un colpo al cuore.

“Stai venendo qui?”, domandai.

“Non ti ho detto che puoi fare domande. Fai quello che ti ho detto e fallo in fretta”.

“Scusami”.

Mi alzai e eseguii l’ordine.

L’aria fredda che entrò dal pianerottolo mi fece rabbrividire.

Chi sarebbe passato attraverso quella porta?

Tornai davanti al computer.

“Dai, Claudia, tra poco sarà tutto finito. Ora devi imbavagliarti da sola e legarti le caviglie tra loro”.

Feci quello che mi chiedeva.

Quando strinsi il nodo attorno alle mie caviglie mi chiesi se avevo ancora una scelta.

Potevo slegarmi, andare a chiudere la porta e liberare Sara.

Lui non avrebbe potuto impedirmelo.

Avrebbe raccontato tutto al mio ragazzo e al fidanzato di Sara.

Cosa sarebbe successo dopo?

“Claudia, non pensare! – mi ammonì Daddy – Prendi l’ultimo capo di corda e fa un nodo scorsoio all’estremità”.

Intrecciai il nodo.

Il mio ragazzo mi avrebbe lasciata, questo era certo.

Poi?

Ci sono migliaia di uomini nel mondo, non ero brutta, avrei trovato qualcun altro, no?

Però come avrei fatto con la mia famiglia?

Sarebbe stato uno scandalo, conoscendo i miei non avrebbero accettato in maniera indolore tutto quanto.

“Prendi l’altro capo della corda e legalo attorno al polso”.

Lo feci.

Poi c’era Sara. Io avrei potuto anche accettare di perdere il mio uomo e sputtanarmi in famiglia, ma lei?

Aveva già un matrimonio fallito alle spalle, chi ero io per decidere tutto questo anche per lei?

“Porta le mani dietro alla schiena, passa il polso libero dentro al cappio e poi tira”.

Guardai verso di lei.

Non poteva parlare, ma annuì leggermente.

Voleva che lo facessi.

Anche io. Volevo scoprire chi era Daddy.

Solo conoscendolo avremmo potuto sconfiggerlo.

Tirai il polso e il nodo scorsoio si chiuse attorno.

Ora il dado era tratto, non avrei potuto liberarmi.

Mi distesi sul letto, con il cuore a mille dentro al petto.

Sentii dei passi sulle scale, poi la porta si aprì.

Finalmente avrei guardato in faccia chi mi stava ricattando, chi aveva cambiato la mia vita da settimane.

Qualcuno si affacciò alla porta, ma non era Daddy.

 

Entrarono quattro uomini di colore vestiti di nero e mascherati con un passamontagna.

Chiusero il computer portatile, poi afferrarono me e Sara per i piedi e le spalle.

Ci sollevarono come degli oggetti e ci trasportarono lungo le scale.

Sperai che mio padre non avesse deciso di entrare o uscire di casa in quel momento.

In strada era parcheggiato un furgone con il motore acceso e le portiere posteriori aperte.

Entrammo tutti nel vano di carico, chiusero le portiere e il mezzo partì silenziosamente.

Uno di loro estrasse da un contenitore una pezza imbevuta di liquido e la accostò al volto di Sara e al mio.

Un attimo dopo sprofondammo in un sonno profondo.

 

 

 

Mi svegliai dolcemente, come facevo da bambina.

In quel breve attimo che precedette l’apertura degli occhi, una parte di me sperò di essere nel letto della casa di campagna di mia nonna.

Poi li aprii.

Ero seduta su una sedia in un locale che sembrava essere un seminterrato o un garage.

Avevo i polsi legati dietro alla schiena ed ero ancora imbavagliata.

Davanti a me c’era Sara; era legata come me e guardava per terra.

La stanza era adornata con un letto metallico; alcune catene pendevano dal soffitto e proprio di fronte a me c’era un armadio in legno chiuso con un pesante lucchetto.

Un ragazzo di colore, probabilmente uno di quelli che ci aveva condotte lì, era seduto accanto ad una porta metallica e fumava una sigaretta.

Quando ci vide rialzare il capo spense la sigaretta e bussò alla porta, rimanendo in piedi, in attesa.

Qualche secondo dopo entrò nella stanza un uomo magro, bianco, vestito di nero, seguito da altri tre.

Non l’avevo mai visto prima.

Si avvicinò a Sara e le tolse il bavaglio, poi fece lo stesso con me.

“Siamo due piani sotto la superficie, non urlate e non fate cazzate che non vi conviene”, disse con voce calma.

Sia io che Sara annuimmo.

Rimase a guardarci, in silenzio.

“Sei tu Daddy?”, chiesi.

Lui mi guardò sorridendo.

“Certo. Chi pensavi che fossi, Babbo Natale?”.

Ridacchiò, poi si avvicinò e mi fece una carezza in volto.

Non riuscivo a ricordare di averlo mai visto prima.

“Vi state chiedendo come faccio a sapere tante cose di voi, immagino”, disse, quasi leggendomi nel pensiero.

