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Racconti di Dominazione

Mi piace essere maltrattata

By 26 Aprile 2010Dicembre 16th, 2019No Comments

A Vittoria piaceva essere sottomessa, dominata e maltrattata.
Se ne era accorta già da bambina, quando suo padre la picchiava.
Lei adorava suo padre, anche se la prendeva a schiaffi e addirittura, quando per punirla di qualcosa di grave, si toglieva la cinghia dei pantaloni e la colpiva ripetutamente sulle gambe e sul sedere, provava un piacere incontenibile.
Anche se le faceva un male cane, si era accorta, con stupore, che delle volte, volutamente provocava suo padre, proprio per indurlo a punirla.
Mano mano che passavano gli anni aveva trovato la cosa sempre più eccitante, al punto che, quando aveva cominciato a provare le sue prime pulsioni sessuali, aveva preso l’abitudine di masturbarsi proprio dopo le sue punizioni.
Quando aveva avuto il suo primo ragazzo a quindici anni, la storia era continuata.
Un giorno stavano soli a casa di lui ed avevano cominciato a fare qualcosa. Niente di serio, avevano solo preso a toccarsi, però, quando lui aveva infilato decisamente una mano in mezzo alle sue cosce, Vittoria, un po’ per gioco, aveva provato a respingerlo.
Lui aveva reagito in maniera violenta, bloccandole le braccia contro il cuscino del letto e lei aveva proseguito nel gioco.
Era successo che lui, già parecchio arrapato, aveva preso a strattonarla e alla fine le aveva pure strappato le mutandine.
Avevano raggiunto entrambi l’orgasmo, pur senza avere un rapporto completo e Vittoria era dovuta correre in bagno per cercare di togliere le macchie di sperma dalla gonna e dalla camicetta.
Lui si era profuso in mille scuse, per essersi lasciato andare così e Vittoria non gli aveva detto nulla, perché non avrebbe capito.
Prima di sposarsi aveva avuto diversi uomini, ma aveva sempre fatto in modo di scegliere persone che la dominassero, possibilmente in maniera violenta.
Oltre alle umiliazioni a cui la sottoponevano, spesso la legavano e poi la scopavano in maniera brutale, a volte, per eccitarsi maggiormente, la picchiavano, arrivando addirittura a frustarla.
Con suo marito era stato diverso.
Vincenzo era un uomo bello ed intelligente e proveniva da una famiglia napoletana ricca e nobile.
Lui le diceva spesso che a Napoli non c’erano mezze misure: o signori o trappani.
Quando aveva conosciuto la sua famiglia, che viveva in un lussuoso ed enorme appartamento a Posillipo, aveva dovuto convenire che Vincenzo faceva sicuramente parte della categoria dei signori.
Nonostante fosse forte, atletico ed esperto di svariate arti marziali, in dieci anni di matrimonio non l’aveva mai neanche sfiorata con un dito. La violenza fisica era per lui una cosa sconosciuta. Riusciva perfettamente a padroneggiare la propria ira in qualsiasi situazione però ‘
‘ però era in grado di farle molto più male, in altra maniera.
Quando riteneva che Vittoria avesse fatto qualcosa di male, le diceva semplicemente che aveva sbagliato e che sarebbe stata punita.
La punizione, sotto forma di terribili umiliazioni, arrivava sempre, a volte dopo un’ora, a volte dopo una settimana, quando ormai lei era convinta di averla scampato e non ricordava neanche più la sua mancanza.
Una volta terminata la punizione, lui la prendeva in braccio, la portava in camera da letto e la scopava finché non era sfinito.
In questi casi, soltanto in questi casi, glie lo metteva di dietro, come se la violazione del suo ano, sancisse in maniera definitiva la sua completa sottomissione, a seguito della punizione.
Anche quel giorno Vittoria era in attesa di una punizione. Era passata già più di una settimana e lei si era arrovellata il cervello cercando di immaginare cosa avrebbe escogitato questa volta.
‘Vestiti bene, perché questa sera andiamo a mangiare fuori, in un nuovo ristorante che volevo provare.’
Vittoria si era truccata con cura, perché le donne, quando arrivano a quaranta anni, necessitano di più attenzioni, anche se lei era ancora in condizioni invidiabili.
Aveva tirato fuori dall’armadio un vestito grigio un po’ scollato e molto aderente.
Le calze appena velate e le scarpe nere, slanciate e con un po’ di tacco, mettevano in evidenze le sue gambe lunghe, ma ben tornite.
Un’ultima sistemata ai suoi capelli neri e ricci e poi una collana di perle naturali per dare il tocco finale.
Erano saliti in macchina e Vittoria si era accomodata sull’ampia poltrona in pelle della berlina Jaguar, a fianco di suo marito.
Si era quasi appisolata, cullata dalla comodità dell’auto e dalla musica soffusa dell’autoradio, poi, improvvisamente, guardando fuori, la sua attenzione si era ridestata.
Ma che razza di strada aveva preso Vincenzo?
Doveva essere uno di quegli stradoni che traversavano qualche quartiere periferico particolarmente degradato.
Erbacce, rifiuti, qualche auto abbandonata e poi, qua e là, prostitute e viados.
‘Vincenzo, ma dove stiamo andando?’
‘Un po’ di pazienza, cara, siamo quasi arrivati.’
Fermò l’auto in uno spiazzo sterrato pieno di rifiuti e suonò due volte il clacson.
Oltre lo spiazzo, tra due alberi, c’era parcheggiata una vecchia roulotte, rugginosa e senza gomme.
Si aprì la porta e comparve una donna.
‘Vai da lei, ti spiegherà tutto.’
Sicuramente aveva a che fare con la sua punizione.
Vittoria aprì lo sportello e cominciò a camminare in direzione della roulotte, cercando di evitare i fazzolettini sporchi ed i preservativi presenti in gran quantità.
Mano mano che si avvicinava poteva osservare meglio la donna davanti alla roulotte.
Era più o meno alta quanto lei, ma appariva decisamente più magra.
Indossava una maglietta a righe orizzontali molto aderente, per cercare di mettere in mostra un seno piccolo e piatto.
Una minigonna bianca cortissima copriva a malapena due gambe secche che sicuramente avrebbero gradito qualcosa di meno vistoso delle autoreggenti a rete che indossava.
Gli stivali dal tacco altissimo, sempre bianchi, completavano il suo abbigliamento singolare ed inequivocabile. Chiunque, vedendola, non avrebbe avuto dubbi: si trattava di una puttana, di quelle che, per quattro soldi, battono il marciapiede nei peggiori quartieri della città.
