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Racconti di Dominazione

Ladra

By 15 Luglio 2010Dicembre 16th, 2019No Comments

Elena era entrata facilmente.
Una bella ragazza, vestita in maniera sobria ed elegante, non ha il coraggio di fermarla nessuno.
Il portiere di quel condominio di lusso, quando lei era entrata con il passo deciso di chi sa benissimo dove andare, aveva risposto al suo saluto e si era fatto da parte.
Aveva preso l’ascensore fino all’ultimo piano, poi aveva fatto a piedi le ultime due rampe, quelle che conducevano in terrazza.
La porta in ferro era chiusa solo da un semplice lucchetto, facile da tagliare anche con una piccola cesoia, ma lei era una che lavorava pulito, senza lasciare tracce, così aveva messo giù lo zainetto ed aveva tirato fuori la cassettina degli attrezzi.
C’erano voluti solo pochi secondi per far scattare la serratura del lucchetto.
Conosceva perfettamente il punto in cui sistemare la fune che le avrebbe permesso di scendere sul terrazzo giusto.
Uno scherzetto per lei, che aveva cominciato a undici anni, salendo e scendendo lungo tubi del gas e grondaie dei condomini popolari di mezza Italia.
I bambini zingari, quando sono poveri chiedono l’elemosina, se sono abili con le mani, vanno a portafogli sugli autobus, ma se sono agili e leggeri, si arrampicano sulle facciate delle case.
Serve coraggio, è necessario non soffrire di vertigini e poi, non si può sbagliare.
Suo fratello aveva sbagliato, non aveva provato bene la resistenza del tubo di una grondaia, prima di affidargli la sua pelle, ed era volato giù da un terzo piano.
Si era fratturato in più punti un braccio ed entrambe le gambe, ma avrebbero anche potuto evitare di risistemare i suoi arti, perché nel volo si era anche spezzato la schiena.
Tetraplegico. All’inizio non riusciva neanche a pronunciare quella parola strana, che le avevano detto i medici dell’ospedale.
Quando lo avevano rimandato a casa, aveva capito solo una cosa: che suo fratello non avrebbe più camminato, che sarebbe per sempre rimasto sdraiato su un letto, capace solo di parlare e muovere la testa.
Ora lei aveva quasi trenta anni, aveva abbandonato da tempo la sua famiglia e la sua comunità, e lavorava poco e con attenzione.
Sempre da sola, perché meno persone coinvolte significa sempre meno possibilità di essere beccati.
Aveva solo un paio di persone fidate che le fornivano tutte le indicazioni, e poi si occupavano di sistemare la refurtiva.
Elena faceva al massimo un paio di colpi al mese. Viveva bene ed aveva un mucchio di tempo libero.
Non l’avevano mai beccata ed era sicura che sarebbe riuscita sempre a farla franca.
Fissò la fune ad una grossa staffa murata nella parete del locale macchinario ascensore e provò a dare un paio di strattoni.
Si rimise lo zaino sulle spalle e scese agilmente.
L’appartamento che doveva ‘fare’ era in quel momento vuoto e non aveva nessun antifurto. Era abitato da una signora anziana, che ci viveva da sola, senza uscire mai di casa, tranne una ventina di giorni l’estate, che trascorreva in collina da suo figlio.
Un gioco da bambini. Si trattava soltanto di aprire una vecchia cassaforte, dove era custodito un cofanetto con dei gioielli, poi sarebbe uscita per la stessa strada, senza lasciare la minima traccia. Avrebbe recuperato la fune e richiuso la porta della terrazza. Nel giro di mezz’ora sarebbe passata di nuovo davanti al portiere, salutandolo gentilmente, e sarebbe sparita, inghiottita dalla folla della grande città.
Il furto, probabilmente, sarebbe stato scoperto dopo mesi e nessuno avrebbe mai capito come era accaduto.
Con una striscia di plastica fece scattare la serratura della porta finestra del soggiorno, sollevò con le mani la serranda, quel tanto sufficiente a far passare sotto il suo corpo snello.
Aveva studiato a lungo la pianta dell’appartamento, doveva attraversare il corridoio, la stanza da letto, dove era nascosta la cassaforte, era l’ultima porta sulla destra.
Era giunta a metà dal corridoio, quando un lieve rumore la fece trasalire.
Forse si era sbagliata, la casa era disabitata, non poteva esserci nessuno, a parte lei.
Un leggero sibilo, come quando qualcuno dice di far silenzio, la fece girare.
Si trovò di fronte un giovanotto biondo e mingherlino, in mutande e canottiera, che, con un dito davanti alle labbra, le faceva cenno di tacere.
Elena non era il tipo di donna che si spaventa facilmente e nella vita era sempre stata abituata a cavarsela da sola, non si sarebbe certo preoccupata di un tipo così, che la fissava attraverso un paio di occhiali dalle lenti spesse.
Era anche esperta di svariate arti marziali ed avrebbe potuto stenderlo ed immobilizzarlo prima che lui riuscisse a capire cosa stava accadendo.
Certo sarebbe stato uno spiacevole contrattempo ma ‘
‘ c’era un grosso problema, esattamente nella mano destra del ragazzo: si trattava di una nera e minacciosa automatica.
Lei non amava le armi e, tra l’altro, se un ladro viene beccato armato, rischia molto di più, quindi aveva sempre evitato con cura, di portarsi appresso una pistola.
L’avrebbe usata?
La maniera in cui impugnava l’arma faceva capire che sapeva esattamente cosa farci e poi è sempre meglio non saggiare le intenzioni di una persona armata, perché gli errori possono essere non rimediabili.