“Voi avete tre cose in comune – spiegò – La prima è che siete colleghe, e questo lo sapevate già. La seconda è che siete due zoccole, e anche questo è ormai un dato appurato. La terza è che entrambe avete un computer aziendale su cui gira il l’applicativo Omega 2011”.

Fece una pausa per accendersi una sigaretta.

“Voi non mi conoscete, ma siamo colleghi: lavoro per la consulenza informatica. Quando un computer si guasta e lo mandate in assistenza, arriva da noi. Un lavoro normale, pulito e onesto. Fino a due anni fa”.

Sbuffò una boccata di fumo.

“Due anni fa un dirigente mi chiese di fare una cosa illegale. Aveva il sospetto che un dipendente fosse infedele, così mi chiese di spiarlo. Approfittai dell’aggiornamento del database – quello che si fa ogni anno – e gli installai un programma spia. È un software di un paio di mega, molto piccolo e molto nascosto, che ribalta sul un altro computer – in questo caso il mio – tutto quello che uno fa. Lo tenemmo in osservazione per sei mesi prima di arrivare alla conclusione che probabilmente si era preso un abbaglio e che non c’era nulla di cui preoccuparsi, così disinstallai il software spia e la cosa finì lì”.

“Però, devo ammetterlo, in quei sei mesi mi ero divertito. Mi ero fatto i cazzi suoi alla grande, e vi garantisco che spiare il computer di una persona è peggio che spiarlo dal buco della serratura. Si capisce tutto di lui: i suoi vizi, le sue abitudini, le sue debolezze. Così, da quel momento, cominciai a trattare diversamente le macchine che arrivavano in assistenza. Cominciai a darvi un’occhiata prima di rimandarli al mittente”.

“Ci sono i professionisti integerrimi: i loro computer sono dedicati solo al lavoro ed è inutile stare a guardare tra le cartelle, tanto non si troverà nulla di interessante. Ci sono quelli meno integerrimi, usano il computer anche per scopi personali, ma non vanno oltre la pagina della Gazzetta dello Sport e la propria posta. E poi ci sono quelle come voi”.

Aspirò lungamente dalla sigaretta.

“Quando mi sono arrivati i vostri computer mi sono sentito come un bambino a Natale. C’era di tutto: foto, mail personali, canzoni, filmati. Siete due belle ragazze, valeva la pena di approfondire; così installai il software spia e – come un pescatore sulle rive di un lago – rimasi ad aspettare”.

“I primi movimenti interessanti arrivarono dal computer di Sara – disse rivolgendosi a lei – C’era una visita al sito di creazione del codice fiscale, un ordine on line di assegni circolari intestati alla compagnia e, guarda caso, l’emissione di un tot di contratti intestati alle stesse persone e dello stesso importo. Non mi ci volle molto per intuire cosa era capitato”.

Sara chiuse gli occhi e scosse la testa, rammaricandosi per la leggerezza.

“In quello di Claudia, invece – disse rivolto a me e sorridendo – c’era l’universo. Vidi alcune mail provenienti da clienti dalle quali era lampante come ci fosse stato del sesso tra loro e Claudia. Vidi una mail indirizzata ad una certa Anna in cui raccontava dei tradimenti di Francesca e la relativa risposta”.

Mi diedi della stupida mentalmente per essere stata così imprudente.

“A quel punto gettai l’amo, e devo dire che entrambe avete abboccato benissimo. Il resto lo sapete”.

Gettò la sigaretta a terra e la schiacciò con la punta della scarpa.

“Come facevi a sapere che ero a casa di Claudia questo pomeriggio?”, chiese Sara.

Daddy sorrise.

“E’ facile. Siete andate sul tuo sito, quello con le tue foto, usando il computer di Claudia, e poi qualcuno ha inserito la password. Non potevi che essere tu, Sara”.

“Ma perché ci hai fatto questo? – chiesi – Ci godi a farci soffrire? Sei un sadico?”.

Aggiunsi una frase che mai mi sarei immaginata di pronunciare: “Se vuoi scopare, facciamolo subito e fammi andare via”.

Daddy fece una carezza sul volto di Sara.

“Al di là del fatto che non mi è dispiaciuto giocare con voi, soprattutto con Claudia – rispose – Voi siete qui per ben altro motivo che per scopare con me. Succederà, ma non siete qui per questo”.

Si mise le mani in tasca e prese a passeggiare avanti e indietro.

“Sono momenti di crisi per tutti settori, tranne che per uno. Quello della fica. I filmati di Claudia, venduti on line, mi hanno già reso un discreto gruzzolo, e ora bisogna girare il gran finale. Ma non è solo quello”.

Sentii il volto avvampare.

“Cosa stai dicendo? I miei filmati su internet? Ti faccio passare dei guai!”.

Mi guardò e si mise a ridere.

“Quanta aggressività! Fai pure, Claudia. Denunciami! Prima però devi uscire di qui…”.