Più o meno doveva avere l’età di Vittoria, anzi, dato il tipo di vita che faceva, probabilmente aveva qualche anno di meno. Un viso magro e sciupato, con due occhi marroni, sormontati da folte sopracciglia scure, che stridevano fortemente con il caschetto di capelli biondi, mal tinti e bisognosi di una sistemata.
‘Vieni dentro. Tuo marito vuole che ci scambiano gli abiti.’
‘Cosa?’
‘Sì. Io mi devo mettere i tuoi vestiti e tu i miei. Senti, mi ha pagato bene per questo e mi ha detto che tu avresti eseguito tutto.
Ci dobbiamo scambiare ogni cosa, compresi i gioielli e la biancheria intima.’
I gioielli. Figuriamoci. Quell’altra aveva due orecchini di plastica, comprati ad una bancarella.
‘Un’ultima cosa. Ti devi rifare il trucco, perché così non va bene. Puoi usare le mie cose.’
Vittoria si rese conto che l’altra, era truccata in maniera leggera, sicuramente non da puttana. Provò ad immaginarla vestita con il suo elegante tailleur, poi pensò a lei conciata in quella maniera. Accidenti, era questo che aveva in mente suo marito?
Si spogliarono entrambe, poi l’altra si rivestì rapidamente ed uscì dalla roulotte.
‘Sbrigati che tuo marito ci sta aspettando.’
Vittoria cercò di truccarsi rapidamente. Come si fa il trucco da puttana da quattro soldi? Non aveva idea e cercò di improvvisare qualcosa di particolarmente greve, esagerando con il rossetto e la riga intorno agli occhi.
Ora doveva rivestirsi.
Prese in mano le minuscole mutandine rosse dell’altra.
Che porcheria! Una roba dozzinale comprata su una bancarella. Sicuramente erano di tessuto sintetico e le avrebbero provocato qualche reazione allergica. Oltretutto non erano per niente pulite. Come vuoi che siano le mutande di una puttana che lavora in una roulotte dove al massimo c’è un lavandino sudicio ed un cesso puzzolente?
Provò ad indossarle usando molta cautela. Oltretutto le andavano decisamente scomode, visto che l’altra aveva i fianchi più stretti di lei ed il culo abbastanza piatto.
Riuscì ad entrarci dentro, ma le tiravano da morire in mezzo alle gambe e tendevano ad infilarsi tra le labbra della sua vagina, aumentando la sensazione di fastidio.
Con l’altro pezzo, sempre rosso e sempre dello stesso tessuto, non andò molto meglio, visto che lei aveva due belle tette, grandi e rotonde, e l’altra due prugne secche.
In quel momento si aprì la porta.
‘Ti vuoi dare una mossa? Abbiamo fame e, se non sali in macchina entro cinque minuti, ti lascio qui.
Non mi dire che preferisci saltare la cena e passare la notte a lavorare qua dentro?’
Maledizione, questo proprio no.
‘Va vene, va bene, vengo subito.’
Temendo che suo marito mettesse in atto la minaccia, finì di vestirsi in fretta, cercando di ignorare che le calze le andavano strette, la gonna, già cortissima sul sedere magro dell’altra, a lei, che aveva due belle chiappe carnose, tendeva a salire, mostrando quelle dannate mutandine rosse.
Per non parlare della maglietta a righe, che sembrava dover esplodere da un momento all’altro, sotto la spinta delle sue tette.
Solo le scarpe, a parte i tacchi impossibili, le andavano a pennello. Chissà, forse Vincenzo aveva selezionato una prostituta con il suo numero di piede.
Uscì fuori cercando di non ruzzolare per i gradini della scaletta della roulotte e si incamminò verso l’auto.
L’altra si era seduta a fianco di suo marito e le fece cenno di accomodarsi dietro.
Durante il tragitto i due davanti la ignorarono. Parlavano come se fossero realmente marito e moglie e lei, seduta dietro, neanche esistesse.
‘Ho già avvertito il ristorante che c’è una terza persona, con noi.’
Quando arrivarono nel parcheggio, Vincenzo aprì lo sportello alla donna seduta al suo fianco e la prese sotto braccio, mentre Vittoria non poté far altro che spicciarsela da sola ed accodarsi ai due.
Il posto era elegantissimo.
Guardò la donna a fianco a suo marito. Certo, quel vestito stava molto meglio a lei, ma tutto sommato, sembrava una signora, non bellissima, ma una signora.
Lei invece, non sembrava proprio nulla, era, inequivocabilmente una puttana da quattro soldi, di quelle che si fanno scopare dal primo che passa, magari dietro una fratta.
I due davanti entrarono ed il cameriere le si parò davanti, prendendola per un braccio.
‘E tu dove credi di andare?’
‘La signorina è con noi’ disse Vincenzo, senza neanche voltarsi, e così lei riuscì ad entrare.
Vittoria aveva provato una grossa umiliazione ad indossare quei vestiti nella roulotte, ma il suo ingresso nel ristorante fu decisamente peggio.
Il tentativo del cameriere di non farla entrare, aveva attirato l’attenzione di diversi clienti del locale, e quando lei varcò la soglia del ristorante, ci fu un autentico mormorio.
Il loro tavolo era dalla parte opposta e dovette sopportare gli sguardi di tutti, mentre cercava di camminare il più velocemente possibile senza mostrare troppo le mutande, quelle maledette mutandine rosse che ormai le erano completamente entrate nello spacco della vagina ed iniziavano a darle un prurito terribile.
Il capo cameriere disse a bassa voce a Vincenzo che, se gradivano, poteva dargli un tavolo più riservato, in un’altra saletta.
I suoi occhi imploranti sembravano voler dire: maledizione, sistematevi da un’altra parte, perché la vista di questa lurida troia, sta mandando la cena di traverso a parecchia gente.
Lui aveva cortesemente declinato l’invito, dicendo che la loro amica, aveva detto così, indicando Vittoria, preferiva guardarsi intorno.
Vincenzo e l’altra avevano spazzolato con gusto diverse portate. Lei aveva lo sguardo di Cenerentola al ballo. Sicuramente poteva essere contenta di come stava andando la serata, visto che si stava godendo un’ottima cena in un ristorante di lusso, piuttosto che farsi scopare per pochi euro in una sudicia roulotte.
Oltretutto, sicuramente Vincenzo doveva averla strapagata.
A Vittoria, in compenso si era chiuso lo stomaco e non riuscì a mangiare quasi nulla.
Ad un certo punto dovette andare in bagno e questo fu un altro momento terribile.