Roteando la canna della pistola le fece capire che voleva che lei si girasse.
Era troppo lontana da lui per provare a disarmarlo con un colpo improvviso, meglio stare buona ed assecondarlo, per ora.
Così Elena si girò.
Il colpo, violento ed improvviso, vibrato sicuramente con il calcio della pistola, le scoppiò nella testa.
Si stava facendo buio e lei stava cadendo in basso. Come suo fratello? No, la discesa era durata poco, ed era stata arrestata da due braccia che l’avevano sorretta.
Notte fonda.
Si risvegliò con un sordo mal di testa.
Era sdraiata e non riusciva a muoversi.
Lentamente, la nebbia che le offuscava la vista, si stava diradando.
Era distesa su un vecchio letto con le alte testate di ferro battuto.
Capì anche perché non riusciva a muoversi: sia le braccia che le gambe, entrambe divaricate erano fissate alle testiere del letto, per mezzo di robuste catene.
I polsi e le caviglie erano serrati da grossi anelli di ferro, che le strusciavano dolorosamente sulla pelle.
Per il resto non era cambiato nulla, Elena indossava ancora i jeans attillati e la camicetta con cui era entrata in quella casa, mentre i suoi piedi non calzavano più i mocassini bassi, con la suola di gomma, che aveva quando era entrata nell’appartamento.
Il suo carceriere, sì, poteva benissimo definirlo così, visto che era prigioniera, era seduto di fronte a lei e la guardava con aria tranquilla.
Non aveva più la pistola e, d’altra parte, con lei incatenata in quella maniera, non era certo necessaria.
‘Finalmente ti sei svegliata. Hai dormito un paio d’ore abbondanti. Temevo di averti colpito troppo forte.
Ti aspettavo da diversi giorni, ormai credevo che non saresti più venuta.’
‘Cosa vuoi? Cosa vuoi da me?’
‘Conoscerti, naturalmente. Mi avevano detto che eri carina, ma non mi aspettavo una ragazza così attraente, davvero.
Vedi, Elena ‘ ti chiami così, vero? So parecchie cose di te e posso dire di essere stato l’artefice della tua presenza qui, oggi.
Sono stato io a fornire le informazioni per il colpo.
Naturalmente qualche particolare era volutamente impreciso. Per esempio non ho detto che la vecchietta non viveva sola, ma ospitava gentilmente il suo nipotino prediletto.
La cassaforte, ahimè, esiste, ma è vuota da un mucchio di anni. Mio nonno, il marito della vecchietta, si è sparato tutto, parecchio tempo fa: donne e cavalli.’
‘Ma perché ‘?’
‘Vuoi sapere perché tutta questa messinscena?
Vedi Elena, io con le donne non ci ho mai saputo fare molto. Ora ho tutta per me una ragazza bellissima, che non potrà dirmi di no, perché è saldamente incatenata ad un letto e perché, essendo una ladra, non può andare dalla polizia.
Ho diversi giorni di tempo per conoscerti per bene. Nessuno verrà a disturbarci …’
‘Gli altri, mi cercheranno qui …’
‘Non dire stupidaggini, non c’è nessun altro a conoscenza della tua attività, quello che ti procura i colpi sa a malapena il tuo nome e sei sempre tu a cercarlo, chiamandolo sul suo cellulare.
Ma ora abbiamo chiacchierato anche troppo, vediamo un po’ come è fatta la mia piccola ladra.’
Si era alzato brandendo un grosso taglierino.
‘Brutto bastardo, non provare a toccarmi …’
‘Sta tranquilla, per ora non ti tocco. Devo solo sbucciarti per vedere se la frutta che ho comprato è bella matura.
L’unica maniera per toglierti i vestiti, senza liberarti dalle catene, è quella di tagliarli.’
Si era avvicinato ai suoi piedi ed aveva inciso profondamente la stoffa dei jeans alla fine di una gamba.
Uno strattone deciso e il pantalone si era aperto fino al ginocchio, Un altro taglio, un altro strattone ed il taglio area arrivato fino a metà coscia.
‘Ora, prima di continuare, togliamo la cintura, ci vorrebbe troppo tempo a tagliarla.’
Impiegò un po’ di più a tagliare la stoffa nel punto della vita, perché era cucita e ripiegata, ma alla fine la gamba sinistra di Elena era rimasta completamente nuda.
Ripeté la stessa operazione con la gamba destra, quando ebbe terminato, infilò una mano in mezzo alle gambe della ragazza e tirò.
Ora Elena, a parte il piccolo slip color carne, dalla vita in giù, era completamente nuda.
Per la parte di sopra non usò il taglierino, fu sufficiente tirare con forza i due lembi della camicetta, per far saltare tutti i bottoni.
Poi riprese il taglierino e cominciò a tagliare in orizzontale, partendo da una manica, continuando sotto l’ascella fino ad arrivare alla parte centrale, dove si trovava l’allacciatura. Ripeté la manovra con l’altro lato e, infine, come se fosse un colpo di prestigio, le sollevò leggermente il capo e, dopo aver afferrato la camicia da dietro, per il colletto, la tirò via.
Tutto si era svolto con una rapidità insospettata.
Ora Elena si trovava praticamente nuda, ricoperta solo da mutandine e reggiseno, entrambi trasparenti e color carne, incatenata ed in balia di quello che si stava rivelando un pazzo psicopatico.
Si era trovata spesso in situazioni difficili ed aveva sempre mostrato un notevole sangue freddo, ma ora, davanti a questa circostanza così nuova ed imprevedibile, a cui non era assolutamente preparata, perse completamente il controllo e cominciò a gridare disperatamente.
