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Racconti di DominazioneRacconti sull'AutoerotismoTrio

Cadorna, stazione di Cadorna

By 30 Aprile 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

 

“Stupida! Ma chi me l’ha fatto fare?”. Per l’ennesima volta Silvia si ripeté la domanda mentre, immobile sulle mani e sulle ginocchia, fungeva da soprammobile nel salone. Nuda. Fatta eccezione per le scarpe che portava quella sera in metropolitana. Con un bicchiere di acqua colmo fino all’orlo sulla sua schiena.

“Mi sto chiedendo come saresti vestita solo di queste scarpe”.

Era stata la seconda frase che lui le aveva rivolto. E adesso…

 

­- – –

 

L’avevo vista da lontano quella sera nella calca della stazione di Cadorna. Camminavo su e giù per i binari aspettando l’arrivo del mio treno e quando, giunto alla fine della pensilina mi voltai, la prima cosa che notai ancora da molto lontano furono quei tacchi infiniti, le gambe slanciate, un tailleur elegante, un caschetto castano. Continuando a camminare allo stesso ritmo mi avvicinai passandole dietro, le gambe erano leggermente più grosse di quello che apparivano da lontano, ma quelle scarpe aperte dal tacco alto, una cinghietta ad avvolgere la caviglia, le rendevano egualmente belle da guardare. E poi, in quei primi giorni di primavera, mi piaceva ammirare quella pelle nuda, libera dai collant. Il giro successivo le passai davanti. La guardai in faccia. Un viso delizioso, dolce, ma anche determinato. Gli occhi scuri, gli zigomi alti, un naso sottile proporzionato, due labbra appena macchiate di rossetto, sottili, dal taglio pronunciato. I sui occhi incontrarono i miei.

Il giro, questa volta, fu più breve e quando ripassai alle sue spalle mi fermai, appoggiandomi con la schiena al muro. Due metri avanti a me, lei scriveva sul suo blackberry frenetica, ogni tanto si metteva brevemente a camminare e ogni volta che si girava per qualche breve istante incrociava il mio sguardo.

Arrivò il treno. La scritta sul tabellone diceva Molino Dorino. Non ero il mio e rimasi appoggiato al muro. Non era neppure il suo. Quando le porte si aprirono e una fiumana di gente si mischiò chi per scendere chi per salire sul vagone, lei indietreggiò di qualche passo. Il sedile di marmo alla mia sinistra nel frattempo si era liberato, lei fece per sedersi sull’ultimo posto a destra, ma anch’io mi ero mosso e fu costretta a spostarsi un pochino a sinistra, mentre io mi sedetti al suo fianco. Presi il libro che avevo nella borsa e cominciai a leggere qualche pagina, mentre lei, finito di spedire una mail scorse la rubrica e cominciò a telefonare.

“Ciao tesorino come stai? Io ho appena finito in ufficio e sto tornando a casa. Una giornataccia, ma sono comunque riuscita a finire quella relazione…”.

Nel frattempo aveva accavallato le gambe e la sua caviglia sinistra aveva cominciato ad arcuarsi al ritmo delle parole. Guardai il piede, ben curato, le unghie smaltate, mentre a intervalli regolari sfiorava il mio pantalone. Il tabellone segnalava 2 minuti al treno per Bisceglie. Spostai impercettibilmente un po’ la gamba verso sinistra e dopo qualche istante senti la scarpa che sfiorava l’orlo.

“… allora, la prossima settimana dovremmo riuscire a fissare la riunione con quelli della pubblicità e spero che questa volta si rendano conto che non possiamo più perdere tempo…” continuava intanto a parlare senza sosta.

La mia gamba si spostò ancora un po’ e questa volta la sua scarpa cominciò a strusciare con costanza sul mio polpaccio mentre lei continuava a parlare con quella voce professionale ma decisamente gradevole.

Non so cosa mi prese, fossi stato più freddo e razionale mi sarei dato del pazzo da solo, ma in quel momento non seppi resistere alla tentazione, staccai la mano sinistra dal libro e con il dorso delle dita accarezzai il suo polpaccio, partendo poco sopra la caviglia e salendo quasi fino al ginocchio.

Il suo voltò scattò nella mia direzione, gli occhi sorpresi e minacciosi, ma dopo una breve pausa di un secondo lei riprese a parlare, mentre io, sottovoce, guardandola negli occhi mentre il dito ridiscendeva alla stessa velocità verso la caviglia, le dissi:

“Hai una pelle fatta per essere accarezzata”.

Pochi secondi dopo, una ventata d’aria annunciò l’arrivo del treno. “Cadorna, stazione di cadorna. Treno per Bisceglie” rassicurò la gracchiante voce femminile che usciva dall’altoparlante. Ci alzammo quasi insieme, ma mentre io entrai nella porta che si aprì davanti a me, lei preferì entrare in quella appena più a destra. C’era poca gente, ma i posti a sedere erano comunque tutti occupati. Così ci ritrovammo di fronte, appoggiati entrambi alle porte, lei sempre al telefono a parlare di progetti da terminare, ma gli occhi che continuavano a puntare nella mia direzione. E quando due fermate dopo una coppia  scese a Pagano, ci sedemmo nuovamente vicini.

“Allora ci sentiamo domani mattina, mi raccomando, chiama l’avvocato e digli di concludere la sua ricerca”.

Terminata la telefonata, riprese a concentrarsi sul suo blackberry e a scrivere qualcosa, ma il suo piede tornò a cercare il mio pantalone come se quanto accaduto qualche minuto prima fosse stato solo un sogno.

“Sarò un pazzo – mi dissi – ma se non adesso, mai più”.

“Mi sto chiedendo come staresti vestita solo di queste scarpe”.

Le parole erano un sussurro appena percettibile nel rumore di freni della metropolitana, ma lei si irrigidì, il piede fermò il suo balletto contro la mia gamba, le dita si bloccarono sulla mini tastiera. Avrebbe potuto urlare, insultarmi, darmi del maniaco, alzarsi e cambiare posto. Non disse nulla. Rimase immobile.

La mia fermata stava per arrivare, le presi dalla mano il telefonino, iniziai a digitare 335….., feci invio e poi stop, per memorizzarlo, glielo rimisi nella mano che era rimasta aperta, le dissi:

“Quando sarai pronta, chiama!”.

Mi alzai, attesi l’apertura delle porte e uscii verso la notte, senza voltarmi indietro.

 

 

…continua

Ritorno a casa

 

 

 

Una statua di cera. La mano teneva stretto il telefonino. Gli occhi incollati sul display anche quando divenne buio. Il fiato che sembrava faticare nella sua strada da e verso i polmoni. Il piede che fino a pochi minuti prima si muoveva delicato lungo quella gamba sconosciuta a sua volta era bloccato come da un incantesimo. Altre volte a Silvia era capitato di avere qualche incontro ravvicinato in metropolitana, spesso erano state strusciatine inconsapevoli date dall’assembramento di chi ogni giorno si spostava sotto Milano per raggiungere il lavoro, la scuola, un appuntamento. In poche occasioni, invece, erano stati una mano, una gamba, un cazzo, ma anche qualche seno, a cercare il contatto con il suo corpo. E così come spesso lei aveva cercato di allontanarsi, c’erano anche state alcune volte in cui lei aveva ricambiato le attenzioni sconosciute. Per poi goderne dopo da sola ma anche con suo marito Piero, con il quale nell’intimità della notte amava condividere non solo le soddisfazioni o le arrabbiature del lavoro, ma anche attimi che avevano saputo rendere diverse le loro giornate. Ma così… venire toccata platealmente così senza ritegno; e poi sentirsi rivolgere quella frase che non lasciava nessuno spazio all’immaginazione…

 

Silvia per qualche minuto rimase quasi sospesa in un limbo di sorpresa, choc, vergogna, ma anche eccitazione e desiderio. E quando gli occhi si resero conto del display del balckberry ormai spento, quando la mano tornò a sentire quel telefonino che stringeva tra le mani, quando il suo sguardo incrociò il nome della stazione che stava lasciandosi alle spalle, Silvia si rese conto che la sua fermata era già passata. Scese a Inganni e nella notte i suoi tacchi echeggiavano nel silenzio, mentre il passo spedito, l’aria che si infilava sotto il tailleur, si dirigeva verso la sua macchina. “Mi sto chiedendo come saresti vestita solo di queste scarpe”.

 

Quella frase non la abbandonava e quando aprì la portiera della sua macchina e si ritrovò sprofondata nel sedile anteriore, il gesto di allargare le gambe e fare risalire la mano fino alle sue mutandine fu quasi automatico! Quando le trovò fradice di piacere non si stupì. Chiuse gli occhi, mentre le dita scavalcavano la sottile barriera di cotone e si immergevano tra le labbra gonfie e bagnate, e la mano sinistra, lentamente, si infilava sotto la giacca, slacciava un bottone della camicetta bianca e puntava decisa a strizzare il capezzolo destro. Era eccitata come non le capitava da tempo, aveva voglia di godere in quel momento e di quel momento, senza aspettare, senza curarsi del ritardo a cena, senza pensare a nulla se non al dorso di quella mano che le aveva accarezzato la gamba e a quella voce che le diceva quanto avrebbe voluta vederla nuda. Oddio, quanto si sentiva femmina, desiderata, ambita. Le dita si muovevano frenetiche, sempre più veloci, le gambe erano allargate al massimo consentito da quel tailleur che ora sembrava una prigione, il capezzolo gemeva sotto la stretta delle dita.

“Ehi, guardate questa troia…”.

 La voce, attutita dai finestrini le penetrò il cervello nonostante l’eccitazione fosse ormai al massimo. Dal lato del passeggero, tre ragazzi dalle facce divertite ed eccitate si godevano lo spettacolo.

“Più veloce. Allarga le gambe. Facci vedere quanto godi. La signora è in cerca di cazzo?”

 

Le voci dei tre si accavallavano sempre più fameliche, mentre Silvia tornava a rendersi conto della situazione. In un attimo la mano scivolò fuori dalla sua fica, e corse a premere il tasto dell’accensione. Le luci si accesero, Silvia ingranò la prima marcia e ringraziando i parcheggi ormai deserti a quell’ora della notte, partì sgommando senza far manovre tra il clacson di una macchina alla quale tagliò la strada e le urla di disappunto dei tre ragazzi.

 

“Insultata come la più misera delle puttane” fu il pensiero che colpì Silvia, mentre con il respiro ancora affannato per lo spavento di essere stata sorpresa e l’eccitazione dell’orgasmo quasi raggiunto, si dirigeva verso casa.

 

 

…continua

 

Quando, dopo aver parcheggiato, aprì la portiera della sua Mazda, il freddo vento della sera che si insinuò sotto la gonna fece sospirare Silvia. Le mutandine ormai zuppe, il piacere insoddisfatto che sentiva essere colato lungo le gambe, accelerò il passo verso il portone del suo condominio. Mentre aspettava l’ascensore, sentì il portone d’ingresso scattare: un attimo dopo Francesco e Nathan attraversarono il breve androne e la raggiunsero.

“Buona sera Francesco” disse Silvia, mentre con la mano tesa si chinava leggermente per l’usuale grattatina sul muso del pastore tedesco.

“Ciao Silvia” rispose il ragazzo che aveva riconosciuto la voce. Francesco abitava da solo allo stesso piano di Silvia e Piero, aveva poco meno di 30 anni e da una ventina era non vedente a causa di una malattia che velocemente gli aveva regalato un mondo che dai contorni sempre più sfumati era diventato sempre più scuro fino a diventare un buio perenne.

“Hai finito tardi questa sera eh?” le disse mentre si stringevano tutti e tre nel vetusto ascensore.

“Sì, abbiamo un progetto che dobbiamo finire entro la prossima settimana e gli straordinari sono diventati la regola” rispose Silvia, mentre con la mano destra continuava ad accarezzare Nathan che si era sistemato davanti a lei. Attratto dall’odore di femmina, la sua lingua cominciò a leccare con voracità le dita di Silvia, poi, con un cambio di direzione improvviso, il muso puntò con decisione verso le gambe della donna.

“Meno male che Piero in cucina se la cava alla grande e ti vizia come una regina” commentò Francesca, che non poteva vedere la bocca spalancata e incredula di Silvia, mentre Nathan, come un assatanato le leccava le ginocchia e cercava con forza di puntare il muso verso l’alto.

“Ma com’è agitato questo cagnone stasera” provò a scherzare Silvia cercando di non far capire dove effettivamente fosse in quel momento la testa del pastore tedesco. “Ma io lo so che ti piaccio tanto vero cucciolone?” continuò con il tono allegro, fintando allegre carezze e mentre si immaginava che la sua faccia avesse assunto chissà quali tonalità.

La salvò l’arresto dell’ascensore, aprì le porte e uscì per prima, mentre approfittando del’attimo di libertà, Nathan reinfilò per un attimo la testa sotto il tailleur piazzando un’altra veloce leccata sulle cosce posteriori.

“Buonanotte Francesco, ci vediamo presto” salutò Silvia, mentre il ragazzo apriva la porta del suo appartamento e dava un rapido scrollone a Nathan che invece avrebbe preferito godere ancora della compagnia di Silvia.

“Buonanotte Silvia, salutami Piero” rispose, prima di chiudere la porta.

Silvia si diresse davanti alla sua porta. Filtrati, le giunsero i rumori della televisione, probabilmente i ragazzi stavano guardando un film. Si appoggiò di spalle al portoncino blindato, la testa sul legno, le gambe leggermente divaricate. Aveva così tata voglia di godere che avrebbe potuto iniziare a masturbarsi lì, sul pianerottolo, e chissenefrega se qualcuno fosse apparso all’improvviso davanti a lei. Passò un lungo minuto, durante il quale nella sua mente si ripresentò il film di quell’incredibile ultima ora, provò a ritrovare il ritmo del respiro, si rassettò alla bell’è meglio la gonna, aprì la borsetta, estrasse le chiavi e aprì la serratura.

“Ragazzi, Piero, sono arrivata”.

 

…continua

 

4. Lo specchio

 

Rapiti dall’ennesima serata calcistica, Marco e Matteo lanciarono un distratto “Ciao mamma” a Silvia, che seguendo una scia profumata si diresse in cucina.

“Ciao Piero, scusa il ritardo” sussurrò Silvia, mentre sollevandosi sulle punte indirizzava un bacio sulla guancia al marito che, dandole le spalle si stava esibendo ai fornelli. “Ho finito tardi e poi ho pure sbagliato uscita della metro” disse, mentre con il petto aderiva alla schiena del marito.

“Senti senti, deve fare fresco fuori stasera” sogghignò Piero, al quale non era sfuggito lo sfregare dei capezzoli della moglie sulla schiena. Ma quando si girò, Silvia sculettando aveva già preso la strada del bagno.

“Fai presto o la cena si fredda” le urlò mentre sentiva la porta chiudersi.

“No, non fa fresco, anzi! È solo che ho una tremenda voglia di essere scopata” fu il pensiero che attraversò la mente di Silvia.

Davanti al grande specchio, lo sguardo eccitato puntato verso la sua figura, Silvia cominciò un lento spogliarello. Sbottonò i bottoni della giacca e con i lembi aperti indugiò per qualche sulla visione della camicetta bianca, il bottone ancora slacciato dall’incursione della mano di pochi minuti prima. “Guardati qua” si disse mentre lentamente fece scivolare la giacca a terra e poi, con una lentezza esasperata, iniziò a sbottonare la camicia. “È così che ti piacerebbe guardarmi?” si rivolse con l’immaginazione al misterioso uomo della metropolitana, mentre un bottone dopo l’altro la camicetta si apriva, lasciando spazio a un reggiseno nero di pizzo. Quando tutti i bottoni furono aperti, Silvia afferrò i lembi della camicia e la tirò fuori dalla gonna, i seni ancora protetti dal reggiseno che svettavano all’infuori, uno sguardo famelico sul volto. In trance, salì con le mani verso le sue coppe, poi avvolse i capezzoli tra le dita e, con una mossa fulminea che le strappò un piccolo gemito, li strinse con forza, roteandoli verso l’interno. “Ti piacciono le mie tette, ammettilo” continuò il monologo silenzioso di Silvia, ormai partita per la tangente dell’immaginazione. “E non hai ancora visto nulla” pensò, mentre la mano destra afferrò la cerniera della gonna, la fece scendere e poi, con la complicità della sinistra liberò il gancetto che teneva il tailleur ancorato ai fianchi. “Guarda!” continuò lo strip tease riservato al suo specchio, mentre la gonna cadeva ai suoi piedi rivelando un paio di mutandine anch’esse nere che mostravano un alone di eccitazione all’altezza del pube. “Sì, ho la fica bagnata, non senti l’odore?” fece Silvia, gli occhi verdi piantati in quelli gemelli che le si rifrangevano addosso, mentre la mano scivolava piano sotto l’elastico per andare a contornare le labbra fradice di desiderio. “È buono sai?” disse mentre ritraeva la mano per portarsela tra le labbra. “Ma a te ancora non basta, vero?”. Incrociando le braccia, fece scendere le spalline del reggiseno, poi lo sgancio e quando abbassò le mani lungo i fianchi, i suoi seni spuntarono liberi maestosi, appena inclini a obbedire alla legge di gravità, i capezzoli enormi, pungenti, duri come il marmo. Quindi, inarcando il culo all’indietro, le mani sui fianchi, iniziò ad abbassare lentamente le mutandine, con movimenti studiati, mentre i suoi occhi non abbandonavano l’immagine riflessa nello specchio, neppure quando, ormai il culo oscenamente inarcato, le gambe dritte, le mutandine non raggiunsero le caviglie.

