Skip to main content
Racconti di Dominazione

Rossana

By 19 Agosto 2010Dicembre 16th, 2019No Comments

Rossana era giunta al castello parecchi anni prima, quando era una ragazzina di appena quindici anni.
Per le due famiglie era stata essenzialmente una questione di affari: la piccola nobiltà di provincia della famiglia di lei si era sposata con la grande, antica e prestigiosa nobiltà di quella di lui.
D’altra parte, la cospicua dote con cui Rossana era stata inviata, aveva contribuito grandemente a rimpinguare le finanze esangui del conte, impoverite da diverse generazioni di scialacquatori ed ubriaconi.
Prima di varcare il ponte levatoio del castello, Rossana aveva osservato con stupore quello stuolo di artigiani e contadini straccioni che si inchinava al passaggio della carrozza della futura contessa.
Il banchetto era durato molte ore e quando, alla fine, era stata quasi trascinata dal suo sposo, nella camera nuziale, Rossana era molto emozionata.
La sua prima notte era stata una delusione. Quell’uomo, venticinque anni più grande di lei, dallo sguardo sprezzante, dal viso magro e tagliente, contornato da lunghi capelli neri, era completamente ubriaco.
Dopo averla buttata di peso sul letto, le aveva strappato l’abito nuziale e le era saltato addosso.
L’aveva penetrata maldestramente e brutalmente, facendole discretamente male, poi, terminato quello che considerava il suo dovere, si era addormentato, russando sonoramente.
Rossana aveva faticato un po’ per togliersi di dosso il corpo del marito, rimastole parzialmente addosso, si era ripulita dal sangue misto allo sperma di lui e si era distesa sul letto, completamente nuda, osservando perplessa quello che sarebbe dovuto diventare il compagno della sua vita.
Contrariamente a quanto che le avevano detto in passato alcune sue amiche, era stata un’esperienza deludente, totalmente deludente.
La sua mano, così, era scesa in mezzo alle gambe ed aveva cominciato a toccarsi, come faceva spesso prima del matrimonio, a casa sua.
Aveva raggiunto quasi subito l’orgasmo, e si era addormentata tranquilla.
Aveva sperato che quella prima esperienza fosse stata rovinata dalle eccessive libagioni del banchetto, e che in seguito sarebbe andata meglio, ma si sbagliava.
Il conte beveva sempre, tutte le sere, al punto che spesso neanche riusciva a raggiungere la stanza da letto, e passava l’intera notte addormentato sulla grande tavola, contornato da resti di cibo e caraffe di vino semi vuote.
Aveva imparato quasi subito a fronteggiarlo ed a contenerlo: non si sarebbe fatta sbattere brutalmente per il resto dei suoi giorni.
Quando lui si presentava a letto, gli faceva due moine, lo spogliava e glie lo prendeva in mano. Quando poi le sembrava abbastanza duro, si avvicinava e glie lo succhiava finché non sentiva che lui stava per venire. Riusciva quasi sempre a scostarsi in tempo per non prendersi gli schizzi in faccia.
A quel punto lui si addormentava buono buono e lei poteva masturbarsi in santa pace.
Solo qualche volta, che lui era un po’ più sobrio, non era riuscita ad evitare di essere scopata.
In questi casi la costringeva a mettersi in ginocchio, a pancia sotto, come una bestia, diceva lui, e poi, dopo averle fatto allargare le cosce la penetrava brutalmente.
Rossana aveva imparato che, quando il suo umore poteva lasciar presagire un simile finale, era meglio toccarsi un po’ prima, in modo che la sua vagina fosse adeguatamente lubrificata.
Una volta era accaduto che il conte, adirato per una questione di certi terreni andata a finire male, l’aveva prima picchiata duramente e senza motivo, poi, dopo averla messa, come suo solito, nella posizione da bestia, le era entrato di dietro, a tradimento.
Rossana, presa di sorpresa, non aveva potuto far altro che gridare per il dolore, mentre lui le conficcava nell’ano il suo pene, quel giorno particolarmente duro (cosa che, a causa del troppo alcol che ingeriva abitualmente, non accadeva spesso).
L’aveva cavalcata a lungo, incurante dei suoi pianti e delle sue proteste, e si era fermato solo dopo averle scaricato dentro, con rabbia, il suo sperma, per poi addormentarsi come al solito.
Rossana era molto bella: un corpo snello e flessuoso, con due gambe lunghe e dritte, sormontate da un culetto rotondo e carnoso, ma il marito se ne curava poco, era come se si masturbasse usando il corpo della giovane ed attraente consorte.
Così Rossana spesso si guardava nuda allo specchio, mentre la sua cameriera personale le pettinava i lunghi capelli, neri ed ondulati, che le ricadevano sulla spalle magre e sui seni piccoli e sodi, pensando alla sua bellezza, data in pasto a chi non la meritava, che prima o poi sarebbe appassita inutilmente.
Erano passati diversi anni dal suo ingresso nel castello, ma il suo viso ed il suo corpo non ne avevano minimamente risentito.
In compenso il conte era invecchiato: i suoi capelli si erano fatti più radi e, qua e là, erano comparse delle ciocche bianche, mentre il viso era diventato grinzoso e le spalle apparivano incurvate.
Con il passare del tempo si interessava sempre meno di Rossana ed erano molte le notti in cui si addormentava senza neanche provare a far qualcosa.
Si interessava poco anche degli affari della contea e lei sentiva spesso, dai discorsi delle persone a lui vicine, che parecchie cose non andavano bene.
La riscossione delle tasse e dei tributi non era soddisfacente, i contadini nelle campagne a volte nascondevano parte del raccolto, oppure addirittura, c’era stata qualche piccola rivolta.
Anche gli artigiani in città avevano spesso protestato tramite i loro rappresentanti.
Rossana capiva poco di queste cose: tutto quello che era al di fuori del castello, per lei era totalmente estraneo. I sudditi del conte e quindi anche suoi, erano una massa di esseri senza faccia, la cui unica funzione era quella di inchinarsi al loro passaggio e garantire la loro esistenza oziosa e sfarzosa.
Anche se non apprezzava per nulla suo marito, era pur sempre una nobile ed era stata abituata a trattare la servitù in maniera altezzosa, figuriamoci quelle nullità che, al loro passaggio, si buttavano in ginocchio, nella polvere della strada.
Malauguratamente, davanti ai numerosi campanelli d’allarme, il conte, sempre più annebbiato dall’alcol e mal consigliato da chi gli stava intorno solo per interesse, aveva reagito con crudeltà e violenza, reprimendo duramente le proteste e facendo quindi aumentare il malcontento.
La rivolta era scoppiata improvvisa.
Una mattina Rossana aveva sentito un gran clamore e si era affacciata alla finestra.
Una folla enorme, armata di bastoni e forconi, si dirigeva minacciosa verso il castello.
Le guardie, anche loro scontente perché maltrattate e mal pagate, invece di chiudere il ponte levatoio, erano fuggite lasciando il castello indifeso.
I guerrieri fedeli al conte, poche decine in tutto, stavano opponendo una strenua resistenza, ma lentamente perdevano terreno e gli assalitori erano sempre di più.
Rossana non era stupida, si era resa conto che questa volta i sudditi non si sarebbero inchinati, anzi, se fossero riusciti a metter le mani addosso a lei ed al conte, gli avrebbero fatto fare una fine orribile.
Così aveva preso in fretta un cofanetto con dei gioielli e si era diretta verso le cucine.