Le donne la guardavano con disprezzo mentre gli uomini, se si fossero trovati in una situazione diversa, sicuramente avrebbero allungato le mani su di lei.
Quando finalmente, dopo aver pagato il conto, se ne andarono, era parecchio tardi e la sala quasi vuota.
Vittoria era preoccupata.
Cosa avrebbe fatto Vincenzo?
Avrebbe considerato conclusa la sua punizione e l’avrebbe riportata a casa, oppure l’avrebbe condotta di nuovo alla roulotte, per farle fare la sua notte da puttana?
Sapeva che, in questi casi, non poteva parlare, non poteva chiedere nulla, altrimenti la sua punizione sarebbe stata molto più dura.
Per tutta la serata suo marito e l’altra avevano conversato piacevolmente come se loro fossero marito e moglie.
All’inizio lei era imbarazzata e dava risposte impacciate, poi era stata al gioco ed era entrata perfettamente nella parte, incurante degli sguardi disperati di Vittoria.
Ora erano di nuovo in macchina e non aveva la minima idea di come sarebbe proseguita la serata.
L’auto si fermò in un parcheggio privato, di lato ad una piccola aiuola.
Vittoria, seduta dietro, non riusciva a capire bene dove fossero.
Sicuramente non erano tornati alla roulotte. Meglio così, perché l’idea che suo marito avesse progettato di farla prostituire al posto di quella che si era sostituita a lei, la angosciava.
Va bene i maltrattamenti e le umiliazioni, però questo le sembrava troppo, anche se sapeva bene che, che se lui glie lo avesse chiesto, lei avrebbe ubbidito.
‘Tu aspetta qui mentre io e mia moglie andiamo a farci dare la chiave.’
Ormai lo scambio di persona era totale. Quella lurida puttana oltre che dei suoi vestiti, si era appropriata anche della sua identità per quella sera, o almeno sperava fosse solo per quella sera.
Tornarono e la fecero scendere.
Erano nel parcheggio di un piccolo motel, realizzato esattamente come quelli americani, che aveva visto cento volte in tanti film, con le porte delle stanze che affacciavano direttamente sulla strada.
Non avrebbe mai creduto che ce ne fossero anche in Italia.
Sicuramente avevano scelto questo posto per dare meno nell’occhio, visto che in camera si dovevano portare anche una puttana.
La stanza era piccola ed abbastanza squallida. Un letto con una sovraccoperta di un rosa acceso che dava fastidio agli occhi, due mensoline al posto dei comodini, con sopra una piccola plafoniera fissata al muro, una sedia, uno specchio, un piccolo armadio a muro ed un televisore dall’aria malconcia, fissato alla parete con una staffa.
Vincenzo aveva preso un borsone dal bagagliaio della macchina e, appena entrati fece mettere Vittoria vicino al termosifone, dopo aver porto all’altra donna un paio di manette di plastica.
Lui le prese le braccia e la costrinse a passarle dietro la schiena. Fu questione di un attimo, sentì il clack delle manette che si chiudevano intorno ai suoi polsi, e si trovò legata alla staffa del termosifone.
Era stanca, e quelle scarpe con i tacchi altissimi le davano fastidio. Si accorse che, piegando leggermente le gambe, poteva più o meno sedersi sul radiatore del termosifone.
Il contatto del metallo freddo sulle sue cosce nude era fastidioso, ma sicuramente era molto meglio che rimanere in piedi.
Intanto suo marito a quell’altra si erano spogliati.
Fa uno strano effetto vedere un’altra donna, vestita come te, che si spoglia insieme a tuo marito.
Ora cominciava a delinearsi bene la sua punizione. Dopo averla umiliata per tutta la sera, facendola vestire come una puttana e mostrandola in giro, l’avrebbe costretta ad assistere.
Era come se le dicesse: vedi, tu vali meno di una puttana raccolta per strada. Io prima le faccio prendere il tuo posto e poi me la scopo, davanti a te.
Ormai erano nudi. Lui stava sdraiato sul letto mentre lei stava maneggiando il suo affare per farlo crescere.
Si muoveva con rapidità e competenza. Già, pensò Vittoria, chissà quanti cazzi di persone vecchie, magari mezze impotenti, aveva lavorato nella sua lunga carriera.
Sicuramente, con il lavoro che faceva, l’importare era la rapidità: non poteva certo perdere molto tempo a farlo drizzare ai clienti.
Con Vincenzo c’era voluto poco. Il suo pene, appena leggermente curvo, si ergeva nell’aria, come una specie di obelisco, mentre lei armeggiava per infilargli un preservativo.
Vittoria cominciava a sentirsi eccitata. Pensò che adesso lui si sarebbe alzato, sarebbe venuto verso di lei e, dopo, averle sfilato quelle mutandine che la stavano tormentando da ore, glie lo avrebbe infilato dentro.
L’avrebbe scopata lì, ammanettata al termosifone in quella squallida stanza di quello squallido motel finto americano.
L’altra aveva finito di infilare il preservativo a suo marito.
Si era messa a cavalcioni dell’uomo e, con un gesto rapido, aiutandosi con le mani, se l’era fatto entrare dentro.
Ora la vedeva di spalle. Le sue piccole chiappe si muovevano sopra il corpo di suo marito, mentre il caschetto di capelli biondi, oscillava ritmicamente sopra le spalle magre.
Se avesse avuto le mani libere, Vittoria si sarebbe masturbata, ma anche così si stava eccitando abbastanza.
Ora Vincenzo stava ansimando ed aveva iniziato a toccare i seni della donna.
Vittoria ebbe l’impressione che lui le stesse carezzando le tette. Maledetto, tocca le mie che sono cento volte meglio. Stava piangendo e, allo stesso tempo sentiva l’eccitazione che cresceva.
Ora era completamente bagnata e questo, almeno in parte, era riuscito ad alleviare il prurito causato dallo slip troppo stretto.
Vincenzo era venuto. La donna aveva cessato di muoversi sopra di lui, mentre suo marito, completamente rilassato, aveva smesso di toccarla e si era sdraiato sul letto.
Lei, allora, si era alzata e gli aveva porto un asciugamano, poi si era girata verso Vittoria ed aveva preso a guardarla con un misto di irrisione e compassione, o almeno a lei sembrava così.
Di nuovo. Ancora il cazzo di suo marito nelle mani di quella donna.
Vittoria sentiva le lacrime che le colavano lungo il viso, lasciando sicuramente delle scie nere sulle guance, causate dal trucco pesante che si era fatta nella roulotte.
E sentiva colare anche la sua vagina, aperta, eccitata ed irritata da quel lembo di stoffa rossa bagnato, che sembrava volerla aprire in due.
