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Racconti di DominazioneRacconti Erotici

La lunga notte – cap. 7

By 31 Agosto 2021No Comments

Cap. 7

Tre giorni. Sono tre giorni che ogni pomeriggio arrivo puntuale alle due, suono al portone e salgo le scale che mi portano da lui. Dasho mi ha fatto dare un piccolo armadio in cui tenere i miei vestiti, nella camera di Liveta. Partiamo insieme, lei, io e Nadia accompagnate in macchina fino all’autoporto. Tre pomeriggi di lavoro. Fino alle sei e mezza arrampicata a cosce aperte su quel maledetto guardrail. Una teoria continua di camion, container, uomini. In tre giorni il mio corpo ha ospitato decine di cazzi che si sono accomodati nella mia fica, nella mia bocca, nel mio culo. Entrati dentro di me, svuotati dentro di me. Ogni volta chiudo gli occhi per perdermi nell’azzurro dei suoi, pensando che quella carne dentro di me sia lui.

Venerdì, sei e mezza, l’ultimo passaggio dieci minuti fa, un nero, grasso e puzzolente. Un pompino con l’ingoio, ho ancora il suo gusto in bocca.
La macchina sta facendo il giro della rotonda, alla guida Ditmir. Sono sempre loro a venirci a riprendere. E a prendere i soldi.
Entriamo in macchina, Dasho raccoglie i soldi dalle nostre borse, mentre Nadia e Liveta danno sfogo alla loro parlantina, ridendo e scherzando con i due uomini.
Arriviamo nella via del baretto, Ditmir parcheggia poco distante dal portone.
Il fresco oscuro delle scale mi accoglie con un brivido.
Vado in camera con Liveta, mi spoglio e mi sdraio sul letto, mentre lei si infila nella doccia.
Esce dopo un quarto d’ora, avvolta in un accappatoio rosa. “È libero” mi avverte con voce squillante.
Mi alzo, entro nel box trasparente, l’acqua tiepida mi accoglie materna, lava via in sottili strisce di schiuma tutti gli uomini, tutte le mani, tutte le presenze che hanno invaso il mio corpo.
Alzo il volto verso il getto, gli occhi chiusi. Mille spilli risvegliano la mia pelle. Le mie mani scorrono i capelli, dietro la testa.

Sento la porta del box aprirsi, raccolgo i capelli in una coda, tenendoli con le mani senza voltarmi.
Braccia forti mi circondano. Le sue mani raccolgono i miei seni, abbasso lentamente la testa, le sue labbra scorrono veloci sul collo, mentre le sue dita scendono lungo i miei fianchi.
Appoggio la testa sulle braccia incrociate contro il muro, il mio bacino si sporge all’indietro. Sento il suo desiderio contro il solco delle mie natiche. Con i piedi mi fa divaricare le gambe, per quanto permette lo spazio angusto del box. Una mano prepara la via, massaggiandomi la fica, aprendone le labbra contro cui lo sento appoggiarsi. Scivolo lentamente sul muro, spingendo i fianchi contro di lui per farlo entrare. Muovo il bacino lentamente, mentre il suo ritmo accelera piano. Lo sento in ogni spinta, sento il glande contro la bocca dell’utero, sento la sua pelle ritrarsi nell’avanti e indietro, sento la sua presenza come parte di me. Le sue mani scorrono sul mio corpo, usano una sua proprietà liberamente. Stringono i miei capezzoli, fino a strapparmi un grido di dolore, poi una afferra i miei capelli, tirandomi indietro come le briglie di una puledra, l’altra scivola a massaggiarmi tra le cosce, mentre continua a entrare e uscire dal mio corpo liberamente.
La mia mente è piena di lui. Il mio corpo è pieno di lui e un orgasmo interminabile prende possesso dei miei muscoli, dei miei nervi, delle mie vene. Ansimo godendo mentre lo sento continuare a pompare dentro di me. Il mio piacere si fonde con un rantolo animale, mentre lo sento affondare sempre più i colpi fino a piantarsi nel profondo delle mie viscere, fermo dentro di me. Sento distintamente ogni contrazione che mi riempie del suo sperma, abbandonata e accogliente.
Le gambe si piegano, mi volto verso di lui. Le mie labbra cercano le ultime gocce, gli ultimi brividi del suo piacere, poi alzo gli occhi, incrociando i suoi.
“Devo parlarti” sussurro
“Cosa c’è?”
“Domani è sabato, io… io…- abbasso lo sguardo – nel week-end non posso” finisco tutto d’un fiato.
Il silenzio sovrasta lo scrosciare dell’acqua ancora aperta. Non oso guardarlo. I secondi sembrano interminabili.
La sua mano mi alza il mento.
“Va bene. Ti aspetto lunedì sera alle nove. La prossima settimana lavori di notte.”
“Ma… ma come faccio, cosa dico a mio marito? una sera, due, ma poi? Fammi lavorare di giorno, lavorerò anche al mattino se vuoi. Ti prego…” I miei occhi lo implorano.
“lunedì alle nove. O vengo a cercarti.”
Lo guardo uscire dalla doccia senza voltarsi, avvolgendosi in un immenso asciugamano bianco.
Lentamente mi rialzo, l’accappatoio mi accoglie morbido.