Si rivolse due degli uomini in piedi accanto alla porta e schioccò le dita.

“Abbiamo perso fin troppo tempo! – disse – Diamo inizio allo show!”.

Due uomini si posizionarono accanto a me, gli altri accanto a Sara.

“Cominciamo con lei”, disse Daddy indicandola.

Uno degli uomini si portò dietro di lei e la afferrò per le spalle, immobilizzandola; l’altro si inginocchiò davanti e, con un movimento rapido, sfilò la seduta della sedia da sotto di lei, lasciandola appoggiata solo sulla struttura metallica.

Sara ondeggiò, trattenuta solo in virtù dei polsi legati dietro allo schienale.

L’uomo le prese una gamba e la allargò, legandole la caviglia al piede della sedia, poi fece lo stesso con l’altra, immobilizzandola in una posizione oscena.

Daddy si avvicinò al grosso armadio e sbloccò il lucchetto, aprì l’anta e ne prelevò un grosso coltello seghettato.

Si avvicinò a Sara e con il coltello tranciò il legaccio che univa le due coppe del reggiseno, denudandola dalla vita in su.

Sara diventò viola.

Daddy si inginocchiò e avvicinò il coltello all’elastico dello slip.

“Ti prego…”, disse Sara, anche se il tono di voce faceva intuire quanto poco ci sperasse.

Daddy tranciò di netto anche l’elastico dello slip e lo gettò via.

Ora Sara era completamente nuda.

Mi accorsi con la coda dell’occhio che uno degli uomini aveva in pugno una piccola telecamera e stava filmando tutto.

Daddy tornò verso l’armadio e vi prelevò un altro oggetto.

Da subito non riuscii a capire di cosa si trattasse: sembrava una ruota di legno pieno con un perno fissato sul mozzo

Si abbassò e fece scivolare l’oggetto sotto la sedia di Sara e lo posizionò esattamente sotto ai suoi genitali; a quel punto capii come funzionava.

L’oggetto emise un ronzio e il perno prese ad allungarsi.

Sara non si accorse di quanto stava capitando fino a quando la punta tondeggiante non le toccò le grandi labbra.

La vidi sobbalzare e tentare di sottrarsi alla penetrazione, lottando contro le corde che la legavano.

“Ti conviene rilassarti, fa meno male”, le disse Daddy.

Sara tese i muscoli ancora per qualche secondo, poi si lasciò cadere sulla sedia.

Il vibratore meccanico entrò dentro di lei di qualche centimetro, poi arrestò la sua corsa.

Vidi Sara trattenere prima il fiato, poi emettere un sospiro di sollievo quando l’arnese invertì il suo movimento, ritraendosi.

Il vibratore tornò alla posizione iniziale poi, con uno click, riprese ad allungarsi.

Penetrò nuovamente Sara, strappandole un lamento.

Scese ancora giù.

Poi di nuovo su.

Sara chiuse gli occhi, forse anche assaporando il momento.

Daddy, silenziosamente, fece un gesto a uno degli uomini.

Questi si avvicinò a Sara e si liberò dei vestiti.

Aveva un bel fisico da sportivo e un’erezione olimpica.

Spinse il bacino avanti e accostò il membro alle labbra di Sara.

Lei spalancò gli occhi e, visto quanto stava accadendo, cercò di alzarsi.

Le corde che la legavano le impedirono ogni movimento.

“Ti prego…non mi piace!”, disse lagnosa.

“Non ha alcuna importanza – rispose secco Daddy – Apri quella cazzo di bocca!”.

Sara chiuse gli occhi ed eseguì l’ordine.

L’uomo impugnò il proprio pene e lo guidò nella bocca di Sara, non nascondendo un gemito di piacere quando vi entrò dentro.

Vidi i glutei dell’uomo contrarsi mentre entrava e usciva dalla bocca; allo stesso tempo il corpo di Sara reagiva al vibratore che stantuffava dentro di lei.

Rimanemmo tutti in silenzio a guardare lo spettacolo davanti a noi, fino a quando Sara non allargò la bocca, reclinò la testa indietro e venne.

Vidi i muscoli delle gambe e delle braccia contrarsi, mentre i capezzoli si irrigidivano sui suoi grossi seni.

L’uomo accanto a lei accostò nuovamente il membro alla sua bocca spalancata e, afferrata la base con una mano, vi diede alcuni colpi energici.

Venne anche lui, spruzzando il suo sperma nella bocca spalancata di Sara.

La collega inghiottì il liquido e chiuse gli occhi.

Daddy rise e si avvicinò a lei.

“Hai visto che alla fine sei anche tu una zoccola come tutte le altre?”, le disse.

Si frugò in tasca e ne estrasse due piccole mollette metalliche.

Passò una mano su un seno di Sara, facendola trasalire, poi pinzò una delle mollette ad un capezzolo.

Sara si lasciò sfuggire un breve lamento, ma si zittì subito.

Daddy ripetè l’operazione all’altro seno.

