Skip to main content
Racconti erotici sull'Incesto

Valle d’oro

By 25 Luglio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

E’ quasi incredibile che ai nostri giorni possa ancora esistere un angolo che sembra al di fuori del tempo e della realtà che altrove si svolge.
Esiste. E’ ‘Valle d’Oro’.
Una frazione, anche meno, poche case, una cappella con una parvenza di campanile. Solo un emporio, dove si vende un po’ di tutto.
Questo isolamento, incantevole o triste a seconda i propri gusti, era possibile perché per giungervi bisognava conoscere bene la strada.
Dalla nazionale si doveva voltare a sinistra, nella stretta provinciale, sempre in pessime condizioni di manutenzione, dalla quale, a un certo punto e senza segnalazione alcuna, si dipartiva una seminascosta carrareccia, con fondo sconnesso, polveroso d’estate e fangoso d’inverno. Si entrava in un bosco, abbastanza folto, si andava avanti per quasi due chilometri, poi si sbucava in una piana, meno fittamente alberata, con un ruscello che a volte diveniva torrente e, finalmente, si giungeva a ‘Valle d’Oro’.
Pochi abitanti.
Una maestra, non più tanto giovane, cercava di spezzare un po’ del pane della scienza ai nove alunni che riuniva al piano terreno della modesta abitazione che le era stata ceduta in uso da quello che tutti chiamavano ‘Don Michele’, l’anziano della comunità.
Nove alunni, di età diversa, che se fossero stati in un paese, logicamente più grande e dotato di scuole regolari, avrebbero frequentato classi diverse.
Maestra Filomena era brava, paziente, affettuosa. I ragazzi ne traevano profitto.
Non sempre c’era un giornale quotidiano. Capitava, infatti, che qualche giorno nessuno si allontanasse dal luogo.
Per avere l’energia elettrica avevano dovuto contribuire, anche con lavoro personale, al trasporto del trasformatore (loro dicevano lo ‘sformatore’) e alla palificazione.
Quasi tre chilometri di tubazione per allacciarsi alla condotta principale.
Molte TV, e parecchi cellulari.
Lavoro dei campi, qualche piccola attività artigiana, soprattutto intaglio del legno, da parte degli uomini, e tombolo per le donne.
I prodotti venivano raccolti, affidati alla Covalsol, la Cooperativa Val di Sole, che provvedeva alla vendita e acquistava anche quanto necessitava al piccolo borgo sia per la vita di tutti i giorni che per l’attività agricola. L’emporio era della Cooperativa.
Valle d’Oro costituiva un’oasi patriarcale, o qualcosa di simile.
Prima ancora di Filomena, la grande maestra era la natura.
I bambini, appena venuti alla luce, si erano trovati di fronte alla natura. Pochi i casi di nascita in ospedale, solo quando il parto si presentava difficoltoso. Per il resto, a casa, con l’aiuto dell’ostetrica che veniva dal Comune capoluogo, o più spesso delle vicine di casa.
Natura.
La terra rivoltata dal vomere accoglieva il seme, che poi germogliava e dava piante, fiori e frutti.
Le femmine degli animali, montate dai maschi, ne ricevevano il seme che dava inizio a una nuova vita.
Il primo era il gallo, che si accoppiava alle galline, vecchie o giovani che fossero, avvisava il vicinato con squillanti chicchirichì, e attendeva il giorno dopo per ripetere la sua funzione.
Ma vi era anche la gatta di casa che quando veniva coperta mugolava come se piangesse, e intanto sculettava frenetica.
C’erano i cani, più silenziosi, ma continuamente annusantisi e congiungentisi.
Senza parlare dei conigli, con quelle loro scopatine rapide rapide, come fossero percorsi dall’elettricità.
Maestoso il cavallo quando si apprestava a fecondare la giumenta.
Poderosa la spinta del toro.