Le sue cosce nude erano ormai completamente inzuppate dagli umori che continuavano ad uscire dal suo sesso e quella stava infilando un altro preservativo sul cazzo di suo marito.
Si era girata verso di lei e poi si era chinata allargandosi bene le chiappe con le mani.
Si stava facendo inculare da Vincenzo, da suo marito.
Vittoria piangeva e intanto sentiva l’orgasmo che si avvicinava.
Chissà se quella donna fingeva. Si era chiesta tante volte se le puttane quando lo facevano, provassero piacere o meno.
Dall’espressione sembrava decisamente soddisfatta.
D’altra parte, Vincenzo era un bell’uomo e, dal punto di vista del sesso, almeno per la sua esperienza personale, non era affatto male.
Raggiunsero l’orgasmo insieme, sempre che quella lì non fingesse.
Vittoria si accorse, con stupore, che, nonostante nessuno l’avesse neanche sfiorata, a lei stava succedendo la stessa cosa.
Gridò, mentre allargava le gambe e cercava disperatamente di strusciarsi al termosifone, nel tentativo di far venire a contatto il metallo del radiatore con il suo sesso, poi le sembrò di esplodere e chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, vide solo suo marito, seduto sul letto.
Dal bagno sentiva il rumore dell’acqua della doccia che scorreva.
‘Mia moglie mi ha detto che le piaci e vorrebbe fare l’amore con te.’
Questo gioco cominciava a farsi troppo pesante.
Non vedeva l’ora che finisse questa dannata notte e le cose tornassero a posto: lei a casa con Vincenzo e la puttana a fare il suo lavoro nella roulotte.
Non era interessata ad avere rapporti sessuali con un’altra donna: Vittoria, nella sua vita, aveva già dovuto allontanare un paio di amiche lesbiche. In un’altra situazione, si sarebbe rifiutata decisamente, ma era sotto punizione, ed avrebbe dovuto accettare quelle mani femminili che la toccavano, cercando di farla eccitare.
L’altra uscì dal bagno. Si rese conto che neanche sapeva il suo nome. Aveva importanza?
Si era rimessa il vestito, il suo vestito.
Scalza e con le gambe nude, non più ricoperte dalle calze, sembrava ancora più magra.
Il vestito, sul davanti, era scostato dalle sue gambe, in maniera innaturale.
Solo quando fu di fronte a lei e si sollevò la gonna, Vittoria capì il perché.
Sotto indossava un enorme cazzo finto, nero e lucido, fissato con delle cinghie.
No, non l’avrebbe toccata, l’avrebbe penetrata con quell’affare.
Mandò uno sguardo disperato a Vincenzo, ma lui, dopo aver preso la sedia ed essersi accomodato vicino a loro, la guardava impassibile, come se stesse seguendo una partita in televisione.
La donna le abbassò le mutandine. Dovette faticare parecchio per farle scendere fino all’altezza delle ginocchia.
Finalmente un po’ di pace, per la mia povera fichetta, pensò Vittoria, ma la donna si fece sotto subito e le infilò profondamente quel coso nero.
Le mise le mani sotto la maglietta e le strinse forte i seni.
Maledetta, lasciami stare. Brutta bastarda, sei invidiosa, perché tu c’hai due cosette mosce e due tette come le mie te le sogni!
Sapeva il fatto suo. Quel coso dentro di lei continuava a muoversi, sfregando ogni parte del suo sesso e, tutte le volte che veniva a contatto con il clitoride, Vittoria gridava.
Quando proprio non ne poteva più, le strinse forte i capezzoli. Il dolore, sapeva che il dolore le avrebbe provocato maggiore eccitazione.
Ora le anche della donna si muovevano in maniera convulsa, sembrava volerglielo conficcare tutto, fino all’ultimo centimetro.
Vittoria allargò le cosce più che poteva, cercando di accogliere dentro di sé, fino in fondo, quell’affare.
Era finita.
Vittoria, con le spalle appoggiate al muro, esausta, vide quel lungo coso nero uscire dal suo corpo. Era lucido e completamente bagnato.
La sua vagina, arrossata e aperta, sembrava una grande bocca spalancata.
Vincenzo sorrideva, soddisfatto.
Si era alzato e le aveva liberato i polsi.
Ecco, ora mi riporta a casa, la mia punizione è finita.
Invece l’aveva fatta mettere in ginocchio davanti al termosifone e le aveva nuovamente ammanettato i polsi alla staffa del radiatore.
L’altra donna stava spalmando accuratamente con della vasellina, quel coso nero.
Aveva spremuto con cura il tubetto, ed ora stava distribuendone il contenuto, passando le dita sulla la superficie di gomma.
Le sue mani si muovevano agilmente, d’altra parte era una esperta di cazzi, veri o finti che fossero.
Vincenzo ti prego, non mi far fare questo.
Ora si stava pulendo le dita strofinandole nel suo ano.
Meglio così, mi farà un po’ meno male.
Le aveva sempre fatto male prenderlo di dietro e Vincenzo in genere evitava.
Ma non quando doveva punirla. Allora la penetrava più volte, fino a farla piangere di dolore.
Questa volta sarebbe stato peggio, perché quel coso le sembrava veramente enorme.
E poi cominciò a spingerglielo dentro.
Entrò con molta facilità, a causa della gran quantità di vasellina che aveva usato, ma il dolore era forte.
Vittoria piangeva e gridava, mentre quella continuava imperterrita a spingere.
L’avrebbe sventrata se continuava così.
Vincenzo, ti prego, fermala, basta così!
Era entrato tutto ed era ancora viva. Era convinta che sarebbe bastato un millimetro in più per spaccarla completamente.
Ora aveva iniziato a muoversi. Le aveva poggiato le mani sui fianchi e stava facendo avanti e indietro.
Il suo ano ormai si era arreso completamente, e lasciava che quell’affare infernale le scorresse dentro, mentre sentiva la vagina che si eccitava nuovamente ed il clitoride che si gonfiava.
Fra un po’ avrebbe sentito lo sperma caldo di suo marito che le entrava dentro.
No. non sarebbe uscito nulla da quel coso nero di gomma.
Ma allora non si sarebbe fermato mai?
Avrebbe continuato a muoversi dentro di lei per tutta la notte?
Vittoria era stanchissima.
Basta, ora mi lascio andare giù per terra, non ne posso più!
Che può succedermi?
Stupida, succede che tuo marito ti punirà ancora.
Così tenne duro, sforzandosi di rimanere lì, inginocchiata e con le gambe allargate.