Il viaggio verso casa è una analisi di tutte le scuse più o meno credibili che potrei inventare. Ma non trovo nulla che possa reggere per una intera settimana, si tratta di rientrare verso le tre, quattro di notte. O forse non rientrare affatto. Ma con che giustificazione? Per qualche giorno potrei essere da un’amica, ma quale? E poi sicuramente dovrei raccontare una storia anche a lei.
Bisogno di stare da sola? Non voglio preoccupare Matteo più di quanto non lo sia già. Ma non voglio rinunciare a Dasho.

Entro in casa avvolta dai miei pensieri, mentre Matteo mi viene incontro sorridente.
È sempre stato la mia forza, il mio sostegno, Matteo. Fin dai tempi del liceo. Lui più grande di me mi ha insegnato a diventare donna, a scoprire il mio corpo e il piacere che si nascondeva nella mia mente. Un amico, un complice, un pilastro su cui appoggiarmi.
“Come stai?” i suoi occhi indagatori cercano di studiare il mio umore, il mio stato d’animo.
“Bene – rispondo cercando di essere sorridente – ne hai uno anche per me?” indico il calice umido di condensa pieno di vino bianco che è adagiato nella sua mano.
“Certo, vieni” dice baciandomi con dolcezza.
Lo seguo fino in cucina, da una ciotola prendo una manciata di pistacchi, mentre Matteo mi versa un bicchiere di vermentino uscito dal frigo.
Mi parla della sua giornata, del lavoro, quasi non lo ascolto, annuendo ogni tanto.
La mia mente è concentrata su come liberarmi senza insospettirlo troppo.
“la prossima settimana devo andare a Roma, vieni con me? Potresti fare un po’ di shopping.”
Roma. Va a Roma. Tutta la settimana da sola. Sono in agitazione, non posso crederci, cerco di calmarmi.
“Roma? – un colpo di fortuna sfacciata, non devo inventare nessuna scusa, fingo di pensarci un attimo cercando di riprendere fiato – no, sono stanca e poi non ho voglia di fare tutto quel viaggio e aspettarti tutto il giorno mentre lavori. Resto qui, facciamo poi qualcosa insieme il prossimo week-end, che ne dici? O magari ti raggiungo a metà settimana” aggiungo sapendo di mentire.
“Sicura di non voler venire?” Mi dice guardandomi negli occhi.
“Si, tutto bene, sono solo stanca. Passerà, vedrai.”
“Va bene. Però domani sera usciamo con Francesco e Loredana. È un po’ che non ci vediamo e Francesco continua a insistere, mi dispiace dirgli di no ancora una volta e uscire ci fa bene.” risponde deciso dopo un attimo.
Francesco. Non ci avevo più pensato dopo quella sera, a parte un paio di volte in cui Matteo aveva provato a organizzare qualcosa con loro. Ma non potevo certo continuare a evitarli e tanto meno volevo spiegare perché non avessi voglia di vederli.
“va bene, dai. Mettiti d’accordo tu.” taglio corto.