Vi erano, poi, le manifestazioni erotiche caserecce, spontanee disinibite, che andavano dalla palpatina sfuggente alle zinne che passavano a tiro, a quelle più meridionali a chiappe e ‘pagnottelle’, come chiamavano confidenzialmente quanto, nella donna, partendo dal pube andava a nascondersi tra le cosce.
Del resto, non si poteva certo stare tutto il tempo libero guardare la TV o a giocare a biliardo.
L’esercizio più piacevole era la ‘ginnastica da camera’, o meglio la ginnastica in camera, e più precisamente a letto. Magari mentre un figlio era nel lettino a fianco e l’altro proprio vicino a loro.
Il motto di quei bravi lavoratori era: ‘Si lavora e si fatica per la panza e per la fica’!
Ma le loro donne non erano da meno: ‘Me ripaga lo strapazzo ogni tanto un po’ di cazzo’!
Pochi consumi superflui, ma larghissimo uso di ‘pillole contraccettive’, a partire da quando le ragazze si accorgevano che potevano ‘restare prene’. Perché in mezzo a tutto quel fottisterio, e alle incontrollate e rumorose cavalcate genitoriali, non si poteva rimanere insensibili, né contentarsi dell proprie mani.
E poi, che ce l’ha dato a fa’ il sesso, la natura, se non lo usiamo?
Ed Spencer, reporter statunitense, ne aveva sentito parlare.
Venne a visitare il luogo, parlò con molta gente. Nessuno nascondeva nulla, tanto, dicevano, &egrave così naturale!
Dopo una settimana a Don Michele giunse la copia del giornale su cui Ed aveva narrato di ‘Valle d’Oro, Golden, fuck valley’. Si l’aveva chiamata la valle della scopata, e l’aveva descritta abbastanza bene: nel centro della penisola, tra Lazio, Abruzzi, Molise.
I secoli, in un certo senso, non erano trascorsi.
In quella specie di tribù primitiva, seguendo il principio che ‘al c’. non si comanda’, e ‘qui regna la fregna’, non &egrave che ci siano argini artificiali all’istinto, né si conoscono i tabù dell’ipocrisia.
Non era raro il caso di chi, uscito il padre dal letto, si avvicinava alla prosperosa genitrice, ancora bagnata del seme coniugale, e con diligente cura vi depositava il suo.
Per lei era una cuccagna.
Un uccellone come quello del suo giovanottone, del maschio che aveva fatto lei, non se lo doveva far scappare. Ormai aveva diciotto anni, lui, e magari andava scopicchiando qua e la, magari anche con la sorella, sicuramente con le cugine. Ma la guaina materna era tutta un’altra cosa. Perfino il pelo sembrava diverso: più morbido, più bello da carezzarsi, e ti faceva rizzare al solo pensiero.
Per riequilibrare le cose, il pater familias, quando poteva, benediceva generosamente col suo poderoso aspersorio le gnocche filiali.
Linguaggio non più strettamente dialettale, grazie alla TV, ma certe espressioni sopravvivevano, e la cadenza era sempre quella di un tempo.
Lo spaccio cooperativo era affidato a Menico, detto manico e si comprende il perché’
Era un quarantenne che a vederlo ti lasciava indifferente, ma sembra che avesse certe doti comportamentali tutt’altro che sgradite alla popolazione femminile, specie un po’ in là con gli anni.
Nel retro bottega c’era un cumulo di paglia, ricoperto d’un telo abbastanza pulito, che accoglieva le vogliose mature e le coscienziose prestazioni di Gaetano.
Niente grandi variazioni, in fatto di ‘posizioni’.
O la classica, conosciuta come quella del missionario, in cui lei giaceva supina, le cosce bene allargate e lui sopra a pompare a rotta di collo; o la ‘pecorina’, con la femmina carponi, chiappe al vento e zinne in genere dondolanti, e lui che, dietro, stantuffava poderosamente, tormentandole tette e capezzoloni.
Ogni tanto la porta a vetri dello spaccio era chiusa, e ci pendeva un avviso tratto dalle segnaletica stradale: ‘lavori in corso’.
Se non fosse stato per la diffusissima ‘pillola’, Gaetano si sarebbe dovuto chiamare il padre dei valligiani.