‘Non serve a nulla, perché siamo soli in casa, i vicini sono tutti in ferie e questa stanza, quando facevo il liceo, la usavo per suonare la batteria, per cui è stata completamente insonorizzata.
Non ti potrebbe sentire nessuno.
Adesso, piantala e fammi finire il lavoro.
Fino adesso sei stata una sorpresa piacevolissima: due gambe favolose, la vita sottile ed un bel pancino morbido.
Sono curioso di vedere i tuoi seni e poi ‘ la tua bella cosina.
Elena aveva smesso di gridare e si era immobilizzata, perché temeva che la lama del taglierino, potesse ferirla, quando lui avrebbe tagliato quegli ultimi brandelli di stoffa che ancora proteggevano il suo corpo dagli sguardi del suo carceriere.
‘Ma sono veramente una meraviglia.’ Disse mentre sistemava le ciocche dei suoi lunghi capelli neri sui suoi seni nudi.
‘Hai due tette favolose, chissà perché, a vederti vestita, ti facevo più magra. Sono sicuro che ci divertiremo molto, i prossimi giorni.
Ed ora andiamo a far visita alla tua bella cosina.
Come la chiami? micetta, forse?’
Elena gridò, quando lui, dopo aver tagliato lo slip su entrambi i fianchi, lo tirò via di colpo.
Era semi aperta e leggermente bagnata, appena evidenziata da un ciuffetto nero e riccio. Lei si stupì un po’ di questo, perché le sembrava strano in una simile situazione di violenza incombente. Eppure era proprio così, si stava cominciando ad eccitare.
Il ragazzo, intanto si era rapidamente spogliato.
Era mingherlino, con le spalle strette e curve, e poi, quegli occhiali spessi, senza cui probabilmente sarebbe stato perduto, gli davano un’aria buffa, quasi ridicola.
Beh, in una situazione normale, gli sarebbe scoppiata a ridere in faccia, ma ora, visto che era completamente nuda ed immobilizzata da robuste catene, non c’era niente da ridere.
E se non lo avesse soddisfatto? Quello era capace di cominciare ad affettare il suo corpo con il taglierino, fino a farla morire dissanguata.
‘Ti piace?’
Si era denudato completamente, ed ora le mostrava con orgoglio il suo affare, che, probabilmente, fino ad ora, aveva usato solo per tirarsi le seghe.
Beh, aveva visto di meglio, di quel coso non tanto grande, un po’ curvo, ma tutto sommato discretamente duro.
Poi pensò al taglierino e gli fece un gran sorriso.
Non si dilungò in particolari preamboli, le salì subito sopra cercando maldestramente di infilarglielo dentro.
Ci riuscì dopo diversi goffi tentativi e cominciò subito a pomparla con vigore. Si vedeva che era inesperto, ma ce la stava mettendo tutta.
Le aveva afferrato le tette con le mani e le stava riempiendo il viso di baci.
Ora gli do un morso che gli stacco di netto la lingua, pensò Elena.
Già. E poi?
Questo bastardo, quando si riprende, è capace di ammazzarmi.
Come lei prevedeva, venne quasi subito. Troppo presto per procurarle piacere.
Quando Elena sentì che stava arrivando alla conclusione, si ricordò, che ultimamente aveva sospeso la pillola.
‘Maledizione! Vieni fuori.’
Ma lui, completamente partito per la tangente, continuò con grande lena, finché Elena non sentì lo sperma che le entrava dentro.
Era stanca, indolenzita per il peso dell’uomo sopra di lei, ed avvilita per la violenza subita, senza aver potuto opporre la minima resistenza.
‘Per favore, devo andare in bagno.’
‘Spiacente, mia piccola e dolce ladra. Dovrai restare qui, incatenata al letto. Non mi fido assolutamente a slegarti. La mia cara nonnina tornerà tra dieci giorni e, fino a quel momento, non ti potrai muovere.’
‘Ma come faccio? Devo fare pipì.’
‘Con questa, naturalmente, come si fa in ospedale.’
Teneva in mano una vecchissima padella da ospedale, in alluminio, e Elena dovette accettare di farsela mettere sotto al sedere.
Lui la osservava curioso, mentre si liberava.
Sarebbe stata una prigionia difficile.
Prima di lasciarla sola le mise nella mano un pulsante di plastica attaccato ad un filo.
‘Ricordati, se ti serve la padella, in qualsiasi momento, suona. Ti avverto, non pensare di sporcare il letto di proposito per costringermi a slegarti. Su succede, ti lascerò a marcire nei tuoi escrementi e non faremo più l’amore. In compenso ti darò tante di quelle frustate da strapparti la pelle.’
Verso sera tornò per darle la cena.
Aveva tagliato il cibo a pezzetti piccoli e sembrava la scenetta di un innamorato premuroso che nutriva la sua amata costretta a letto da una dolorosa malattia, se non fosse stato per la presenza delle catene.
Elena mangiò tutto. Stava riprendendo il controllo di sé e pensò che era importante mantenersi in forma, perché prima o poi l’uomo avrebbe commesso un errore, e lei doveva essere pronta ad approfittarne.
Tornò che era notte fonda.
‘Mi è piaciuto molto prima, che dici, lo rifacciamo?’
‘Ti prego, sono molto stanca, magari è meglio domani mattina.’
Era una trappola.
‘Brutta troia, credi forse di essere in condizione di trattare? Io ho voglia di farlo e questo è sufficiente. E cerca di fartelo piacere. Voglio una bella partecipazione da parte tua.’