La luce del giorno mi riporta alla realtà. Guardo la sveglia, le dieci e mezza. Resto a impigrire qualche minuto, poi mi alzo e entro in doccia.
Colazione, poi chiamo l’estetista per un appuntamento nel pomeriggio. A mezzogiorno il suono del cellulare mi distoglie dalla lettura di un libro, è Matteo.
“Ciao, per stasera ho prenotato al “bosco delle fate”, siamo noi due, Francesco e Loredana, va bene allora?”
“Si, certo. Per che ora gli hai detto?”
“Per le otto al ristorante, passo a prenderti alle sette e un quarto.”
“Va bene amore, a dopo”

Puntuale alle sette e un quarto lo squillo di Matteo sul cellulare mi fa uscire di casa.
“Sei bellissima” mi dice baciandomi
“Merito del riposo e dell’estetista” rispondo sorridendo.
Al ristorante baci e abbracci con Loredana, ma cerco di evitare il contatto con Francesco senza dare troppo nell’occhio.
“E’ un mare di tempo che non ci si vede, chissà quante cose avrai da raccontarmi” mi dice Loredana prendendomi sottobraccio mentre andiamo al tavolo.
La serata trascorre tranquilla e comincio a rilassarmi, quando l’argomento scivola sulle ordinanze anti-prostituzione che alcuni comuni stanno emettendo, quelle con le multe ai clienti o anche solo a chi si ferma a parlare con le prostitute.
“A me pare giusto, è ora che i maschietti comincino ad aver paura di andare a cercare sesso a pagamento” dice ad un certo punto Loredana.
“Sono d’accordo – rincaro io guardando la reazione di Francesco – anche perché non si può mai sapere. Spesso padri di famiglia, professionisti, gente insospettabile sono tra i clienti più assidui. Almeno così dicono le statistiche”
“Già, per fortuna tu amore puoi stare tranquilla – mi interrompe Francesco – lo sai che per me è la conquista a intrigarmi. Se pago che conquista è?” e scoppia in una risata.
Che falso ipocrita! Lo guardo allibita cercando di dissimulare, poi non riesco a trattenermi. “Chi si scusa senza essere accusato è sospetto. Stai attenta Loredana, mi preoccuperei per i troppi straordinari in ufficio del tuo maritino. Chissà che il tuo Frà la notte non faccia qualche giretto di troppo.” poi rido, forse un filo sopra le righe, vedo lo sguardo di lui abbassarsi impercettibilmente. Colpevole. Poi l’argomento cambia ancora e la serata continua.

Lunedì mattina. Matteo è partito per l’aeroporto da un paio d’ore, quando pigramente scivolo giù dal letto verso la doccia.
Mille pensieri attraversano la mia mente, chiudo gli occhi e l’azzurro di quelli di Dasho scivola su di me come un lenzuolo di seta. Le mie mani percorrono il mio corpo, avide di fremiti, l’acqua che corre sulla mia pelle si mischia al bagnoschiuma denso, profumato. Le mie labbra si schiudono mentre il mio volto è rigato dalle gocce che scendono dal cielo su di me. Tra poche ore sarò da lui, sarò come lui mi vuole.

Undici di sera, cammino lungo il marciapiede, vicino a me Marina, come la prima sera. Dio quanto tempo è passato. Valjet ha preso un passaggio con due ragazzotti di vent’anni. Sono al lavoro da un’ora e mi hanno già caricato due volte. È lunedì e la serata è abbastanza tranquilla. Parliamo. Marina mi racconta del suo paese, della sua famiglia, dei soldi che riesce a mandare a casa. La speranza di una vita migliore per loro, per lei. Nonostante tutto.
Lo squillo del mio cellulare ci interrompe, rispondo cercando la luce blu dentro la borsa e Marina si allontana.
“Ciao Amore! – la voce di Matteo, mi mette allegria – ti sei sistemato in albergo?”
“Si, tutto bene, tu?”
“sono uscita a fare quattro passi, sto bene. Come sono andate le riunioni?”
“Bene, anche se sono stanco. Tra viaggio e lavoro non mi reggo in piedi. Ora mi infilo a letto.”
“Allora fatti una bella dormita, ci sentiamo domani mattina belli riposati, va bene?”
“Va bene, non fare tardi anche tu, a domani.”
“A domani” mormoro. Riattacco.
Il sibilo di un vetro che scende mi riporta alla realtà.
“Quanto vuoi?” faccio un passo e mi piego verso il finestrino. Il peso del mio seno apre generosamente la camicia azzurra, leggermente trasparente.
“50 con il guanto, 30 di bocca, andiamo?” rispondo con un sorriso. Il suo sguardo vaga dai miei capezzoli al bordo delle autoreggenti che spunta dalla microgonna nera, una fascia elasticizzata alta a malapena un palmo
“lavori anche senza guanto?” è un tipo distinto e incolore, potrebbe essere un impiegato di banca, o anche un piccolo professionista. Si, lo vedrei bene come ragioniere.
“ti costa di più, con 100 euro facciamo una cosa con calma e puoi venirmi dentro, oppure ti faccio morire con un pompino con l’ingoio che ti ricorderai per un pezzo.”
Mi guarda ancora valutando la merce, sento le rotelle che girano. Il ragioniere fa i conti, penso trattenendo una risata.
“Va bene, sali”