Maria, la cuoca anziana, le era affezionata e sicuramente l’avrebbe aiutata, nascondendola in mezzo al personale di servizio.
Maria era spaventata e perplessa.
Guardava ora Rossana, ora il cofanetto dei gioielli, ora le altre donne presenti in cucina, che fissavano la contessa con aria niente affatto amichevole.
Si rendeva conto che non avrebbe potuto contare sul silenzio di tutte le persone presenti, neanche se fossero state ricompensate con i gioielli, ed avrebbe potuto mettersi nei guai anche lei.
All’improvviso la porta si aprì e comparvero numerosi uomini, alcuni armati di bastone, altri di spade, probabilmente prese alle guardie del conte.
Erano una rappresentanza di quei sudditi che si erano sempre inchinati davanti alla loro carrozza ed ora, evidentemente, non erano più disposti a farlo.
Il primo della fila, un giovano alto e dal fisico tozzo e robusto, con una folta chioma rossiccia, si avvicinò a Rossana e la prese brutalmente per un braccio, facendole cadere il cofanetto con i gioielli.
‘Lasciami, non mi toccare ‘io sono la contessa!’
Rossana era irritata e spaventata, ma l’uomo non sembrava minimamente impressionato dalla sue parole, né manifestava interesse per il prezioso contenuto del cofanetto, ora sparso sul pavimento della cucina.
Disse soltanto ‘so benissimo chi sei’, e la trascinò fuori, seguito dagli altri.
Il grande cortile del castello era un vero e proprio campo di battaglia: ovunque morti e feriti, sangue ed armi spezzate.
Il conte se ne stava, disarmato e con una profonda ferita ad una spalla, in mezzo ad un gruppo di rivoltosi.
Sembrava invecchiato di colpo di almeno quindici anni e, nonostante cercasse di mantenere un’aria spavalda, si vedeva chiaramente che era terrorizzato.
Il suo terrore diventò panico incontrollato quando vide apparire il boia.
Quell’uomo, che per anni aveva ucciso decine e decine di persone, per eseguire gli ordini del suo crudele padrone, ora avrebbe giustiziato proprio lui.
Quando lo trascinarono verso il grande blocco di pietra, opportunamente rivestito con una spessa tavola di legno, per non rovinare il filo dell’ascia, il conte cominciò ad urlare a voce altissima.
Ordinava di lasciarlo immediatamente, poi bestemmiava, infine, nel pieno di un folle delirio, prometteva loro grandi fortune se lo avessero lasciato andar via sano e salvo.
Smise di parlare solo quando lo fecero inginocchiare, con il collo poggiato sulla tavola di legno, macchiata dal sangue dei tanti condannati, passati lì prima di lui.
Rossana non aveva mai voluto essere presente alle esecuzioni, che venivano spesso praticate nel cortile del castello, perché le sembrava una cosa orribile.
Questa volta, invece, assistette tranquilla, come se fosse stata una rappresentazione teatrale.
Neanche sobbalzò quando l’ascia, maneggiata con perizia dal boia, si piantò nel legno con un rumore sordo, e la testa del conte, troncata di netto rotolò in terra.
Pensò, quasi sorridendo, che non avrebbe più dovuto sopportare le angherie di quel porco ubriacone poi però vide che la sua testa, ancora gocciolante di sangue, veniva prima mostrata in giro, tenuta per i lunghi capelli, ed infine deposta su uno dei due troni di pietra.
Solo allora pensò al destino che l’aspettava.
In un angolo del cortile, c’erano, uno a fianco all’altro, due grandi sedili in pietra, usati per le manifestazioni pubbliche, in cui sedevano il conte e la contessa.
Quello più grande e più riccamente ornato, ora era occupato dalla testa mozzata del suo ormai ex marito.
Tra poco, sull’altro, si sarebbe aggiunta la sua testa.
Quando si sentì tirare bruscamente, urlò, pensando che fosse giunto il suo momento, invece, il giovane con i capelli rossi, che doveva evidentemente essere il capo, la trascinò via, verso l’angolo opposto del cortile, fino alle torre nord.
La torre nord era il luogo più terribile di tutto il castello. Lì c’erano le segrete dove molte persone venivano torturate. Lei non c’era mai entrata, ma i lamenti che a volte venivano da lì, erano sufficienti a farle venire i brividi.
Forse l’aspettava una sorte anche peggiore della decapitazione.
Le fece percorrere un lunga scala a chiocciola, in pietra, che scendeva ripida all’interno della torre.
Ad ogni passo avvertiva l’aria che si faceva più fredda, mentre i gradini e le pareti diventavano sempre più umidi.
Si fermarono solo alla fine. La scala terminava con un piccolo pianerottolo circondato da scure pareti in pietra.
La torcia, tenuta in mano dall’uomo, illuminò una porticina in basso, attraverso cui una persona sarebbe potuto passare soltanto mettendosi carponi.
Lui l’aprì e poi spinse dentro Rossana, dopo averla costretta ad inchinarsi.
Lei cercò di puntare le braccia ma una poderosa pedata nel sedere la fece rotolare all’interno.
Riuscì solo per una attimo a pensare che nessuno si poteva permettere di prendere a calci nel sedere una contessa, poi dovette preoccuparsi di dove stava andando, nella sua discesa.
Stava rotolando lungo una specie di piano inclinato ma più di questo non riusciva a capire a causa del buio fitto.
Si fermò alla fine contro una parete.
Per terra era bagnato e sentiva dell’acqua che, dall’alto, le cadeva addosso.
Dopo qualche minuto, ormai abituata alla scarsissima luce presente, in pratica solo un leggero chiarore che veniva dall’alto, attraverso un buco nel muro, capì di trovarsi in una specie di pozzo, alto e stretto, nelle fondamenta della torre.
La porticina da cui era entrata stava un metro più su. Il pavimento era in discesa e, nel punto più basso, un buco nella parete permetteva all’acqua che pioveva dall’alto, di defluire liberamente.
Il posto era umidissimo e freddo e l’acqua che le schizzava addosso di continuo, non le lasciava scampo: in qualsiasi punto si fosse messa, non avrebbe potuto evitare di bagnarsi.
Dopo un po’ i suoi vestiti erano completamente zuppi ed iniziò a tremare per il freddo.
Riuscì a dormire un po’ e, al suo risveglio, si accorse di avere fame e sete.
Da mangiare non c’era nulla, ma bere non sembrava un problema.
Ma che acqua era quella che pioveva nella sua prigione? Era acqua potabile oppure proveniva dalle fogne del castello. Cercò di annusare ma l’odore fortissimo di terra umida e muffa, che riempiva quel posto, non lasciava spazio ad altro, così decise di bere comunque.
Si era appena addormentata di nuovo, quando sentì un rumore provenire dall’alto.
Molti metri più su si era aperta una porta da cui proveniva parecchia luce.
Vide un secchio legato ad una corda che scendeva rapidamente.
Lo afferrò al volo, quando giunse a portata delle sue mani. Dentro c’era un pezzo di pane duro e ammuffito, che divorò avidamente.
Ancora non sapeva che, per parecchi giorni, quello sarebbe stato l’unico cibo fornitole.
Quanto tempo rimase lì dentro? Difficile stabilirlo perché, senza riuscire a capire quando era giorno e quando notte, aveva perduto ogni cognizione del tempo.