Sara chiuse gli occhi per resistere al dolore, mentre dentro di lei il vibratore continuava ad entrare ed uscire.

Daddy le diede ancora un’occhiata veloce, poi si girò verso di me.

“Adesso tocca a te, puttana!”.

 

 

 

 

 

 

 

Due uomini sopraggiunsero alle mie spalle e mi sollevarono di peso.

Senza poter opporre nessuna resistenza venni adagiata supina sul letto, ancora con i polsi legati dietro alla schiena.

I due uomini, silenziosi come sempre, mi afferrarono le caviglie e me le legarono agli angoli del letto.

Daddy venne a sedersi accanto a me, con una grossa candela rossa in mano.

Estrasse dalla tasca dei pantaloni uno Zippo e accese lo stoppino con atteggiamento molto teatrale, poi rimase in silenzio a guardarmi, tenendo la candela in mano.

Io sentivo il cuore accelerare, mentre cercavo di immaginare a cosa sarebbe servita quella candela accesa.

“Finalmente ci incontriamo di persona, Claudia”, mi disse Daddy.

Mi fece una carezza sul volto, poi lasciò correre la mano lungo il mio torso, accarezzandomi la pele con le unghie.

Sentii un brivido, pur non capendo se fosse paura o altro.

“Tu hai sognato molte volte una situazione come questa”, disse.

Non era una domanda, così non risposi. Ma aveva ragione, e lo sapeva.

Aveva letto le mie mail, sapeva come quella fosse una delle mie più grandi fantasie.

Con la punta delle dita risalì lungo la mia pancia, fermandosi alla base del reggiseno.

“Questo lo togliamo, che ne dici?”, mi disse.

Infilò la punta del coltello tra le coppe e tranciò di netto il laccio che le univa, scoprendomi i seni.

Gettò via i brandelli di stoffa e mi posò una mano su una tetta.

Giocò con il capezzolo prima di ricominciare a parlare.

“Ti piace anche la cera, vero?”.

Senza attendere risposta mi rovesciò alcune gocce di cera incandescente nell’ombelico.

Mi lasciai sfuggire un lamento, poi mi morsicai le labbra.

Daddy rimpì diligentemente il mio ombelico, poi accostò la candela al mio capezzolo sinistro.

Mi sorrise, poi vi rovesciò sopra della cera rovente.

Chiusi gli occhi e sussultai, ma non mi lamentai.

Daddy accostò ancora la candela all’altro capezzolo e vi rovesciò altra cera.

“Tu conosci bene qual è la variabile più importante quando si esegue questa pratica, vero Claudia?”, chiese.

Annuii.

“La distanza”, dissi.

Rovesciò altra cera sul seno.

“Brava. Perché se si tiene la candela distante, la goccia fusa, mentre scende, si raffredda. Più la candela è vicina, più fa male”.

Come a ribadire il concetto, avvicinò la fiamma al mio capezzolo destro e vi versò altra cera.

Faceva malissimo e mi sfuggì un lamento.

Sembrò provare soddisfazione da questo, e rovesciò altra cera bollente sull’altro seno.

Questa volta mi imposi di non urlare e trattenni il lamento.

Nel silenzio che seguì, sentii Sara gemere.

Il vibratore continuava ad entrare e ad uscire da dentro di lei, ed era venuta per l’ennesima volta.

Daddy posò il cero a terra e prese nuovamente il coltello.

Lo passò sotto l’elastico dei miei slip e lo recise; poi fece la stessa operazione sull’altro lato.

Rimasi per qualche secondo con un piccolo triangolino di stoffa a coprirmi il pube, poi lo raccolse con la lama del coltello – eseguendo quel movimento che di solito si fa a tavola per porgere le fette di salame – e lo gettò a terra.

Ero nuda.

“Sai già cosa ti aspetta, vero? Non è la prima volta neppure questo, lo so”, mi chiese.

Annuii in silenzio.

Ero molto giovane la prima volta che mi ero fatta gocciolare della cera fusa sul pube; volevo provare, sapere se era doloroso e quanto.

La prima goccia era stata tremenda, e – tra l’altro – dopo quell’esperimento ero stata costretta a depilarmi l’inguine per la prima volta.

Le gocce di cera si erano fuse in maniera così tenace con i miei peli pubici che non avevo potuto fare nient’altro che tagliarli usando il regola barba di mio fratello.

Per fortuna con il mio ragazzo dell’epoca non avevo rapporti intimi e così non avevo dovuto dare delle spiegazioni.

Daddy accostò la candela alle mie grandi labbra.

Sentii il cuore accelerare.

La cera fusa colpì la mia pelle, provocandomi dolore.

Mi sfuggì un gemito.

Daddy mi passò una mano sul busto, toccandomi le tette.

“Tu ami soffrire, vero? A me puoi dirlo, so già tutto di te”.

Rimasi in silenzio.

Pur in quel contesto, non mi andava di aprirmi così tanto con Sara.

Sentii un nuovo dolore all’inguine. Un’altra goccia di cera era scivolata sulla mia vulva.