Ormai calata nella parte di una strip teaser, Silvia si rialzò, le mani aperte che accarezzavano la pelle, poi prima la gamba destra, poi la sinistra scavalcarono le mutandine e la gonna. “Come avevi detto che mi volevi? Nuda con solo queste scarpe addosso? Che dici, ti piace lo spettacolo?” continuò il suo discorso silenzioso. Con una mossa felina allargò leggermente le gambe, mentre la mano tornò all’altezza dell’inguine. Le dita solleticarono dolcemente la piccola striscia verticale di peli, poi tornarono ad abbassarsi, sfiorando il bottoncino che gonfio di desiderio spuntava tra le labbra e si infilarono in profondità nella sua voglia.

Preda di un desiderio irrefrenabile, Silvia cominciò a masturbarsi con ferocia, le dita da due diventarono tre, il movimento sempre più rapido e convulso, lo sciacquio dei suoi umori sempre più forte nella stanza, i sospiri spezzati, le ginocchia sempre più flesse per consentire alla mano di affondare sempre più prepotentemente i colpi. Quando l’orgasmo la raggiunse, gli occhi per un attimo furono avvolti da un velo nero, mentre le gambe cedettero all’improvviso e Silvia si ritrovò a boccheggiare inginocchiata davanti allo specchio.

“Piero, preparati che stanotte ti distruggo…” fu il messaggio mentale che lanciò al marito. Poi, le mani ancora pregne del suo sapore, si tolse le scarpe, raccolse i vestiti, si infilò la vestaglia e raggiunse Piero a tavola.

 

…continua

 

5. La confessione

 

Quando alla fine Piero cedette al sonno, Silvia rimase ancora a lungo sveglia. Un braccio piegato sotto la testa, il corpo ancora bagnato di sudore, del suo piacere e dello sperma di Piero, le gambe leggermente divaricate, le dita della mano destra ad accarezzare languidamente la strisciolina di peli sopra il pube. E mille pensieri ed emozioni a rincorrersi nella testa.

Cena l’aveva consumata in cucina assieme al marito, i ragazzi avevano già mangiato e, finita la partita, dopo un veloce bacio sulla guancia erano scomparsi nella loro stanza per andare a dormire. Un piede allungato sulle gambe del marito, si era gustata un ottimo risotto con zucchine e gamberetti, mentre Piero mangiava parlava e le accarezzava il piede con la mano libera. Un’abitudine che avevano da sempre quando erano rilassati, parlavano della loro giornata e il tempo non li costringeva ad assurde corse.

Poi, dopo essersi gustata lentamente uno jogurt arricchito di un cucchiaino di ottimo sciroppo d’acero, mentre Piero stava per alzarsi e mettere i piatti in lavastoviglie, con un gesto solo apparentemente innocuo gli accarezzò la bocca, facendo molta attenzione a che le dita ancora pregne del suo odore indugiassero sufficientemente a lungo sulle sue narici. “Vedo che la nostra bambina cattiva si è accarezzata” le strizzò l’occhio Piero, prima di aprire la bocca e far sparire tre dita tra le sue labbra. “Chissà cosa o chi ti ha fatto venire voglia… Ma sono sicuro che troverò il modo di fartelo confessare” le disse prima di chinarsi verso di lei e morderle il collo subito dietro l’orecchio.

Pochi minuti dopo si ritrovarono in camera, la vestaglia di Silvia gettata per terra, la faccia di Piero tra le sue gambe, la lingua che lappava le labbra carnose, i denti che alternativamente mordevano la pelle sensibile dell’interno coscia e il nascondiglio che nascondeva il clitoride, le mani che danzavano lievi tra caviglie e piedi, spalancando le gambe, la saliva che si univa agli umori che uscivano dalla fica.

Piero adorava leccare la fica di Silvia, gli piaceva avvertire anche ore dopo sull’accenno di barba il suo odore dolciastro, si perdeva a giocare con la lingua sui suoi due buchetti, a volte riusciva a godere solamente nel sentirla venire a sua volta, senza che lei neppure lo sfiorasse. Infilò la lingua tra le labbra bollenti, la schiacciò, aprendo al massimo la bocca, sul clitoride gonfio e sensibile, la fece scendere giù fino al buchetto posteriore, sentendo l’odore un po’ aspro del suo sedere, stuzzicò la rosellina fino a quando non la senti cedere leggermente, la infilò in quel buchetto proibito che poi così proibito non era, quindi le allargò ancor di più le gambe e, rialzandosi di colpo, le infilò in un solo colpo il cazzo nella fica. Silvia, eccitatissima, esplose in un orgasmo travolgente, mentre la testa si dimenava sul cuscino e mormorii scomposti fuggivano dalle sue labbra.

Piero continuò a entrare e uscire tra le sue gambe con un movimento sempre più frenetico, mentre Silvia viveva un saliscendi di emozioni, con continui orgasmi che scemavano per poi tornare a crescere sconvolgendola. “Bastaaaagh, nooon ce  aaaah  la faccccciooooh più” provò a chiedere tregua, ma Piero anziché accontentarla ci mise ancora più impegno e foga, fino a quando, con un ultimo possente colpo di reni che la sollevò dal letto, esplose dentro di lei.

Ritrovato il respiro, la testa sul petto del marito, Silvia cominciò a raccontare quanto avvenuto poche ore prima in metro. “Lo sai che a me a volte piace un po’ giocare – confessò Silvia mentre Piero le accarezzava la schiena -­, così quando ho visto che quel tizio mi osservava e si era venuto a sedere al mio fianco, ho provato a stuzzicarlo con il piede. Tanto ero impegnata al telefono, il mio poteva tranquillamente passare per un gesto casuale. Ma giuro che quando la sua mano mi ha accarezzato la gamba ho avvertito un brivido profondo. E poi, quando dentro la metro ci siamo ritrovati vicini e mi ha sussurrato quella frase, ho sentito la mia fica bagnarsi all’istante. Per un attimo mi sono immaginata come avrebbe voluto lui, nuda con solo le mie scarpe ai piedi, pronta a obbedire a ogni suo desiderio”.

Parlava Silvia e intanto la mano di Piero era scesa tra i suoi glutei, le dita che accarezzavano il culetto, la rosellina ancora bagnata dal piacere di qualche minuto prima che si apriva delicatamente all’assalto. E Silvia avvertiva i propri capezzoli diventare ancora una volta durissimi a contatto con il petto del marito.

“È stato eccitante, tanto che dopo che lui è sceso mi sono trovata a stringere le gambe accavallate per accrescere quella sensazione di piacere. C’è mancato poco che venissi così, davanti a gente che mi guardava senza sapere quali pensieri attraversassero la mia testa. Ma arrivata in macchina non ho resistito, dovevo toccarmi e se non fosse stato per quei ragazzi che mi hanno sorpresa sarei venuta già lì”.

Nel frattempo, la mano di Silvia aveva trovato il cazzo durissimo di Piero e dopo averlo masturbato lentamente per qualche minuto, con un gesto lento con una gamba scavalcò il corpo di marito e guardandolo dritto negli occhi si impalò.

“Se a me quel viaggio ha regalato brividi, mi sembra che sentire le mie parole abbia avuto lo stesso effetto su di te, o sbaglio?” sussurrò con un tono malizioso Silvia, mentre con il cazzo profondamente infisso nella vagina strofinava il suo clitoride alla base del membro del marito, avvicinandosi rapidamente a un nuovo orgasmo.

“Lo sai che mi piace quando gli altri ti guardano, quando ti spogliano con lo sguardo, quando immagino cosa attraversi i loro pensieri – rispose Piero, i polsi imprigionati dalle mani di Silvia, i suoi capelli che gli accarezzavano il petto -. Lo sai che mi piace saperti puttana, aperta, disponibile, desiderosa di cercare emozioni. Lo sai che mi piace sentirti raccontare le tue fantasie ma anche degli approcci degli altri uomini. Lo sai che mi piace immaginarti scopata da altri. O scopare assieme a te con altri. Ma soprattutto mi piace sapere che nonostante tutto questo tu sei sempre stata e sarai sempre mia”.

Con la testa si sollevò quel tanto che bastava a raggiungere un capezzolo. Lo catturò tra le labbra, lo morse violentemente. “E adesso vieni, godi per me, puttana – le bofonchiò mentre sentiva il cazzo diventare ancora più grosso dentro a sua moglie -.. E nel farlo immagina che lui ti veda e che sappia quanto puoi essere puttana”.

Già avviata sulla via del piacere, Silvia imboccò la via del non ritorno, e quasi sradicando il cazzo del marito venne ancora una volta affondando i denti nella spalla del marito.

 

“E se ti capitasse di rivederlo?” mormorò poco dopo Piero mentre il sonno lo stava prendendo prigioniero.

“E  se lo rivedessi?” fu la domanda che tormentò a lungo Silvia prima di scivolare nel sonno.

Di tutta la sua avventura, una sola cosa non aveva raccontato a Piero. Di quel numero che lui le aveva digitato sul telefono.

 

 

…continua

6. Al lavoro

 

Il risveglio fu traumatico. Per tutta la notte Silvia aveva vagato tra sonno e veglia, le immagini della sera prima a scorrerle nella mente, rendendole impossibile un vero e proprio riposo, le mani che nel dormiveglia accarezzavano le sue parti intime ancora incrostate del piacere suo e di Piero. Quando suonò la sveglia si trascinò in bagno, gli occhi semichiusi si sedette sul water e si lasciò andare a una lunga pipì, poi infilò la vestaglia e in cucina preparò distrattamente la colazione ai ragazzi, mentre Piero, finito di vestirsi, si accingeva alla dura impresa di farli alzare per evitare l’ennesimo ritardo a scuola.

Quando, mezz’ora dopo, rimase sola in casa, salutata da un bacio appassionato del marito che nell’uscire le raccomandò con una strizzatina d’occhio di “fare la brava in metropolitana”, Silvia si buttò sotto la doccia. Poco dopo, nuda davanti allo specchio, si guardò a lungo. L’avventura in metro le aveva acceso un fuoco dentro che ora faticava a controllare, visto che di spegnerlo non esisteva alcuna possibilità. Quella mano che l’aveva sfiorata, quelle parole sussurrate avevano contribuito a farla sentire ancora più donna. Ancora più desiderabile. Ancora più preda.

“Ma che pensieri ti vengono in mente?” provò a chiudere quella barriera mentale che pericolosamente stava debordando nella sua mente, mentre a piedi nudi si dirigeva in stanza per vestirsi. La scelta cadde su culotte bianche estremamente sexy e un reggiseno a balconcino che metteva ancor più in evidenza il suo bel seno. A 43 anni, Silvia si sentiva sempre bella e guardando il suo corpo nel grande specchio dell’armadio, non provò nessun senso di delusione per il tempo che passava. Certo, le gambe forse erano appena più grosse del desiderabile, ma per il resto Silvia sapere di essere una bella donna, dallo sguardo intelligente e vivo, che ogni giorno contribuiva a calamitare l’interesse di molti uomini. Ma anche diverse donne. Nei lunghi anni allo studio pubblicitario in cui lavorava, Silvia aveva dovuto respingere molti assalti, spesso discreti ma a volte anche piuttosto pesanti. Qualche carezza non troppo innocente sul culo nel suo ambiente non era un’esperienza assolutamente imprevedibile, degli strusciamenti mentre ci si spostava tra le varie scrivanie o corridoi, un braccio che sfiorava un seno, un erezione che solleticava un fianco. A seconda dell’interlocutore, ma anche dell’approccio, a volte Silvia aveva dato un po’ corda, vuoi accavallando più spesso del dovuto le gambe che mostravano un bel po’ di coscia, vuoi “dimenticando” di allacciare un bottone della camicetta, così come indugiando un po’ più a lungo del necessario in quei contatti ravvicinati. Ma quelle poche volte che qualcuno aveva tentato di scavalcare quel confine che lei si era auto imposta, era riuscita sempre a rimettere in riga il malcapitato. Anche se, in alcune occasioni, aveva tentennato.

E allora, perché questa volta era diverso? Perché, si chiese, la sera prima sarebbe stata anche disposta a scendere con quel tizio alla fermata se lui glielo avesse ordinato?

All’intimo, seguirono gli abiti per la giornata: una gonna bianca che terminava poco sopra il ginocchio, con un piccolo spacco sul lato sinistro e una camicetta di seta color violetta che metteva in risalto il seno, con una scollatura molto pronunciata interrotta dal primo bottone piazzato ben sotto all’attaccatura del seno. La breve primavera sembrava già essere svanita e anche se era solamente tardo aprile, Milano pareva già essere preda dell’estate. Per i suoi piedini che spesso solleticavano la fantasia maschile scelse un paio di sandali bianchi, tacco 10, caratterizzati da una banda centrale e striscioline verticali che inguainando il piede ne esaltavano la femminilità.

Il solito tragitto in macchina dalla periferia all’inizio della città alla ricerca di un parcheggio, poi la metropolitana, con cambio di treno a Cadorna. Quando la metro si fermò a Bande Nere, Silvia sentì l’agitazione crescerle addosso mentre, provando a ingannare se stessa, provava a vedere se lo sconosciuto della sera prima fosse salito nel suo vagone. Niente. Eppure, fino a quando non arrivò il momento di scendere a Cadorna, rimase sempre con la segreta speranza che il suo sguardo avrebbe incrociato quegli occhi azzurri.

Arrivò in ufficio poco dopo le 9. “Maro’, e che hai combinato questa notte?” la salutò con la sua voce allegra Stefano, uno dei suoi colleghi preferiti. “O devo chiamare Piero per avere dettagli?” scherzò, mentre si infilava nel suo ufficio.

“Meglio di no, o quei pochi capelli che ti ritrovi potrebbero diventare dritti” stette al gioco con una risata. Si sedette alla scrivania, accese il computer. Poi prese il blackberry per fare la prima di una lunga serie di telefonate e vide quel numero impresso come ultima chiamata: 335…… Rimase a guardarlo a lungo, imbambolata, mentre tra le gambe sentiva un calore crescente. Poi, d’impulso, premette il logo Blackberry, fece scorrere la rotellina fino alla voce “Aggiungi alla rubrica”, la selezionò e digitò un nome.

 

 

Continua…

7. La decisione

 

Accadde qualche sera dopo. Silvia era impegnata in un lungo e appassionato pompino al cazzo di Piero, l’asta lucida dalla saliva che l’aveva ricoperta, le labbra avvolte attorno al glande, la lingua che stuzzicava il buchino, un dito che dolcemente massaggiava il culo.

“Lo hai rivisto?” chiese a bruciapelo Piero.

Lì per lì Silvia non capì. “Ghii?” bofonchiò con la bocca piena di cazzo, gli occhi che avevano puntato quelli del marito.

“Quello della metro”.

A Silvia venne quasi un singulto. “Ma che ti viene in mente?” gli rispose bruscamente.

“Niente, ci ho pensato e te l’ho chiesto, tutto qua. Allora, lo hai più rivisto?”.

“No. Anche considerando il calcolo delle probabilità, non sarebbe stato così facile, ti pare?” fece con un tono un po’ seccato.

“Peccato” si lasciò scappare Piero.

“Come peccato?” replicò con il tono un po’ arrabbiato Silvia.

“Peccato, sì. Perché sarebbe stato divertente vedere come sarebbe andata a finire. Sarebbe stato un gioco eccitante, non credi?”

“Da come il tuo cazzo è diventato ancora più duro, direi che per te lo sarebbe stato sicuramente. Ti piace immaginarmi con uno sconosciuto eh?”

“La mia risposta la conosci. Come io conosco la tua”.

E nello stesso istante afferrò con entrambe le mani la testa di Silvia e le infilò il cazzo giù fino in gola, bloccandole la risalita. Quando, una decina di secondi dopo, Silvia cominciò a emettere gesti gutturali e a farsi sfuggire grosse quantità di saliva dalla bocca, Piero tenendola per i capelli risollevò la testa.

“Aaahhhmm ma cos…..” fece in tempo a dire Silvia con un profondo respiro, ma subito dopo la sua bocca venne nuovamente riempita dal bastone di carne del marito, che per i successivi due minuti si divertì a farla soffocare sul suo cazzo. Quando poi anche la sua resistenza venne abbattuto, le schizzò in gola una quantità enorme di seme, lasciando però che gli ultimi schizzi le finissero in faccia, mentre Silvia tra un colpo di tosse e un singulto cercava di riportare un po’ di aria nei suoi poveri polmoni.

“Sei un bastardo…ed è per questo che ti amo” sussurrò Silvia, prima che Piero la attirasse a sé e incominciasse a baciarla e a ripulirle il viso dal suo seme.

Silvia era eccitata. Per il trattamento subito, ma anche per le parole del marito. Perché i pensieri di Piero alla fine erano anche i suoi. Negli ultimi giorni nei suoi viaggi in metro aveva sperato di rincontrare l’uomo e più volte aveva pensato di usare quel numero di telefono che aveva salvato nel suo telefono. Conturbata dalla sua voglia crescente, in metro si era infilata nelle carrozze più piene, aveva sfregato il proprio corpo su quello di sconosciuti, diverse volte le sue natiche avevano fatto compagnia per qualche fermata a un cazzo avvolto in pantaloni sconosciuti, in un’occasione una bella ragazza, sui trent’anni, che le viaggiava di fronte aveva riconosciuto la voglia nei suoi occhi e in maniera quasi sfrontata aveva fatto sì che i loro seni si toccassero e sfregassero a lungo, mentre il ginocchio destro sfregava sulla sua coscia sinistra e quegli occhi verdi non abbandonavano i suoi.