Scendo dall’auto dopo venti minuti, nuovamente al mio posto masticando un chewin-gum per togliermi il gusto dello sperma dalla bocca. Il ragioniere mi saluta sorridente, guardando ancora con occhi sognanti le labbra in cui poco fa è venuto, che hanno raccolto tutti i suoi umori, quella gola che ha deglutito tutto il suo piacere. Chiudo la porta e la macchina si allontana.
Passeggio lungo il marciapiede, mentre vedo tornare Valjet. Scende da una utilitaria salutando i due occupanti, poi mi viene incontro. Cominciamo a chiacchierare, in fondo questo lavoro per buona parte del tempo è attesa, da ingannare con le compagne parlando, ridendo, telefonando come fanno loro e soprattutto esibendosi come in una vetrina per attirare clienti.
Già, i clienti. Mentre sto ridendo un’auto ha accostato alle mie spalle, Valjet mi affianca avvicinandosi al finestrino e la mia risata muore, l’Audi di Francesco è davanti a noi.
Il vetro si abbassa mentre Valjet si piega per parlare ed io faccio un mezzo passo indietro, ma Francesco sporgendosi e guardando oltre le spalle di Valjet si rivolge a me.
“Hey, ciao. Michela, vero? Sei libera?”
Valjet si ritrae e ridendo mi dice “Beh, direi che è tuo”
“Già” mormoro avvicinandomi alla macchina
“Allora sei tornata, bene, sali dai.”
Apro la porta e mi accomodo sul sedile mentre l’auto riparte.
“Non puoi sapere quante volte sono passato a vedere se c’eri. Ti ricordi di me?”
“Si, certo, sei quello che ha una amica che mi assomiglia. Però non ricordo il tuo nome” rispondo cauta.
“Già, Francesco. Il mio nome è Francesco. Ti assomiglia? Due gocce d’acqua. Ti ricordi come si chiama?”
“Pretendi troppo dalla mia memoria” rispondo cercando di sorridere, mentre l’auto svolta nello sterrato verso il parcheggio.
“Beh, hai ragione. Si chiama Angela, è la moglie di un amico. Dio quanto vorrei scoparmela.”
La macchina si ferma.
“I soldi, non ne abbiamo parlato. Sono cento euro per una cosa con calma.”
“Giusto, i soldi, ecco qui.” Mi mette in mano due banconote da cinquanta sorridendomi.
Le prendo ricambiando il sorriso. Frugo nella borsa cercando il portafoglio e nel buio la luce azzurra del cellulare illumina la mia ricerca.
Lo prendo guardando Francesco “Scusa, rispondo e lo spengo”
“Figurati, non c’è problema” Poi i miei occhi guardano il display.
1 chiamata da Francesco recita laconico il messaggio, mentre il cellulare continua a suonare.
Guardo la scritta come ipnotizzata, poi lentamente mi volto verso di lui, che intanto ha estratto il suo telefono che si illumina a intermittenza.
“Bingo! – esclama trionfante – Bene Angela, allora come la mettiamo adesso?”
Non riesco ancora a realizzare, mentre con il pollice chiude la chiamata.
“Cosa vuoi dire”
“Che evidentemente tu sei Angela. L’Angela che qualche sera fa faceva la moralista sugli uomini che vanno a troie”
Già, è evidente che sono io, la chiamata sul mio cellulare ne è la prova. “Sei veramente uno stronzo, oltre che un puttaniere”
“E tu una puttana, facciamo una coppia perfetta, non credi?” risponde con aria suadente.
“No, non facciamo una coppia perfetta, non facciamo una coppia per niente, riportami indietro dove mi hai preso”
“Beh, vedremo – dice calmo riprendendosi delicatamente le banconote che tenevo ancora in mano – non voglio sapere perché sei qui. Non certo per soldi comunque, Matteo non ha problemi. Ma chissà se sà quello che fa la sua mogliettina alla sera, quando lui è a Roma.”
“Sono cazzi nostri, ok?”