“Ti ho fatto una domanda”, disse Daddy.

“Scusami – risposi – Sì, amo soffrire”.

Daddy sorrise.

“Bene. E vuoi raccontarci anche di un giochino che facevi anni fa con le candele?”.

Chiusi gli occhi.

Non ricordavo di averlo raccontato in tempi recenti, ma evidentemente Daddy aveva la possibilità di accedere anche ai miei vecchi messaggi di posta.

Un’altra colata di cera sull’inguine.

“Facevo una sfida con me stessa – dissi ansimando – Mi rovesciavo la cera addosso, fino a quando resistevo. Mi conveniva resistere tanto, perché la candela che non finiva consumata…”.

Mi interruppi per un’altra goccia di cera.

“Continua! – mi intimò – Dove la mettevi?”.

Indugiai qualche secondo, ma una nuova colata di cera mi ricordò di rispondere alla domanda.

“Me la infilavo nel sedere”, dissi a voce più bassa.

Ero vergine, all’epoca, il motivo era solo quello.

Daddy si mise a ridere di gusto.

“Birichina, eh Claudia! – mi canzonò – Quanti anni avevi?”.

Lo sapeva sicuramente, era inutile mentire.

“Quattordici”, dissi.

Daddy mi rovesciò altra cera sul pube.

Non potevo vedermi, ma a giudicare dal dolore erano poche le aree ancora libere.

“Sai cosa facciamo adesso? – mi chiese – Rifacciamo lo stesso gioco”.

Guardai con preoccupazione la candela.

Aveva un diametro decisamente maggiore rispetto alle candele che ero solita usare io!

“E’ troppo grande!”, dissi.

“E tu non hai più quattordici anni – mi rispose – E poi, non sei qui per divertirti!”.

Come se non avesse aspettato altro, inclinò il cero e mi rovesciò un enorme quantitativo di cera sul clitoride.

Urlai fortissimo e cercai di dibattermi nei miei legami, inutilmente.

“Vuoi che smetta?”, mi chiese provocatorio.

“No”, dissi stringendo i denti.

Un’altra colata di cera.

Urlai di nuovo.

“Smetto?”.

“No. Vattene affanculo!”.

Con un gesto chiamò uno dei ragazzi.

“Allargale la fica”, gli ordinò.

Questo prese tra le dita le mie grandi labbra e le separò.

“Ti do la possibilità di cedere ora”, mi disse Daddy.

Rimasi in silenzio, chiudendo gli occhi in attesa del dolore.

Inclinò nuovamente il cero, rovesciando dall’altezza di un centimetro un fiume di cera incandescente nella mia vagina.

Non potei non urlare.

“Basta! Basta! – gridai – Pezzo di merda, basta!”.

Il dolore cessò.

Daddy soffiò sullo stoppino e lo spense.

“Preparatela!”, ordinò a due dei suoi uomini.

Questi mi liberarono le caviglie e, di peso, mi misero in ginocchio sul letto, con ancora le braccia legate dietro alla schiena.

“Ti prego! – gli dissi – E’ troppo grosso!”.

“E’ stata una tua scelta – mi rispose – Sei tu che hai urlato”.

Prese un flacone di quella che sembrava una crema e ne cosparse un lato del cero.

“Poi non dire che non sono carino con te”, mi disse.

Si posizionò alle mie spalle, mentre i due uomini – tenendomi per le caviglie – mi mantenevano le gambe in posizione divaricata.

Sentii le base del cero accostarsi al mio ano.

Chiusi gli occhi e strinsi i denti.

Un attimo dopo sentii le pareti del mio buco del sedere allargarsi di colpo e un oggetto freddo penetrare all’interno.

Lo sentii andare a fondo, benchè sapessi che non poteva essere più lungo di una dozzina di centimetri.

Sentii male e chiusi gli occhi per trattenere le lacrime che, da sole, mi erano sgorgate.

“Toglilo, toglilo ti prego!”, ansimai.

“Non sono io che ho inventato questo gioco”, mi rispose flemmatico.

Spalancai la bocca per respirare meglio, cercando di rilassare i muscoli.

Non capii subito quando uno degli uomini si portò alle mie spalle e si liberò dei vestiti.

Sentii le sue mani ghermirmi i fianchi e, subito dopo, il suo membro entrare dentro di me.

Strabuzzai gli occhi e istintivamente cercai di liberarmi, inutilmente.

Sentii il torace dell’uomo adagiarsi sulla mia schiena.

Tra il cero e lui, mi sentivo decisamente piena!

L’uomo prese a entrare e uscire da me, sempre tenendosi ai fianchi.

Guardai verso Sara: teneva gli occhi chiusi e aveva gettato la testa all’indietro, scossa dall’ennesimo orgasmo, forse il decimo.

L’uomo aumentò il ritmo, stringendomi con maggiore forza.

L’uomo con la telecamera si avvicinò in modo da farmi un primo piano.

Sempre più veloce, sempre più veloce….