“Se è questo che davvero vuoi…” si scoprì a pensare Silvia, mentre il marito, dopo averla fatta girare e mettere alla pecorina, si preparava a infilarle in cazzo tra le gambe.

“Sei bagnata fradicia, il mio trattamento non deve essere spiaciuto neppure a te” ghignò Piero, mentre con un colpo secco entrava nella sua fica. Il rumore delle palle che sbattevano sul clitoride si confuse con quello di acqua, ogni volta che il cazzo si infilava in profondità. L’aver goduto poco prima salvò Piero, che per una decina di minuti continuò a martellare incessantemente la fica di Silvia, allungandole di tanto in tanto qualche sonoro schiaffo sui glutei e divertendole a martoriare i capezzoli durissimi. La testa nascosta dentro il cuscino, di Silvia si sentivano soltanto i mugolii e le grida soffocate dei continui orgasmi che la squassavano. Quando alla fine Piero si scaricò dentro di lei, si abbatté con tutto il peso sulla sua schiena sudata. Pochi minuti dopo entrambi dormivano pacifici.

 

 

Continua…

8 – La telefonata

 

Stavo cazzeggiando al computer dopo avere chiuso una telefonata noiosa con un ragioniere (non poteva avere studiato nient’altro nella sua vita, ero pronto a scommetterci un mese di stipendio!) che mi aveva spiegato e rispiegato reiteratamente e pedantemente la procedura da seguire per ottenere un rimborso fiscale. Tra i suoi noiosi “bla bla bla” e i miei “si, va bene, grazie…” con i quali speravo di chiudere il più velocemente la telefonata, era trascorso un quarto d’ora che mi aveva lasciato stremato. Così, quando passata una manciata di minuti il cellulare tornò a squillare, ebbi un profondo moto di fastidio. Il numero che appariva sul visore mi era del tutto sconosciuto, stavo quasi per lasciar perdere, quando più per educazione e un pizzico di curiosità che altro schiacciai il tasto verde.

“Pronto?”

… silenzio

“Pronto?”

“Sì, sì, ci sono, scusi…” rispose una voce femminile piuttosto imbarazzata.

Un altro attimo di silenzio poi…”Io… sono pronta”.

“Scusi??” risposi, non capendo lì per lì a cosa si stesse riferendo.

“Io sono pronta” ripeté questa volta con la voce un po’ più sicura. “L’altra sera nella metro lei ha scritto il suo numero sul mio telefonino e mi ha detto di chiamare quando sarei stata pronta. Ecco, io, io credo di esserlo” chiuse con la voce che si era nuovamente incrinata nella sua sicurezza.

In un microsecondo la sua immagine tornò ad accendersi nella mia mente. Quelle gambe arrampicate sui tacchi, il suo piede che giocava sulla mia gamba, la mia mano che la accarezzava mentre lei parlava al telefono, le mie parole. E poi l’offerta in metropolitana. In quel momento sarei stato sicuro che avrebbe accettato, ma visto che dopo qualche giorno non avevo ricevuto nessuna telefonata mi ero detto che la mia sarebbe rimasta solo una bella, e indecente fantasia. Invece…

Le diedi velocemente un indirizzo. “Ti aspetto alle 17. Non un minuto prima, non un minuto dopo”.

E prima che avesse tempo di replicare, chiusi la conversazione.

La giornata decisamente aveva imboccato una prospettiva interessante.

 

Continua…

9 – L’appuntamento

 

Per qualche minuto Silvia fece fatica a respirare. Lo aveva fatto. Aveva chiamato lo sconosciuto della metro, come cento volte aveva pensato di fare e come cento volte si era bloccata dandosi della matta. Però l’ultima notte con Piero aveva lasciato il segno e soprattutto quella voglia crescente che sentiva montare dentro di lei alla fine aveva tracimato i suoi argini.

E così quel mattino, spediti i figli a scuola e salutato Piero con un nervosismo che le era sconosciuto, mentre si preparava per il lavoro aveva preso la decisione. Aveva infilato un completino bianco molto sensuale, e visto che il caldo aveva deciso di non rompere l’assedio alla città, aveva scelto dall’armadio un vestitino, anch’esso bianco, di lino. Sulla pelle già un po’ accaldata anche pochi minuti dopo la doccia dava un senso di rassicurante leggerezza e frescura, mentre la trasparenza del tessuto permetteva a chiunque di vedere, ma non troppo, che cosa si celasse sotto l’abito. Allacciò tutti i bottoni, meno gli ultimi due dal basso e altrettanti all’altezza dei seni. Così, a ogni passo una bella porzione della sua coscia sarebbe stata visibile a chi ne avesse incrociato il cammino, mentre anche la forma del seno avrebbe catturato più di uno sguardo.

Ai piedi, quasi a voler creare un legame con quello che era avvenuto quella notte e quello che si apprestava a fare, rimise le scarpe di quella sera, il tacco 12 che le dava uno slancio e contribuiva a mettere in risalto le forme del suo sedere. Quando allacciò il cinturino alla caviglia provò un brivido di piacere, come se quel semplice gesto di unire i due lembi di cuoio significasse attraversare e chiudere una porta che si era improvvisamente aperta nella sua vita.

In macchina si trovò a respirare pesantemente, mentre avanzava a rilento nel traffico.

“Lo hai voluto tu” rivolse un messaggio mentale di sfida a Piero, come per incolparlo di quello che si apprestava a fare, ma in realtà Silvia sapeva che l’unica colpevole di questa situazione era lei.

Prese il blackberry, collegò l’auricolare, schiacciò la lettera A e subito un elenco di nomi le apparve sotto gli occhi. Con la rotella ne scrollò un po’, finché si fermò su quel APRENDO che si era inventata al momento di memorizzare il numero. Un’anagramma nato dal tono fermo e che non ammetteva repliche con il quale quell’uomo le aveva parlato nella metro e che, rifletté ora con un sorriso, non avrebbe potuto essere più azzeccato. Stava aprendo la porta su un mondo nuovo, un mondo del quale, in questo momento, non sapeva assolutamente cosa aspettarsi.

Un ragazzo in moto si affiancò al semaforo e senza nessun imbarazzo prese a guardarle le gambe, ampiamente scoperte dallo spacco. Lei lo guardò e per un momento fu tentata di sistemare il lembo del tessuto e mandarlo a quel paese. Invece, stupendosi un po’, allargò ancora un po’ le gambe, gli rivolse uno sguardo di sfida e mentre il semaforo passava dal rosso al verde accelerò. Pochi minuti dopo riuscì a trovare un parcheggio non troppo lontano dalla stazione della metro, spense la macchina, fece un respiro profondo e schiacciò il pulsante di chiamata.

Quando il telefono cominciò a squillare, si ritrovò a sperare che all’altro capo non rispondesse nessuno. Stava per riattaccare, quando sentì una voce.

“Pronto?”

Terrorizzata, Silvia rimase in silenzio.

“Pronto?” fece ancora la voce, con un tono leggermente spazientito.

“Sì, sì, ci sono, scusi…” si affrettò questa volta a rispondere Silvia, il tono imbarazzato.

Lasciò trascorrere un altro attimo, poi…”Io… sono pronta”.

“Scusi??” il tono era piuttosto perplesso.

“Io sono pronta” ripeté Silvia, cercando di sembrare molto più sicura di quanto non fosse effettivamente. “L’altra sera nella metro lei ha scritto il suo numero sul mio telefonino e mi ha detto di chiamare quando sarei stata pronta. Ecco, io, io credo di esserlo” buttò fuori tutto d’un fiato, maledicendosi mille volte per avere telefonato, ma al tempo stesso felice di essersi liberata di un macigno che negli ultimi giorni la stava soffocando.

La voce, che adesso aveva capito chi lei fosse, risuonò nelle sue orecchie. “Via Xxx 25, componi il numero 1713. Prendi l’ascensore fino al 4° piano, seconda porta sulla sinistra. Ti aspetto alle 17. Non un minuto prima, non un minuto dopo”.

Quando Silvia rispose con un flebile “Ma…ma…” si accorse di parlare solo con se stessa. L’uomo aveva già riagganciato.

La giornata al lavoro fu infinita. Silvia cercò di concentrarsi su un progetto che stava portando avanti da diversi mesi, ma ogni due per tre la testa correva a quella telefonata, a quell’indirizzo, a quello che sarebbe successo alle 17. Si ripeté un milione di volte che non ci sarebbe andata, ma ogni volta la sua convinzione diventava sempre più debole. Si maledì per avere scelto quel vestito troppo leggero che non lasciava troppo spazio alla fantasia e soprattutto per avere scelto di indossare ancora le scarpe di quella sera. “È come se si presentassi a una festa nelle vesti di agnello sacrificale: prego, eccomi qua, macellatemi” si disse. Sapendo che comunque era esattamente quello che sarebbe successo.

Uscì dal lavoro alle 16.15. Uno dei vantaggi della sua posizione era quello di non essere assoggettata a orari rigidi. Su Internet aveva guardato dove fosse l’indirizzo e decise che avrebbe preso la metro. “Sono anche troppo nervosa per guidare, rischierei un incidente” si disse. Nei sotterranei di Milano si sentì gli occhi puntati addosso, del resto il vestito aggiungeva bellezza a un corpo già bello e l’intimo bianco risaltava agli occhi.

“Se solo sapessero dove sto andando e cosa sto per fare” si ripeté più volte mentre per evitare il contatto diretto con gli atri passeggeri puntava lo sguardo a terra. Scese in Centrale e si diresse verso la linea gialla, scatenando sguardi ammiccanti al suo passaggio. L’ora di punta si stava avvicinando e la calca era aumentata. Oltre agli odori di una lunga giornata passata in ufficio, a spostarsi per la città a essere sempre indaffarati per un qualsiasi motivo. Nelle cinque fermate che seguirono il suo corpo entrò a contatto con quelli di sconosciuti che condividevano i pochi centimetri quadrati di spazio all’interno del vagone, contribuendo ad aumentare la sua eccitazione. Una mano eccessivamente audace che le massaggiò per due fermate il culo, prima che lei riuscisse a crearsi uno spazio più sicuro, le fece aumentare a dismisura la voglia.

E finalmente, dopo avere camminato un paio di minuti, davanti a lei il portone che gli aveva indicato la voce. Erano le 16.55 e quegli ultimi 5 minuti sembrarono non passare mai, con Silvia combattuta tra il fuggire da quella strada e il desiderio lancinante di entrare tra quelle mura. Nel momento in cui il suo blackberry scattò sulle 17, Silvia compose il numero 1713. Un attimo dopo sentì il “clack” che sbloccava la serratura.

L’atrio fresco le fece venire i brividi sulla pelle, sentì i capezzoli indurirsi. La portineria era deserta, lei si diresse verso l’ascensore, uno di quei vecchi modelli a grata che permettevano di vedere chi saliva o scendeva. Quando la cabina arrivò con una lentezza irritante, Silvia schiacciò il tasto 4, quindi iniziò la sua ascesa verso… “Verso l’inferno o il paradiso?” si chiese in silenzio Silvia.

Quando la cabina terminò la salita, Silvia, le mani sudate e tremanti, pasticciò con il meccanismo di apertura ma finalmente sbucò sul corridoio.

Si avvicinò alla seconda porta a sinistra, la trovò socchiusa. “È la tua ultima occasione di cambiare strada” urlò una voce dentro di lei. Aprì la porta, entrò nel silenzio, il suono che fece quando si richiuse le fece balzare il cuore in gola. Davanti a lei un ingresso sembrava portare verso quello che doveva essere il soggiorno. I tacchi risuonarono sulle piastrelle lucenti mentre si avvicinava alla porta. Di fronte a lei, quasi all’opposto del grande salone, lui era seduto in poltrona.

 

…continua

10. Nuda

 

Era stata puntualissima e già questo deponeva a suo favore. Quando il campanello di casa suonò, aprii il cancello, socchiusi la porta e mi misi comodo in poltrona ad aspettare. Un minuto dopo sentii la cancellata dell’ascensore che si chiudeva, quindi il suono di un tacco che si posava sulle piastrelle dell’ingresso. Passarono solo pochi secondi da quando sentii anche lo scatto della porta che si chiudeva e il cauto avanzare di quei tacchi. Quando finalmente la sua figura prese possesso dello spazio vuoto nel vano della porta, l’unico movimento che feci fu quello di portarmi alla bocca il bicchiere di cognac che mi ero servito. Un breve sorso, poi, posatolo di nuovo sul bracciolo, rimasi immobile a osservarla. Era bella e affascinante come me la ricordavo, anche se questa volta lo sguardo non era così sicuro come quella sera nella metro. Il vestitino che indossava, poi, era perfetto: semplice ma sexy, con quella leggerezza estiva che permetteva agli occhi di disegnare la forma del corpo in controluce. E poi, ad aggiungere la ciliegina, le scarpe che per prime avevano attirato il mio sguardo quella sera.

Imbarazzata, incerta, persino un po’ paurosa, la donna dopo avere mosso un solo passo all’interno della stanza si era fatta immobile. In quel lungo minuto che seguì, mentre nessuno dei due osava spezzare il silenzio, l’unico suono che si amplificava era quello della vecchia pendola nell’angolo della sala. Mentre lei non sapeva cosa fare, io aspettavo…

 

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Era interdetta. Dal momento in cui aveva varcato la soglia del salone e aveva visto l’uomo seduto nella poltrona, immobile se non per il gesto di bere quello che sembrò essere del cognac o del whisky, Silvia non sapeva come comportarsi. Nelle fantasie che l’avevano accompagnata fino a quella casa, si era immaginata un’evoluzione diversa dei fatti: presa, braccata, denudata non appena avesse fatto un passo oltre la soglia. Invece era lì, ferma in quel salone, davanti a quell’uomo il cui sguardo profondo sembrava entrare nel profondo della sua anima.

“Buon…” provò a rompere il ghiaccio, ma l’indice che si posò sulle labbra dell’uomo le mozzò il resto della parola in gola.

Passò un minuto buono, che sembrò infinito, scandito dal ritmo lento e antico del vecchio orologio alla sua sinistra. Provò a muovere un passo verso l’uomo, ma ancora una volta un gesto fermo della mano le impose di fermarsi. “E ora cosa faccio”? si chiese Silvia, sempre più angosciata da questa impasse assolutamente imprevista. “Non posso parlare, non posso muovermi, cosa cavolo vuole”? si tormentò.

Poi, mentre cercava una soluzione, si ricordò di quella frase: “Mi sto chiedendo come saresti vestita solo di queste scarpe”. Inghiottì un po’ di saliva, fece un respiro profondo. “Del resto sapevi che quando saresti venuta qui sarebbe stato per essere scopata no? O pensavi che ti avrebbe invitata per una partita a carte” si arrese. Con la mano abbandonò la borsetta per terra al suo fianco. Poi, lentamente, con gesti che le costavano una fatica immane, gli occhi piantati in quelli dell’uomo, cominciò, dall’alto verso il basso, a sbottonare uno a uno i bottoni del vestito. Le mani tremanti per il nervoso ma anche per un’eccitazione crescente, Silvia sciolse tutti e sei i bottoni poi, afferrati i lembi del vestito, lo aprì lentamente, mettendo in mostra il suo corpo, ora protetto solo da mutandine e reggiseno. La pelle sudata, i capezzoli duri sotto il reggiseno, la pelle d’oca che le regalò un tremito improvviso, Silvia fece cadere il vestito.

L’uomo era rimasto immobile, come se quello fosse uno spettacolo che lo lasciava del tutto indifferente, ma i suoi occhi non seppero nascondere un guizzo quando le mani di Silvia si piegarono dietro la schiena per liberare i fermagli del reggiseno. Dopo un attimo che le parve durare un’eternità, Silvia scrollò le spalline e con un gesto pudico fece scivolare a terra anche il reggiseno.

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Aveva capito cosa volessi, e fu davvero difficile riuscire a mantenere il viso impassibile, mentre le sue mani armeggiavano con i bottoni e svelavano ai miei occhi sempre più del suo corpo. Il vestito scivolò a terra, lei fu scossa da un brivido, il mio corpo reagì: sentivo il cazzo premere sotto la stoffa dei pantaloni e il respiro aumentare. Aveva buon gusto nel vestire, il completo intimo che indossava me lo confermò, mentre lentamente le sue mani sparirono dietro la schiena e andarono a sciogliere il reggiseno. Quando anche il pezzo di stoffa raggiunse il vestito ai suoi piedi, le sue mani salirono a coprire i seni in un gesto di istintiva pudicizia. Bastò però scorrere in modo quasi impercettibile la testa per far sì che le mani andassero a posarsi lungo i fianchi.

I seni, una terza misura abbondante, ondeggiavano lievemente al ritmo di un respiro sempre più affannoso. Sodi, alla francese, con i capezzoli che puntavano leggermente verso l’alto, resistevano con lode alla lotta con la forza di gravità. I capezzoli, lunghi, grossi, appuntiti, risaltavano sulla pelle bianca. Immaginai mille modi di dolci (e meno dolci) torture a quelli che ritenevo tra i punti più desiderabili di una donna, mentre  i pollici si infilavano ai lati delle mutandine e lentamente iniziarono a liberare anche l’ultimo ostacolo che ancora si frapponeva tra il suo corpo e i miei occhi. Apparve una strisciolina bruna di pelo, ben curata, all’altezza del monte di Venere, quindi due labbra rigonfie e, lo potevo vedere anche a quella distanza, bagnate di piacere. Con un movimento che mi stupì piacevolmente, la donna calò le mutandine fino alle caviglie, mantenendo le gambe perfettamente dritte e piegando verso di me il busto, cosa che mi permise di apprezzare ancor di più il seno. Arrivata all’altezza delle caviglie, sollevò prima una, poi l’altra gamba, gettò gli slippini da un lato e si rialzò. Maestosa.