La scopò di nuovo, senza tanti complimenti.
Elena, all’inizio, sentì parecchio dolore perché la sua vagina era completamente secca, ma poi, lentamente tornò umida ed aperta, come prima.
Si era fermato, lei lo guardava impassibile, quasi con aria di sfida.
Le tirò uno schiaffo in pieno viso, poi continuò con i suoi seni. Vedeva le sue povere tette sballottate di qua e di là.
Quando lui si fermò, Elena aveva gli occhi pieni di lacrime.
‘Un po’ di partecipazione sarebbe gradita.’
Riprese a scoparla ed Elena cominciò a muoversi leggermente, cercando si simulare un godimento che credeva non sarebbe mai arrivato.
Invece, stranamente, forse era stata la razione di schiaffoni, cominciò ad eccitarsi sul serio, un poco alla volta.
Quando lui le sparò dentro lo sperma, per la seconda volta, Elena raggiunse un orgasmo, non clamoroso ma reale, e così non fu costretta a fingere.
Accidenti, se continuava così, sarebbe rimasta incinta. Non aveva mai pensato seriamente ad avere un figlio. Nella sua mente si materializzò l’immagine di lei che allattava un neonato biondino con un enorme paio di occhiali dalle lenti spesse.
Era la sua vena di spirito, un po’ cinico, che le aveva sempre permesso di prendere non troppo sul serio, anche le peggiori esperienze.
I giorni si susseguivano, uguali. Il suo carceriere compariva ad intervalli regolari, per scoparla e per portarle i pasti.
Quando Elena suonava il campanello, lui accorreva prontamente con la padella.
La lunga immobilità totale, le stava togliendo le forze. Ora non riusciva più a tirarsi su, per farsi sistemare la padella, e lui era costretto a sollevarla di peso.
Se continuava così, quando l’avrebbe liberata, non sarebbe neanche stata in grado di camminare.
Ma l’avrebbe liberata?
Al ritorno della nonna, avrebbe dovuto farla sparire da quella casa.
Le avrebbe semplicemente aperto la porta, sicuro che lei non avrebbe potuto denunciarlo, oppure, l’avrebbe uccisa, per non correre rischi?
Mentre questi sinistri pensieri attraversavano la sua mente, Elena si rese conto di sentirsi strana e stordita.
Un torpore insolito la stava prendendo.
Ricordò che l’acqua bevuta a cena aveva un leggero retrogusto amarognolo.
Accidenti, mi ha dato un sonnifero. Perché?
Si risvegliò la mattina dopo, con la bocca impastata.
Era sempre nella stessa stanza, nello stesso letto, ma era cambiata la posizione.
Era sdraiata a pancia in giù, con le braccia distese e legate insieme alla testata del letto.
L’altra testata era stata rimossa e le sue gambe erano completamente divaricate, con le ginocchia che poggiavano sul pavimento.
Entrò lui.
‘Buongiorno, dormito bene?
Oggi affrontiamo un altro capitolo importante della tua educazione, e meglio, dovrei dire rieducazione. Vedi, Elena, tu sei una donna forte e molto sicura di sé. Tu pensi di poter affrontare e dominare qualsiasi situazione, anche la più complicata.
Sono sicuro che, quando avrò finito, oltre ad esserti passata la voglia di rubare nelle case, sarai così insicura e spaventata, che avrai paura anche della tua ombra.
Sei una ragazza molto intelligente, quindi sono sicuro che, dalla posizione in cui ti ho messo, avrai intuito l’argomento della lezione.
Prima però ti devo dare una bella lavata, non voglio ficcarlo in mezzo alla tua cacca.’
Aveva portato un catino pieno d’acqua calda, una spugna e del sapone.
‘Ora pulisco per bene il tuo sederino d’oro. Vedrai che ti piacerà.’
Elena mandò un grido, simile a quello di una belva ferita, e cercò istintivamente di strappare le catene che le bloccavano le caviglie. Naturalmente riuscì soltanto a farsi male, senza variare la sua posizione di un millimetro.
‘Bene, bene, stai tirando fuori un po’ di temperamento. Non ti sforzare troppo però, riserva le energie per quando comincerò a romperti quel bel culetto.’
‘Maledetto bastardo, non provare ad avvicinarti …’
‘E sennò cosa mi fai?’
La stava smontando pezzo a pezzo, umiliandola di continuo. Prima le catene, la meticolosa distruzione dei suoi indumenti, fino a lasciarla completamente nuda, poi lo stupro ripetuto, per finire con il totale annullamento della sua intimità, costringendola ad usare la padella davanti a lui.
Ora il suo culo. Non aveva mai amato prenderlo lì, perché le sembrava una inaccettabile sottomissione, e lei era una donna libera. Libera e sola. Aveva avuto rapporti con diversi uomini, ma non si era mai legata seriamente a nessuno, proprio per paura di trovarsi alla fine sottomessa.
‘Non sono molto pratico, e quindi mi sono documentato. Da più parti si consiglia una buona lubrificazione, per evitare guai.
C’è chi usa la vasellina, mentre i fautori della cucina mediterranea preferiscono l’olio d’oliva.
In un film di parecchi anni fa, veniva usato invece il burro, probabilmente si trattava di qualcuno che gradiva di più la cucina nord europea.
Mia piccola e dolce ladra, come preferisci essere inculata?’
Elena ora, piangeva disperatamente. Era da quando suo fratello era volato dal terzo piano, il giorno che le avevano detto che sarebbe rimasto immobile, in un letto, per tutta la vita, che non le succedeva.
Ora anche lei era bloccata in un letto.