Poi arrivò l’orgasmo. Era qualche minuto che aveva l’impressione che quell’affare conficcato nel suo culo, in qualche maniera arrivasse a toccare il suo clitoride sempre più gonfio, sempre più eccitato.
Gridò forte, di gioia e di dolore e rimase lì aspettando e sperando che la liberassero da quella scomoda posizione.
L’altra si era alzata. Si era slacciata le cinghie e l’aveva lasciata con quell’attrezzo piantato nel culo.
Vincenzo la liberò e la rimise in piedi, tenendola sotto le ascelle, mentre l’altra le rimetteva a posto le mutandine, dopo aver recuperato il cazzo finto.
In macchina Vittoria si addormentò.
L’avevano sdraiata sul divano posteriore dopo che Vincenzo lo aveva foderato con una coperta.
Teneva molto alla sua Jaguar e ad i suoi sedili in pelle.
Di nuovo la roulotte.
Le due donne entrarono e Vittoria si riprese i suoi vestiti.
Era finita, la sua punizione era completa e Vincenzo sarebbe tornato il marito premuroso di sempre, almeno fino alla prossima mancanza di Vittoria ed alla sua relativa punizione.
Arrivati a casa dovette sorreggerla fino alla camera da letto.
Vittoria si accasciò sul materasso a pancia in giù.
‘Vittoria …’
L’aveva chiamata con il suo nome, quindi la sua punizione era completa, o quasi.
‘… lo sai che hai veramente un gran bel culo.’
Le stava sfilando lentamente le mutandine. Le sue mutandine, di cotone purissimo e della sua taglia, finalmente.
Mancava soltanto l’ultimo atto, ma, tutto sommato, non era andata troppo male. Forse non era stata una buona idea affittare la macchina per andare a vedere il deserto.
Di sicuro era stata una pessima idea abbandonare la strada asfaltata e prendere quella pista secondaria, che si arrampicava tra dune sabbiose e grandi massi di pietra rossiccia, ma la sua amica aveva tanto insistito per fare delle foto del deserto dall’alto.
A metà strada la macchina si era insabbiata e i tentativi che avevano fatto per tirarla fuori erano serviti solo a peggiorare la situazione.
Erano arrivati all’improvviso, come se fossero venuti fuori direttamente dalla sabbia.
La sua amica aveva gridato. Anche Vittoria aveva gridato.
Erano una quindicina e non sembravano affatto impressionati dalle loro grida.
Due di loro le avevano afferrate da dietro, bloccandole le braccia e sollevandole da terra, mentre altri avevano iniziato a spogliarle.
I jeans della sua amica erano già nelle mani di uno di loro, mentre un altro le stava sfilando le mutandine nere. Lei stava cercando di opporsi come poteva, ma i calci disperati che vibrava nell’aria non servivano a nulla.
Vittoria, invece, indossava una lunga gonna colorata.
Con lei era stato molto più facile, perché a quegli uomini era bastato lacerare la stoffa leggera per scoprirla completamente.
Era completamente nuda, dalla vita in giù. L’uomo che si era occupato di lei era andato per le spicce e, dopo la gonna, le aveva letteralmente strappato di dosso il piccolo slip, lasciando il suo sesso esposto all’aria rovente del deserto ed agli sguardi per nulla rassicuranti di quegli uomini.
Sarebbero state violentate da questi uomini sudici e selvaggi e poi ‘
Il colpo aveva fermato tutti, come se qualcuno avesse spinto il tasto pausa di un videoregistratore.
Il nuovo arrivato indossava una specie di divisa rossa, piena di decori e strani arabeschi.
Era alto e magro, con una barbetta sottile e curata e teneva in mano una pistola.
L’arma era puntata verso l’alto e dalla lunga canna usciva ancora un sottile filo di fumo.
Era una pistola molto curiosa: aveva l’aria vecchia e preziosa di certe armi antiche che lei aveva visto spesso nei musei.
Dietro l’uomo c’erano altre cinque persone, che indossavano una divisa simile, ma senza le decorazioni preziose. Avevano in spalla dei lunghi fucili ma non sembrava ci fosse la necessità di usarli, perché il gruppo dei predoni (sicuramente erano dei banditi), alla vista dei nuovi arrivati, aveva immediatamente lasciato a terra le due donne ed era fuggito.
Vittoria pensò che la loro situazione era migliorata, ma non troppo.
Le avevano fatte salire su un camion con il cassone coperto da un telone ed ora le stavano portando chissà dove.
Avevano permesso, alla sua amica, di recuperare i pantaloni e le mutandine, mentre lei, con la gonna completamente lacerata aveva potuto coprirsi ben poco.
Una volta salite sul camion le avevano legato, con dei lacci di cuoio, polsi e caviglie.
Questo sicuramente non andava bene, perché erano ancora prigioniere.
Si era addormentata.
La scena ora era completamente cambiata.
Era sdraiata per terra, in quello che sembrava il cortile di un grande palazzo.
Di fronte, a circa venti metri da lei, c’era la sua amica.
Stava incatenata, polsi e caviglie, a due corte colonne di pietra grigia, disposte a circa un metro di distanza l’una dall’altra, con le braccia e le gambe allargate, a formare una croce di Sant’Andrea.
I suoi vestiti erano ammucchiati in terra, vicino ad una delle colonne e di fronte a lei c’era un negro enorme, vestito soltanto con una specie di gonnellino rosso.
Sotto la sua pelle scura e lucida si intravedevano dei muscoli possenti.
La sua amica aveva un’espressione terrorizzata e Vittoria ne capì il motivo, quando si accorse che quel gigante nero teneva in mano una lunga frusta.
Sentì un ordine secco, improvviso, e si voltò alla sua destra.
All’ombra, vicino alla parete del palazzo, c’era un gruppo di uomini.
Al centro, seduto su una poltroncina rossa, un uomo anziano, vestito di rosso, con una specie di turbante in testa, dello stesso colore. L’ordine era partito da lui, che sicuramente doveva essere il capo, visti gli abiti preziosi, che sembravano essere di seta purissima.
Al suo fianco, in piedi, c’era l’uomo con la pistola che le aveva salvate dai predoni.
Dietro di loro una dozzina di uomini, sempre con la divisa rossa.
Il gigante nero aveva fatto due passi avanti ed aveva cominciato a mulinare nell’aria la frusta, cose se quel terribile aggeggio avesse bisogno di scaldarsi prima dell’uso.
La sua amica, terrorizzata, si era messa a gridare e si muoveva in maniera convulsa, facendo ondeggiare, sulle spalle nude, i lunghi capelli biondi.
Il negro, intanto, si era disposto dietro di lei.