Era riuscita un po’ ad organizzarsi. Aveva trovato, nel pavimento, un punto intermedio, tra la parte più alta, dove colava maggiormente l’acqua e la parte più bassa dove c’era il buco per il deflusso, dove stare meno scomodamente.
Si spostava in basso solo quando ne aveva bisogno, cercando di depositare le sue feci il più possibile vicino al buco, nella speranza che l’acqua le portasse via, facendo diminuire la puzza terribile che ormai riempiva la sua prigione.
Una volta sentì dei rumori lontani, come di tuoni.
Dopo un po’, all’improvviso, udì un forte rombo, simile ad un torrente in piena, poi cominciarono ad arrivarle addosso, da tutte le parti, scrosci di acqua gelata.
Il fondo della sua cella cominciò a riempirsi perché l’acqua non riusciva a defluire dal buco e fu costretta ad alzarsi in piedi.
Il livello saliva rapidamente.
Ora l’acqua le era arrivata alla vita ed il suo prezioso vestito, pieno di ricami, si era sollevato e volteggiava nell’acqua.
Scivolò sulle pietre lisce del pavimento e finì completamente sott’acqua.
Quando riuscì finalmente a rialzarsi ed a rimettere la testa fuori dell’acqua era completamente stremata. Per un attimo pensò di tornare giù e lasciarsi affogare, poi si accorse che il livello dell’acqua stava lentamente scendendo.
Rimase in piedi, poggiata al muro, a guardare l’acqua che, centimetro dopo centimetro, si abbassava, finché non si creò un piccolo gorgo che sparì nel buco.
A quel punto sentì un rumore.
La porticina da cui era entrata diversi giorni prima, si era aperta di nuovo e poteva vedere bene un braccio maschile che si sporgeva dentro la cella.
Si arrampicò a fatica lungo il piano inclinato, viscido per l’umidità, finché la mano salvatrice non la prese per un polso ed iniziò a tirarla con forza.
Dopo molti sforzi riuscì a risalire ed a passare per quel piccolo pertugio, ma era troppo stanca per pensare di rimettersi in piedi, così rimase accucciata in terra, davanti al giovane con i capelli rossi.
La costrinse a rialzarsi e le fece ripercorre a ritroso il cammino che aveva fatto per essere portata in quella terribile prigione ed infine la fece entrare in una stanza dove, in un angolo, c’era un grande braciere ed una incudine.
Rossana apprezzò il calore del fuoco, dopo essere stata tutto quel tempo in mezzo al freddo ed all’umidità e si lasciò docilmente sdraiare su un grande tavolo di legno
‘Io faccio il fabbro e questi sono per te.’ disse mostrandole dei grossi bracciali in ferro fatti di due metà incernierate. Glie ne mise uno ad un polso e poi lo chiuse.
Il bracciale terminava con dei piccoli anelli, disposti alternativamente su una e sull’altra metà, in modo che, quando era chiuso, i buchi coincidessero.
Si allontanò da lei e tornò tenendo con una tenaglia un grosso chiodo arroventato, che infilò attraverso i buchi degli anelli, poi, con destrezza, ne piegò la punta usando la tenaglia.
Rossana si accorse che il bracciale, sull’esterno, aveva saldato un grosso anello e pensò che quegli attrezzi sarebbero serviti per incatenarla e magari sottoporla a qualche terribile supplizio, ma non poteva fare nulla per impedirlo, così rimase ferma mentre lui le sistemava l’altro polso alla stessa maniera.
Anche quando, dopo averle tolto i morbidi stivaletti di pelle, le applicò due arnesi identici alle caviglie, rimase ferma.
‘Sai cosa significa questo?’
Dovette sforzarsi, dopo aver aperto bene gli occhi, di mettere bene a fuoco l’oggetto che l’uomo teneva in mano.
Era qualcosa di tondo, fumante e sicuramente rovente.
‘Sai cosa significa questo marchio con la lettera V?
Sai a chi viene impresso?’
Rossana ebbe un sussulto. Era il marchio d’infamia che veniva applicato alle prostitute.
Le donne scoperte a vendere il loro corpo, venivano trascinate in piazza, denudate, frustate e poi marchiate in faccia con la V, in modo che tutti potessero riconoscerle ed evitarle.
Dopo l’esecuzione della terribile pena venivano anche lasciate incatenate per giorni e giorni, affinché, chiunque passasse di lì, potesse divertirsi a suo piacimento.
‘Perché?’
La domanda le era uscita spontanea. Lei non aveva mai fatto nulla per meritare una simile punizione e non era certo una prostituta.
‘Stai tranquilla, ci sarà tutto il tempo per spiegarti questo e tante altre cose. E poi non ti preoccupare, non sciuperò il tuo bel musetto.’
Improvvisamente, prima che lei potesse rendersene conto, le aveva aperto il palmo della mano destra e ci aveva premuto contro il marchio arroventato con la V.
Rossana neanche si era accorta di quello che stava accadendo. Aveva sentito una vampata di calore e lo sfrigolio della sua carne che bruciava. Il dolore era arrivato in ritardo, quando lui ormai aveva già tolto il ferro dal palmo della mano.
La donna aveva guardato la sua mano orribilmente ustionata ed era svenuta.
Aveva ripreso i sensi quando lui si stava preparando a marchiarle anche la mano sinistra.
Un dolore atroce e la sensazione di avere la mano destra completamente paralizzata non impedirono a Rossana di tentare una reazione, per cercare, divincolandosi, di evitare che le bruciasse anche l’altra mano.
‘Se non la smetti immediatamente, te lo faccio veramente in faccia.’
La minaccia, unita al calore del marchio arroventato vicino alla sua guancia, la convinsero a desistere.
Lentamente lui aprì, una ad una, le dita della mano che Rossana aveva serrato nel tentativo di evitare quella terribile punizione, poi le strinse forte il polso, tenendolo bloccato contro il tavolo di legno.
Questa volta la donna gridò quando il ferro rovente venne a contatto con la sua pelle delicata.
Il corpo di Rossana era scosso da forti sussulti ma lui tenne il ferro premuto finché non fu sicuro di averle bruciato la carne in profondità, in modo da lasciarle un segno indelebile.
‘Allora, vuoi sapere perché sei qui? Ti accontento subito.’
La donna ora era seduta sul tavolo, scossa da tremiti, con le braccia piegate e le dita rattrappite in una posizione innaturale.
‘Io sono un fabbro, mio padre era un fabbro ed anche mio nonno era un fabbro.
Parecchi anni fa, quando sei venuta qui per sposare il conte, tutti ti abbiamo visto passare dentro la carrozza.
Eri bellissima, sembravi quasi una dea, e tutti abbiamo sperato che la tua bellezza, che faceva presagire un carattere buono e dolce, potesse in qualche maniera influire sull’indole crudele e sanguinaria del nostro signore.
Purtroppo ci sbagliavamo, la contessa Rossana si sarebbe mostrata della stessa pasta del suo crudele compagno.
Tu hai conosciuto mio padre.’
‘No, come posso aver conosciuto tuo padre?’
Proseguì ignorando la breve interruzione di lei.
‘Un giorno, al passaggio della carrozza non fu abbastanza rapido ad inchinarsi.
Prendete quest’uomo e dategli venti frustate, disse il conte, così imparerà a portare rispetto.
Mi padre si rivolse a te, implorandoti di salvarlo da quella punizione terribile ed ingiusta, ma tu gli rispondesti che non aveva avuto il permesso di parlare e che ne avrebbe meritate altrettante per questa mancanza.