‘Vada per l’olio. Sono sicuro che andrà benissimo.’
Cominciò a cospargerla d’olio. Era un tipo meticoloso. Sentiva le sue dita che cercavano di spingersi nel suo ano stretto e contratto.
Non lo avrebbe fatto entrare. Avrebbe mantenuto il culo stretto. Quel tipo non era né forte e né particolarmente dotato, inoltre non l’aveva mai fatto. Avrebbe desistito subito.
Quando cercò di penetrarla, lei si mantenne concentrata e non mollò di un millimetro.
Lo sentiva spingere, ma non sarebbe riuscito ad entrare.
Ecco, si era staccato, aveva rinunciato.
‘No. Non va bene così. Stai facendo la furba con me. Vedrai che dopo entrerà liscio come l’olio. Carino il gioco di parole vero?’
Le mostrò la cinghia dei jeans che le aveva tolto la prima volta.
‘Quando le tue belle chiappe saranno tutta una piaga, sono sicuro che, magicamente, il tuo bel buchino si aprirà.’
Non le lasciò neanche il tempo di fiatare e cominciò a colpirla.
Si fermò dopo un numero infinito di colpi, almeno ad Elena sembrava così.
Avrebbe accettato qualsiasi cosa, pur di far terminare quel supplizio, glie lo aveva detto più volte, tra un grido ed un lamento, ma lui non aveva alcuna intenzione di fermarsi.
Quando alla fine, posò la cinghia sul letto, a fianco a lei, Elena si forzò di mantenersi morbida e rilassata.
Questa volta riuscì ad entrare.
Non fece neanche troppo male, o forse, il dolore delle cinghiate era così forte da mascherarlo.
Era stata stupida, impulsiva ed orgogliosa: se non avesse fatto tante storie, si sarebbe risparmiata una punizione terribile ed inutile, visto che alla fine era stata comunque inculata.
La lasciò tutta la notte in quella posizione, con la padella in mezzo alle gambe, a scolare, disse lui.
L’olio, finitole dentro in gran quantità, usciva lentamente, misto allo sperma ed a qualche traccia di sangue.
Il mattino dopo le portò la colazione.
Nel vassoio, oltre al cappuccino ed al cornetto, c’era anche la bottiglia dell’olio.
Elena aspettò pazientemente che lui la penetrasse di nuovo. Ormai si stava abituando.
Le disse che sarebbe rimasta così fino alla fine, perché trovava molto sfizioso incularla.
Mancavano ancora tre giorni al ritorno della nonna, ed Elena pensò che non avrebbe resistito tutto quel tempo, inginocchiata a terra, con le gambe larghe, ed il busto sdraiato sul letto.
La penetrava con regolarità, diverse volte al giorno, e lei si accorse che stava iniziando a piacerle. Si stava trasformando da prigioniera a schiava. Ancora un po’ di tempo e, se lui l’avesse liberata, non sarebbe più fuggita.
La mattina dell’ultimo giorno, le liberò i polsi e l’aiutò a mettersi dritta.
Si reggeva a malapena, sulle ginocchia allargate che poggiavano a terra.
Quando fu certo che non sarebbe crollata sul pavimento, le legò le braccia dietro la schiena.
‘Ora, per finire, rimane l’ultimo atto. Hai una bocca bellissima, Elena.
Se avessi provato a farti fare una cosa simile il primo giorno, sono certo che me lo avresti staccato con un morso, adesso, invece, sono ragionevolmente sicuro che, buona buona, mi farai un bel pompino senza far storie.’
Aveva perfettamente ragione.
Elena fece cenno di sì con la testa e schiuse le labbra.
Il suo pene era abbastanza piccolo da ingoiarlo tutto senza correre il rischio di soffocare e lei cercò di lavorarselo per bene, perché voleva concludere in fretta. Sperava solo che dopo l’avrebbe realmente liberata.
Si rese conto che non l’aveva lavato dopo l’ultima volta che l’aveva penetrata dietro.
Le stavano venendo dei conati di vomito. No Elena, non fare una cazzata simile, proprio ora che sei alla fine, se gli vomiti sull’uccello questo è capace di massacrarti.
Così riuscì ad arrivare fino alla fine. Fu capace perfino di ingoiare tutto, come lui pretendeva.
La fece pranzare. Di nuovo l’acqua amara.
Quando si risvegliò era in macchina, sdraiata sul divano posteriore e ricoperta da una telo incerato.
La fece scendere su una strada sterrata, di montagna, in mezzo ai boschi.
Era sempre nuda ed aveva freddo.
Si guardò i polsi e le caviglie. Aveva ancora gli anelli e due catene, abbastanza lunghe da permetterle in parte i movimenti, tenevano insieme rispettivamente, braccia e gambe.
‘Qui le nostre strade si dividono, sono sicuro che non tenterai nessuno scherzetto nei miei confronti. Ricordati che ho filmato l’intrusione di una piccola ladra in casa di mia nonna.
Se segui il sentiero, in circa un’ora di cammino, arrivi ad una piccola costruzione in pietra. Li troverai una seghetto da ferro e dei vestiti.
Se cammini veloce e lavori bene di seghetto, ne vieni fuori prima di notte, altrimenti, ti conviene aspettare lì, potresti incontrare qualche orso o peggio, dei lupi.
Buona fortuna, mia piccola ladra.’
Il sentiero si inerpicava ripido, in mezzo ad un fitto bosco.
Fin dall’inizio Elena capì che sarebbe stato difficile arrivare in cima.