Sentii che anche dentro di me qualcosa stava capitando.

Avevo male, avevo sofferto, però evidentemente la combinazione di questi due corpi stava agendo da sola, in modo automatico.

L’orgasmo arrivò dal profondo, quasi sorprendendomi.

Spalancai la bocca; l’uomo mi afferrò le tette e – urlando – venimmo entrambi.

 

L’orgasmo durò qualche secondo, poi ci abbandonammo sul materasso.

L’uomo si sfilò da me, Daddy si riprese il cero.

Sentii le pareti del mio ano rilassarsi finalmente.

Daddy mi guardò sorridendo, poi indicò Sara.

“Andate a prendere quella troia. Non abbiamo per niente finito qui”.

Due uomini si affiancarono a Sara e spensero il vibratore.

L’attrezzo era per metà nel corpo della ragazza, che – ad occhi chiusi – si accorse della mossa solo quando non lo sentì più entrare dentro di lei.

La segarono rapidamente e la sollevarono di peso.

“Siediti sul letto accanto a Claudia!”, le ordinò Daddy.

Sara ubbidì e si rannicchiò accanto a me.

“Mai stata con una ragazza?”, le chiese Daddy.

Scosse la testa.

Daddy cercò con lo sguardo l’uomo con la telecamera e con un cenno gli disse di inquadrare verso il letto.

“Baciatevi!”, ci ordinò Daddy.

Ci mettemmo in ginocchio, una di fronte all’altra.

Sara appoggiò le mani sulle mie spalle e mi guardò negli occhi.

Non c’erano né passione né eccitazione in quello sguardo.

Piuttosto, si leggeva rassegnazione.

Si avvicinò a me; sentii i suoi capezzoli sfiorarmi il seno.

Chiuse gli occhi e si accostò a me.

Appoggiò le labbra sulle mie.

Aprii le mie, incastrandole con le sue.

Erano asciutte e carnose.

Sporsi la lingua, accarezzandole i denti.

Le aprì ancora di più le mascelle, protendendo la sua lingua verso la mia.

Fece scorrere le mani lungo la mia schiena e mi serrò a lei.

Le nostre lingue si intrecciarono, io posai le mani sulle sue natiche e avvicinai il suo bacino al mio.

Ora la sua vulva era a contatto con la mia e, istintivamente, presi a sfregarla.

Lei assecondò il movimento e con la punta delle dita disegnò la linea tra le mie natiche.

La sentii insinuarsi, poi con un polpastrello mi toccò le grandi labbra.

Mi lascia scappare un sospiro.

Allontanò la sua bocca dalla mia e scese lungo il mio collo.

Con la punta della lingua tracciò un sottile sentiero di saliva lungo il mento, il collo e sul mio petto.

Con una mano esercitò una leggera pressione sul mio sterno, facendomi capire che voleva che mi sdraiassi.

Mi appoggiai con la schiena al materasso.

Tornò a protendersi su di me, leccandomi.

Mi umettò la zona tra i seni, poi si spostò su di loro.

Leccò il seno destro con calma, come fosse un gelato, poi chiuse le labbra sul capezzolo.

Era turgido; lei lo aspirò e lo serrò tra i denti, con una presa decisa ma non dolorosa.

Quasi gemetti per il piacere.

Giocò con i miei seni per qualche minuto, poi – sempre con la punta della lingua – proseguì la sua discesa.

Mi solleticò l’ombelico, poi sentii il suo respiro sul mio inguine.

Una parte di me voleva dirle che non era obbligata, che forse sarebbe stato più giusto fossi io a leccare lei, visto che avevo già avuto esperienze. Ma non dissi nulla, perché un’altra parte di me non vedeva l’ora di sentire la sua lingua sul mio sesso.

Non dovetti aspettare tanto.

Appoggiò le sue labbra sul mio clitoride e, con la lingua, lo stuzzicò.

Sentii un brivido correre lungo la spina dorsale.

Sara sollevò lo sguardo verso di me e mi sorrise, io feci lo stesso.

Socchiuse le labbra aspirò il mio clitoride, ormai eretto.

Così come aveva fatto con il mio capezzolo, lo prese tra i denti.

Non strinse, non mi fece male.

Anzi.

Chiusi gli occhi, facendomi percorrere da mille brividi.

Per questo motivo non mi accorsi degli altri due uomini fino a quando non furono sul letto accanto a me.

Erano nudi, uno alla mia destra e uno alla sinistra.

Avvicinarono i loro peni eretti al mio viso.

Aprii la bocca.

Quello di sinistra lo prese in mano e fece sì che il suo glande percorresse le mie labbra.

Lo feci fare.

Nel frattempo, un altro uomo nudo salì sul letto, questa volta dietro a Sara.

La cinse per i fianchi e la penetrò.

Sara non disse nulla, si limitò ad interrompere per un istante il suo lavoro sul mio sesso.

Prese fiato, poi ricominciò.

Anche il secondo uomo avvicinò il suo pene alla mia bocca.