La donna smise di agitarsi dopo il primo colpo.
Vittoria udì nettamente il rumore della frusta che si abbatteva sulla schiena nuda della sua amica.
La striscia di cuoio si arrotolò sul suo corpo e colpì anche la parte anteriore, lasciando un solco rossastro sulla pancia della sua amica, poco sotto l’ombelico.
L’uomo continuò a colpirla.
Ogni volta che la frusta si abbatteva su di lei, la donna aveva uno spasmo, come se fosse stata colpita da una scarica elettrica.
La colpiva in maniera sistematica, non risparmiando nessuna parte del suo corpo.
Quando ebbe finito con la schiena, passò al sedere e poi, abbassandosi per prendere meglio la mira, prese a colpirla sulle cosce, per scendere fino ai polpacci ed alle caviglie.
Prima di fermarsi, le diede anche diverse frustate sulle braccia tese ed allargate.
Vittoria si rese conto che doveva essere svenuta, perché ormai non si lamentava più ed aveva la testa ciondoloni, reclinata in avanti.
Anche gli altri dovevano essersene accorti, perché l’uomo seduto diede un breve ordine ed una delle guardie si avvicinò alla donna con un secchio pieno d’acqua.
Rinvenne subito.
Il suo viso era una maschera di dolore e la sua carne era solcata da decine di segni rossastri.
Il negro gigantesco si mise davanti a lei. La sua pelle ora appariva più lucida e grandi gocce di sudore gli scendevano lungo la schiena.
Il primo colpo la prese in pieno, in mezzo ai seni.
La donna cacciò un urlo disperato e svenne nuovamente.
Di nuovo la guardia con il secchio.
Vittoria ora poteva vedere benissimo le conseguenze della frusta: ogni volta che la striscia di pelle colpiva la carne della sua amica, rimaneva un solco rosso violaceo e, in qualche punto, attraverso la pelle lacerata, cominciava a sgorgare il sangue.
Quando l’uomo seduto diede un nuovo ordine, il negro si fermò all’istante, si voltò verso il suo padrone facendo una specie di inchino e andò via.
La sua amica appariva cosciente ma senza forze, con gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta.
Il suo corpo era solcato ovunque da decine di segni profondi e sanguinanti.
Due guardie la liberarono dalle catene e la portarono di peso davanti al loro signore, lasciandola in terra, semi sdraiata, a pochi metri da lui.
Vittoria si sentì prendere da dietro.
Altre due guardie l’avevano afferrata e la stavano trascinando verso le due colonne.
Era il suo turno.
Gli anelli di ferro con cui le strinsero polsi e caviglie, evidentemente arroventati da ore ed ore di sole cocente, scottavano, ma Vittoria pensò con terrore che tra un po’ avrebbe sentito ben altri bruciori.
Il gigante nero si avvicinò e, apparentemente senza alcuno sforzo, le finì di lacerare la gonna, che scivolò a terra, in mezzo alle sue gambe, poi si dedicò alla camicetta, che fece a pezzi in un baleno.
Il reggiseno era più resistente, ma, dopo aver estratto un coltello enorme, dalla lama ricurva, ci volle poco a liberarla dall’ultimo brandello di stoffa.
Ora era innanzi a lei, enorme, nero e possente, con la frusta in mano.
Mancava solo l’ordine del suo signore e poi avrebbe iniziato a devastare la sua carne.
Vittoria si vegliò di colpo, nel suo letto.
Tirò via il lenzuolo e guardò il suo corpo nudo. Nessun segno di frustate.
Era terribilmente eccitata e bagnata fradicia.
Cominciò a masturbarsi mentre ripensava al suo sogno terribile.
Terribile? Sicuramente, ma anche eccitante.
Poteva dire che era terribilmente eccitante.

Matteo era un amico di suo marito, alto magro e con i capelli brizzolati.
Lo aveva conosciuto sei mesi prima.
Una sera Vincenzo lo aveva invitato a cena, ma a causa della nebbia, era rimasto bloccato all’aeroporto di Milano.
Non era stato possibile avvisare Matteo e così lui si era presentato a casa loro, puntuale.
Vittoria aveva già preparato la cena, e poi le sembrava scortese mettere alla porta l’amico del marito.
Così avevano mangiato da soli e poi la serata era continuata chiacchierando ed ascoltando musica, come se si conoscessero da una vita.
Si erano incontrati diverse altre volte, dopo quella sera.
Matteo le piaceva, la metteva a suo agio e, quasi senza accorgersene, le aveva confidato il suo segreto, quella torbida eccitazione che la prendeva quando qualcuno la faceva soffrire.
Lui era rimasto colpito da questa confessione: trovava la cosa molto interessante, così avevano parlato spesso di questo argomento, con naturalezza.
Matteo comprendeva bene quello che provava Vittoria.
‘Ti capisco sai. Sapessi quanto trovo eccitante immaginarmi mentre ti causo sofferenza e tu gridi e ti contorci dal dolore. Potremmo provarci, magari senza esagerare.’
Le sue parole l’avevano colpita profondamente e, con il passare del tempo, il desiderio di provare questa esperienza, si era fatto sempre più forte.
Raccontava sempre a Matteo i sogni che faceva e come si svegliasse eccitata.
Quello che aveva fatto qualche giorno prima, ambientato nel deserto e che terminava con la fustigazione, aveva colpito anche lui, al punto che avevano rotto ogni indugio ed avevano deciso di andare fino in fondo.
Così quel pomeriggio Vittoria si stava dirigendo a casa di Matteo, dove, secondo quanto lui le aveva detto per telefono, la aspettava una sorpresa.
Matteo abitava in una grande villa, appena fuori città e quando lei parcheggiò l’auto nel giardino, lui le disse di andare direttamente in garage, senza entrare in casa.
Era un ambiente grande, senza finestre. Le uniche aperture erano un grande cancello di ferro basculante ed una porta di metallo, sul lato opposto, che conduceva all’interno della villa.
Dentro non sembrava esserci nessuno.
La porta si chiuse rumorosamente e subito dopo si spense la luce.
Vittoria cerco di abituarsi all’oscurità quasi totale, visto che solo una piccola lama di luce filtrava dal bordo inferiore del cancello, ma, prima che riuscisse a distinguere qualcosa, sui sentì afferrare saldamente per le braccia.
Dovevano esserci diverse persone nel garage, ora intente a bloccarla ed a toglierle di dosso i vestiti.
Gridò, cercò di divincolarsi. Si era aspettata di trovarsi sola con Matteo e, la presenza di questi sconosciuti la spaventava.
Le tolsero la giacca e le scarpe.