^^^
Come nell’oceano c’&egrave un’isola, nel deserto un’oasi, anche a Valle d’Oro c’era quello che potrebbe definirsi l’angolo diverso.
Teresina aveva saputo controllare, forse &egrave più esatto dire soffocare, i propri istinti. Aveva un suo profondo convincimento di quello che si può fare e quello che non si deve fare. Principio non certo ereditato dai genitori, e tanto meno frutto degli esempi circostanti.
Perché nella sua famiglia, dov’era nata, padre e figlio si dividevano, senza gelosia e senza contrasti, le esuberanti grazie ed energie della sempre avida e insaziabile Carlina, sposa del primo e madre del secondo.
Lei, Teresina, a suo tempo, aveva decisamente rifiutato attenzioni paterne e fraterne.
I maschi di casa non comprendevano tale ritrosia, per loro addirittura patologica, e, alzate le spalle, avevano lasciato perdere.
Comunque, non &egrave che Teresina non sentisse le pulsioni proprie del suo sesso e della sua età. Non restava impassibile alle cavalcate degli altri componenti della famiglia, che poco si curavano della sua presenza o di farlo con una certa discrezione.
Certe volte, l’urlo conclusivo della madre la sconvolgeva, e la sua ‘pagnottella’ ardeva e colava.
Era un forno.
Fu così che a Guglielmo, due anni più di lei, fu facile infornare il suo gagliardo sfilatino, la sua succulenta ‘baguette’, e proprio per quel ‘succo’ Teresina ben presto gli scodellò il piccolo bellissimo Donato.
E ben presto Guglielmo andò a lavorare in Belgio.
Lavorava sodo. Era sodo, e le ragazze del luogo lo sapevano.
Fu facile costruirsi una piccola graziosa casetta, al paese.
Ogni tanto tornava, e passava la sua settimana di ferie a riempire Teresina che mai l’aveva data ad un altro uomo.
Non era il caso di dare un fratello a Donato, per cui pillole in quantità industriale.
Donato aveva dodici anni, quando Teresina fu convocata al Consolato del Belgio, e ricevette gli effetti lasciati da Guglielmo, la liquidazione della compagnia di assicurazioni, il libretto di pensione, nonché un diploma di benemerenza per l’eroico comportamento dello sposo che nel tentativo di salvare i compagni di miniera aveva finito col restarci lui.
Dodici anni Donato, ventotto lei!
La casetta era stata finita, era civettuola.
La pensione discreta, e la Compagnia delle Miniere del Belgio concorreva al mantenimento di Donato in collegio, in città, che veniva a trascorrere con la mamma ogni fine settimana.
Immaginarsi quanti pretendenti ronzarono subito intorno a Teresina.
Bella, giovane, quasi benestante.
Fu subito chiaro, però, che Teresina se la sarebbe tenuta per sé.
Era una giovane abbastanza robusta, ma non grassa.
Alta poco più di uno e settanta, scalza, e sessantatré di peso, tutto ben suddiviso tra un paio di floride e ben sode zinne, belle gambe, giunoniche, chiappe da primato, e un volto ovale, dolce, simpatico, con tanti lunghissimi capelli color delle spighe mature.
Incredibile, ma al di fuori di Guglielmo, e di qualche rapida occhiata di Donato, nessuno l’aveva mai vista nuda. Peccato! Era proprio uno spettacolo incantevole, stimolante.
Donato se la sognava, e con gli occhi chiusi cercava di raggiungere il piacere in ‘solitario’.
Diploma raggiunto, geometra.
Ritorno a casa.
Decisione di togliersi subito il pensiero del servizio militare.
Il tentativo di ottenere l’esonero come figlio unico di madre vedova, non era riuscito: non era il sostegno della famiglia. Insisterono perché gli fosse riconosciuto di essere il supporto morale per la madre. Niente da fare.