Così, per causa tua, mio padre fu condannato a quaranta frustate, anzi, gli ne diedero altre dieci, perché cinquanta gli sembrava un numero più bello.
Cinquanta frustate ad un uomo vecchio e malandato, la cui unica colpa era stata quella di non essere stato abbastanza rapido ad inginocchiarsi a terra.
Io ero lì, vicino a lui, ed assistetti a tutta la scena.
La mattina dopo trovammo il suo corpo davanti all’uscio di casa.
Quel corpo si muoveva, camminava, era in grado di mangiare ed anche di bere, ma mio padre se ne era andato per sempre.
Visse altri sei mesi senza dire una parola e senza mai guardare negli occhi a me ed a mia madre.
Poi potemmo finalmente seppellire quel corpo.
Ora è venuto il momento di pagare il conto. Per il conte, che il diavolo se lo porti via, non c’era punizione sufficiente, al punto che se fosse possibile vorrei riattaccargli la testa per poterlo far decapitare altre mille volte, ma a te, farti provare quello che provò mio padre, penso potrebbe far bene.’
La prese per le braccia e la trascinò verso la parete opposta della stanza, lasciandola poi cadere sul pavimento.
Prima che Rossana riuscisse a rendersi conto di quanto stava accadendo, le aveva fissato i bracciali delle caviglie a degli spezzoni di catena ancorati a dei grandi anelli conficcati nel pavimento.
Fece lo stesso, con i polsi, con due catene che pendevano dal soffitto, poi, manovrando delle carrucole, cominciò a sollevarla.
In breve Rossana si trovò che le braccia e le gambe stese ed allargate, come a formare una specie di grande X.
Tirò ancora un po’ in modo che la donna si trovasse con i piedi sollevati da terra, con le catene ancorate al pavimento completamente tese.
‘Questo macchinario lo aveva costruito, o meglio, lo aveva dovuto costruire mio padre, io mi sono limitato a risistemarlo. Potrei tirare ancora fino a disarticolarti tutte le giunture, ma mi limiterò a farti assaggiare la frusta, quella frusta che si portò via l’anima di mio padre.
Chissà quale usarono su di lui. Per non sbagliare le userò tutte, nei prossimi giorni.’
Rossana era terrorizzata, quest’uomo, pazzo per il dolore, l’avrebbe torturata fino alla morte. Pensò che sarebbe stato meglio che il boia avesse calato l’ascia anche sul suo collo.
Rossana non sentì arrivare la prima frustata, perché l’uomo si era piazzato alle sue spalle.
Avvertì solo il sibilo della frusta nell’aria e poi una fitta dolorosa che attraversava la sua schiena.
Poi un’altra, ed un’altra ancora.
La colpiva con forza e con metodo, facendo passare parecchi secondi tra un colpo e l’altro, come per farle sentire meglio il dolore della punizione che le stava infliggendo.
La stoffa leggera del suo vestito, indebolita dall’acqua e dall’umidità dei giorni trascorsi nel pozzo in fondo alla torre, si lacerò quasi subito in mezzo alla schiena e lui continuò imperterrito a colpirla sulla pelle nuda, incurante delle urla di dolore della donna, finché lei non svenne.
Un secchio d’acqua gelata le fece riprendere i sensi.
‘Allora, mia cara contessa, ti sei già stancata, dopo solo una decina di frustate?’
Passò davanti e prese a colpirla sulla gambe.
Il vestito si strappò dopo pochi colpi lasciandola nuda dalle ginocchia in giù.
La frusta si attorcigliava sulle sue gambe magre lasciando dei vistosi segni rossi sulle caviglie e sui polpacci.
Si fermò solo quando dalla pelle, spaccata in più punti, cominciò a colare il sangue.
‘Per oggi può bastare.’
La lasciò sola, nella stanza, dopo averle liberato le braccia dalla catene.
Rossana rimase sdraiata in terra, perché dopo quanto le aveva inferto non era in grado di stare in piedi, e poi, le caviglie bloccate da quei corti spezzoni di catena ancorati al pavimento, non le permettevano di andare da nessuna parte.
Tornò la mattina dopo, portandole qualcosa da mangiare.
Questa volta, oltre al pane, c’era anche della carne, del formaggio e perfino della frutta.
‘La contessa deve mangiare in abbondanza, perché è necessario che si mantenga bene in forze, per arrivare viva alla fine della punizione.’
Aspettò che Rossana ebbe finito di mangiare, poi le legò nuovamente i polsi e la issò, azionando le carrucole.
La frustò a lungo, con metodo, sulle braccia e sul ventre, facendo a brandelli il suo vestito.
Ogni volta che lei sveniva, si fermava e le faceva riprendere i sensi con l’acqua gelata.
La fece riposare qualche ora e tornò il pomeriggio.
Questa volta la colpì sui seni. Quando il vestito si squarciò mostrando, in mezzo ai lunghi capelli neri i suoi capezzoli rosei cambiò attrezzo.
‘Non voglio spaccare o strappare via pezzi di carne a questi bocconcini così piccoli e delicati, da vera contessa. Questa’ disse mostrandole un frustino corto da cui partivano diverse sottili strisce di pelle terminate con dei piccoli nodi, ‘ti farà lo stesso molto male ma non farà sgorgare neanche una goccia di sangue. Quando avrò finito, i tuoi seni saranno così rossi, gonfi ed indolenziti, che desidererai quasi strapparteli via con le tue stesse mani.’
Fu di parola e la colpì infinite volte, con quell’arnese che, ad ogni colpo, lasciava dei piccoli solchi rossastri in rilievo.
Quando poi le striscioline di pelle urtavano i suoi capezzoli, il dolore era insopportabile.
Cambiò verso. Ora le nuove frustate si incrociavano con le vecchie, aggiungendo dei solchi più scuri, sul violaceo, ancora più in rilievo, rispetto ai primi, che fecero diventare la sua pelle, prima morbida e vellutata, gonfia e rugosa, deformando il profilo elegante dei suoi piccoli seni.
Quando si fermò erano così deformati e arrossati che lei non aveva quasi il coraggio di guardarli.
Continuò a frustarla per giorni, dedicando ogni seduta ad una parte del suo corpo, spesso ripassando, magari con una frusta diversa, dove già aveva colpito in precedenza.
Con il passare del tempo, i segni delle prime frustate stavano iniziando a scomparire e questo tranquillizzò un po’ Rossana: probabilmente il suo corpo sarebbe potuto tornare come prima, naturalmente a patto che lui smettesse di tormentarla.
Le sue mani no, quelle sarebbero rimaste per sempre con quel terribile marchio.
Ormai, nonostante lui continuasse a colpirla senza risparmio, lei non sveniva più, era come se si fosse assuefatta al dolore.
Mi sono abituata? Si chiedeva Rossana. Era possibile abituarsi alla frusta, come se si trattasse di un paio di scarpe o un cibo?
Per ultimo, si dedicò al suo sedere, che aveva lasciato per giorni intatto, evitando accuratamente di colpirlo.
Si era messo alle sue spalle e, dopo aver strappato via con le mani gli ultimi brandelli di stoffa che lo ricoprivano, aveva preso a carezzarle dolcemente le chiappe.
‘Allora, mia cara Contessa, il tuo nobile e bianco culetto è pronto per un trattamento che non potrà non dimenticare?’