“Vi eravate chiesto come sarei stata vestita solo delle mie scarpe. Spero che la visione sia di Vostro gradimento” disse mentre mi fissava fiera negli occhi.

Mi alzai e lentamente mi portai davanti a lei. A pochi centimetri dal suo viso l’eccitazione era ancora più palpabile, quei capezzoli ferrei mi facevano voglia di chinarmi verso di lei, prenderne uno in bocca e mordere fino a sentirla gridare. Mi chinai e raccolsi vestito, mutandine e reggiseno. “Sei eccitata come una cagna” le sussurrai guardandola negli occhi, mentre mi portavo gli slip al naso. Aveva un buon odore.

Feci un passo indietro. “Girati. Piano” ordinai. Lentamente voltò su se stessa in un 360° che mi permise di apprezzare un culo ben proporzionato, sodo, probabilmente frutto di costanti esercizi in palestra. Quando il suo sguardo tornò a incrociare il mio, allungai la mano sinistra, strinsi forte il capezzolo destro e indietreggiando la trascinai con me verso il centro della sala.

 

…continua

11. Le quattro regole

 

Le dita che stringevano il capezzolo dovevano sicuramente causarle del dolore, ma la donna non pronunciò alcun suono mentre i suoi passi mi seguivano nel salone.

“Come ti chiami?”

“Silvia”.

Uno schiaffo la colpì sulla guancia sinistra.

“Come ti chiami?”

“Si..Silvia, Signore”

“Impari velocemente, brava”.

Lasciai il capezzolo, non prima di averlo strizzato e torto ancora un po’. Dalle labbra semichiuse le scappò un gemito.

“Regola numero 1: ogni volta che tu entrerai in questo appartamento o dovunque tu mi incontrerai, non appena oltrepassata la soglia d’ingresso dovrai spogliarti. Questo a meno che io non ti abbia istruito altrimenti. Capito?”

Gli occhi spaventati, Silvia annuì. “Sì, Signore”.

“Regola numero 2: quando ti presenti davanti a me dovrai divaricare le gambe – e così facendo infilai un piedi tra i suoi e glieli allargai un po’ più del necessario – e intrecciare le mani dietro alla nuca”.

Senza che intervenissi, Silvia sollevò le braccia. “Sì, Signore”. I suoi seni si alzarono lievemente, lo stomaco si contrasse. Era ancora più desiderabile.

“Regola numero 3: quando ti verrà ordinato di farti ispezionare, dovrai mantenere le gambe in questa stessa posizione e afferrare le caviglie con le mani.”

“Sì, Signore”. Feci un passo indietro, mentre Silvia cambiava posizione. I capelli le coprirono il volto, lasciando la nuca libera. Lentamente girai intorno a lei. Quando la mia mano si posò sulla schiena, sentii un brivido scuoterla. Scivolando con il dito indice lungo la colonna vertebrale, arrivai all’osso sacro e proseguii. Forzando leggermente, infilai il dito tra le natiche, indugiai appena un attimo all’altezza del buchino, che mi apparve umido, proseguì fino a sentire il calore e soprattutto il lago che le colava tra le labbra.

“Ti piace, vero?” le sussurrai con un tono suadente.

“Mmmm sì…” la risposta uscì strozzata.

Un secondo dopo, una potente sberla sul culo le fece perdere l’equilibrio e Silvia si ritrovò sdraiata sul pavimento. Mentre provava a rialzarsi, posai un piede sulla sua testa, obbligandola a restare bocconi.

“Te lo dico per la prima e ultima volta. Ogniqualvolta ti rivolgerò la parola e tu sarai chiamata a rispondere, a conclusione di ogni frase ti sarei grato se ti rivolgessi a me come merito. Mi sono spiegato?”

“Sssì, sìì, Signore. Mi scusi, Signore”.

“Bene. Ispezione”.

Scattò velocemente in ginocchio e un attimo dopo era di nuovo in posizione, le tette che puntavano verso il basso, le gamba oscenamente allargate, le mani serrate attorno alle caviglie, culo e fica esposti al mio sguardo e alle mie mani. Il rosso della sberla spiccava sul gluteo destro. Aveva una pelle bianca e delicata, i segni avrebbero ornato facilmente il suo corpo.

Infilai due dita nella sua fica. Calda, fradicia, se possibile ancora più bagnata di pochi minuti prima.

“Ti piace?” ripetei la domanda.

“Sì, sì, Signore”.

Estrassi le dita e andai alla ricerca del clitoride. Lo trovai subito. Gonfio, grosso. Sensibile. Quando lo schiacciai tra le dita, Silvia sembrò sul punto di perdere l’equilibrio, mentre un mugolo le usciva dalle labbra.

“Guai a te se ti muovi”.

Estrassi le dita, il suo piacere le aveva ricoperte di una sorta di bava bianca. Le portai alla bocca, le assaggiai. Aveva un buon sapore.

“Regola numero 4 – ripresi mentre mi riportavo davanti a lei -: in posizione di riposo devi accucciarti ai miei piedi, le piante dei piedi rivolte verso l’alto, le mani dietro la schiena, la schiena dritta. E guai a te se guardi negli occhi senza permesso”.

Ubbidiente, osservai Silvia assumere la posizione. Non resistetti, mi avvicinai e le infilai in bocca le dita pregne del suo sapore. “Pulisci bene, cagnolina”. La sua bocca si aprì, la sua lingua morbida avviluppò le dita e con movimenti lenti e sensuali cominciò a leccare.

Poi, presi le mutandine, le appallottolai e gliele infilai in bocca. Quindi mi inchinai e presi entrambi i capezzoli tra le dita. “Non voglio sentire un suono” intimai. Durissimi, mi divertii a strizzarli, tirandoli verso di me, mentre i suoi occhi si velavano di lacrime. “Non avrei mai pensato che avrei avuto questa bella sorpresa. Guarda come sono duri. Sono sensibili?”

La testa di Silvia andò su e giù.

“E ti piace quello che ti sto facendo?” chiesi mentre davo una nuova torsione a entrambi.

“Mhhhmm….” le scappò, mentre la testa mandava un segnale di diniego.

“Ah no? Che peccato. Perché a me piace molto invece. Ma tu però sei contenta se a me piace, vero?”. Una lacrima scese lungo lo zigomo, mentre la testa tornava a fare su e giù.

“Brava la mia cagnolina” le dissi, liberando le sue ciliegine dalla morsa e asciugando la lacrima con il dorso dell’indice. Poi le accarezzai dolcemente la testa, mi abbassai e le sfiorai una guancia con un bacio. Quindi le feci aprire la bocca e tolsi le mutandine.

Mi guardò con un sorriso riconoscente, mentre io tornavo a sedermi in poltrona.

“Presentazione” comandai, e lei dopo un secondo di stupore scattò ad assumere la posizione.

“Risposo”. Di nuovo tornò in ginocchio.

“Ispezione”. Davanti agli occhi mi trovai il panorama di culo e fica luccicanti di piacere.

Continuai per una decina di minuti, fino a quando il suo corpo si ricoprì di una patina di sudore.

“Hai sete?” le domandai.

“Sì, Signore, grazie”.

“Riposo” comandai, mentre mi alzavo per andare in cucina a prendere un bicchiere e una bottiglia d’acqua.

Quando tornai nel salone, la trovai accucciata al fianco della mia poltrona.

Avvicinai il bicchiere alla sua bocca e la abbeverai, mentre qualche piccolo rivolo scappava dalle sue labbra e scivolava lungo il collo, lungo i seni, per poi riunirsi e sparire nell’incavo delle sue cosce.

Poi , tenendola per i capelli, la riportai al centro del salone e la feci salire su un tavolino di cristallo che avevo sgombrato poco prima del suo arrivo.

“Sali e mettiti a quattro zampe”. Ubbidì.

Riempii nuovamente il bicchiere quasi fino all’orlo e lo posizionai sulla sua schiena.

“Se versi anche una sola goccia, sarai punita” le dissi.

 

…continua

 

12 – Il nome

 

Il freddo del vetro sulla schiena, la posizione a quattro zampe sul tavolino, l’ordine di rimanere immobile. Silvia stava sperimentando sensazioni nuove. “Stupida! Ma chi me l’ha fatto fare?”. Per l’ennesima volta si ripeté la domanda. Conoscendo però perfettamente la risposta. Perché se una parte di lei in quel momento provava a ribellarsi a una situazione per certi versi completamente assurda, ce n’era un’altra, preponderante, che invece la stregava. Inutile mentire con se stessi. Per quanto umiliante fosse quello scenario, nonostante le parole che aveva sentito, i comportamenti subiti, gli ordini ricevuti, Silvia sentiva crescere dentro di sé uno sconvolgimento emotivo mai provato. Con Piero aveva “giocato” diverse volte a schiava e padrone, a parole si erano eccitati raccontandosi scene simili, lui era arrivato a legarla al letto e a usarla per il proprio piacere, ma Silvia aveva sempre pensato che tutto ciò sarebbe sempre rimasto confinato alle mura della loro stanza da letto e a loro due. Invece ora…

“E adesso cosa succederà?” pensò Silvia, il cuore che batteva forte, aspettando il ritorno dell’uomo, che le sembrava fosse uscito dal salone. Abbassò lo sguardo: il cristallo le restituì un’immagine tanto perversa quanto seducente. I capelli che scivolavano ai lati della testa, i seni puntati verso il basso, con quei capezzoli enormi che sembravano incapaci di ritornare in una posizione di normalità, le gambe aperte che mostravano nel riflesso la fica umida. “Se Piero mi vedesse ora…” pensò Silvia.

 

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Tornai nel salone facendo attenzione a non fare rumore. Davanti agli occhi mi apparve quel culo sul quale avevo fantasticato spesso negli ultimi giorni. Dalla fantasia alla realtà, il passo era stato molto più breve di quello che mi sarei aspettato. Le ginocchia divaricate permettevano di ammirare quelle forme così invitanti. Le labbra della fica facevano bella mostra di sé, ma il culo sodo permetteva anche una bella visione del suo buco posteriore. Che a un primo esame visivo non sembrava neppure essere troppo vergine.

“Tuo marito ti scopa nel culo?” le chiesi a bruciapelo.

Un sobbalzo di spavento la scosse, l’acqua nel bicchiere minacciò di debordare, ma alla fine non mi concesse la soddisfazione di avere subito una scusa per punirla. Ma contavo di rifarmi molto presto.

“Sì,a volte, Signore”.

“E ti piace?”

“Sì, Signore”.

Allungai il cane che tenevo in mano. L’estremità flessibile di bambù andò a solleticare la rosellina.

“Hmmmm” si lasciò scappare di bocca, mentre la punta allargava leggermente il buchetto non ancora lubrificato quel tanto da regalarle un misto tra fastidio e piacere.

“Perché hai deciso di chiamarmi? E soprattutto, perché ci hai impiegato tanto?” la incalzai, mentre intanto il bastone dal culo si era abbassato alla fica. Le labbra grosse, carnose, lo ingoiarono quasi ingorde, mentre la punta si spingeva leggermente in alto alla ricerca del clitoride. Quando lo trovai, l’acqua nel bicchiere ebbe un altro pericoloso scuotimento.

“Ti ho detto di non muoverti, altrimenti…” la minacciai, senza però diminuire la pressione sul suo bottoncino sempre più sensibile.

“Ooohhmm..ci ho pensato tanto, tantissimo, in…oddio, la prego… queste due settimane, Signore. Tante volte sono stata sul punto di chiamare, aprivo il telefono, digitavo il nome e…”

“Sono curioso, con che nome mi avresti salvato nella tua rubrica?”

“Aprendo, Signore”.

“Aprendo?”

Passarono un paio di secondi e quando la lampadina si accese nel mio cervello scoppiai a ridere.

“Mi piace, lo trovo geniale, davvero geniale. E quindi era così che già mi pensavi? Che mi immaginavi? Che mi volevi?”

Tolsi il cane dalle sue labbra e mi portai davanti a lei. Prima che mi potesse rispondere, mi inginocchiai e la baciai. La sua bocca era già aperta, le sue labbra morbide e calde accolsero le mie, la sua lingua si intrecciò a quella che le offrivo. Per un minuto fu solo cercarsi, scoprirsi, annullarsi l’uno nel bacio dell’altra.

“Baci bene, un altro punto a tuo vantaggio – dissi mentre mi rialzavo e la mano si perdeva nei suoi capelli -. Però non abituarti troppo bene, non sono sempre così buono”. E le afferrai un capezzolo, stringendolo, mentre si lasciava scappare un lamento animalesco.

“Per par condicio, comunque, se tu hai dato un nome a me, io dovrò darne uno a te, non credi?”

“Sì, Signore”.

“Oggi sono buono e democratico: tu cosa sceglieresti? Hai qualche idea?”

“Nessuna, Signore” rispose dopo qualche secondo in silenzio.

“Nessuna? Mmmmmh, non so. Non rende completamente quello che…”

“Intendevo dire che non ho nessuna idea”.

Il sibilo echeggiò nell’aria, sostituito dal colpo secco che la raggiunse sul culo.

“Aaahia” urlò Silvia, forse più per la sorpresa che per il dolore reale.

“Ti avevo avvertita, non devi parlare senza essere interpellata. O sbaglio?”

“Sì…cioè no, non sbaglia, Signore. Mi scusi, Signore”.

Un altro sibilo, un’altra stilettata si impresse sul suo fondoschiena.

“Scuse accettate”.

Le girai intorno, mi avvicinai al suo orecchio.

“Sefa – le sussurrai -. Ecco il tuo nome. Sai cosa significa? È una parola turca, vuol dire piacere. Perché tu da adesso ti adopererai, ti concederai, ti farai usare per il piacere. Il mio, s’intende”.

Le infilai una mano tra le gambe, due dita penetrarono la fica. Era, se possibile, ancora più fradicia. Le tolsi e le portai alla sua bocca.

“Lecca Sefa, fammi vedere come sei brava a usare questa bella lingua”.

Come se fosse impazzita, Silvia aprì la bocca e ingoiò le dita, lappandole con ingordigia, avvolgendole con la lingua, leccando ogni traccia dei propri umori. Gliele infilai in profondità, fino a oltrepassare le tonsille, giù fino all’imbocco della trachea. Fu scossa da un conato mentre tentava di respirare, ma non mi feci impietosire.

“E adesso rispondi alla domanda iniziale: cosa ti ha spinto a chiamarmi?”

 

…continua

13 – Strada senza ritorno

 

Il respiro corto, segni di perspirazione sulla schiena lucida, il cristallo del tavolino testimone del piacere che colava dalla fica, Silvia riprese…

“Con mio marito Piero ci siamo spesso confessati le reciproche fantasie, Signore: situazioni oscene, scenari che regalavano a entrambi tanta eccitazione. In qualche occasione siamo stati tentati di andare in un privé, così come di invitare delle coppie di amici o dei ragazzi che sapevamo la pensassero come noi e che ci piacevano. Ma alla fine non abbiamo mai concluso niente e tutto è sempre rimasto legato a parole che potessero comunque tenere accesa la nostra unione”.

“E con me, invece, cos’è cambiato?”

“Non lo so spiegare bene, Signore, ma il Suo modo di fare sicuro, non volgare, quella mano che mi aveva accarezzato la gamba mentre aspettavamo la metro. In quel gesto c’era qualcosa di reale, di certo, di assoluto, che non lasciava spazio alcuno a repliche. Come se Lei sapesse di avere il diritto di farlo e io invece il dovere di accettare quella situazione. E se Lei quella sera mi avesse chiesto di scendere alla Sua stazione io l’avrei seguita senza obiettare alcunché, senza pensare a Piero che mi aspettava a casa, senza preoccuparmi della cena dei ragazzi. È stato qualcosa di sconvolgente, una scossa che dalla Sua mano si è dipanata a velocità impressionante attraverso il mio corpo, passando per la mia fica, che si è bagnata immediatamente, e arrivando fino al cervello, che è stato soggiogato da quella situazione. Ero talmente imbambolata che quella sera ho mancato la fermata e quando camminavo sul marciapiede deserto sentivo la mia fica pulsare, ho quasi sognato che uno sconosciuto saltasse fuori da un angolo buio e mi prendesse lì sulla strada”.

“Per scopare bene, bisogna innanzitutto scopare il cervello. Rende tutto diverso. E migliore. Continua”.

“Quando sono arrivata alla macchina avevo un lago tra le gambe, avevo voglia di sesso duro, cattivo, sporco. Ho iniziato a masturbarmi furiosamente e a massacrarmi un capezzolo,  fino a quando un gruppo di ragazzi mi ha sorpresa e ha iniziato a insultarmi. In quel momento ho avuto paura e sono scappata”.

“E magari nei giorni successivi ti sei immaginata la scena con esiti differenti, vero?” le dissi mentre la mia mano trovava il suo capezzolo. Lo avevo scoperto da appena un’ora e già lo amavo. Non so da dove derivasse questa mia fascinazione, ma da sempre i capezzoli di una donna riescono a tirare fuori la mia peggiore perversione. Strizzarlo, contorcerlo, tirarlo, far male… a volte mi assaliva la voglia di morderlo così forte da strapparlo, per poi masticarlo con gran gaudio. Le facevo male, ma aldilà di qualche grugnito animale e a un accenno di iperventilazione per provare a resistere meglio, la mia fresca schiavetta non si arrese.