Donato era andato a trovare il fratello di Teresina, per salutarlo, ma lo zio s’era recato al mercato d’un paese vicino. C’era la moglie, Rita. Qualche anno più della madre, anche lei bene in carne, e per niente avara nel mostrare il ben di dio che poco o nulla copriva la vestaglia appena fermata da un bottone in vita.
Rita si accorse degli sguardi, eloquentissimi, di quel nipote acquisito, e non le erano sfuggiti i segni della eccitazione di quel bel ragazzone.
Era seduto sulla sedia di paglia, nella grande cucina a piano terreno. Lei sfaccendava pigramente.
Gli si pose di fronte, con le mani sui fianchi, le gambe leggermente aperte, si chinò un po’ su di lui, mettendogli sotto gli occhi un paio di tette veramente gagliarde.
Un po’ più anziana della mamma, sì, zia Rita, ma nell’insieme abbastanza simile. Se ne era accorto anche il suo ‘cello’ (così si chiamava nel borgo) irrequieto.
‘Donà, ora che vai a fare il militare, chissà quante ragazze ti farai. Ma non &egrave che ti serve di andare lontano. Anche qui ce ne sono tante che te la darebbero volentieri.’
Donato sobbalzò, divenne scarlatto in volto.
Con un abile movimento della mani, che erano sui fianchi, Rita aprì la vestaglia quel tanto che bastò per mostrare il suo gagliardo monte di venere, il folto bosco dei suoi peli inanellati, e qualche scorcio di fica.
Donato stava respirando a fatica.
‘Aspetta, bello di zia, che non ti voglio far penare.’
Andò alla porta, la chiuse a chiave, abbassò la tenda. Tornò verso il ragazzo che era restato inebetito a fissarla.
Con gesti precisi e rapidi, gli abbassò la zip dei pantaloni, gli liberò il ‘cello’ imprigionato che si erse prepotente, dilatò le cosce, si mise a cavallo di quello stallone eccitato, e si impalò lentamente, fino a sedere con le sode chiappe sulle cosce di lui. Lo guardava fisso. Gli prese il volto tra le mani, lo baciò avidamente sulla bocca, con la lingua cercò quella di lui, quasi vi si attorcigliò, mentre lo stava mungendo voluttuosamente.
Donato, superata la sorpresa, le aveva afferrato le chiappe e la stringeva ritmicamente a sé.
Proprio nel momento in cui sentì che stava per sbrodolare, Rita, ebbe un fremito, convulso, si aggrappò a lui e, incurante di tutto e di tutti, gridò forte.
‘Ammappate quanto sei bono Dona” sei ‘no schianto’ m’hai riempita de miele’!’
Quando, infine, riuscì ad alzarsi, si affrettò ad asciugarlo con la vestaglia, e con delicatezza ripose l’arnese nei pantaloni.
Donato la guardava, senza riuscire a pronunciare parola.
Rita lo carezzò.
‘Dona’, non partire senza venirmi a trovare’ la voglio fare a letto’ con te sopra’ vedrai”
Infatti, non lo deluse.
^^^
Sì, ragazze ce n’erano tante, e anche mamme di ragazze.
Non era questione di appesantimento delle vescichette seminali.
Era che in ogni momento, anche durante una bella scopata, si ripresentava alla mente quell’amazzone bramosa che era la zia Rita, le cui sembianze, però, andavano sempre trasformandosi in quelle di mamma Teresina.
Dieci giorni di licenza.
Valle d’Oro era in piena attività agricola. Era la stagione adatta.
Un po’ calda, ma sopportabile.
Teresina lo accolse con un abbraccio che non finiva mai, carezze e baci. Gli aveva preparato una bibita dissetante.
Forse Donato voleva fare una doccia. Lo comprendeva, lei ogni tanto si metteva sotto l’acqua. Si asciugava alla meglio e si rinfilava sulla pelle nuda quella specie di tunica senza maniche, a giro largo, che poggiava sulle zinne e sulle chiappe senza poterle nascondere, malgrado l’ampiezza.
Donato la guardava incantato.
Lui le sognava ogni notte quelle tette, quelle sode e robuste rotondità in fondo alla schiena’ e tutto il resto.