Protesi la lingua verso di lui e lo leccai.

Sembrò quasi essere un segnale: i due uomini sporsero il loro bacini verso di me e introdussero entrambi i loro organi nella mia bocca.

Presi a leccare i loro glandi con la lingua, come fossero dei piccoli gelati.

Sotto, Sara continuava a leccarmi, e sentivo che a breve sarei venuta.

Intensificai il lavoro sugli uomini.

Non li conoscevo, non sapevo quanto avrebbero potuto durare.

Con la punta delle dita stimolai i loro testicoli.

Il movimento pelvico dell’uomo dietro di Sara aumentò, segno che stava per venire.

Prese ad ansimare e le strinse ancora di più i fianchi.

Lei si sollevò da me, inarcò la schiena e chiuse gli occhi.

Venne, e un attimo dopo anche l’altro uomo venne dentro di lei.

Sara rimase in ginocchio per qualche istante, poi si ricordò di me.

Allungò la mano verso il mio sesso e introdusse due dita dentro di me.

Mancava veramente poco a venire.

Aumentai la frequenza delle leccate sui due peni nella mia bocca.

Tanto più mi sentivo vicina all’orgasmo io, tanto più volevo che ancora loro venissero.

Impugnai con le mani le basi dei loro organi e li segai.

Venne prima quello di destra.

Sentii il suo seme colpirmi le labbra e colarmi in gola.

Un attimo dopo venne anche quello di sinistra.

Ingoiai il loro sperma, abbandonandomi sul materasso, mentre loro si alzavano dal letto.

“Sara!”, dissi, e venni anche io.

Sentii Daddy ridere.

“Siete veramente due troie!”, disse.

Sara venne condotta di peso verso il lato sinistro della sala.

Lì stazionava una struttura costituita da due pali verticali, uniti tra loro da palo orizzontale, quasi come se fosse una piccola porta da calcio.

Dalla barra orizzontale pendevano due catene alla cui estremità erano agganciati due cinghie di cuoio.

Non era difficile immaginare a cosa sarebbero servite.

Sara venne condotta all’interno della struttura, i polsi le vennero legati alle cinghie e le caviglie vennero assicurate con delle corde alle basi dei pali, in modo tale da mantenerle le gambe divaricate.

Un uomo si inginocchiò di fronte a lei e prelevò qualcosa da una borsa.

Con due dita scostò una delle grandi labbra e vi applicò un molletta metallica alla cui estremità era agganciata una catena sottile.

Ripeté l’operazione anche con l’altro labbro, lasciandola con le due catene a pendere dal suo sesso.

Vennero quindi a prelevare me, mi sollevarono e mi misero di fronte a Sara.

Li c’erano due blocchi di ghiaccio a forma dei mattoni, sulla cui faccia superiore era poggiata un tavoletta di legno.

Mi fecero salire con i piedi su questi due, la distanza tra loro era tale che io dovetti tenere le gambe leggermente divaricate

Un uomo si avvicinò a me. Aveva in mano un oggetto che sembrava lo stelo di una lampada.

Era un bastone del diametro approssimando un paio di centimetri, provvisto di una larga base.

Mise il bastone in posizione verticale e lo fece scorrere fino a posizionarlo proprio in corrispondenza del mio sesso.

Sentivo la punta di quella pertica sfiorarmi le labbra.

Qualcuno si portò alle mie spalle e mi ammanettò i polsi dietro alla schiena.

L’uomo vicino a Sara estrasse dalla borsa un peso simile a quelli che si usano in farmacia.

Era provvisto di due anelli con cui lo ancorò alle catene che pendevano dal suo sesso.

Non appena il peso venne agganciato alle catenelle,  le labbra di Sara si allungarono di qualche centimetro.

Sara emise un lamento.

Daddy si mise in piedi tra di noi.

“Ora vi voglio lasciare tempo per riflettere – disse – Voglio che voi pensiate a cosa volete fare della vostra vita da oggi in poi. Questo potrebbe essere uno dei momenti più importanti della nostra vita”

Daddy si avvicinò a me e mi passò una mano sul seno

“E’ inutile che mentiate a me e soprattutto a voi stesse: quello che abbiamo fatto assieme vi è piaciuto. La storia del ricatto potete usarla per darvi una giustificazione, per sentirmi meno colpevoli, ma dentro di voi sapete che solo una scusa”

Si avvicinò a Sara e le palpò un seno, torcendole un capezzolo

“Avreste potuto andare alla Polizia, li avrebbero protette. Vengono protetti i pentiti della mafia, figuriamoci se non avrebbero accudito due zoccole solo perché hanno scopato con degli estranei, come nel caso di Claudia, oppure quando hanno commesso un’irregolarità lavoro, come Sara. No, a voi e piaciuto quello che avete fatto”.

Ci osservò in silenzio prima di proseguire.