“Sì, Signore, mi sono immaginata che quei ragazzi aprivano le porte della macchina e mi usavano, ho immaginato la lingua del cane del mio vicino…”

“Il cane? Il vicino?”

“Sì, quando arrivai a casa incrociai il mio vicino non vedente e nell’ascensore il suo cane sentì il mio odore e provò a infilare il muso sotto la gonna, riuscendo però solo a leccarmi un po’ la mano e le cose”.

“Cane buongustaio” risi.

“Poi la notte, dopo cena, a Piero raccontai tutto quello che era successo”.

“E lui come reagì?”

“Aveva finito di scoparmi da poco, ma mentre raccontavo gli accarezzavo il cazzo e in pochi minuti era più duro di prima. Non ci volle molto perché mi sistemassi sopra di lui, impalata a fondo, mentre lui mi strappava i capezzoli e mi insultava di essere una puttana. L’esplosione di entrambi è stata sconvolgente”.

“Quindi a tuo marito piacerebbe vederti con un altro uomo?”

“È una sua fantasia, sì Signore, anche se non so come poi potrebbe effettivamente reagire nella realtà”.

“E a te piacerebbe farti guardare da lui?”

“Rispondo per quello che sento adesso, Signore: da impazzire”.

“È per questo che mi hai chiamato?”

“A dir la verità, è stato Piero ieri sera che mi ha chiesto se il caso mi avesse portato a rincontrarla nella metro. Quando gli ho detto di no, la sua risposta è stata secca: Peccato! Poi mi ha scopata ancora mentre lo eccitavo chiedendogli se gli sarebbe piaciuto vedermi nuda davanti a Lei. È stato in quel momento che ho deciso che avrei chiamato per davvero”.

“Non gli avevi detto che ti avevo lasciato il numero di telefono?

“No, Signore”.

“Perché?”

“Perché io stessa non sapevo cosa avrei fatto, Signore. Io con Piero sono felice, ho una famiglia perfetta, non voglio buttare tutto all’aria solo per una scopata, Signore”.

“E adesso cos’è cambiato in questo senso?”

“Nulla. Non rischierò la mia famiglia, Signore”.

“Però sei qui”.

“Sì, Signore, è stata una sorta di sfida a Piero, come per fargli vedere che sarei stata capace di andare a fondo”.

“Oh, che tu ne sarai capace non ne ho alcun dubbio”.

Mi portai alle sue spalle, mi inginocchiai, infilai la lingua tra le sue gambe. Aveva un sapore fantastico ed era così calda che le sue labbra quasi mi scottarono la lingua. Era una donna eccitante, intrigante, femmina. Avessi potuto, mi sarei battuto una mano sulla spalla in segno di autocompiacimento per la mia fortuna.

Silvia iniziò a gemere mentre la mia lingua scavava nella sua fica.

“Non godere Sefa, o lo rimpiangerai a lungo” la ammonii in una pausa. Faceva fatica a resistere, anche perché, modestamente, con la lingua ci sapevo fare. E questa donna che si era presentata in casa mia pronta a gettarsi ai miei piedi rappresentava qualcosa a cui diventava davvero difficile resistere. Mi staccai a malincuore, ma dovevo vedere fino a che punto era disposta ad andare.

Presi la borsa, la aprì, trovai il cellulare, in silenzio mi spogliai e tornai davanti al suo volto. Quando i suoi occhi incontrarono il mio cazzo già duro ebbe un sussulto di sorpresa.

“Ti piace?”

“Sì, Signore, molto” rispose dopo un lungo silenzio, il volto in fiamme.

Lentamente iniziai a massaggiarmelo, la cappella appariva e spariva a pochissimi centimetri dalla sua bocca. Sentiva l’odore, vedeva la cappella bagnata. Inconsciamente, la sua bocca si aprì leggermente. Aveva voglia di assaggiarlo, ma non osava chiederlo. Poi, però, vide anche il suo telefono nella mia mano. Gli occhi mi lanciarono uno sguardo fatto di panico.

“Stai tranquilla – la rassicurai -, non giocherò con la tua vita privata, non ti farò correre il rischio di pregiudicarla, però venendo qui oggi, hai fatto una scelta. E siccome nessuno ti ha obbligata a farlo, è giusto che tu sia cosciente delle conseguenze. E se hai deciso di giocare, dovrai farlo alle mie regole, non le tue. Hai detto che hai reagito alla frase di tuo marito. Bene, adesso lo chiamerai e gli dirai dove sei. Con che nome hai salvato il suo cellulare?”

La voce tremante, il respiro che sembrava incespicare su mille paure, rispose un flebile “Piero, Signore”.

Chiamai, poi le misi il telefono vicino all’orecchio. Trascorsero pochi secondi che a lei dovettero sembrare un’eternità, poi…

“Ciao Piero… sì sì, tutto bene… no, davvero, sto bene. Volevo solo dirti che l’ho rivisto… quello della metro. Sì lui, adesso sono a casa sua e…”.

Le tolsi il telefono e mentre lo portavo al mio orecchio, contemporaneamente le infilai il cazzo in gola con violenza, mentre con la mano libera avevo artigliato i suoi capelli per non lasciarle scampo.

“Buonasera Piero, alla fine sua moglie ha esaudito il suo desiderio. Non si preoccupi, la tratterò bene, in questo momento non può più parlarle perché ha il mio cazzo sprofondato in gola, ma stia tranquillo, per le 23 la faccio tornare a casa, lei le prepari un bagno caldo. Buonasera”.

Chiusi il telefonino, lo gettai sul divano, afferrai i capelli anche con la seconda mano e mentre dalla sua bocca uscivano lamenti e saliva, entrambi in abbondante qualità, iniziai a scoparle la bocca, con colpi potenti che avevano un solo obiettivo: sfondare la sua gola.

“Adesso, Sefa, inizierai a capire come dovrai fare onore al tuo nome”.

 

…continua

14 – Punita

 

Il telefono muto in mano, Piero restò a lungo a fissare il nulla. Tutto si sarebbe aspettato, meno quella telefonata che lo aveva lasciato completamente confuso. Silvia? Davvero era a casa del tizio della metropolitana o gli stava facendo solo uno scherzo? Provò a richiamare, ma il telefono era spento. E mentre si preparava a passare ore che, lo sapeva, sarebbero state interminabili, la sua mente iniziò a raffigurarsi scenari sempre più torbidi. Era preoccupato, nonostante la promessa di quella voce che gli aveva assicurato che avrebbe rimandato Silvia a casa per le 23. Ma anche, inutile mentire a se stesso, eccitato. Cosa stava succedendo?

 

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Il rumore del cazzo che entrava e usciva dalla bocca di Silvia occupava il silenzio della stanza. Filamenti di saliva colavano abbondanti dalle sue labbra, mentre continuavo a stantuffare. A ogni affondo, il cazzo restava sprofondato qualche attimo in più nella gola che, assalto dopo assalto, aveva iniziato ad accomodare l’inatteso ospite. La bocca invasa, le narici dilatate allo spasimo a cercare di catturare quanta più aria possibile, gli occhi spalancati dai quali, per lo sforzo, uscivano lacrime, Silvia cercava di non vomitare e di abituarsi al ritmo crescente che avevo imposto al mio bacino. Suoni gutturali uscivano dalla sua bocca, dei “ghgh mmmhhh ggggghh” indecifrabili che aumentavano o diminuivano a seconda del ritmo.

“Non dirmi che tuo marito non ti ha mai scopato la bocca così, Sefa. Non sarà mica uno di quei mariti bravi, gentili, educati, timidi, troppo paurosi di trattare a letto la loro moglie come invece meriterebbe e che, proprio per questo, spesso se la vedono sfuggire tra le mani? Eh, Sefa, tuo marito com’è invece?”

Tolsi il cazzo dalla sua bocca, il glande lucido ricoperto di saliva, giocai a disegnare delle ragnatele bavose sul suo viso, intrecciando geometrie perverse che dalla bocca passavano agli occhi, sulle guancie, al naso.

“Ti ho fatto una domanda, rispondi!” le intimai, mentre con il cazzo durissimo le schiaffeggiavo il volto.

“Cough…aaaah…Sì, Siggggghhhhhggghh” tentò di rispondere Silvia, prima che il cazzo tornasse alla caccia delle sue tonsille.

“Ci hai messo troppo tempo, e comunque ora non mi interessa più” risi, mentre forzavo con più decisione l’entrata verso l’esofago

“Arriverà il giorno in cui un cazzo scivolerà facilmente dentro la tua gola, ma fino a quel momento faremo in modo che tu mantenga un allenamento costante, non credi?”

Staccai una mano dai capelli e le chiusi le narici.

“Ora vediamo quanto resisti”, dissi, mentre con un colpo secco affondavo il cazzo nella gola.

Silvia squittì come un animale che stava per essere sgozzato, poi si lanciò in una serie di mugolii scomposti, mentre gli occhi si dilatavano ancor più e la faccia diventava rossa. Il naso chiuso, la bocca occupata dal mio cazzo e dalla quale la saliva colava ormai senza sosta, cercava un modo impossibile per buttare un po’ di aria nei polmoni. Quando il panico si impossessò di lei, uno scrollone della schiena fece volare in aria il bicchiere. Ero pronto all’eventualità e mentre l’acqua le inondava la schiena e il pavimento, riuscii ad afferrarlo al volo, prima che franasse sul tavolino di cristallo. Con quello che costava, non potevo certo permettermi di rischiare di romperlo…

Quando tolsi il cazzo, cominciò a tossire violentemente, cercando tra un singulto e l’altro di ricominciare a respirare, mentre una bava di saliva e sperma andava ad allargare la pozza sul tavolino.

“Tranquilla Sefa, non volevo mica soffocarti al primo appuntamento – risi -. Però guarda che disastro, hai sporcato tutto e hai pure fatto volare in aria il bicchiere. E sì che ti avevo avvisata di non rovesciare neppure una goccia. Peccato…”.

Mentre poco alla volta Silvia ritrovava il respiro, le presi la testa e la abbassai sul cristallo, spiaccicandole la faccia sull’umido. “Questa cagnetta ha sporcato e questa cagnetta pulisce, giusto?”

“Shhi, Sigggnorre” bofonchiò Silvia.

Mi avvicinai al divano e ripresi in mano il cane. Lo feci sibilare nell’aria, abbastanza vicino alla sua testa perché potesse sentirlo. Si irrigidì all’istante.

“Ora, visto che hai rovesciato l’acqua, è giusto fare ammenda. Sei mai stata punita con la canna?” dissi, mentre con un dito esploravo la fica, per trovarla ancor più bollente e aperta.

“No, no Signore” rispose con un tono terrorizzato.

“Beh, c’è sempre una prima volta per tutto. Ma siccome è la prima volta, non ci andremo giù pesanti. Cosa credi, 10 colpi potrebbero bastare, Sefa?”

“Non, non lo so Signore…” rispose con un tono che chiedeva pietà.

“Dodici allora?”

“Non so…”

“Allora quindici?” incalzai.

“Sì, quindici credo che potrebbero andar bene, Signore” rispose dopo aver capito che più avrebbe tergiversato, più il conto sarebbe salito.

“E quindici siano… E siccome sei stata tu a dirmi quante dovevano essere, per ogni colpo ricevuto dovrai dirmi per quale motivo lo riceverai. Sei pronta?”

Trascorse un lunghissimo silenzio, interrotto solo da alcuni singhiozzi che le scossero le spalle.

“Sì, Signore, sono pronta” si arrese alla fine mentre, la testa appoggiata di lato sul tavolino e il culo maestosamente offerto all’aria, si preparava alla punizione.

Feci sibilare la canna nell’aria, il polso che fletteva veloce aumentava la velocità e di conseguenza il rumore. Silvia strinse i pugni e digrignò i denti. Poi….

Whack

Sul suo culo si impresse una prima pennellata rossa.

“Aaah” urlò più per l’effetto del colpo che non per il dolore Silvia.

“Conta!”

“U..uno, Signore. Perché è da quella notte che aspettavo di rincontrarla”.

Whack

“Dueeh! Signore. Perché l’ho cercata ogni giorno in metropolitana e ogni volta che non la vedevo la frustrazione cresceva”.

Whack

Un terzo segno andò a posarsi parallelo ai due precedenti.

“Tre, Sigggnoreee. Perché ho goduto come una cagna nel raccontare a mio marito quello che mi era successo”.

Whack

Questa volta il colpo arrivò leggermente in diagonale

“Ghhh… Quattrooo, Signore. Perché questa mattina in auto quando un motociclista mi ha affiancato ho aperto ancor più le gambe per farmi guardare”.

Whackk

Il colpo fu leggermente più forte e lasciò un bel segno sulla natica sinistra. La risposta arrivò con una voce stridula.

“Oooh Dio….Cinque, Signoreeh. Perché a quei ragazzi ho fatto vedere quanto indecente io possa essere”.

Le accarezzai la fica. Stava letteralmente colando di piacere. Il cazzo mi era tornato durissimo, lo avvicinai alle sue labbra, strusciandolo lungo tutto il solco. Il suono che uscì dalle sue labbra assomigliò a un mugolio.

“Sei così in calore che basterebbe sfiorarti per farti godere in maniera indecente – sussurrai -.

Vuoi il mio cazzo? Ammettilo, Sefa”.

“Sìììììììììì” la risposta fu un ululato strozzato.

Ma non era ancora tempo.

Di nuovo il sibilo…. Whack

“Aaaah…Se…Seeei, Signorrre. Perché il cane del mio vicino mi ha fatto bagnare ancora di più”.

Whack

“Oddiooooo….Setttttesiggggnoreee. Perché quando ho scritto il Vostro nome nel telefonino mi sono bagnata di piacere”.

Whack

“Hootto, Signore. Perché quando chiedevo a mio marito di immaginarmi davanti a Voi volevo che succedesse il prima possibile”

Whack

“Nove!!! Signore. Perché amo sentire il Vostro cazzo nella mia bocca”.

Whaaaaackkk

Il culo ormai era una splendida tela di segni cremisi che la adornava.

“Aaaaaaaaaah Dieeeeci, Signoreeeee. Perché anche se fa un male cane, sto godendo di questa situazione”.

Sorrisi.

“Ti saresti mai immaginata di trovarti un giorno in questa situazione?” le chiesi portandomi davanti al suo viso rigato dalle lacrime.

“A volte lo avevo fantasticato – rispose tra un singhiozzo e un repsiro profondo -, ma le fantasie spesso restano tali…, Signore”.

Le infilai nuovamente il cazzo in bocca. Iniziò a succhiare come un’assatanata. La lingua stuzzicava il prepuzio, le labbra strette accoglievano la cappella e poi proseguivano lungo l’asta, la lingua avvinghiava il bastone che le offrivo. Decisamente sapeva succhiare.

“Restano cinque colpi” le dissi, mentre l’uccello uscì con un plop dalla bocca.

Tornai alle sue spalle, quel culo era favoloso.

Ma come finale avevo in mente qualcosa di diverso.

…continua

15 – Bastinado

 

La prima cosa che avevo visto di Sefa quella notte in metropolitana erano state le sue gambe arrampicate su quegli stessi sandali che indossava anche ora. Tutto era partito da lì e da lì volevo che finisse questo nostro primo appuntamento. Mi inginocchiai. La sua pelle luccicava di piacere, tensione, dolore, eccitazione. Anche a qualche centimetro di distanza sentivo l’odore della sua fica. Forte, speziato, ma per nulla sgradevole. Le cosce erano rigate del suo succo, tra le ginocchia una pozza del suo piacere si spandeva sul cristallo. La mia lingua risalì dal ginocchio destro. Piano. Quando arrivai vicino alla sua fica e staccai la lingua, un sospiro di frustrazione scappò dalla sua bocca. Tra le gambe, quel fiore rosa sembrava vivere di vita propria. Ripetei l’operazione con l’altra gamba. Di nuovo sospirò, quando la mia lingua non proseguì nel suo alveare ricco di miele. La stavo facendo diventare matta di piacere. Sorrisi.

Le dita cinsero la caviglia sinistra, sciolsi la piccola fibbia e tolsi la scarpa. Ripetei l’operazione con il piede sinistro. Aveva dei bei piedi. Leccai la pianta di quello sinistro, evidentemente soffriva di solletico, vista la reazione scomposta. Le mollai un ceffone sul culo già rosso.

“Non ho detto che potevi muoverti” le dissi. Leccai anche quello destro, insistendo a lungo nell’incavo della pianta. Squittì, tremò, sbuffò, guaì, chiese pietà, lanciò gridolini isterici. Ma non mosse il piede. Decisamente aveva grosse capacità di apprendimento.

“Pronta a riprendere la conta, Sefa?”

“Sìssignore” rispose, forse anche un po’ sollevata di aver visto interrotta quella tortura alle sue estremità.

Whack

“AAHHIA”. Il grido squarciò la stanza, mentre i piedi si contraevano istintivamente. Si aspettava un altro colpo sul culo e invece…

“Conta” ringhiai.

“Undici, Signore. Perché questa sera mio marito mi tratterà come una puttana e avrà ragione di farlo”.

Whack. I colpi non erano forti, ma sulla pelle sensibile dei piedi facevano lo stesso il loro bell’effetto.

“Dodici, Signore. Perché se al lavoro sapessero che cagna posso essere, finirei immediatamente sotto la scrivania di qualche mio collega”.

Mi piaceva la sua fantasia, le cose promettevano bene per il futuro.

Whackk. Più forte, ma solo un po’. I piedi si contrassero ancora.