Quasi quasi rinviava la doccia, si fiondava a casa della zia Rita, e se la faceva lì per lì, magari pensando alla splendida Teresina.
In quel momento sentiva forte il desiderio di infilarglielo più che poteva e di spingere quasi con violenza, facendola sobbalzare ad ogni colpo fin quando lei non veniva mugolando e lui non si scaricava del tutto. Oppure, di farla poggiare con braccia e testa sul tavolo, alzarle la gonna, strapparle le mutandine, se le indossava, mettere un piede tra le gambe di lei per fargliele dischiudere, dilatarle le chiappe e puntare il suo ‘cello’ in quel meraviglioso e caldo nido peloso dove avrebbe raggiunto la pace, e dato la pace.
Veramente, l’azione si sarebbe svolta un po’ diversamente, specie nella versione ‘tavolo’. Zia Rita avrebbe immediatamente allargato le gambe, con una mano avrebbe preso la capocchia del ‘cellone’ e se la sarebbe portata dritta dritta nella vagina, mentre con l’altra avrebbe dilatato le natiche frementi.
L’epilogo, in ogni caso, sarebbe stato sempre lo stesso.
No. Era troppo eccitato. Meglio una doccia, subito. E piuttosto fredda!
‘Va tesoro. Mentre fai la doccia ti preparo, nella tua camera, di che cambiarti, metterti in libertà. Calzoncini corti, una camiciola e sandali.
Va bene?’
‘Si, grazie mamma.’
‘Vuoi l’accappatoio?’
‘No, mi basta il telo a spugna. Mi asciugo meglio.’
‘Lascia fuori la porta quello che togli.
Metterò la biancheria a lavare, spolvero l’abito e lo ripongo nell’armadio.’
‘OK, ma’. Grazie.’
Donato andò nel bagno, si spogliò, aprì la porta per mettere fuori, sulla sedia che Teresina aveva preparato, quanto aveva levato.
Teresina era lì vicino. Il figlio le apparve in tutta la sua nudità.
Sfolgorante e splendido, e nel contempo folgorante.
Era un uomo, un maschio, affascinante, attraente, seducente, stuzzicante.
Sentì una contrattura al grembo, come un ciucciare a vuoto. Un crampo doloroso della vagina. Si sorprese con la mano tra le gambe, che carezzava dolcemente, e pian piano riuscì a rilassarsi. Ma non a tornare serena.
Fece un lungo sospiro profondo, prese la roba lasciata dal figlio, e si avviò prima verso la cesta della biancheria sporca e poi nella sua camera.
Come gli aveva detto, preparò sul letto quanto doveva indossare, vicino alla sedia i sandali.
Prima di andarsene, si avvicinò alle mutandine, un po’ di taglio antico, superato, aperte davanti, e le carezzò.
Attese che Donato uscisse dalla doccia, avvolto nel telo, e con ai piedi le ciabatte a spugna.
‘Ti asciugo, tesoro?’
‘Grazie mamma.’
Strofinò la mano sul telo, sulla schiena, scendendo sempre più in basso. Aveva bei dorsali, il figlio, e glutei possenti. Scese ancora. Anche cosce e gambe erano atletiche.
Passò dinanzi a lui. Erano quasi alti uguali, forse lui era un paio di centimetri più di lei.
Anche i pettorali erano ben sviluppati.
Ventre duro, piatto.
Per un istante rimase esitante. Che fa, si doveva fermare?
Decise di proseguire.
Doveva asciugare la parte anteriore delle cosce.
Sentiva, però, che c’era dell’altro, e che non restava inerte, tanto che la sua mano si trovò improvvisamente ad avvolgere ed asciugare lo scroto, ad afferrare saldamente l’asta.
Guardò Donato, che la fissava intensamente,
Lasciò tutto.
Si allontanò.
Donato respirò profondamente.
Inutile, ci voleva proprio la zia Rita.
Andò in camera, lentamente, sedette. Doveva riacquistare il controllo.