Il carattere forte ed altezzoso di Rossana, già duramente scosso dalla terribile prigionia nel pozzo della torre, ora, dopo giorni e giorni di crudeli torture, si era completamente dissolto. Fin dall’inizio, avendo compreso che non era in condizione di ordinare nulla a quell’uomo che la teneva prigioniera, così aveva resistito con serena dignità, cercando di non gridare e lamentarsi troppo, poi, piano piano, si era lasciata andare completamente, dando sfogo liberamente al pianto ed alle urla, quando la colpiva più duramente.
Lei, ricca e nobile, si era abbassata a supplicare un misero fabbro perché le risparmiasse il tormento della frusta e la vergogna di dover rimanere nuda davanti ai suoi occhi, visto che ormai anche gli ultimi brandelli dei suoi vestiti erano caduti a terra, strappati dalla violenza della frusta, e solo i suoi lunghi capelli coprivano in parte il suo corpo.
Alla fine, per disperazione, si era addirittura offerta a lui, purché la dispensasse da ulteriori sofferenze.
Lui le aveva risposto con durezza che non era in condizione di offrire nulla: ‘mia cara contessa, coglierò la tua bellezza, o quello che ne sarà rimasto, tutte le volte che vorrò, a mio piacimento, senza il tuo permesso, quando sarà giunto il momento.’
Per prima usò quella frusta leggera, con cui aveva tormentato i suoi seni.
La colpì a lungo, con metodica ferocia.
Rossana non era in grado di vedere cosa stesse accadendo alle sue spalle, ma aveva sotto gli occhi i suoi seni, ancora gonfi e doloranti, dopo diversi giorni e poteva bene immaginare il risultato.
Sotto quei colpi numerosissimi, che a volte si spingevano quasi fino alla vita, ed altre scendevano lungo le cosce, il fastidio, diventava bruciore, per poi trasformarsi in un dolore sempre più acuto.
Si era fermato ed aveva riposto la frusta nella rastrelliera.
‘Questa non l’ho ancora provata,’ disse mostrandole un attrezzo piuttosto corto, dall’aria tozza e robusta.
‘Il nervo di bue, se ben usato, lascia dei segni indelebili. La tua pelle bianca e delicata, già opportunamente indebolita, si spaccherà facilmente e, colpo dopo colpo, la frusta penetrerà in profondità, facendosi strada nella tua morbida carne. Sentirai il sangue uscire dalle ferite ed iniziare a scorrere lungo le tue belle gambe, fino a formare una pozza ai tuoi piedi.
Ti colpirò finché quel morbido e rotondo monticello di carne non sarà diventato un ammasso informe.’
‘No!’
Il suo era stato un grido disperato. Una supplica ed un ordine. Era stata offesa ed umiliata, avrebbe portato per sempre sulle mani, i segni di quella terribile avventura, forse la sua pelle sarebbe rimasta solcata dai cicatrici delle frustate subite, ma non poteva tollerare che il suo corpo venisse distrutto. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per salvaguardarlo.
Si guardò il palmo delle mani sfigurato da quel terribile marchio d’infamia.
Avrebbe fatto quello che chiunque si sarebbe aspettato, vedendo quella V impressa sulla sua pelle.
Avrebbe offerto il suo sesso a quell’uomo, sperando di placarne l’ira.
Avrebbe cercato, in ogni maniera, di procurare piacere a quel giovane dal corpo robusto e dai capelli rossicci.
Avrebbe schiuso la sua vagina al suo pene, che immaginava grande e duro.
Lo avrebbe lasciato entrare liberamente nel suo ano, che il conte, solo una volta, era riuscito a violare, poi lo avrebbe leccato, fino a fare tornare nuovamente dritto e duro, per poterlo ingoiare completamente.
Allora lo avrebbe succhiato e baciato, lo avrebbe stretto dolcemente tra le labbra, per sentire meglio il sangue che pulsava e l’energia che si concentrava in attesa dell’esplosione finale.
Infine, dopo aver aspettato con ansia e trepidazione che lo sperma zampillasse copioso nella sua bocca, avrebbe inghiottito, fino all’ultima goccia, quel liquido caldo e prezioso.
Avrebbe fatto tutto ciò, senza nessuna esitazione, tutte le volte che lui lo avrebbe chiesto.
Di giorno e di notte. Ogni momento. Sempre, purché risparmiasse il suo culo.
Aveva concluso con quella parola volgare, che una contessa ben educata neanche avrebbe dovuto conoscere, proprio mentre si rendeva conto che tutto quello che era convinta di aver solo pensato lo aveva detto ad alta voce al suo aguzzino.
L’uomo di fronte a lei aveva cambiato espressione. Teneva ancora in mano il nervo di bue ma sembrava indeciso sul da farsi.
Rimase a lungo giocherellando con quell’attrezzo terribile, mentre Rossana cercava, di capire, dal suo sguardo impenetrabile quale decisione avrebbe preso.
Infine gettò via la frusta.
‘Bene, mia cara contessa. Le mie orecchie hanno udito bene?’
Rossana fece cenno di sì con la testa. Forse era salva.
‘Vedo con piacere che, alla fine, la tua sprezzante altezzosità è stata vinta.
è dura per gente come te chinare la testa ed accettare di sottomettersi a qualcuno che per anni è stato costretto a buttarsi per terra, fino a mangiare la polvere, al passaggio dei potenti.’
Sentì il rumore delle catene che scorrevano nelle carrucole e lentamente toccò terra.
Era veramente finita?
Quando la liberò dalle catene, Rossana gli crollò di schianto addosso, premendo i suoi seni contro il suo petto.
Ormai era vinta, completamente sottomessa.
Il giovane dai capelli rossi, dopo averla liberata dalle catene, ma non dagli anelli di ferro intorno a polsi e caviglie, l’aveva portata in un’altra stanza più piccola.
Era un ambiente arredato in maniera semplice e modesta, ma pulito.
L’aveva lasciata sdraiata sul letto, disposto al centro della stanza e se ne era andato.
In un angolo, poggiato su una cassapanca c’era un pesante camicione di lana grezza.
Era un abito adatto ad una popolana, non certo il vestito di una contessa, ma era anche l’unico indumento presente e così lo indossò.
La stoffa, tessuta rozzamente le dava fastidio, sfregando sulla pelle irritata dalle frustate, ma era meglio che restare nuda.
Infilò i piedi negli zoccoli di legno, che aveva trovato ai piedi della cassapanca e si guardò.
Al posto della contessa vestita elegantemente e dallo sguardo fiero, c’era una donna misera e spaventata, mal vestita e segnata dalle sofferenze.
I robusti anelli di ferro, che cingevano polsi e caviglie, sancivano la sua condizione di persona prigioniera e sottomessa.
Solo un fabbro avrebbe potuto liberarla dalla loro presenza fastidiosa.
Quei ferri erano pesanti ed era sufficiente il più piccolo movimento, perché il loro bordo appuntito scalfisse la sua pelle, impedendole di dimenticarne la presenza.
Quando poi aveva lentamente aperto le dita delle sue mani, che fino a quel momento aveva tenuto strette a pugno, le era mancato il respiro.
No, non aveva sognato, il ferro rovente aveva marchiato, sfigurato per sempre la sua pelle.
Quella V, rossa e profonda, incisa nella sua carne, avrebbe detto a tutti che lei era una prostituta, un essere che valeva meno di un cane randagio, una femmina che chiunque avrebbe preso a suo piacimento.
Si sedette sul letto e cominciò a pensare.