“Tredici, Signore. Perché quando in questi giorni mani sconosciute mi hanno toccato in metropolitane non ho reagito”.

Whackk

“Aaah, quattordici Signore. Perché sono la sua schiava Signore”.

Decisamente Sefa iniziava a piacermi sempre di più. Meritava un premio.

Posizionai il bambù tra le sue gambe e gliele feci allargare con piccoli colpetti. Il suo bocciolo rosa scintillava, le labbra erano schiuse. Succose, invitanti. Feci vibrare il cane, poi con un colpo preciso la colpì tra le gambe. Stramazzò sul tavolino, con un urlo di dolore.

Tornai davanti al suo viso, tirandole i capelli le rialzai la testa.

“Non ho sentito contare. Devo ricominciare?”

“Qui..quindici, Signore. Per avermi fatto venire qui oggi”.

Avvicinai il glande lucido alla sua bocca, senza essere forzata la sua bocca si spalancò e lo avvolse, iniziando a segare il mio cazzo con le labbra. Il ritmo impresso dalla sua bocca era violento, famelico, assetato. Voleva portarmi al piacere nel minor tempo possibile e sapeva di riuscirci. Resistei fino al massimo, poi prima di venire nella sua bocca forzai un passo all’indietro, e continuando a menarmi il cazzo tornai alle sue spalle. Il primo schizzo centrò il piede sinistro, quelli successivi riempirono le piante dei suoi piedi di sborra calda e vischiosa. Quando il mio cazzo si svuotò del suo piacere, mi inginocchiai, presi le scarpe e gliele rimisi ai piedi.

“Hai mai camminato con i piedi pregni di sperma, Sefa?”, le dissi mentre mi pulivo il cazzo sul suo viso. Il trucco intorno agli occhi si era sfatto per il sudore e le lacrime. Era ancora più eccitante.

“Alzati” ordinai.

Lo fece lentamente, le giunture delle gambe intorpidite dalla posizione.

“Presentati”. In un attimo divaricò le gambe e portò le mani dietro la testa.

“Sei stata brava” le sussurrai, mentre due dita della mano si infilavano dentro la sua fica e iniziavano un lento su e giù, con il palmo della mano che sfregava fortemente sul clitoride.

Aprì la bocca per gemere, ma la mia lingua si impossessò della sua.

“Ora vestiti, puoi andare” le ordinai mentre tornavo a sedere sulla poltrona.

Confusa, traballante, con i piedi che scivolavano sulla tomaia dei sandali, Silvia afferrò le mutandine e…

“Cosa fai?”

“Mi… mi ha detto di vestirmi Signore”.

“Sì, ma niente mutandine e reggiseno”.

“Ma, ma il vestito è trasparente. Si vedrà tutto, Signore” rispose con l’aria di un condannato a morte.

“Ho detto niente mutandine e reggiseno”.

“Si….Signore” ammise la sconfitta.

Prese il vestito e lentamente lo infilò e lo abbottonò, quindi infilò l’intimo nella borsetta.

“Spostati là, fatti vedere” le feci segno di andare davanti alla finestra.

La luce del tramonto la illuminò, il vestito di lino nascondeva poco o nulla delle sue forme.

“Girati”.

Sul culo si intravvedevano le strisce del bambù. Era perfetta.

“Regola numero 5. Il giorno che devi incontrarmi, salvo ordine contrario non indosserai nessun tipo di intimo. Ovviamente indosserai delle gonne”.

“Sissignore” mi guardò con fierezza negli occhi.

“Regola numero 6. Quando ti siedi non potrai mai accavallare le gambe e le ginocchia dovranno essere sempre staccate di almeno cinque centimetri. E anche se qualcuno prova a guardare cosa nascondi tra le gambe non potrai chiuderle”.

“Sì, Signore”, mentre il viso si accendeva di rossore.

Mi alzai, afferrai il volto puntato verso il basso e la baciai.

“Un ultima cosa…”

Due minuti dopo, i piedi impiastricciati e incollati ai sandali, Silvia si chiuse alle spalle la porta.

Contemporaneamente io, seduto alla scrivania, presi carta e penna.

 

…continua

16 – Il branco

 

Sudata, umiliata, eccitata, frustrata. Mentre l’ascensore scendeva lentamente, Silvia si trovò a lottare con mille sensazioni. Il pomeriggio a casa di colui che aveva riconosciuto come suo Signore (anche solo a pensarlo, la S nella sua mente era maiuscola) aveva imboccato una direzione completamente  diversa a quello che si era immaginata. Pensava che sarebbe stata scopata appena varcata la soglia e invece, se si escludevano il pompino e quegli strusciamenti sulla fica il cui unico effetto era stato solo quello di eccitarla ancor di più, lui non l’aveva praticamente toccata. E adesso era così infoiata che sarebbe stata disposta a saltare addosso al primo che si sarebbe trovata di fronte. L’umiliazione di essere stata usata come soprammobile, gli ordini ricevuti, le bacchettate sul culo e sui piedi, e infine la sua venuta sulle piante dei piedi con l’essere costretta a tornare a casa con i piedi sporchi di sperma e senza intimo, avevano poi contribuito ad accendere ancor più il suo desidero, la sua voglia. Stava entrando in una dimensione nuova, e la cosa non sembrava spiacerle affatto.

Quando aprì il portone del palazzo e affrontò il fresco della notte, in Silvia però subentrò la vergogna. Il vestito di lino che aveva indossato era praticamente trasparente e se già durante il giorno si era attirata gli sguardi maliziosi di chi l’aveva incrociata in ufficio o per metropolitana, adesso che sotto non indossava intimo sapeva che non avrebbe potuto nascondere davvero nulla. Il buio forse l’avrebbe protetta per strada, ma nella metro…

Con i piedi che scivolavano nei sandali pregni di sperma, si affrettò verso la fermata della metro. Raccolse qualche occhiata curiosa di chi passando poteva notare sotto il vestito il balletto dei seni liberi, ma per il resto fino al momento di scendere nel ventre di Milano tutto andò bene. Scelse la direzione più breve, una fermata fino al Duomo e poi da lì avrebbe potuto prendere la linea rossa fino alla sua macchina. Passò l’abbonamento sul lettore, ma mentre scendeva i gradini si trovò di fronte alcuni passeggeri che erano appena usciti dal vagone. Quando sbucò sulla pensilina, vide le luci rosse dell’ultimo vagone che sparivano nel tunnel.

“Merda” sbuffò Silvia. Qualche minuto dopo sul tabellone apparve la scritta “Maciacchini – 7 min”. “Poteva andarmi peggio – pensò -. E, in ogni caso almeno non c’è nessuno a squadrarmi da capo a piedi”.

Si sedette su uno dei sedili di marmo. Come quella notte. Stava per accavallare le gambe, ma si ricordò dell’ordine, così le sue estremità rimasero una a fianco dell’altro, leggermente discoste. I lembi del vestito si aprirono un po’, lasciando una parte delle cosce nude. Per proteggere la vista dei seni, appoggiò la borsetta sulle gambe e incrociò le braccia.

Arrivò una ragazza, si sedette all’altra estremità della panca. Poi alcuni ragazzi stranieri, li sentì parlare in spagnolo, impegnati a ridere e a messaggiare chissà cosa sui loro telefonini. Una coppia si sedette tra lei e la ragazza, di sfuggita notò che l’uomo baciando la moglie o fidanzata  le lanciava un’occhiata interessata. Mancavano 2 minuti all’arrivo del treno, quando dalla scala mobile sbucò un gruppetto di ragazzi, ne contò cinque, jeans strappati su cosce e ginocchia, vita cadente a mostrare le mutande – un particolare che a Silvia faceva venire i nervi ogni volta -, camicie debordanti, orecchini e l’immancabile tatuaggio. Con loro due ragazze altrettanto calate nella parte. Parlavano ad alta voce, sguaiati, eccessivi, con quello slang giovanile che ormai stava degenerando ovunque.

Si fermarono davanti a lei, lungo la banchina, superando a più riprese la linea gialla, tanto che a un certo punto dall’altoparlante risuonò il classico avvertimento: “Attenzione, vietato oltrepassare la linea gialla, pericolo”. Ovviamente l’avvertimento ricevette il suo bel commento dal gruppetto.

Uno di loro, sistematosi di fronte a Silvia, notò le sue gambe semi nude e soprattutto leggermente aperte. Con un ghigno sprezzante fissò ancor più spudoratamente lo spettacolo, dando nel contempo una gomitata al ragazzo che gli stava vicino. Silvia stava per reagire ricomponendosi, ma in quel momento ripensò alle parole che erano risuonate nell’appartamento. Sapeva che quella era una situazione che sarebbe potuta accadere, solo sperava non così velocemente. Eppure, nonostante quello sguardo sprezzante, dentro di sé decise di resistere alla sfida e obbedire all’ordine ricevuto. Anche perché la borsetta sul grembo sicuramente non poteva permettere una visione completa di quello che si celava (o non si celava, sarebbe il caso di dire) tra le sue gambe. Che così restarono leggermente aperte, consentendo ai ragazzi, ormai erano in tre girati verso di lei, a gustarsi lo spettacolo.

L’annuncio dell’altoparlante e un getto di aria calda annunciarono l’arrivo del treno. Silvia rimase seduta fino a quando il treno si era quasi fermato. Voleva aspettare l’ultimo istante e scegliere la carrozza, ma evidentemente non era l’unica ad avere avuto la stessa idea. Anche i sette, su segnale di quello che probabilmente era il loro capetto, rimanevano ad aspettare.

“Non posso perdere anche questo treno, forza. Eppoi è solo una fermata” si fece coraggio Silvia, alla quale quegli sguardi non facevano presagire nulla di buono.

Provò una finta, puntando prima la porta del penultimo vagone, per poi cambiare strada e salire su quello successivo. La mossa trasse in inganno uno del gruppo, che una volta richiuse le porte cominciò a bussare violentemente sul finestrino urlando la sua rabbia, tra lo scorno dei suoi amici. I quali, tra una risata e un insulto, si erano sistemati attorno a una Silvia che in posizione di difesa si era quasi incastrata nell’angolo alla destra della porta, la borsetta a coprire il ventre e le braccia che vanamente provavano a nascondere i seni nudi sotto il vestito. Non si era mai sentita così vulnerabile e il vagone praticamente vuoto non migliorava la situazione. C’erano solo altre 4 persone all’interno, ma erano tutte dalla parte opposta e non sembravano essersi accorte di nulla.

“Che fai, avrai mica paura di noi?” la schernì quello che sembrava il capo.

“E perché dovrei?” ribatté con lo stesso tono Silvia, sperando che la fermata arrivasse il prima possibile.

“Forse non ti siamo simpatici? Anche se da come i tuoi capezzoli stanno reagendo direi proprio il contrario. Non ti hanno insegnato che non si gira così vestita, o forse sarebbe meglio dire svestita, di notte e da sola in metropolitana? E se poi facessi dei brutti incontri?” sghignazzò il bullo.

“No, non mi siete simpatici, spiacente di deludervi” rispose Silvia, che senza guardare in basso sentiva i capezzoli duri come ciliegie ancora acerbe.

“Oh oh, ragazzi, sentito? Alla signora che va in giro mezza nuda non siamo simpatici – il ragazzo si rivolse ai suoi compagni -. Sicuramente lei sarà abituata a gente più snob, firmata, che la accompagna a casa su macchine di lusso, e magari tra una cambiata e l’altra allunga la mano tra le sue cosce per vedere se indossa le mutandine. Vero puttana?” le piantò gli occhi nei suoi.

Il treno iniziò a rallentare.

“Forse, ma non sarai certo tu quello a cui lo andrò a raccontare” lo sfidò a sua volta, mentre il convoglio si arrestava con un cigolio di freni. Non appena le porte si aprirono, Silvià saltò fuori, seguita però dal gruppo. Il capo le si affiancò minaccioso. In giro non c’era quasi nessuno.

“Puttana” sibilò.

“Stronzo” replicò, accelerando il passo.

“Ehi, questa zoccola non porta neanche le mutande” sghignazzò qualcuno alle sue spalle.

Stava per svoltare a sinistra verso la linea rossa, ma la mano del ragazzo le afferrò il braccio destro e la trascinò nella direzione opposta.

“Dove pensi di andare, puttana?”.

“Lasciami”.

“Oh, no, non ci penso per nulla al mondo. Abbiamo tanto da dirci noi due” replicò lui, tirandola verso la porta dei bagni.

Silvia era nel panico. Ancora pochi metri e per lei non ci sarebbe stata via di fuga.

“Ho detto di lasciarmi” tentò ancora una volta di convincerlo.

“Stai zitta o sarà peggio per te”.

“Ora o mai più” si sforzò di mantenere la calma Silvia, mentre con la mano sinistra, le nocche divaricate, gli piazzò un pugno andando a colpire gli occhi.

“Aaah maledetta” urlò il ragazzo, lasciando però istintivamente la mano.

Silvia aveva già iniziato a correre, per quanto i sandali glielo permettessero. Aveva guadagnato una decina di metri, ma il gruppo che si era ripreso subito dalla sorpresa era già sulle sue tracce.

Sette metri. E Silvia correva.

Cinque metri. I polmoni pompavano.

Tre metri. Non ce l’avrebbe mai fatta.

Un metro….

“Ehi, cosa succede?”

L’angelo custode si era materializzato dietro l’angolo in una divisa da poliziotto. Silvia gli piombò quasi tra le braccia, mentre i ragazzi acceleravano la loro corsa verso l’uscita.

“Gra…grazie” boccheggiò Silvia tra un colpo di tosse e l’altro. Era salva.

 

…continua

17 – Salvata. O?

 

Con Silvia mezza collassata tra le sue braccia, il cuore palpitante, le mani tremanti, il poliziotto dovette ripetere la domanda prima di ottenere una risposta.

“Cosa succede signora? Tutto bene?”.

“Sì, sì, adesso va bene…grazie. Quei ragazzi… – rispose Silvia mentre con la testa spaziava tra i corridoi -. Quei ragazzi han cercato di portarmi con loro…”

Iniziò a tremare, mentre il poliziotto dopo averla lasciata le lanciò un’occhiata piuttosto perplessa.

“Venga, il nostro ufficio è qua dietro” le disse.

“No, no, è tutto a posto adesso” rispose Silvia, sperando di togliersi il prima possibile da quella situazione, saltare sulla prima metro in arrivo e tornare a casa.

“Mi spiace, deve venire con me” replicò il poliziotto, che in maniera gentile ma ferma le prese un gomito e iniziò a dirigersi verso una porta poco distante sulla quale una targhetta recitava “Polizia”. Aperta, la porta rivelava una stanza non troppo grande, occupata di fronte da una scrivania fronteggiata da due sedie, mentre sul lato destro una serie di monitor appoggiato su una scaffalatura inquadravano la zona dei binari, i passaggi e gli androni sotterranei. L’odore che colpì le narici di Silvia raccontava di corpi sudati, sigarette, polvere, ricambio d’aria inesistente.

Il poliziotto aggirò la scrivania, si sedette e la squadrò. Avrà avuto 35 anni, scuro di occhi e di capelli, corpo atletico, uno sguardo profondo che metteva soggezione.

“Allora?” la sola parola che pronunciò.

Rimasta in piedi in mezzo alla stanza, Silvia lo guardava perplessa. La paura di quello che era successo le aveva fatto dimenticare lo spettacolo che offriva a chi la osservava, il vestito trasparente, i capezzoli duri che quasi volevano bucare il lino, il disegno dell’inguine che non era protetta da alcuno slip.

“Allora?” ripeté il poliziotto.

“Non so… – provò a rispondere Silvia -. Quel gruppo di ragazzi è salito alla mia fermata e già nel vagone mi ha circondato, iniziando a parlarmi in maniera pesante. Io ho detto loro di lasciarmi in pace, ma più io cercavo di zittire quello che credo fosse il loro capo, più lui diventava aggressivo con le parole. Pensavo che una volta scesi mi avrebbero lasciato in pace, invece all’improvviso mi ha afferrato per un braccio e ha iniziato a trascinarmi verso i bagni”.

Il ricordo le fece venire i brividi e istintivamente Silvia incrociò le braccia sul petto, quasi a proteggersi da quel brutto pensiero.

Il poliziotto prese il telefono e dopo un attimo d’attesa parlò all’interlocutore all’altro capo del telefono: “Stefano, puoi venire un attimo per favore? Grazie”.

Riagganciato, la osservò a lungo, lo sguardo che dal viso scese lentamente fino ai piedi, per poi risalire. Nervosa, Silvia abbassò lo sguardo.

“Dove stava andando Signora?”

“A casa”

“Vestita così?”

Prima che potesse rispondere, Silvia sentì la porta alle sue spalle aprirsi. Un altro poliziotto, di poco più anziano ma imponente, Silvia lo giudicò oltre il metro e novanta, occhiali con la montatura colorata di rosso, capelli ricci e biondi, un accenno di barba, entrò nella stanza.

“Signora, risponda per favore” riprese il primo poliziotto, obbligando Silvia a girarsi.

“Io….” balbettò  Silvia.

“Lei va sempre in giro vestita così la sera?” la incalzò il poliziotto.

“No, no… – tentò una flebile difesa Silvia, che anche se non lo vedeva sentiva fissi sul proprio corpo gli occhi del poliziotto alle spalle -. È…è solo un caso…”

“È un caso andare in giro seminuda, Signora? Si è per caso dimenticata di indossare l’intimo quando è uscita di casa? O magari lo ha fatto di proposito, per andare in cerca di emozioni o per batter cassa?”

“Ma come si permette?” tentò una reazione Silvia.