Poi indossò quanto Teresina aveva preparato e tornò giù.
Andò a sedere sul divano. Meditabondo.
Teresina aveva tenuto bene in fresco la bibita dissetante con la quale l’aveva accolto. Ne versò in un bicchiere, si avvicinò a lui. Di fronte a lui.
Poggiò il bicchiere sul tavolino.
Era di fronte a lui. Sì. Come quando quella volta zia Rita gli aveva sbattuto sotto il naso la sua procace e vogliosa passera.
Allungò le mani, la prese per i fianchi, l’accostò a lui, nascose il volto nel grembo che l’aveva partorito.
Teresina, con gli occhi pieni di lacrime, gli carezzava i capelli.
Lui infilò le mani sotto la tunica, le afferrò le natiche, le strinse forte.
Lasciò tutto per un momento, alzò di colpo la quella lunga veste, riagguantò le chiappe e questa volta le sue labbra sentirono la dolcezza del biondo vello materno.
Teresina riprese a carezzargli la testa, e le lacrime cadevano sui capelli del figlio.
‘Donato, bambino mio. Lasciami’ stiamo perdendo la testa’ Lasciami”
Ma non riusciva ad allontanarsi.
Lui la morse piano, sentì i peli nella bocca. Percepiva l’odore del sesso della donna, il profumo, se ne inebriava.
La lingua assaporò quanto distillava dalle piccole labbra.
Sapore lievemente acre, ma delizioso.
Voleva suggerne, raccoglierlo con la lingua.
Il suo ‘cello’ era letteralmente impazzito.
Finalmente, Teresina, riuscì a rientrare un po’ in sé stessa.
Gli prese la testa, l’allontanò dolcemente da lei, fece ricadere giù la tunica.
‘Bambino mio, sei bellissimo’ ma non possiamo’ io l’ho giurato’ non devo farlo con nessuno’ figurati, poi, con mio figlio’ Aiutami’ sono debole’ aiutami’ fallo per amor mio’ io l’ho giurato a Guglielmo, sua per sempre, dum vivam et ultra, ‘. Capisce bambino mio’ et ultra’ anche dopo’ Non conoscerò mai altra carne che la sua”
Scappò, improvvisamente, di corsa. Salì in camera, si gettò sul letto, si mise a piangere.
Donato era restato, a testa bassa, e sconvolto. Andò a mettere la testa sotto l’acqua.
Doveva andare da zia Rita.
Salì per dirlo alla madre.
La porta era semiaperta.
Teresina, sul letto, di fianco, raggomitolata con le mani tra le gambe, stentava a calmare i singhiozzi. I capelli, sciolti, formavano un manto d’oro che l’avvolgeva.
Si avvicinò, sedette sul letto.
Le mise una mano sulla spalla, lei vi appoggiò sopra la sua.
‘Mamma’ scusa’ non fare così’
Sei bellissima’ Ti voglio bene’ a modo mio’ ti sogno’ desidero baciarti, carezzarti’ scusami”
Lei si voltò col volto, rigato di lacrime, incorniciato dal biondo lucore della chioma.
Donato scostò i capelli, le carezzo le gote, si abbassò a baciarla.
Piccoli baci, su tutto il viso. Ne beveva le lacrime.
Bacetti all’angolo della bocca, sulle labbra.
Lei l’abbracciò. Forte. Scuotendo la testa.
Si mise supina, tentò di sorridere.
Restarono così, abbracciati. Lui col capo sul seno di lei. Sentiva le grosse morbide e sode tette, il capezzolo.
Baciò attraverso la stoffa, afferrò il capezzolo tra le labbra, succhiò dolcemente, teneramente.
Tornò ad alzare la tunica.
Voleva sentirlo senza alcun ostacolo quel seno che lo aveva allattato.
E scese a carezzare il grembo che lo aveva messo al mondo.
Con naturalezza.
‘Mamma, io sono carne della tua carne, vero?’
Lei gli sfiorava il viso.
‘Certo, bambino mio.’