Era stanca, debilitata e poi, i piedi…
Ogni pochi passi era costretta a fermarsi per togliersi dei sassetti appuntiti che si conficcavano nelle piante dei piedi.
Spesso, nella vegetazione alta, si nascondevano arbusti spinosi che le graffiavano le gambe.
Le catene, poi, la costringevano a fare passi corti.
Nei tratti più fitti, dove i raggi del sole non riuscivano a perforare le chiome dei grandi alberi, faceva freddo e lei era completamente nuda. Se non fosse riuscita ad arrivare prima del buio alla casetta in pietra, sarebbe morta di freddo, se non provvedevano prima gli orsi o i lupi.
Ma c’erano veramente questi animali nel bosco? Magari glie lo aveva detto per spaventarla.
Poteva anche darsi che, alla fine del sentiero, non avrebbe trovato la libertà, ma di nuovo il suo carceriere, che si era soltanto divertito ad illuderla.
Più avanti si vedeva molta luce: il bosco diradava facendo vedere un’ampia radura.
Si fermò qualche minuto, cercando di scaldarsi al sole.
Dopo quel breve tratto senza alberi, il bosco riprendeva molto più ripido, fin quasi alla sommità della montagna.
A pochi metri dalla cima si vedeva, vicino ad un grande masso, una piccola costruzione in pietra.
Almeno esisteva.
Prima di rientrare nel bosco, doveva attraversare una pietraia.
I grossi sassi rotondi scivolavano e rotolavano sotto i suoi piedi indolenziti, mentre quelli appuntiti e spigolosi le causavano dolorose ferite.
Nel punto più ripido perse l’equilibrio e rotolò verso il basso per diversi metri, ferendosi le braccia, i seni e la pancia.
Quando finalmente raggiunse di nuovo la sottile striscia del sentiero, che si snodava tra gli alberi, era piena di ferite e disperata: non sarebbe mai arrivata in cima.
Aveva paura.
Ricordò le parole del suo carceriere: ‘avrai paura anche della tua ombra.’
Dove era finita Elena, quella vera, che non aveva paura di niente ed era sempre in grado di cavarsela?
Riprese piano a salire.
Il bosco ora era una striscia stretta e lunga che risaliva la montagna. Ai lati apparivano dei grandi prati, costellati qua e là da enormi massi grigi.
Un rumore.
Il rumore di un animale. L’orso, oppure un branco di lupi?
Cosa era meglio?
L’orso le sembrava meno pericoloso. Aveva letto che a volte era sufficiente sdraiarsi a terra e fingersi morti.
Con i lupi no, l’avrebbero sbranata.
Vide un cespuglio vicino a lei muoversi e si trovò davanti l’animale che tanto l’aveva terrorizzata.
Una pecora.
Scoppiò a ridere.
Nello stesso momento sentì una mano che le stringeva forte una spalla.
Le pecore non vanno in giro da sole, c’è sempre con loro il pastore.
Era alto, pelato ed aveva un’aria sudicia e malmessa.
Si rese conto subito che conosceva solo poche parole di italiano.
Ricordò di aver letto che ormai i pochi pastori rimasti venivano tutti dall’Albania o da paesi simili.
Tempo prima, una ragazza che si era persa durante un’escursione, era stata ripetutamente stuprata da due pastori macedoni, che poi l’avevano uccisa a colpi di pietra e buttata in un burrone.
Il pastore abbozzò un brutto sorriso, che mostrò quanto avesse bisogno dell’intervento di un buon dentista, impugnò nel mezzo la catena che teneva le braccia di Elena ed iniziò a trascinarla su un piccolo sentiero, che tagliava la montagna in orizzontale.
Davanti a loro qualche decina di pecore e, ai lati, un paio di cani, grossi e sudici.
Alla fine del sentiero c’erano due piccole costruzioni in pietra, una più grande e bassa, in cui si infilarono tutte le pecore, l’altra più piccola, sormontata da un comignolo mezzo diroccato, dove entrarono loro due.
Poco più che una capanna, sporca e puzzolente.
Elena sapeva benissimo cosa sarebbe successo. Un uomo sudicio ed ignorante, costretto a passare un mucchio di tempo senza incontrare anima viva, cosa potrebbe fare trovandosi improvvisamente solo, con una bella ragazza nuda ed incatenata?
Non ci furono particolari preamboli, la fece semplicemente mettere di pancia su un panchetto mezzo sbilenco e si aprì i pantaloni.
Le allargò le gambe e glie lo ficcò subito dentro, da dietro.
Come le pecore, pensò amaramente Elena.
Era decisamente più dotato del biondino con gli occhiali e faceva male.
Il panchetto, aveva una zampa più corta delle altre e, sotto la spinta dell’uomo, che la teneva forte per i lunghi capelli neri, oscillava emettendo un toc toc, sordo e sinistro.
Lo tirò fuori, si chinò mentre con le mani le teneva le chiappe allargate e le sputò un paio di volte, preciso sul buco.
Elena cominciò a divincolarsi, ora non era più completamente immobilizzata come in quel maledetto letto.
Lo schiaffone che le arrivò sul sedere, la fece fermare subito, risvegliando il dolore delle cinghiate ancora fresche.
Continuò per un bel pezzo, Elena sentiva quella mano ossuta e callosa colpirla ripetutamente: un dritto e un rovescio, un dritto e un rovescio.
Quando si fermò, lei aveva perso ogni voglia di ribellarsi.
Le allargò di nuovo le chiappe, con più forza, e sputò ancora più volte, poi lo spinse dentro.
Questa volta Elena lo fece entrare. Faceva una male cane: era molto più grosso di quello del ragazzo biondo e la mancanza dell’olio si faceva sentire.