Tutto quello che era accaduto in quei giorni faceva parte di un disegno.
Il giovane fabbro dai capelli rossi aveva messo in atto un piano diabolico per spezzare la sua resistenza, per distruggere la sua personalità.
Prima il freddo, l’acqua ed il buio della cella in fondo alla torre.
Poi l’imposizione di quei ferri ai polsi ed alle caviglie e l’umiliazione dolorosa della marchiatura.
Infine quei lunghi giorni trascorsi, nuda ed incatenata, a subire il lento stillicidio della frusta che straziava il suo corpo, ferendola in ogni punto.
Aveva atteso, con pazienza, che lei crollasse.
Avrebbe potuto farle qualsiasi cosa, lei non avrebbe certo potuto impedirgli di violare il suo corpo, ma lui aveva preferito che Rossana, gli si offrisse spontaneamente.
Se lei, sotto la minaccia del nervo di bue, avesse resistito ancora, probabilmente non avrebbe straziato le sue natiche con quell’arnese terribile, ma avrebbe pazientato, sapendo che prima o poi avrebbe ottenuto quello che voleva.
Era quasi sicura di tutto questo, ma ormai serviva a ben poco, perché la contessa Rossana non esisteva più e lei sarebbe rimasta lì, con suo misero vestito, ad aspettare.
Avrebbe aspettato quell’uomo ed avrebbe soddisfatto tutti i suoi desideri.
Rossana era già a letto e si svegliò di colpo quando lui tirò via di colpo la coperta.
Era rimasta ferma, tremante e raggomitolata nel ruvido camicione di lana.
Il giovane dai capelli rossi si era spogliato e l’aveva costretta a sdraiarsi, poi le aveva sollevato il vestito fino alla pancia, scoprendo il suo sesso, sormontato da un folto ciuffo di peli neri e ricci.
Rossana aveva allargato le cosce, ancora segnate dalle frustate ed aveva preso tra le dita il suo pene.
Era grande, dritto e duro. Ripensò al conte e dovette ammettere che da questo punto di vista era un grosso miglioramento.
Tenerlo tra le mani la stava eccitando e sentiva che la sua vagina si stava schiudendo lentamente.
Anche lui se ne doveva essere accorto perché, all’improvviso, le allargò di più le cosce con le mani e si avvicinò.
Avvertì un brivido forte e profondo, quando lui la penetrò.
Quella notte capì perché le sue amiche, prima che lei andasse in sposa al conte, le avevano narrato le meraviglie del sesso.
Avrebbe voluto che lui non uscisse più dal suo corpo.
Aveva provato un orgasmo potentissimo, che faceva apparire le sue pratiche solitarie come un misero surrogato.
Era sicura di avergli piantato le unghie nella schiena, così profondamente da ferirlo, mentre lui, gridando, la riempiva di sperma caldo e denso.
Poi l’aveva fatta girare.
Aveva pensato per un attimo alla brutta avventura con il conte, quando, ubriaco e furibondo, aveva violato il suo ano.
Non era in grado di stabilire se, allora, era stato peggio il dolore fisico o l’umiliazione.
Questa volta sarebbe stato diverso, perché non ci sarebbe stata violenza, visto che la sua volontà era stata completamente annullata ed era pronta a fare qualsiasi cosa per quell’uomo.
E il dolore? Dopo aver provato il ferro rovente e la frusta, pensò che avrebbe potuto benissimo farselo mettere nel culo, usando un linguaggio adatto alla sua nuova condizione.
Quella volta con il conte, aveva lottato, cercando di opporsi alla violenza, ottenendo solo di farsi male. Ora avrebbe spalancato la porta a quel giovane forte e vigoroso.
Le entrò dentro con decisione ma senza cattiveria. Spingeva con forza mentre lei cercava di facilitarne l’ingresso, provando di ignorare il dolore.
Quando fu entrato fino in fondo, le piazzò le mani sui fianchi ed iniziò a muoversi lentamente e profondamente.
Sentiva il suo pene che entrava ed usciva tra le sue natiche, senza mai sfilarsi del tutto.
‘Sarebbe stato un vero peccato rovinare queste belle chiappe con il nervo di bue. Sei stata una donna saggia.’
Ora faceva meno male, lo sentiva muoversi più liberamente e stava cominciando ad eccitarsi di nuovo.
Con cautela staccò una delle mani con cui si puntellava al letto, e la infilò in mezzo alle gambe.
In questa maniera le sembrava che fosse lui a muoversi nella sua vagina.
Stava aumentando il ritmo.
La prese di sorpresa quando, raggiungendo l’orgasmo diede una forte spinta.
Rossana finì con la faccia nel cuscino mentre lui lo infilava più profondamente.
Gridò per la sorpresa e per il dolore, poi sentì lo sperma che usciva con forza e la inondava.
Una volta, due, tre ‘ le contrazioni si facevano meno forti, mentre lei, che era riuscita a sistemare di nuovo la mano nel suo sesso, aveva ripreso a toccarsi.
Riuscì a darsi tutto il piacere che voleva, prima che lui lo tirasse fuori.
Si abbandonò sul letto, esausta, mentre sentiva lo sperma che le usciva lentamente dall’ano rimasto semi aperto.
Quando si fu ripresa, si mise a sedere sul letto e si chinò verso di lui.
Fu una sua iniziativa. Voleva farlo.
Lo aveva fatto spesso con il conte, ma allora serviva soltanto a tenerlo buono. Doveva solo fargli scaricare le poche energie rimastegli, in modo che lei potesse dormire in pace.
Ora invece voleva succhiarlo per bene, a quest’uomo giovane e forte. Voleva farlo perché doveva farlo godere, ma anche perché piaceva a lei.
Quindi avrebbe cercato di farlo durare parecchio tempo e, soprattutto, non si sarebbe scansata sul più bello.
Avrebbe continuato a tenerlo tra le sue labbra ed avrebbe bevuto il suo sperma fino all’ultima goccia.
Erano entrambi molto stanchi e, ad un certo punto, temette di non farcela.
Quando l’uomo le infilò una mano tra le cosce insinuandosi nella sua fessura dilatata, lei raddoppiò gli sforzi.
Vennero insieme e Rossana ingoiò avidamente tutto, raccogliendo con la lingua l’ultima gocciolina che la stava sfuggendo, colando verso il mento.
Il giovane con i capelli rossi, che Rossana scoprì chiamarsi Alfredo, trascorreva che lei quasi tutte le notti.
Era una presenza piacevole, che le faceva quasi dimenticare la sua condizione di prigioniera.
Aveva finalmente scoperto i piaceri del sesso al punto che ormai non si masturbava più, nelle lunghe giornate, trascorse rinchiusa nella stanza, ad aspettare il suo uomo.
Avrebbe potuto trascorrere la vita con lui?
Una contessa poteva diventare la moglie di un fabbro?
Avrebbe potuto cucinare per lui e dargli dei figli?
Quell’uomo avrebbe potuto perdonare chi era stato in parte causa della morte di suo padre?
E poi, quel marchio infamante stampato sul palmo delle sue mani, non le avrebbe forse precluso una vita normale?
Per ora aveva deciso di non pensarci e di godersi le giornate, così come venivano, visto che la sua situazione era assolutamente provvisoria.
Il re non avrebbe certo tollerato la ribellione popolare che aveva portato alla morte del conte ed alla sua prigionia.