“Per questo motivo voglio darvi la possibilità di vivere nuovamente questa esperienza. La scelta sarà esclusivamente vostra e sarà sicuramente volontaria. Ora io metterò nella mano di ciascuna di voi un piccolo apparecchio dotato di pulsante. Quando avrete deciso che vi sentite di proseguire la vostra vita come schiave, non dovrete fare altro che premerlo: io verrò a recuperarvi e la vostra nuova vita avrà inizio.

“Visto che nessuno fa niente per niente, vi comunico subito che la ricompensa sarebbe di quelle difficili da rifiutare”

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, poi fu Sara a parlare: “In pratica, dovremmo diventare delle puttane?”.

Daddy sorride e scosse la testa.

“Diventerete belle persone che si fanno pagare per fare quello che gli piace. Non credo esista una fortuna più grande”

“E se in non volessimo accettare?”, chiesi io.

Daddy alzò le spalle.

“Non dovrete fare nulla: tre un’ora verranno a prendervi le persone a cui voi avete arrecato danno. Il tuo ragazzo, Claudia, e il datore di lavoro di Sara, che il caso vuole essere anche il tuo. Ovviamente, nessuno meglio di voi è in grado di valutare le conseguenze che questo comporterà”.

Nessuno parlò.

“Non vi voglio mettere fretta, ragazze, ma il tempo non è una variabile da poco in questo momento. Sara ha un peso di un chilo appeso alle labbra. In questo momento magari è ancora sopportabile, ma lo diventerà sempre di meno mano a mano che passerà il tempo. Le tue labbra si stanno già allungando, pensaci”.

Si voltò verso di me e indicò tra le mie gambe.

“Tu, invece, Claudia, sei in piedi su due blocchi di ghiaccio. Qui fa abbastanza caldo e tra non molto questi blocchi cominceranno a sciogliersi. Sciogliendosi, tu ti abbasserai sempre di più, e il palo che si trova tra le gambe ti penetrerà, fino a impalarti. Il tuo ragazzo ti troverà così, se non deciderai di interrompere prima”.

Prese dalla tasca due oggetti grandi come una scatola di cerini e ce li mise in mano.

Io con le mani dietro alla schiena potevo solo intuire la forma dell’oggetto, ma con il pollice distinsi chiaramente un piccolo pulsante al centro.

Due uomini si accostarono a me e a Sara e ci imbavagliarono .

“E’ tempo per i saluti – disse Daddy – Solo tra poco potrò capire se si tratta di un addio o di un arrivederci. Pensateci, ragazze, e pensate che la vita è troppo breve per sprecarla facendo cose che non ci piacciono”.

Uscì dalla porta e ci lasciò sole.

Guardai Sara, cercando di capire cosa stesse pensando.

Io stessa non ero in grado di prendere una decisione.

Passai il pollice sul pulsante.

L’avessi premuto, quella sarebbe diventata la mia vita.

Non potevo negare che una parte di me ne fosse attirata.

Sara, davanti a me, emise un mugolio.

Le sue labbra erano visibilmente stirate verso il pavimento, doveva farle male.

Anche io mi resi conto che stavo cominciando a sentire la pressione del palo sul mio sesso.

Guardai in basso e vidi una pozza d’acqua, segno che i due blocchi di ghiaccio sotto ai miei piedi si stavano sciogliendo.

Dovevo prendere una decisione. Anche non fare nulla sarebbe stata una decisione.

Di qui a un’ora sarebbe entrato il mio ragazzo.

Cosa gli avrei detto?

Avrei simulato un rapimento? Avrei potuto, ma non sarebbe stata una buona idea.

Avrebbe sicuramente voluto chiamare la Polizia, e di fronte agli agenti non so se sarei stata in grado di produrre una storia credibile.

Cosa sarebbe successo se avessi premuto il pulsante?

Sentii la mie labbra allargarsi, mentre il palo penetrava dentro di me per qualche centimetro.

Intanto avrei guadagnato dei soldi, aveva detto.

Potevo fare finta che non mi importasse?

Con il lavoro che facevo era già tanto se riuscivo ad arrivare a mille euro al mese, era una vita quella?

Potevo continuare a scroccare la cena a mia madre e ad andare in vacanza ospite da amici?

Pensai alla mia auto di dodici anni e al fatto che nell’arco di una anno al massimo sarei stata costretta a cambiarla.

Ma non era solo per i soldi.

Ricordavo l’eccitazione che mi aveva attraversata spesso in queste settimane.

Anche in quel momento mi sentivo comunque su di giri.

Potevo reggere una vita in cui sarei stata perennemente schiava di qualcuno, a disposizione per ogni capriccio?

Solo a visualizzare dentro di me questo concetto mi sentii mancare il cuore.

Non era forse quello che avevo desiderato in tutta la vita?

Non era quello che avevo cercato a diciassette anni, quando avevo cercato il mio primo padrone virtuale sulla rete?

Sara aveva gli occhi umidi, ma mi guardava fissa.

Con la testa annuì.

Lo faccio, sembrava dire.

Lo facciamo?, pensai io.

Le sorrisi.

Premetti il pulsante.

One Comment

Leave a Reply