Continuò a spingere con decisione, ma con attenzione, chissà forse non voleva sciupare questa pecora speciale.
Riprese a muoversi dentro di lei. Toc, toc, di nuovo.
Ecco, cominciava ad affacciarsi il piacere.
Lentamente, Elena cominciava ad eccitarsi. Eccitata di essere dominata, presa con la forza, stuprata, inculata.
Prima di quella esperienza di segregazione nell’appartamento, non l’avrebbe mai creduto possibile, invece ora si rendeva conto che era esattamente ciò che desiderava.
Le chiappe, dopo quel rude trattamento, le bruciavano da morire, l’ano fortemente dilatato dal cazzo del pastore le faceva un male cane, ma, nonostante tutto questo, o forse anche per questo, era contenta e sentiva l’orgasmo che si avvicinava.
Il suo viso era piazzato proprio di fronte alla porta e così quando entrò, lo vide subito.
Ma li fanno tutti uguali?
Il secondo pastore sembrava la fotocopia del primo e, quando, sorpreso dalla scena singolare, aprì la bocca per sorridere, mostrò la stessa necessità di un intervento odontoiatrico del suo collega.
Si aprì subito i pantaloni e cominciò a strofinarlo sulla faccia di Elena.
Gli si drizzò quasi subito e lei prese in bocca senza farsi problemi.
Puzzava di piscio e di sporco, ma ormai ogni resistenza in lei era stata vinta.
Elena venne proprio mentre il primo pastore le sparava lo sperma nell’intestino.
Lei cercò di interrompere un attimo, ma il nuovo arrivato non era d’accordo e la prese forte per le orecchie costringendola a rimanere china ed a tenersi in bocca il suo cazzo.
La lasciò andare solo quando ebbe finito.
Elena rimase a lungo, con la pancia poggiata sul panchetto, con la bocca semi aperta, da cui scolava lo sperma che non aveva inghiottito.
La porta era rimasta accostata e lo vide entrare.
Era uno dei due cani. Il mantello, a parte due macchie nere di pelo sulla groppa, era bianco, o meglio sarebbe stato bianco se qualcuno si fosse preso la briga di lavarlo.
Un grosso cane pastore, mezzo maremmano e mezzo chissà che.
Si era seduto sulle zampe posteriori ed annusava nell’aria.
Era comparsa una macchia rossa in mezzo alla sua folta pelliccia, che cresceva e si allungava a vista d’occhio.
Non ci voleva molto a capire: aveva annusato l’odore della femmina e si stava arrapando.
Il suo odore sarebbe stato gradito?
Oddio! no. Questo no!
Non voleva essere scopata da un cane.
Si era alzato ed era alle sue spalle. Elena sentiva il muso umido della bestia frugare in mezzo alle sue cosce.
Se avesse superato l’esame, quel grosso animale pulcioso le sarebbe salito sopra, avrebbe sentito le sue unghie forti e dure raschiarle la schiena e poi le avrebbe infilato dentro quel coso rosso che aveva visto, prima, spuntargli in mezzo alla pelliccia.
Era nella posizione giusta. Aveva osservato tante volte i cani randagi, accoppiarsi per strada.
Ora il naso del cane si era intrufolato nelle sua vagina semi aperta.
Stava esplorando il suo corpo per capire che razza di cagna fosse?
Sentì le sue zampe anteriori che si poggiavano sul sedere, irritato per le cinghiate e per gli schiaffoni del pastore. Le unghie della bestia, facevano male sulla sua pelle arrossata.
Lentamente le sue zampe si stavano spostando in avanti, avanzando lungo la schiena nuda di Elena, terrorizzata ed incapace di muoversi.
Stava prendendo posizione. Tra un po’ l’avrebbe penetrata, completando così il suo percorso di sottomissione.
Si sorprese a pensare come poteva essere farsi scopare da un grosso cane.
Da quello che aveva visto prima che le salisse sopra, il suo affare sembrava bello lungo, ma leggermente più stretto di quello dei pastori.
Come si sarebbe mosso dentro di lei?
Le sarebbe entrato nella fica o nel culo?
Com’è, che odore ha lo sperma di un cane?
Stava impazzendo, era completamente fuori di testa. Era perduta. Era convinta che, se avesse dovuto subire anche questo, non si sarebbe più ripresa, sarebbe rimasta per sempre una schiava, incapace di ribellarsi e sottomessa a chiunque, anche ad un lurido cane.
Una forte pedata, accompagnata da un grido gutturale, fece desistere il cane che, mogio mogio, infilò la porta.
Le fecero mangiare un pezzo di formaggio con una fetta di pane duro, poi la rimisero sul panchetto per il dopo cena.
Qualsiasi cosa ma il cane no.
Tutto sommato furono gentili con lei, le diedero persino una coperta, perché la notte, in montagna faceva freddo.
La mattina, dopo averle fatto fare colazione con un po’ di ricotta, di nuovo il panchetto.
Toc, toc.
Si stava abituando, ora la loro puzza ed il loro sudiciume non le dava più fastidio.
Era contenta di farsi scopare da questi due, provava piacere a farsi sfondare il culo ed era una gioia succhiare i loro cazzi puzzolenti.
Beh, non ne era del tutto sicura, ma, per il momento, andava bene così.
La lasciarono sola.
Sarebbero stati tutto il giorno fuori, a pascolare le pecore, e, al loro ritorno, volevano essere certi di ritrovarla, per metterla ancora sul panchetto.