‘E sono anche carne della carne di papà Guglielmo”
Gli allontanò il volto, lo guardò.
‘Che vuoi dire?’
‘Niente, mamma, niente.
Ricordavo le tue parole: ‘mai altra carne che la sua’!’
‘Allora?’
‘Niente’ &egrave così, per dire”
Ma la sua mano s’era fatta più audace.
Teresina seguitava a carezzarlo.
‘Donato, per favore’ ti prego’ si sta avvicinando l’ora della cena’ Tesoro’ facciamo i bravi’ andiamo giù’ ceniamo”
Donato era sovreccitato, ma, sia pure con enorme difficoltà, si mise seduto sul letto.
Lei era ancora supina, scoperta quasi del tutto.
Incantevole.
Il giovane si alzò, un po’ cupo in volto, con un’espressione dura.
‘OK, ma’. Come vuoi.
Vado un po”.’
Teresina non lo lasciò terminare la frase.
Gli prese la mano, lo trattenne, lo guardò con aria dolce, implorante.
‘Resta giù, Donato, ti prego. Resta giù’
Non andare dalla zia Rita’ ti prego’ resta con me”
Lui fu alquanto sorpreso.
Quindi, la madre sapeva. Forse era stata la stessa Rita a vantarsene.
‘Ma mamma”
‘Ti capisco, bambino mio, ti capisco’
Ma comprendimi anche tu’ Non lasciarmi adesso’ così’
Aiutami ad apparecchiare la tavola’
Dammi un po’ di tempo’
Lo vedi anche tu, come sono presa da tanti pensieri che mi tormentano. Come sono coinvolta in sensazioni che credevo per sempre spente in me. Lo sai quanto ti voglio bene, al di là di ogni immaginazione. Non trattarmi male’ non abbandonarmi’ aiutami!’
Era una implorazione disperata.
Donato ne fu profondamente turbato, commosso.
Si gettò sulla madre, ad abbracciarla, baciarla, sul collo, sul viso, sugli occhi.
Si alzò, tirò su col naso.
Tento di sorriderle.
‘Vado ad apparecchiare, ma” Ti voglio bene’ ti amo’!’
^^^
Dopo il passaggio dell’uragano, a parte i danni che può aver prodotto, ha nuovo significato il primo raggio del sole che torna a far capolino; nell’aria v’&egrave qualcosa di diverso, di nuovo. L’odore della pioggia caduta, dell’ozono lasciato dai lampi, ti spingono a respirare a pieni polmoni. Lo sconquasso del vento diviene lieve zefiro che fa mormorare le fronde.
Nuova luce avevano i volti di Teresina e Donato.
Come se il tormento vissuto nei momenti precedenti li avesse purificati, riscattati. Erano stati avvolti nelle tenebre. Una luce, improvvisa, aveva indicato la strada.
Si era operata in loro una sorta di catarsi, avevano raggiunto, sembrava, quello che Aristotele ha definito il riequilibrio dagli eccessi passionali, la liberazione dagli aspetti negativi della realtà, superamento dei conflitti interni. Apparivano purificati, rinnovati.
Soprattutto Teresina.
Il suo viso, le sue stesse movenze, dicevano di una serenità mai fino ad ora espressa.
L’oro dei capelli, raccolti in una lunghissima ‘coda di cavallo’, era la cornice che impreziosiva la sua bellezza, la esaltava, l’avvolgeva di un alone quasi sovrannaturale, di un’aureola esaltata ed esaltante.
Donato ne seguiva i movimenti, i normali gesti che da sempre faceva nel preparare il pasto, nel portarlo a tavola, che ora erano eleganti movenze d’una danzatrice sacra dinanzi al suo nume, al suo idolo.
Poi andarono a sedere sul dondolo della veranda.
La notte era tiepida.
Il silenzio quasi completo.
Rimasero così, teneramente abbracciati, con qualche sfuggevole carezza, timidi baci, casti, teneri.
Ma nelle menti il tumulto non era cessato.
I dubbi si accavallavano, si rincorrevano, tormentavano.