Avrebbe mandato un esercito e per Alfredo ed i suoi seguaci non ci sarebbe stato scampo.
Doveva solo aspettare.
Le sue previsioni si avverarono e, dopo un paio di mesi, le truppe reali assediarono il castello.
I ribelli erano male armati e poco addestrati e, nel giro di una settimana, la loro resistenza fu abbattuta.
Quando sentì il chiavistello che girava rumorosamente, Rossana si alzò e si mise in piedi in mezzo alla stanza, cercando di assumere una posa decisa e dignitosa, come si addiceva ad una esponente della nobiltà.
Certo il vestito grezzo e sdrucito ed i piedi nudi infilati nei rozzi zoccoli, non l’aiutavano, ma aveva fatto del suo meglio cercando di mettere in ordine i suoi lunghi capelli neri.
Si era affacciato un cavaliere, armato di tutto punto e con la spada sguainata, pronto ad uccidere qualche ribelle sopravvissuto. Dietro di lui diversi uomini armati.
‘Signore, grazie a Dio, siete finalmente arrivati. Il conte, il mio sposo è stato ucciso ed io imprigionata e torturata.’
Le era stato difficile definire il mio sposo il conte, ma doveva cercare di rientrare nella sua parte, anche se non era del tutto convinta di riuscirci.
Il cavaliere aveva squadrato con attenzione quella popolana mal vestita, con addosso i segni di molte vecchie frustate, cercando di ravvisare la possibilità che invece fosse addirittura la contessa.
Doveva essere stata tenuta a lungo in catene, visto che ancora portava degli anelli ai polsi ed alle caviglie.
Non era possibile, si trattava solo della moglie di qualche ribelle, che ora cercava di salvare la propria testa, inventandosi una storia fantasiosa.
‘Ma cosa stai dicendo? Abbiamo appena dato sepoltura ai corpi del conte e di sua moglie, o meglio, a ciò che ne è rimasto.
Lui lo abbiamo individuato dall’anello, perché la testa non è stata ritrovata, mentre la contessa era irriconoscibile, con il volto sfigurato dal becco dei tanti uccelli rapaci, che hanno infierito sui loro corpi, abbandonati in fondo al fossato, ma siamo sicuri, purtroppo, della loro identità.’
‘No! Per favore, credetemi, il conte è morto, l’ho visto decapitare davanti ai miei occhi, ma io sono la contessa Rossana, ve lo giuro. Vi prego, cercate qualcuno che possa confermarlo, qui nel castello.’
Il cavaliere era perplesso ed indeciso. Se fosse stata veramente la contessa?
‘Va bene, cercherò qualcuno che possa confermare le tue parole, ma se hai mentito, ti farò strappare la pelle a suon di frustate.’
‘Grazie, signore, grazie.’
Nel dire ciò, Rossana aveva aperto le dita della mano destra.
‘Ehi, fammi vedere la mano.’
Aveva fatto un passo avanti e l’aveva afferrata forte per il polso.
‘La contessa? Tu saresti la contessa? Sei solo una lurida prostituta. Eri quasi riuscita ad ingannarmi.’
Rossana era disperata, doveva assolutamente riuscire a convincerlo.
‘No, aspettate, mi hanno fatto questo per umiliarmi, vi prego, dovete credermi.’
Piangeva disperatamente mentre mostrava all’uomo entrambe le mani sfigurate dal marchio.
Era tutto incredibile, ma la donna sembrava sincera e così il cavaliere, dopo aver lasciato due uomini di guardia, andò a cercare qualcuno, del personale di servizio del castello, che non fosse fuggito dopo la rivolta.
Quando ritornò con Sara, una giovane cameriera, Rossana si tranquillizzò di colpo.
Il suo incubo avrebbe avuto fine, la serva avrebbe confermato la sua identità e lei avrebbe recuperato il rango che le competeva.
Un lampo strano era passato negli occhi di quella donna piccola ed insignificante.
Allora Rossana ricordò che tempo prima, lei l’aveva fatta punire perché aveva rovesciato un vassoio con della carne.
Un fatto banale: una serva piccola e stupida che aveva sbagliato, e per questo si era presa un po’ di frustate sulla schiena.
‘Non so chi sia questa donna. La contessa è morta, ho visto il suo cadavere.’
Poche parole, che avrebbero messo una pietra enorme sul destino di Rossana.
La serva era uscita dalla stanza dopo averle lanciato uno sguardo trionfante.
‘Allora? Contessa, o devo chiamarti puttana? Io sono stato di parola ed ho trovato una persona che potesse confermare quello che sostenevi. Ora avrai la giusta ricompensa, come ti avevo promesso.’
Due soldati la trascinarono fuori, con i piedi nudi che strusciavano contro le pietre sconnesse del cortile del castello.
La legarono alla colonna mozza dove tante volte erano stati portati tutti coloro che avevano commesso qualcosa di male o magari, più semplicemente, non avevano i soldi per pagare le tasse.
Era rimasta lì, con le braccia legate insieme, tirate verso l’alto, con la fune annodata intorno all’anello conficcato nella sommità spezzata della vecchia colonna, e la faccia premuta contro la pietra liscia.
Il cortile era pieno di soldati venuti apposta, per godersi lo spettacolo.
Cercò invano qualcuno che potesse riconoscerla e che le avrebbe potuto risparmiare la terribile punizione che l’aspettava, ma intorno a lei c’erano solo facce sconosciute.
Qualcuno da dietro le strappò il vestito.
Il pubblico cominciò a rumoreggiare. Sentiva, portati dal vento, che sferzava il grande cortile, frammenti dei commenti sconci dei soldati, che tessevano le lodi del suo culo, mentre il sole, ormai alto, le bruciava sulla pelle.
Arrivò un soldato, completamente calvo, con una grande pancia rotonda, che teneva in mano una frusta enorme.
Davanti a Rossana saggiò la flessibilità del manico, poi si tolse la casacca, rimanendo a torso nudo.
Ora non lo vedeva più, sicuramente era dietro di lei, pronto ad iniziare il supplizio.
La minaccia del cavaliere ti farò strappare la pelle a suon di frustate continuava a risuonare nella mente di Rossana.
I soldati si erano zittiti di colpo e anche il vento sembrava, per un momento, essersi placato.
Un sibilo acuto e poi una fitta insopportabile che attraversò tutta la sua schiena, da una parte all’altra.
Le era bastato il primo colpo per farle capire che Alfredo, con lei, aveva quasi giocato.
L’aveva colpita tante volte ma con l’intenzione di fiaccarne la resistenza senza causarle troppi danni.
Quell’uomo grasso e dallo sguardo crudele, che stava alle sue spalle, invece, l’avrebbe massacrata.
I colpi si susseguivano lenti e micidiali, e lui, ogni tanto, si avvicinava per controllare che lei fosse cosciente. Un paio di volte le avvicinò al naso una boccetta, con dentro qualcosa con un odore fastidioso e fortissimo, che la ridestò dal torpore in cui stava cadendo.
Quando la frusta scese più in basso, Rossana gridò disperatamente, mentre i soldati ridevano e sghignazzavano. Era qualche minuto che dicevano a gran voce: ‘il culo, colpiscila sul culo, dai, che lì è meglio!’
Continuò a colpirla finché lei non ebbe più il fiato di gridare.
Lo spettacolo era finito ed i soldati, rumorosamente ruppero le file.
Sentiva il sangue che scolava lungo la sua schiena e le sue gambe, poi il sole lo asciugò e rimase immobile, ad aspettare che qualcuno la liberasse.