Si muovevano con decisione e lei non era in grado di fare nessuna resistenza.
Venne via la camicia di seta che aveva messo per l’occasione e subito dopo qualcuno la sollevò prendendola da dietro le spalle, mentre un altro le sfilava i pantaloni attillati.
Per ultimo le tolsero il reggiseno e le mutandine, poi le sollevarono le braccia sopra la testa.
Sentì che le avvolgevano strettamente i polsi con un corda, infine le calarono qualcosa, forse un cappuccio, sulla testa.
Dovevano aver riacceso la luce, perché attraverso la pesante stoffa nera che le copriva il viso, riusciva a distinguere un vago chiarore.
Si sentì tirare verso l’alto. La corda si tese penetrando dolorosamente nella carne dei suoi polsi sottili.
L’avevano sollevata di poco, in modo da lasciarla con le braccia tese e tutto il corpo in leggera trazione.
Vittoria toccava terra solo con le punte dei piedi ed avvertiva, sotto le dita nude, il pavimento del garage ruvido e sporco di olio e grasso.
La voce di Matteo.
‘Conosci il gioco dello schiaffo del soldato?’
Senza attendere una sua risposta, riprese a parlare.
‘Una persona si mette di spalle, con una mano rivolta all’indietro e deve indovinare chi, tra tutti gli altri, gli ha dato uno schiaffo sulla mano. Se sbaglia rimane lì, a prendere schiaffi, se indovina, l’altro prende il suo posto.
Noi, invece di darti schiaffi, ti frusteremo.
Siamo dodici persone, compreso me. Gli altri non li conosci e, essendo bendata, non potrai vederli in alcun caso. Ad ognuno è stato assegnato un numero da uno a dodici. Io sono proprio il numero dodici. Dovrai andare a caso e, dopo ogni colpo, dovrai provare a dire un numero. Quando indovinerai, la persona con quel numero uscirà dal gioco. All’inizio sarà difficile, ma poi, andando avanti, con meno numeri in ballo, sarà più semplice indovinare.
L’ultimo rimasto, come premio, avrà te per il resto della serata.
Sei pronta?’
Accidenti! No che non era pronta.
Si aspettava qualcosa di totalmente diverso, non certo di essere frustata da dodici uomini chissà per quanto tempo. Una possibilità su dodici. L’avrebbero massacrata prima che fosse riuscita a mettere fine a questo supplizio.
Ecco perché Matteo aveva insistito tanto perché mettesse dei pantaloni: non sarebbe potuta uscire da lì, mostrando le gambe piene di segni.
Lui sembrava quasi aver indovinato i suoi pensieri.
‘Non ti preoccupare, ho scelto una frusta leggera, che non farà molti danni e poi non è nostra intenzione farti troppo male, perché quello che vince ha tutto l’interesse a trovarti in forma, per il dopo.’
Vittoria ripensò al sogno di qualche giorno prima. No, questo non era un sogno, ora avrebbe provato realmente cosa vuol dire essere frustata.
Il primo colpo, che le arrivò in mezzo alla schiena, la distolse dai suoi pensieri.
Gridò forte e sentì l’eco della sua voce, che rimbalzava contro le pareti del grande garage semi vuoto.
‘Il numero, da uno a dodici, Vittoria.
Devi dire chi è stato.’
‘…tre’
‘Mi spiace, non hai indovinato.’
La schiena, nel punto in cui era stata colpita, bruciava forte.
Cercava di vedere attraverso il cappuccio nero, ma riusciva al massimo a distinguere qualche sagoma confusa. Avrebbe dovuto, ogni volta, buttarsi ad indovinare.
La seconda frustata le arrivò sempre dietro, colpendola sotto le ginocchia.
La frusta si era arrotolata intorno alle gambe, prendendo stinchi e polpacci.
Le venne un’idea.
‘…due?’
Era banale, ma poteva essere che il secondo ad averla colpita fosse proprio il numero due.
‘Brava. Hai indovinato.’
Ora ne restavano solo undici.
Un’ombra si era avvicinata, di fronte a lei.
La frustata arrivò proprio in mezzo alla pancia, facendola sobbalzare.
‘…tre’
‘Sbagliato! Mi dispiace.’
Troppo facile. Non era pensabile che si mettessero tutti in fila, per farsi eliminare uno dopo l’altro.
Il nuovo colpo arrivò dietro, colpendole il sedere in orizzontale, da sinistra a destra.
Vittoria gridò, mentre sentiva le lacrime che le scolavano lungo le guance.
Sembrava che questa volta il colpo fosse stato più forte, oppure dipendeva dalla parte colpita, più delicata.
Forse era stato proprio Matteo. Perché no. Anche lui faceva parte della compagnia.
Mentre sentiva crescere in lei l’eccitazione, insieme al bruciore terribile, gridò il numero dodici, quello assegnato a Matteo.
‘Sbagliato.’
Avrebbero continuato per tutto il pomeriggio. L’avrebbero massacrata prima che fosse riuscita ad eliminarli dal gioco.
Forse si era spinta troppo in là, ma ormai non poteva tornare indietro.
E poi, tutto sommato, le stava anche piacendo. Sentiva il suo sesso, bagnato, che si apriva sempre più, mano mano che i colpi si aggiungevano ai colpi.
Se l’avessero colpita proprio lì. No! Non potevano.
La colpirono più volte sui seni. Puntando lo sguardo in basso, riuscì a vedere, tra il bordo del cappuccio ed il collo, i solchi rossi che attraversavano le sue tette.
Accidenti, si sarebbero visti a lungo.
Eliminò il numero sette, poi il nove.
Era stanca, e, ad ogni nuova frustata, il bruciore causato dai colpi già subiti, sembrava rinnovarsi.
Si concentrarono sulle sue gambe, lunghe e ben modellate.
Vittoria, sotto i colpi della frusta, che le si attorcigliava addosso come un serpente, gridava e saltellava.
Nel suo disperato balletto spesso allargava le gambe in maniera scomposta e loro ne approfittavano per colpirle l’interno delle cosce.
Quei colpi, vibrati contro una parte morbida e carnosa erano particolarmente dolorosi e poi, la vicinanza con la sua vagina bagnata, sensibilizzata, accresceva l’intensità delle sue sensazioni.
Gli umori avevano preso a colarle lungo le gambe: ormai era prossima all’orgasmo.
Il cinque, con un mormorio di disappunto, abbandonò il gioco.
Ripresero a colpirla sui seni, poi indovinò l’undici, che, per cambiare, l’aveva colpita sulle braccia, unite insieme e legate per i polsi.