“Come mi permetto? Ma si è vista in uno specchio?” alzò la voce il poliziotto. Prima di rivolgersi al collega.

“Stefano, tu cosa ne pensi?”

“Penso che la signora abbia un culo che, con quel vestito, anche un cieco vedrebbe” rispose il secondo poliziotto trattenendo a stento una risata.

“Che lavoro fa?” riprese il controllo il primo poliziotto.

“Lavoro nel campo pubblicitario”

“E di sera fa la puttana nella metro?”

“Stia attento a come parla!!” reagì furiosa.

“Io non devo stare attento a nulla – urlò il poliziotto -. Piuttosto, mi spiega una volta per tutte perché girava seminuda? E poi si lamenta se un branco di ragazzi ha cercato di approfittarne?”

“Io…ecco….avevo perso una scommessa” provò a cercare una via di fuga Silvia.

“Una scommessa eh? Mi dia i suoi documenti per favore”.

“Ma…”

“Niente ma. I documenti. Subito”.

Ormai nel panico, le mani in preda a un tremolio quasi incontrollabile, Silvia aprì la borsetta e cominciò a frugare alla disperata. Era tanta l’agitazione, però, che nel cercare il portafoglio il reggiseno che aveva riposto in borsetta cadde per terra. Sempre più cerulea in viso, Silvia si chinò in avanti per raccoglierlo e stava per rialzarsi quando una mano sulla schiena la bloccò.

“Stai ferma così, non muoverti” le ordinò il secondo poliziotto. Che subito dopo si rivolse al collega. “Guarda guarda, sembra che la nostra signora non abbia perso solo una scommessa” disse, mentre la mano dalla base della schiena era scesa all’altezza del culo.

Silvia fece per rialzarsi, ma il poliziotto tuonò ancora. “Ho detto di non muoverti”.

Poi, dopo essersi spostato di lato, afferrò la borsetta e la gettò al collega.

“Ecco, cerca tu i documenti, la signora per ora è impegnata” sghignazzò.

Umiliata, il culo sollevato in aria, il volto rosso per il sangue che affluiva al cervello, Silvia per la seconda volta nella giornata si sentì un animale racchiuso in un angolo. Tornato alle sue spalle, il poliziotto riprese a massaggiarle il culo, mentre il collega estraeva dalla borsetta anche gli slip. 

“Di sicuro ha un buon odore – commentò, dopo essersi portato l’indumento al naso -. E dalle tracce che ha lasciato doveva essere già molto bagnata quando le ha tolte. E così…Silvia V…?” disse dopo avere frugato ancora in borsetta e recuperato il portafogli.

“Sssì….” La flebile risposta di Silvia.

“Sì cosa?”

“Ero bagnata quando le ho tolte” ammise Silvia.

Con un cenno il poliziotto fece segno al collega di farla rialzare.

“Allora, ci racconti perché sei andata in giro così o ti dobbiamo denunciare per prostituzione in luogo pubblico e adescamento di minorenni?”.

“No, la prego, no… così mi rovinate. E io non ho fatto niente” si difese con la voce diventata un sussurro Silvia.

“E allora perché andavi in giro così?”

“Perché….perché mi è stato detto di farlo” rispose con gli occhi puntati verso il basso.

Per un minuto nessuno fiatò, i due poliziotti osservavano Silvia, i cui seni si sollevavano sotto il vestito, il respiro affannoso, sulla pelle una patina di sudore.

“Non puoi tornare a casa vestita così, lo sai?”

Silvia annuì, lo sguardo sempre basso.

“Guardami”.

Alzò lo sguardo verso il poliziotto, che dopo essersi alzato le venne di fronte.

“Toh” le allungò slip e reggiseno.

“Grazie” rispose Silvia nel prendere il suo intimo. Fece per infilare gli slip ma il poliziotto la fermò.

“E come pensi di indossare il reggiseno? Avanti, slaccia il vestito. Tanto quello che potevano vedere lo abbiamo visto anche così”.

“Ma…”

Lo schiaffo arrivò improvviso.

“Se ti sento dire un altro ma, un se, un no, un cosa, giuro che ti porto in Questura per prostituzione e posso prometterti che non passerai una bella serata. Né che tuo marito sarà felice di venirti a riprendere”.

Gli occhi lucidi, Silvia incominciò a sbottonare il vestito, proprio come aveva fatto qualche ora prima a casa del suo Padrone. Quando anche l’ultimo bottone fu libero, Silvia si fece scivolare l’abito dalle spalle.

“Non mi ero sbagliato allora – disse il poliziotto alle sue spalle, mentre la mano andava ad accarezzare i glutei segnati dal bambù -. Alla nostra pubblicitaria piace essere fustigata. Girati, fai vedere al mio collega lo spettacolo che si era perso finora”.

Ormai prigioniera del ruolo, Silvia obbedì, mentre il secondo poliziotto una volta che se la trovò di fronte non perse tempo nell’afferrare tra le dita i lunghi capezzoli.

“Queste more sono da cogliere” le disse con un sorriso beffardo, facendo un passo indietro e tirandola verso di sé.

“Ehi dove vai?” intervenne il collega, lasciando partire una sberla che le arrossò la chiappa destra.

“Aaaah” scappò dalla bocca di Silvia.

“Chi ti ha detto che potevi muoverti?” continuò, mentre con una mano l’artigliava per i fianchi.

Il secondo poliziotto intanto continuava a indietreggiare, costringendo Silvia a piegarsi in avanti. Quando ormai era sul punto di cadere, si fermò.

“Ecco, questa è la posizione migliore, non credi Stefano – disse il primo poliziotto al collega, mentre la mano scivolava tra le gambe di Silvia -? Cazzo, questa troia è bagnata fradicia… Secondo me questa situazione non deve affatto dispiacerle. Che mi rispondi pubblicitaria? Ti piace essere qui con noi adesso?”

Quando Silvia non rispose, un altro schiaffo, e poi un altro e un altro ancora le scaldarono il sedere.

“AAhiiiaaa” gridò Silvia, impossibilitata però a spostarsi a causa dell’altro poliziotto che le stringeva ancor più forte i capezzoli.

“Credo che non ci siamo capiti, puttana. Quando io faccio una domanda, tu rispondi. È chiaro?” le disse mentre un altro schiaffo la raggiungeva sul sedere. Silvia urlò ancora. “O devo diventare cattivo?” mentre la sberla questa volta partì dal basso per infilarsi tra le cosce e colpirla sulla fica fradicia.

“Ghhhhhaaaahhhh” fu il suono gutturale che le uscì dalla bocca.

Quando però due dita la penetrarono, Silvia non poté trattenere un gemito intenso di piacere. Per tutto il giorno aveva camminato sul file sottilissimo dell’orgasmo, ma ogni volta che stava per precipitare nel piacere, era stata bruscamente fermata.

“Dio, non posso sopportare tutto questo ancora” pensò Silvia, mentre il poliziotto aumentava il ritmo, scopandole ora la fica con violenza.

“Allora, signora V…, sei contenta di essere qui con noi?” tornò a chiedere, mentre un terzo dito si aggiungeva nella sua fica.

“Mmmmhhhggghhhmmm la preeeeeeegooooo” fu tutto quello che riuscì a rispondere, ormai sempre più persa in quelle dita che le scuotevano l’anima.

Un’altra sberla la fece sobbalzare e quando all’improvviso il poliziotto levò le dita, Silvia esplose in un “Noooooooooooo” rabbioso. “La prego, per favoreeee” implorò Silvia, che ormai aveva passato il confine della decenza e l’unica cosa che voleva era di poter godere.

“Cosa vuoi?” la schernì il poliziotto, che aveva capito come Silvia fosse a un passo dalla capitolazione.

“Non smettaaa” continuò tra un singulto e l’altro Silvia, le cui mani avevano abbrancato la cintura del poliziotto di fronte.

 

18 – Scopata

 

Quello che accadde dopo, Silvia non se lo sarebbe più dimenticata. Il rumore della cerniera alle sue spalle si sovrappose a quella che le sue dita aprirono a pochi centimetri dal proprio volto. Un gesto automatico il suo, ma ormai in quella stanza nulla sembrava più essere mosso dal razionale. Quando sentì qualcosa che sfregava contro le labbra della sua fica, per quanto la posizione glielo consentisse Silvia si inarcò ancor più all’indietro, quasi a formulare un tacito invito, uno scopami adesso che non poteva più essere represso o ritardato. E quando la cerniera dei pantaloni del poliziotto che le stava davanti arrivò a fondo corsa, la sua mano sinistra si infilò all’interno della patta alla ricerca di quel cazzo che ormai voleva assurdamente e assolutamente sentire tra le sue labbra. Le mani che si muovevano febbrili quasi per recuperare ogni attimo perduto, Silvia armeggiò per slacciare la cintura e poi il bottone dei pantaloni, lo sguardo perso verso quei boxer che facevano capolino. Qualche centimetro più su della sua testa, il poliziotto che la sovrastava sorrideva beffardo, mentre le dita continuavano a stringere e strapazzare i suoi capezzoli sempre più turgidi.

“Aaaaaaaaaaaah” la sua voce riempì la sala, mentre alle spalle, con un colpo secco, il poliziotto l’aveva penetrata. Un paio di affondi lenti ma decisi, poi, dopo averla afferrata per i fianchi, iniziò a scoparla con più vigore. Per la sorpresa di quel cazzo nuovo che aveva accomodato dentro di sé, Silvia aveva abbassato la testa, una mano infilata dentro i boxer a stringere quello che sembrava essere un cazzo di tutto rispetto, il corpo che ondeggiava sotto le spinte del cazzo e delle mani che la sorreggevano.

“Che cazzo ti credi, che il mio cazzo sia un punto di sostegno mentre ti fai sbattere?”.

La mano che le artigliò i capelli procurò a Silvia una fitta di dolore, mentre la sua testa veniva riportata verso l’alto fino a trovarsi davanti un cazzo che prometteva di riempirle per bene la bocca.

“Succhia troia, fammi vedere quanto ti piace il mio cazzo” le disse il poliziotto e Silvia fece appena in tempo ad aprire la bocca prima che l’ennesima spinta da dietro le facesse inghiottire una buona fetta del bastone di carne che le si parava di fronte.

Per un minuto buono l’unica colonna sonora dell’ufficio fu rappresentata dai gemiti di Silvia, scopata con ritmo costante dai due poliziotti, che al’unisono si ritraevano per poi tornare a infilarsi nella fica e nella bocca, divertendosi quasi a schiacciare il corpo della donna.

“Questa puttana è fradicia, guarda come cola” la umiliò il poliziotto che la scopava nel mostrare al collega le gocce di piacere che scintillavano sul pavimento. “Ti piace il servizietto che ti stiamo facendo, vero?” le disse dandole un’altra sberla sul culo.

“MMhhhhhhhh” fu la sola risposta possibile, visto che il quel momento il secondo cazzo stava tentando di invaderle la gola.

“Sei proprio una maleducata ­- le pizzicò forte un capezzolo il secondo poliziotto, la cui stretta ferrea dei capelli le impediva di muovere la testa -, da bambina non ti hanno insegnato che non si parla con la bocca piena?”.

Il cazzo che spingeva in gola, la incapacità di respirare, le sculacciate che si alternavano con le spinte sempre più potenti del cazzo che la scopava, Silvia sembrava sull’orlo di impazzire, mentre rivoli di saliva colavano copiosi dalla bocca. Quando finalmente il poliziotto le permise di sollevare la testa, Silvia sembrò un subacqueo uscito troppo in ritardo dall’ultima apnea, con i respiri affannati che si mischiavano a colpi di tosse e alla saliva che le ornava le guance.

Alle sue spalle il poliziotto aveva cambiato leggermente posizione, abbassando si leggermente e attirandola ancor più verso di sé, con il cazzo che a ogni colpo sembrava quasi volerla infilzare. Di fronte, invece, il suo collega si era preso il cazzo alla base e lo usava come una clava per mollarle violenti colpi sul volto, con la saliva che le impiastricciava ancor più la faccia. Ma non appena si fermò, Silvia come un’ossessa tornò all’assalto del cazzo, la lingua che famelica percorreva l’asta, la mano sinistra che accarezzava i coglioni gonfi, la bocca che baciava ogni centimetro di pelle, scendeva fino alle palle, le accoglieva, le risputava, per poi incominciare il percorso inverso verso la cappella sempre più gonfia e grossa. E quando il tragitto fu compiuto, ecco che la lingua andò a cercare il buchino da cui tra poco sapeva che sarebbe uscito il premio alla sua adorazione.

“Mettiamoci più comodi” si dissero i poliziotti e quando un secondo dopo Silvia si ritrovò i buchi liberi le scappò un sospiro quasi di rabbia. Ma fu questione di un attimo, perché dopo avere spostato alcune carte, i poliziotti la fecero sdraiare sulla scrivania.

“E adesso possiamo iniziare a divertirci davvero” le sorrise beffardo il secondo poliziotto, che questa volta si sistemò tra le sue gambe. Il primo invece, dopo averle preso tra le mani i seni, abbassò la testa e prese a leccarle i capezzoli, succhiandoli, mordendoli, tirandoli, mentre Silvia ormai persa nel suo mondo lussurioso gli accarezzava i capelli e la schiena, la testa che girava da una parte all’altra.

“Cosa vuoi troia?” le disse il secondo poliziotto. E quando lei non rispose le diede uno schiaffo tra le gambe. Fu l’attimo del non ritorno. Con un guaito animale Silvia esplose, le gambe iniziarono a tremare incontrollate, mentre il bacino sussultava e spruzzi di piacere bagnavano la mano del poliziotto.

“Falla tacere o tra un po’ qui arriva mezza metropolitana” disse il secondo poliziotto.

E fu così che Silvia si ritrovò in bocca il terzo cazzo della giornata.

 

19 – La scrivania

 

La colpì il sapore, l’afrore dell’uomo mischiato al suo piacere. L’asta fradicia dei suoi succhi, la cappella che luccicava, rossa, grossa, un bulbo pronto a esplodere. La sua lingua lo contornò famelica, mentre il ritmo del respiro tornava lentamente a rallentare, poi le labbra si schiusero e lo accolse a fondo dentro la propria bocca.

“Tuo marito è un uomo fortunato, con una succhia cazzi così in casa, di sicuro non ha di che lamentarsi”, la voce riscosse per un attimo Silvia dall’adorazione di quel cazzo che le labbra accoglievano sempre più vogliose. La bocca semi aperta, Silvia ora faceva scivolare la lingua lungo tutta l’asta, mentre il poliziotto lentamente si spingeva ritmicamente avanti e indietro, godendosi le sensazioni. Tra le sue gambe, invece, il suo collega si era inginocchiato e lentamente aveva incominciato a leccare il nettare dall’interno cosce.

“E in più ha un ottimo sapore” aggiunse tra una lappata e l’altra. Davanti ai suoi occhi, le labbra si aprivano e schiudevano lentamente per i postumi del violento orgasmo, e quando la sua lingua ne tracciò i contorni per poi terminare la corsa sul clitoride, un lungo mugolio gli fece capire che la donna stava apprezzando il trattamento. Succhiò, leccò, con gli incisivi catturò il magico bottoncino che svettava tra le labbra e poi iniziò a picchiettarlo con la lingua, causando un nuovo irrigidimento dei muscoli delle gambe di Silvia, che ricominciò a respirare pesantemente. Quando la bocca si staccò dalla carne che ne occupava la cavità, il poliziotto però l’afferrò per i capelli, l’obbligò a girare la faccia e con una certa brutalità le reinfilò dentro il cazzo fino all’attaccatura della gola, strappandole un grugnito doloroso. Contemporaneamente, l’altro incrementò il ritmo della lingua, che come un piccolo cazzo incominciò alternativamente a scoparle la fica e a schiacciare il clitoride. La fica fradicia, i succhi che colavano in maniera impressionante, facilitarono l’ingresso di un dito nel culetto, non certo vergine ma mai troppo abusato.

“Mmmmmmm” il grido strozzato dal cazzo in bocca fu tutto quello che Silvia poté esprimere, mentre il primo poliziotto allungava anche una mano verso un capezzolo e iniziava a strizzarlo senza troppi riguardi. Poi, incrementando la spinta del cazzo in bocca che causava a Silvia continui conati iniziò a schiaffeggiare le tette.

“Questa serata non te la dimenticherai tanto facilmente cara la mia grafica” disse il poliziotto spingendo ancor più in profondità il cazzo. Silvia ormai doveva concentrarsi a respirare con il naso, mentre sentiva che la cappella aveva superato le tonsille e cercava di farsi strada verso la gola. Non che non lo avesse mai fatto con Giorgio, ma il cazzo del marito era leggermente più corto e meno grosso di questo e la cosa non le riusciva così facile. E così, mentre il cazzo affondava, come se fosse testimone di un film sentiva i suoi gorgheggi affannati e i rumori della saliva che colava come una fontana dalla sua bocca.

Le dita in culo adesso erano diventate due e tali rimasero quando il poliziotto staccò la bocca dalla sua fica e, dopo avere sollevato le gambe di Silvia fino alle proprie spalle, posizionò il suo pene tra le labbra lucide.

“Sei pronta per un altro po’ di cazzo, puttana?” e con un colpo secco che spostò di una decina di centimetri Silvia, scomparve dentro di lei. Incominciò a scoparla a gran ritmo, con il cazzo che quasi usciva del tutto e poi tornava a infilarsi nella fica fradicia, il suono delle palle che sbattevano contro la pelle come unico suono, mentre l’altro poliziotto a sua volta incrementava la scopata in bocca, estraendo per un attimo il cazzo dalla bocca ormai ridotta a una grotta di saliva e filamenti di sperma per poi rinfilarlo tutto fino in fondo.