“eh no! Non solo vostri a questo punto. Comunque vuoi dire che lui è d’accordo? Posso chiamarlo e chiederglielo?”
Mi fissa dritto negli occhi. Cerco di sostenere il suo sguardo, pensando a cosa fare. Poi un’illuminazione. Sorrido, beffarda.
“E cosa gli dici, sono andato a troie e ho trovato tua moglie? Secondo te ci crede o ti mette le mani addosso?”
“Non so – replica con la massima calma, sfilando dalla tasca un secondo cellulare attivato – ma forse alla registrazione di questa conversazione ci potrà credere. Come ci potranno credere i nostri amici.”
Guardo il sorriso di trionfo sulle sue labbra. La rabbia mi sale incontenibile.
“Sei un bastardo, un figlio di puttana, un essere ripugnante” afferro la maniglia e apro la porta, ma la sua mano mi afferra per un braccio.
“Calma, Angela, calma. Non voglio mica rovinarti. Troveremo un accordo, vedrai.”
Mi fermo. So di essere nelle sue mani. Richiudo la porta con violenza.
“Allora?” gli dico con aria di sfida
“Allora se vuoi firmare la pace stai zitta e spogliati.”
Resto ferma per un minuto interminabile, mordendo nervosamente le unghie.
Poi le mie mani fanno scivolare la gonna lungo le gambe e la camicia si adagia sul sedile posteriore, seguita dal reggiseno.
“Brava, ora fammi sentire la tua bocca, preparamelo per bene.”
Senza parlare gli slaccio i pantaloni, le mie labbra si accostano alla cappella, la lingua percorre tutta l’asta ricoprendola di saliva, poi lo accolgo in bocca, andando su e giù e stuzzicando ogni volta la punta ottenendone una contrazione e un mugolio compiaciuto.
Cinque minuti e la mano mi afferra per i capelli, sollevandomi la testa. Il volto si avvicina al mio.
“Mettiti comoda, troia, voglio scoparti.”
Arretro il sedile e lo abbasso al massimo, punto un piede sul cruscotto, l’altro alla base del cambio.
Lui scavalca il tunnel e si mette in ginocchio sul pavimento dell’auto, poi entra in me.
Lo sento dentro come una presenza estranea, delle decine di uomini che in queste settimane hanno goduto il mio corpo per la prima volta mi sento realmente violentata.
Lui entra ed esce da me seguendo solo il ritmo del suo piacere, mentre in me sale la nausea. Il mio corpo non reagisce, mi abbandono a quei colpi, vorrei solo essere distante. Fino ad oggi avevo scelto di cedere il mio corpo volontariamente, o comunque ne avevo avuto in qualche modo piacere. Questa volta no, sento i colpi che aumentano in frequenza, in profondità, so perfettamente cosa vuol dire.
Spingo il bacino in avanti per favorire il suo movimento mentre guardo il soffitto dell’auto. E poi lo sento, una spinta più forte, la schiena inarcata e lui completamente dentro di me, con la cappella perfettamente appoggiata alla bocca dell’utero. Una contrazione, due, tre. Sta venendo. Penso a Loredana, penso a Matteo. Ancora la nausea. Lui pompa ancora qualche colpo dentro di me. In fondo ha fatto presto, penso.
Con un po’ di fatica torna dalla sua parte e si abbandona a riprendere fiato.
Con una mano mi tira per i capelli verso la sua asta. So cosa vuole, la mia lingua ripulisce con diligenza il cazzo, poi mi scosta.
“Brava la mia troia” Mi dice rivestendosi. Anche io recupero i miei vestiti in silenzio.
Ripartiamo, due minuti e siamo dal marciapiede.
“Ti chiamo domani, il tuo numero ce l’ho. Ho bisogno di te in ufficio” Ride.
“Vaffanculo” dico scendendo.
La macchina si allontana, io mi avvicino all’aiuola appoggiandomi con una mano ad un albero e, finalmente, mi libero della nausea che mi assale.

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