Si stava avvicinando la fine. Ne sarebbe rimasto solo uno, che avrebbe preso tra le braccia il suo corpo martoriato e allo stesso tempo eccitato.
Ancora sul sedere. Vittoria era sempre stata orgogliosa del suo bel culo.
Ricordò che Matteo lo guardava spesso con interesse.
‘dodici’
‘Brava Vittoria!’
Un po’ le dispiaceva, perché avrebbe preferito che l’ultimo fosse stato proprio lui, però ormai era concentrata sui numeri, cercando di non dimenticare quelli che erano già stati eliminati. E poi era veramente stanca e il dolore, sempre più forte si stava facendo insopportabile.
Sulla pancia, parecchio in basso, a sfiorare il ciuffetto rasato dei suoi peli pubici.
L’orgasmo arrivò improvviso, forse causato dalla vicinanza della frusta al suo sesso gonfio e dilatato.
Gli uomini si erano fermati, mentre lei, con la testa semi rovesciata all’indietro, gridava tutto il suo piacere.
Ripresero a colpirla sulla schiena e Vittoria indovinò subito, uno dietro l’altro, l’uno ed il tre.
Erano rimasti solo in tre: il sei, l’otto ed il dieci.
Era sempre più eccitata, pensando che tra poco il vincitore l’avrebbe penetrata.
Avrebbe infilato il suo pene grande e duro (almeno lo immaginava così) nella sua vagina aperta e bagnata.
Si sarebbe poi incuneato tra le sue chiappe morbide, solcate dalle ferite causate dalle frustate, fino a sfondarle l’ano.
Ebbe un secondo orgasmo, più violento del primo, proprio mentre eliminava il numero sei.
Era finita, ormai.
Restavano l’otto ed il dieci, in lizza per il trofeo.
‘otto’
‘sbagliato’
‘otto’
‘ancora sbagliato’
‘dieci’
‘no’
Accidenti, ora che era alla fine, sembrava non finire più.
‘dieci’
‘Brava vittoria’, era la voce di Matteo ‘è finita’
Sentì il rumore della porta che si apriva e poi il rumore di passi che si allontanavano.
Era rimasta sola con il numero otto, il vincitore.
Improvvisamente le cadde addosso una stanchezza indescrivibile, mentre l’uomo allentava la corda e le faceva toccare terra completamente.
Le liberò i polsi e la prese in braccio. Doveva essere alto e robusto.
Avrebbe voluto che lui le togliesse il cappuccio, perché desiderava vederlo in faccia, ed anche perché voleva vedere come era ridotta dopo quel terribile trattamento, ma l’uomo era di parere diverso e si limitò a sdraiarla a pancia in giù su un freddo tavolo di lamiera.
Vittoria si ricordò che nel garage, in un angolo, c’era un grande banco da lavoro, con morsa e trapano. Sicuramente l’aveva sistemata lì.
Il contatto con il metallo gelido delle tette e della pancia ferite, le diede un po’ di refrigerio, poi sentì le sue mani che, dopo averle allargato bene le gambe, iniziavano a frugare nella sua vagina.
Cominciò a stuzzicarla con le dita e quando trovò il suo clitoride, gonfio e duro, glie lo strizzò leggermente tra pollice ed indice.
Vittoria gridò per il piacere e lui ne approfittò per allargarle le chiappe.
Gridò ancora, questa volta per il dolore causato dalle mani di lui che stringevano forte i suoi glutei feriti. Sentì che stava entrandole dentro, di dietro, con decisione.
Dai numero otto, hai vinto, ficcamelo dentro, tutto, fino in fondo.
Cominciò a muoversi, mentre lui aveva ripreso a titillare il suo clitoride.
Era ormai totalmente pervasa da sensazioni fortissime: il bruciore forte dovuto alle decine di frustate, sparse in tutto il corpo, il piacere del nuovo orgasmo che si avvicinava ed il dolore sordo causato dal pene dell’uomo che si inoltrava nel suo ano, quasi a volerla spaccare in due.
Le venne dentro, con prepotenza, proprio mentre Vittoria al culmine dell’orgasmo, gridava e si dimenava.
Le tolse il cappuccio, ma non era ancora finita.
Era rimasta per qualche secondo abbagliata dalla luce al neon del garage, finalmente poteva tornare a vedere.
Poteva osservare ogni cosa intorno a se, ma non la faccia del numero otto, perché lui si era infilato in testa il cappuccio.
Aveva davanti a se un uomo grande, grosso e peloso, completamente nudo, a parte un cappuccio nero che gli celava il viso.
Il suo cazzo era lungo, largo ed appena un po’ ricurvo. Lo teneva tra le mani e lo avvicinava alla bocca di lei.
Vittoria aprì le labbra e richiuse delicatamente la bocca, dopo aver ingoiato buona parte di quell’arnese che, dopo esserle penetrato profondamente nell’ano, ora stava rapidamente riprendendo vita.
Lo sentiva crescere e diventare duro, mentre lei lo leccava e lo stimolava stringendolo leggermente con le labbra e muovendosi in su ed in giù, come se la sua bocca fosse una specie di mano.
L’uomo venne all’improvviso, con veemenza, inondandole la bocca di sperma.
Vittoria vide la porta che si chiudeva alle spalle di quella sagoma nuda e massiccia.
Ora era sola. A terra era rimasto il cappuccio nero, che l’uomo si era tolto dopo averle voltato le spalle.
Era stanchissima e piena di dolori.
Senza accorgersene, si addormentò accovacciata sul freddo piano di acciaio del banco di lavoro, nuda, piena di ferite ed imbrattata di sperma.
La svegliò Matteo che era venuto a prenderla.
Avvolse il suo corpo nella stoffa morbida di un accappatoio pulito e la prese in braccio.
Vittoria non si reggeva in piedi e lui dovette portarla di peso, fino nella vasca da bagno.
Dopo un lungo bagno tiepido, Matteo provvide a medicarle le ferite, poi l’aiutò a rivestirsi.
Fu un’operazione dolorosa, da compiere con cautela, evitando di far sfregare la stoffa contro la sua pelle dolorante e ferita.
Matteo la riaccompagnò a casa, perché Vittoria non era in grado di guidare.
Suo marito era fuori per lavoro, sarebbe tornato dopo una settimana. Aveva tutto il tempo per rimettersi.
Dopo che l’uomo se ne era andato, lei rimase a lungo, sdraiata nel letto, nella penombra, ad osservare il suo corpo, solcato da decine di segni violacei.
Si addormentò lentamente dopo essersi masturbata delicatamente, ripensando a quella serata incredibile.

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