Presa a quel modo, Silvia stava andando fuori di testa. Tante volte aveva sognato di fare sesso con due uomini, ma la situazione, il modo in cui si era verificata del tutto inaspettatamente, era qualcosa che andava al di là della sua più fervida immaginazione. L’essere usata, il trovarsi in balìa dei due poliziotti, il vedere il proprio corpo usato per il loro piacere, il sentirsi impossibilitata a fare alcunché se non obbedire, le fece montare un altro orgasmo: piedi e gambe incominciarono a scattare e tremare come se fossero attraversati da una scossa elettrica, il cuore accelerò fin quasi a scoppiare, il fiato le si spezzò in gola, mentre un suono sordido, profondo, gutturale tentò di farsi strada attraverso la bocca colma di cazzo.

“Ooohhhmmmgggpppffffffffffffffffffffffffffrrrrrrrrrrrrrr” fu il suono che si levò nella stanza, mentre eccitati e incitati dalla situazione i due poliziotti incrementavano ulteriormente il ritmo, scopandola sempre più rabbiosi e animali, con le mani che afferrati i seni tiravano ciascuna in una direzione.

Il primo a venire fu il poliziotto nella sua bocca: i primi fiotti invasero Silvia che quasi soffocò per il getto violento, quindi tenendosi il cazzo con la mano sinistra e mantenendo serrata la presa dei capelli con la destra, il poliziotto continuò a venire sulla faccia e tra i capelli della donna. Pochi istanti dopo e fu il turno del suo collega, che estratto di colpo il cazzo si portò davanti alla faccia di Silvia e le scaricò addosso il suo piacere, terminando quella che risultò essere una vera innaffiatura sui seni.

Per un paio di minuti nessuno si parlò e si mosse, mentre il respiro tornava a placarsi. Silvia, gli occhi ricoperti di sperma, faccia e corpo impiastricciati, la bocca piena del sapore di maschio, rimaneva oscenamente sdraiata sulla scrivania, le gambe allargate, una mano sulla pancia e una lungo il fianco. I due poliziotti, i cazzi che stavano perdendo vigore, restavano a guardarla rapiti, la mano che accarezzava lentamente i loro bastoni di carne. Poi, a turno, le avvicinarono il membro alla bocca.

“Ti sei divertita? Ora ringrazia e pulisci i tuoi amici” le disse ironico il primo poliziotto. Silvia, obbediente, aprì la bocca per ripulire.

Quando guardò l’orologio sulla scrivania al secondo poliziotto scappò quasi una risata: “E’ mezzanotte passata, mi sa che la nostra Cenerentola ha perso l’ultima carrozza che la riportava a casa” commentò ironico.

A Silvia scappò un sospiro di disperazione.

 

 

“Oddio, è adesso come faccio a tornare a casa?”. Disperata, a Silvia quasi scappò a piangere mentre con un gesto rapido si rialzava dalla scrivania. Con una mano cercava di pulirsi almeno un poco la faccia mentre andava a caccia dei vestiti. Raccolse mutandine e reggiseno e stava per indossarli quando il primo poliziotto la fermò.

“Mi spiace, ma questi, per ora, li teniamo noi” le disse con un sorriso beffardo, enfatizzando le parole su quel “per ora”. Glieli strappò di mano poi, con un gesto quasi pietoso, con quel poco di stoffa del perizoma le pulì in maniera appena decente la faccia. Tracce di mascara le allungavano la forma degli occhi, i capelli impiastricciati la facevano sembrare Cameron Diaz in Tutti pazzi per Mary. Quando le mutandine furono belle impiastricciate, gliele mise davanti alla bocca.

“Fai la brava, su, pulisci”.

Ormai completamente umiliata, Silvia tirò fuori la lingua e obbedì.

“Adesso rivestiti” il secondo poliziotto le gettò il vestito. Mentre con le mani tremanti Silvia allacciava un bottone dopo l’altro, cercando di non fare attecchire troppo il vestito al corpo ricoperto di sperma, i due poliziotti si guardarono.

“L’ultima metro è partita, ti portiamo noi a casa”.

“No – esclamò spaventata Silvia -! Cioè, volevo dire che io ho la macchina parcheggiata vicino alla fermata. Potreste magari lasciarmi là” finì la frase con gli occhi bassi.

“Va bene – rispose il primo poliziotto -. Però mica possiamo portarti in giro così vestita, ti pare? Sporca di sborra, mezza nuda…cosa penserebbe la gente?”.

“Ma…io….”

“Zitta. Vieni qui e girati” le rispose.

Quando Silvia obbedì, il poliziotto le afferrò le braccia e…dopo un paio di secondi nella stanza risuonò il click delle manette che si chiudevano attorno ai suoi polsi.

“Ma cosa fate? Avevate promesso che…”.

La sberla del secondo poliziotto le spezzò la frase in gola.

“Ti abbiamo detto di non parlare se non interrogata. Comunque fidati. Dobbiamo salvare le apparenze, non credi? Cosa credi che penserebbe la gente se ti vedesse camminare normalmente al nostro fianco? Se invece ti vede ammanettata in te vedrà solo una puttana che è stata arrestata per prostituzione in luogo pubblico. E non andrà comunque lontano dalla verità” concluse ridendo.

Due minuti dopo, tra i due poliziotti e sotto lo sguardo di qualche ritardatario, Silvia saliva a testa bassa le scale che portavano in Piazza del Duomo, bellissima nelle luci di quella sera, per venire scortata verso la Punto civetta della polizia parcheggiata davanti all’ingresso della Galleria.

“Entra” le disse il primo poliziotto abbassandole la testa e facilitandone l’entrata sul sedile posteriore. Nel piegarsi, lo spacco del vestito regalò la visione della sua fica lucida a una coppia che passava. Chiusa la porta e gettate le chiavi al collega, il primo poliziotto aprì la portiera dell’altro lato.

“Dove hai lasciato la macchina?” le chiese.

“In una traversa vicino alla fermata di Inganni” rispose Silvia.

“Andiamo, Stefano”.

“Ma non mi liberate adesso?” provò a chiedere Silvia che in quella posizione, le mani dietro la schiena non stava molto comoda.

“Quanta fretta…” ridacchiò Stefano, mentre con una mano iniziava ad accarezzare la coscia sinistra. Piano piano, mentre la Milano notturna scorreva al di là del finestrino, la mano si fece strada tra le cosce di Silvia, che suo malgrado fu costretta ad allargarle, fino a quando le dita raggiunsero la sua figa.

“Ti prego, bastaaa…” sussurrò Silvia, gettando la testa all’indietro mentre le dita tornavano a farsi strada dentro di lei.

“Ma non ne hai mai abbastanza, sei fradicia, lo senti?” le disse beffardo il poliziotto. Un attimo dopo, la stretta che le afferrò i capelli le fece capire che per quella sera non era ancora finita. Trascinata verso il basso, Silvia si ritrovò con la faccia puntata verso il bacino del poliziotto che, estratto il cazzo dai pantaloni, glielo infilò senza troppi preamboli in bocca.

“E guai a te se mordi” le disse, mentre tenendola per i capelli iniziò un lento su e giù sempre più profondo.

Le mani imprigionate, il corpo senza equilibrio, Silvia era costretta a ingoiare sempre più profondamente il cazzo, con il poliziotto che si divertiva a rendere sempre più lunghe le discese e sempre più rapide le risalite, con la saliva che fuoriusciva copiosa, i singulti a ogni respiro, la bava a ricoprire il cazzo.

“Hai una bocca fantastica” le disse il poliziotto, sollevandola per i capelli fino a quando le due bocche si trovarono di fronte. La baciò di un bacio intenso, maschio, feroce, poi quando si staccò e Silvia aprì la bocca per aspirare a fondo, le sputò violentemente in bocca prima di riabbassarla e spingere nuovamente il cazzo nella sua gola. Dopo pochi minuti, con Silvia che a ogni attimo temeva di soffocare, una spinta ancora più vigorosa della testa le fece capire che il poliziotto era vicino all’orgasmo.

“MMmmghhhhhhhh” cominciò a mugolare Silvia in apnea, complice le dita dell’altra mano che le avevano chiuso il naso, mentre la sborra le invadeva la gola. Quando ormai credeva di, se non morire, sicuramente svenire, la mano che le tirava i capelli le permise di tornare a respirare. Tra violenti colpi di tosse e disperati tentativi per non vomitare, le lacrime agli occhi, Silvia venne rialzata seduta, mentre la mano del poliziotto tornava a esplorare la sua fica.

“Sei fortunata, siamo arrivati ­- il secondo poliziotto interruppe l’idillio -. Dove hai la macchina?”.

Gli occhi lucidi, la mente disorientata, Silvia ci mise qualche secondo a capire dove far dirigere la Punto. La strada deserta, pochi lampioni a illuminarla, il primo poliziotto fece girare Silvia, dopodiché le liberò i polsi dalle manette, mentre il suo collega le apriva la porta. La accompagnò alla macchina, ma mentre Silvia cercava le chiavi la fermò.

“Devo pisciare!”.

Silvia lo guardò imbambolata…

“Su, cosa aspetti, tiramelo fuori stronza e fammi pisciare” le disse brusco.

Sempre più convinta di essere precipitata in un incubo, Silvia armeggiò con fatica con la cerniera, poi infilando la mano riuscì a impugnare il cazzo e a tirarlo fuori. Guardò il poliziotto, come a chiedere pietà.

“Per stavolta ti concedo di tenerlo semplicemente in mano mentre piscio contro la siepe, mia bella pubblicitaria” le ghignò addosso, mentre un getto di urina usciva prepotente. Silvia, che non aveva mai fatto nulla del genere, teneva in mano quel cazzo sentendo con i polpastrelli il canale gonfio dal quale fuoriusciva la pipì. Inconsciamente provò a schiacciarlo, interrompendo per un attimo il flusso, mentre al poliziotto sfuggiva una risata.

“Ti piace giocare con l’idrante eh – la provocò, mentre il getto diminuiva d’intensità fino a terminare con una serie di gocce -. Allora per premio adesso pulisci tutto bene, prima di rimettere il tuo giocattolino al suo posto”.

Il polso stretto in quello del poliziotto, Silvia con una torsione fu costretta a inginocchiarsi per l’ennesima volta nella giornata mentre il cazzo finiva nella sua bocca. La prima lappata la fece quasi ritrarre, il sapore salino era forte e inusuale, ma la mano del poliziotto posata sulla testa la costrinse energicamente a riprendere il cazzo in bocca. All’improvviso, mentre la lingua puliva il glande, un piccolo spruzzo le finì in gola, facendola tossire.

“Che ne dici? Ti piace il sapore? Del resto eri tutta sudata, era giusto dissetarti un po’, che non si dica mai che siamo maleducati” rise ancora il poliziotto. Poi, fattala rialzare, si infilò il cazzo nei pantaloni, e con una manata sul culo la salutò.

“Buona notte pubblicitaria. E saluti al maritino”.

Silvia rimase sola nella strada buia.

 

 

21 – Il bacio rubato

Recuperata la macchina, Silvia rimase a lungo seduta immobile, le mani al volante, la mente a riavvolgere il film di quella giornata pazzesca. “Dio mio, Piero” si lasciò sfuggire qualche minuto dopo, quando lo sguardo le cadde sull’orologio. Mezzanotte era passata da un pezzo e il suo Padrone – non so neppure il suo nome si ritrovò a pensare con un mezzo sorriso – nella brevissima telefonata con aveva promesso a suo marito che per le 23 sarebbe tornata a casa. Accese il telefono, che immediatamente iniziò a lampeggiare mentre una lunga serie tra messaggi e chiamate fatte scorrevano sul display. “Sto arrivando a casa” si limitò lei a scrivere sbrigativamente al cellulare di Piero, senza brigarsi di leggere tutti i messaggi. Guidava assorta per le strade deserte di una Milano che custodiva chissà quali segreti, senza fretta, preparandosi al ritorno a casa e all’incredibile storia da raccontare a Piero. “Sarà arrabbiato? Sorpreso? Eccitato?”. Silvia conosceva suo marito da una vita, eppure questa volta non sapeva come avrebbe reagito. Perché un conto è parlare, immaginare, sognare, un altro fare il passo decisivo, trasformare qualcosa di immaginario in realtà concreta, tangibile. Qualcosa che da quale momento sarebbe stato impossibile cancellare, rimuovere dalle proprie vite. Eppure Silvia non era pentita della sua decisione, anzi, sapeva che se si fosse trovata davanti alla stessa scelta, telefonare o cancellare quel numero che fino a qualche ora prima apparteneva a un totale sconosciuto, si sarebbe comportata esattamente allo stesso modo.

Quanto ai due poliziotti, poi, una parte di se stessa gridava che avrebbe dovuto denunciarli, correre alla prima stazione di polizia e raccontare quello che le avevano fatto. Sul suo corpo c’erano ancora le tracce del loro piacere, e al di là del motivo che aveva scatenato tutto, il suo abbigliamento indecente per una professionista, moglie e madre, alla fine erano stati loro ad avere abusato di lei, sfruttando il loro ruolo pubblico. Eppure, un’altra parte della sua mente diceva che no, non lo avrebbe fatto, che se era vero che loro si erano approfittati di lei, anche lei, a suo modo, lo aveva fatto per togliersi quelle voglie che l’incontro con il suo Padrone (la P restava maiuscola nella sua testa) aveva scatenato, senza poterle soddisfare. “Puzzi di sborra, come una puttana di strada” si disse a voce alta mentre si avvicinava a casa. Con la lingua si contornò le labbra, il sapore un po’ salato a ricordarle gli avvenimenti di poco prima. Incredibilmente, si stupì di sentirsi ancora eccitata. “Cosa mi sta succedendo?” si domandò Silvia. Che calda, focosa, disinibita, lo era sempre stata. Ma così… “A volte si chiude una porta e si apre un portone” le venne in mente il proverbio. Anche se in questo caso, ad aprirsi erano state piuttosto le sue gambe.

Fortunatamente trovò parcheggio non lontano dalla porta del suo condominio, a quell’ora meno gente la vedeva e meglio sarebbe stato. Soprattutto se fosse stato qualcuno di conosciuto. Tirò fuori le chiavi dalla borsetta e aveva appena fatto scattare la serratura, quando alle sue spalle sentì l’abituale zampettare felpato di Nathan, seguito da Francesco, reduci dalla solita passeggiata notturna. “No, cazzo! No!” Silvia maledisse in silenzio l’apparizione dei due. “C…ciao Francesco” lo salutò in modo imbarazzato. “Per fortuna non può vedermi” ringraziò la sua fortuna che, tra i tanti, fosse toccato proprio al ragazzo non vedente sorprenderla al ritorno a casa. “Ah, sei tu Silvia, ciao. Scusa non ti avevo riconosciuta” rispose gentile come sempre Francesco. “E come potresti, povero ragazzo, visto che non mi vedi” gli rispose in silenzio. “Torni a casa tardi, stasera” buttò lì Francesco mentre i due aspettavano l’ascensore. Nathan, nel frattempo, si era sistemato tra loro e annusava le gambe di Silvia. “Sì, sì – indugiò lei -. Abbiamo del lavoro da consegnare e…abbiamo finito tardissimo, ecco” si inventò la prima bugia che le venne in mente, con un tono peraltro alquanto poco credibile. “Già” si limito a rispondere Francesco.

All’arrivo dell’ascensore, Silvia entrò per prima poi, una volta chiusa la porta, iniziò la lenta salita verso il suo piano. “Silvia… se vuoi passare da me, prima di entrare in casa” le disse un po’ titubante Francesco. “Ti serve qualcosa? Hai bisogno?” rispose Silvia, mentre Nathan, attirato dall’odore,  aveva iniziato a leccarle i piedi. “No, no, per nulla. È solo che…ecco, non ti avevo riconosciuto perché questa sera il tuo non è il solito odore. Scusa se sono brutale ma…puzzi di sperma. Non so a che riunione tu sia stata, ma se non vuoi che Piero se ne accorga, puoi venire a ripulirti da me”. Il volto di Silvia diventò di mille colori, che per sua sfortuna Francesco poteva solo immaginare. “No… no, non è come tu pensi, cioè – farfugliò Silvia -. Comunque, non grazie, apprezzo molto il tuo gesto, ma non è necessario”. Nel frattempo, Nathan aumentava il ritmo delle leccate ai piedi, cosa che provocava un misto tra solletico e fastidio a Silvia, che con calma cercava di distrarre, senza peraltro riuscirci, il cane lupo. “Su, lascia che almeno si diverta un poco anche lui” le disse Francesco, proprio mentre con un piccolo colpo l’ascensore si fermò al piano. In quei pochi secondi prima che le porte si aprissero, Francesco sollevò una mano verso il volto di Silvia che, una sfinge, non oppose resistenza. Le dita percorsero le sue linee delicatamente. “Ho sempre immaginato che tu fossi bella” le disse quasi sussurrando. Poi, prima di uscire, si avvicinò a lei e la baciò, altrettanto delicatamente sulle labbra. Silvia, colta di sorpresa, si ritrovò a rispondere, le lingue che per un breve attimo si unirono. “Grazie” le disse Francesco. Per poi aggiungere: “Sì, sai decisamente di sperma. Buonanotte Silvia”. E strappando Nathan alla sua esplorazione dei piedi, si diresse verso il proprio appartamento. Silvia, le chiavi in mano, stava per infilarle nella serratura quando la porta si aprì. “Ciao Piero…”.

 

Continua…

 

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