Per evitare che fuggisse, avevano fatto passare una catena in mezzo a quella che le legava le braccia e l’avevano fissata, con un lucchetto, ad un grosso gancio conficcato nel muro.
Elena cosa vuoi fare? Vuoi veramente rimanere qui a farti scopare da questi due o vuoi provare a fuggire?
Se fuggiva subito, avrebbe avuto il tempo di raggiungere la casa in cima alla montagna.
Lì si sarebbe liberata delle catene, si sarebbe vestita ed avrebbe cercato di tornare in città.
Solo un misero lucchetto la separava dalla libertà.
Ci sarebbe voluto un attimo con i suoi attrezzi, già, i suoi attrezzi erano rimasti in quella casa maledetta.
Devo aprirlo!
Per terra c’era un pezzo di filo di ferro arrugginito. Poteva bastare, se fosse riuscita a raggiungerlo.
Piano piano, con la punta di un piede, riuscì a tirarlo a sé.
Il filo era molto rovinato e, al primo tentativo si spezzò. Provò ancora e, finalmente, sentì il click del lucchetto che si apriva.
Uscì subito, prima che le mancasse il coraggio di questa decisione difficile.
Potevano vederla e riprenderla. Chissà che le avrebbero fatto. Magari questa volta avrebbero lasciato fare il loro cane, oppure l’avrebbero uccisa come quella escursionista che si era perduta.
E se non avesse trovato il seghetto ed i vestiti.
Doveva comunque tentare.
Il sentiero si inoltrava in mezzo agli alberi per un bel pezzo e quindi difficilmente l’avrebbero vista, finché non fosse arrivata quasi in cima.
I pastori, sicuramente, erano insieme al gregge, in qualche prato che costeggiava il bosco.
Riprese la faticosa ascesa.
Ai dolori delle ferite sotto i piedi si era aggiunto un forte fastidio all’ano.
Mi hanno sfondato il culo per bene quei due, pensò Elena.
Incontrò un abbeveratoio.
Aveva sete, ma non arrivava al getto d’acqua che riempiva la prima delle due vasche.
Così bevve direttamente dalla vasca, come gli animali.
Aveva voglia di lavarsi, ma l’acqua era gelida, si limitò ad immergere i piedi, cercando un po’ di sollievo.
Passò più volte la mano bagnata sulle sue parti intime, cercando di ripulirsi dalle tracce dello sperma che era entrato dentro di lei in quegli ultimi giorni.
Quando provò a strofinare in mezzo alle natiche, si ritrovò la mano sporca di sangue.
Strusciò più volte le dita bagnate sul suo ano indolenzito, finché non eliminò ogni traccia di rosso.
L’ultimo tratto del sentiero era scoperto, perché il bosco terminava qualche centinaio di metri prima della casa in pietra.
Se l’avessero vista, da sotto, sarebbe stata perduta: l’avrebbero raggiunta prima che lei fosse riuscita a segare le catene.
Guardò bene verso il basso ma non riuscì a vedere né le pecore, né i pastori.
Se lei non vedeva loro, loro, forse, non sarebbero riusciti a vedere lei. Non ne era sicura.
Cerco di camminare velocemente, per quanto le era possibile, nell’ultimo tratto.
Quando raggiunse la casa aveva il cuore in gola.
La costruzione, composta da una sola stanza, era vuota, tranne uno scatolone posto al centro.
Sopra c’era una rosa rossa.
Buttò via il fiore ed aprì lo scatolone. Era stato di parola.
Prese subito il seghetto e cominciò a tagliare.
Preferì segare direttamente gli anelli, che il suo carceriere aveva direttamente saldato addosso a lei, quando era svenuta.
Tagliare le catene sarebbe stato più rapido, ma una ragazza con simili arnesi ai polsi ed alle caviglie, avrebbe dato nell’occhio.
Fu un lavoro lungo e delicato e ci volle molta attenzione per evitare di ferirsi con il seghetto.
Il momento più difficile fu l’anello al polso destro, perché dovette per forza impugnare l’attrezzo con la mano sinistra.
Frugò nella scatola alla ricerca dei vestiti.
Una maglietta di cotone, un paio di jeans, delle scarpe da trekking e dei calzettoni pesanti.
Non aveva dimenticato neanche mutandine e reggiseno. C’era tutto il necessario ed era della sua misura.
Quando si fu vestita completamente si sentì un po’ rinfrancata.
In una tasca dei pantaloni, trovò addirittura una banconota da venti Euro. Aveva proprio pensato a tutto, sarebbe riuscita tranquillamente a tornare a casa.
Uscì dalla casa e proseguì il sentiero verso la cima.
Non poteva scendere da dove era venuta, perché probabilmente avrebbe incontrato i due pastori.
Era veramente sicura di volersene andare? Voleva tornare nel mondo civile, voleva recuperare la sua libertà, oppure preferiva rimanere lì, come una schiava?
Avrebbe avuto ancora il coraggio di affrontare la vita di prima?
Esisteva ancora quella Elena indomita e indipendente, che non aveva paura di nulla, oppure, ora era veramente spaventata anche dalla sua ombra?
Comunque raggiunse la cima.
La valle, dall’altro versante, era ampia e situata ad una quota parecchio elevata.
Il sentiero scendeva dritto, in mezzo ad un prato verde, e finiva contro il nastro grigio di una grande strada asfaltata.
Elena scese velocemente e si fermò sul bordo della statale.
Era piena di paura quando, vedendo avvicinarsi una macchina, preparò la mano con il classico gesto del pollice.
Poi pensò che forse, per un po’, di brutte avventure, ne aveva aveva avute a sufficienza e, lentamente, stese il braccio.

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