Lo sforzo, quasi inconscio, per reprimere impulsi, desideri, era logorante.
La tensione quasi tangibile. Donato decise di spezzarla.
Si voltò verso Teresina.
‘Credo sia meglio che io vada a letto.’
‘Dormirai?’
Lo sguardo di Donato non riuscì a contenere più a lungo il supplizio che lo angosciava. Teresina era vicina a lui, la toccava, ma’
Aveva promesso!
Si alzò, le sfiorò la guancia con un bacio, si avviò verso la sua camera, si spogliò completamente, si mise a letto, spense la luce. Rimase con gli occhi sbarrati, verso il soffitto, nella penombra data dal tenue chiarore della luna, ormai alta nel cielo, che filtrava dalle persiane.
Teresina fece un profondo respiro.
Tornò in casa, chiuse porte e finestre, si assicurò che tutto fosse in ordine nel tinello-cucina, salì nella sua camera. Andò nel bagno per i soliti preparativi per la notte. Sciolse i capelli che l’avvolsero fino a confondere il loro oro con quello, più scuro del pube, si guardò allo specchio. Infilò la camicia da notte. Andò dietro il balcone, pensosa.
Andava rimuginando le parole dette a Donato: Non conoscerò mai altra carne che la sua’ e quelle di Donato: sono carne della carne di papà Guglielmo.
Pensò anche a Rita, con odio.
E fece finta di non pensare a quanto, invece, le stava maggiormente a cuore: sé stessa!
Era scalza, e non se ne era accorta.
Uscì nel corridoio, andò alla porta di Donato, l’aprì piano.
Lui era sempre sveglio e con gli occhi aperti.
Lei non se ne accorse subito.
Avvicinandosi al letto li scorse, luccicanti, fissi nel vuoto.
Ora toccava la sponda del letto.
Fece cadere la camicia a terra.
Scostò il lenzuolo.
‘Fammi posto, tesoro!’
Allungò la mano, lo carezzò, scese sul sesso del ragazzo che era già divenuto ritto e rigido come un pennone. Non si soffermò in superflui preliminari, gli si mise a cavallo, sulle ginocchia, con le cosce ben aperte, gli afferrò il glande, lo portò all’orifizio della vagina, ci si impalò, fremente, impaziente, e prese a cavalcarlo, sempre più convulsamente, fino ad esplodere, rapidamente, nel più travolgente degli orgasmi che avesse mai conosciuto, dopo anni di forzata continenza.
Donato l’aveva afferrata per le natiche e seguitava a muoversi, fin quando non la sentì di nuovo pulsare, pronta per accogliere il fiume della voluttà che andava versando in lei.
Il sogno era realtà!
Rimasero avvinti, a lungo.
Il letto era stretto, lui dovette farsi da parte per consentire a Teresina di mettersi supina, desiderosa di riposo.
Ma altro desiderio prevalse. In entrambi,
Quale più delizioso riposo che quello sul meraviglioso e florido corpo di una femmina rotonda e vogliosa?
Quale rifugio, per il suo scettro pulsante, che nel tesoro nascosto tra le più belle cosce del mondo?
Quelle che lui ora stava baciando, esplorando, sempre più intimamente: le grandi labbra, il clitoride, il sapore del suo seme e della linfa della donna in amore.
Fu su lei, in lei. Le gambe di Teresina si intrecciarono sulla schiena di lui.
Era meraviglioso, al di là di ogni aspettativa, immaginazione.
Nessun’altra donna, lo sapeva, gli avrebbe mai dato un piacere così grande.
Teresina godeva. Quella era la carne di Guglielmo, e sua. Ancora più bella e appagante.
I raggi del sole del mattino caddero, trapelando dalla finestra, su Teresina, finalmente assopita.
Nuda, scoperta, le gambe appena dischiuse.
Donato era poggiato su un gomito.
La contemplava.
Il raggio di sole batteva sul pube di lei.
Quella era la vera Valle d’Oro.
^^^ ^^^ ^^^

Leave a Reply