La slegarono che era già buio.
Si afflosciò lentamente a terra, incapace di sostenersi, prima di perdere i sensi.
Quando si risvegliò, riconobbe con sorpresa la sua stanza, con il grande letto a baldacchino, su cui era stata adagiata
In un angolo era poggiato un suo vestito, uno di quelli di quando era contessa.
‘Allora contessa, siamo riusciti a trovare uno dei suoi vestiti. Purtroppo niente biancheria, ma penso che questo sarà sufficiente a ricoprirla in maniera adeguata al suo rango.
La giovane Sara l’aiuterà ad indossarlo.’
Era un sogno? No. Di fronte a lei c’erano il cavaliere che l’aveva fatta frustare, e Sara, che con la sua menzogna l’aveva condannata a quella punizione terribile.
La ragazza l’aiutò ad alzarsi e Rossana, tenendosi stretto al seno quello che restava del suo vestito di lana grezza, si diresse verso il paravento, situato nell’angolo opposto della stanza.
Sara non le disse nulla, l’aiutò ad indossare il vestito, sontuoso e profumato, e le allacciò il corpetto.
Prima di abbandonare il riparo del paravento si tolse il suo vestito, che lasciò scivolare fino a terra. Rossana rabbrividì vedendo le orribili cicatrici che la deturpavano.
Fu questione di un attimo, Sara si era già rivestita e l’aveva accompagnata nuovamente dal cavaliere, prima di abbandonare la stanza.
Le scoppiava la testa ed il dolore delle frustate, dopo aver visto la schiena di Sara, era aumentato.
‘Grazie, signore per avermi infine creduto ”
‘Ma cosa vai blaterando, lurida troia. Ancora con questa storia della contessa. A forza di succhiare il cazzo agli uomini, devi aver bevuto così tanto sperma che ti deve aver dato alla testa.
Ma tu credi davvero che io potrei mai far frustare pubblicamente una contessa.’
Rossana non riusciva più a capire nulla.
‘Hai voluto essere la contessa? Ed io ti ho accontentato. Sei vestita come lei e sei nella sua stanza, però siccome sei una puttana, io prenderò il tuo corpo come si deve fare con una cagna della tua specie.’
‘Signore, per favore, credetemi, guardate come mi calza a pennello questo vestito, non vi sfiora il pensiero che potrebbe essere stato cucito proprio per me?’
‘Falla finita, cagna! Adesso ti scoperò per bene, poi domani, se mi va, ti farò dare una doppia razione di frustate e ti farò pure cospargere le ferite con il sale.’
La spinse brutalmente sul letto e la lasciò lì, a piangere disperatamente.
Rossana non reagì quando lui le sollevò il vestito scoprendole completamente il sedere.
Il cavaliere la penetrò brutalmente, dopo averla messa in ginocchio in mezzo al grande letto.
Si muoveva con gran vigore, sfregando dolorosamente contro le sue chiappe martoriate dalla recente fustigazione, mentre Rossana piangeva in silenzio, aspettando che finisse.
Non contento glie lo infilò nel culo, sculacciandola violentemente perché lei cercava di non farlo entrare.
Quando infine si mise in piedi davanti a lei, la poveretta aprì prontamente la bocca ed accolse il suo pene.
Per completare la sua umiliazione, lo tirò fuori all’ultimo momento e si divertì a schizzarle lo sperma addosso, sulle guance, sugli occhi, riservandole l’ultimo zampillo alla bocca, che lei aveva dovuto mantenere spalancata.
La lasciò cinque minuti a riposare, poi la costrinse ad alzarsi in piedi.
Le slacciò il vestito e la costrinse a toglierselo, poi, nuda ed imbrattata di sperma, la mise alla porta.
Fuori, c’erano due soldati che la presero in consegna e la portarono via. I due soldati la trascinarono fuori, nel cortile e per un attimo Rossana temette che l’avrebbero legata nuovamente alla colonna.
Era notte fonda ed il vento gelido, a contatto con la sue pelle nuda, la fece rabbrividire, quando passando vicino al luogo dove l’avevano frustata, vide le macchie del suo sangue sulla pavimentazione in pietra.
Invece attraversarono tutto il cortile ed entrarono negli alloggi dei soldati.
Quando aprirono una porta e la spinsero dentro una grande camerata, dove dormivano una trentina di soldati, Rossana pensò che forse avrebbe preferito un’altra passata di frusta.
Uno di loro era sveglio e, alla vista di una giovane donna completamente nuda, cominciò a gridare per richiamare l’attenzione dei suoi compagni.
Fu subito attorniata da una piccola folla, che la toccava e la palpava dappertutto.
La misero sdraiata su una tavolaccio al centro dello stanzone.
Uno le salì a cavalcioni e la costrinse ad aprire la bocca.
Il peso di quel corpo la schiacciava e la soffocava, e non poté far altro che schiudere le sue labbra, prendere quel cazzo puzzolente ed iniziare a succhiarlo, mentre altri le allargavano le gambe.
La scoparono tutti, più volte, a turno, quella notte, poi, quando proprio non ne poteva più, la misero con la pancia poggiata sul tavolo, di traverso, e le ginocchia che toccavano terra.
Uno prese a stuzzicarle la vagina, dilatata ed arrossata, con il manico di legno di una lancia.
Lo sperma che, fino ad ora, le avevano ficcato dentro, continuava ad uscire a fiotti, mentre quel pezzo di legno frugava nel suo sesso, indolenzito ed eccitato allo stesso tempo. Quando toccava il clitoride lei gridava e sobbalzava. Allora i soldati ridevano e si davano pacche sulle spalle.
La fecero venire diverse volte con questo sistema, mentre a turno c’era sempre qualcuno che glie lo ficcava in bocca.
Alle fine, stanchi di giocare, tolsero il bastone.
Fu questione di un attimo e sentì che glie lo conficcavano nell’ano.
‘Ehi! Fai piano, non dobbiamo mica impalarla la troia. Basta darle solo un’allargatina, così possiamo incularla meglio.’
Infatti, dopo averle conficcato il bastone per un palmo ed averlo un po’ mosso, causandole delle fitte dolorose, lo sfilarono.
Ci fu un’accesa discussione su chi dovesse essere il primo, poi sentì delle dita che le allargavano le natiche, riaprendo dolorosamente le ferite delle frustate.
Rossana gridava, disperata, e si dibatteva furiosamente, dopo aver raccolto tutte le poche energie rimaste.
Non ci fu niente da fare, perché diverse mani la bloccarono contro il tavolo, impedendole anche il minimo movimento.
Allora, il primo dei soldati glie lo infilò dentro.
Il manico della lancia, aveva fatto bene il suo lavoro, e lo sentì entrare liscio fin quasi in fondo. Il dolore che provò fu dovuto solo all’azione precedente di quel pezzo di legno grezzo che le aveva provocato numerose escoriazioni.
La stavano sfondando e lei non poteva farci nulla.
Uno dopo l’altro si alternavano e, ogni volta che un cazzo veniva sfilato, aveva l’impressione che i suoi tessuti avessero ceduto un po’, lasciando, per il prossimo, il buco più largo.
Le sembrava di avere il ventre pieno del loro sperma, nonostante quando qualcuno di loro finiva, la facessero scolare un po’ prima di ricominciare.
Terminarono rimettendola a pancia in su.
La sua vagina, ormai completamente dilatata, accolse ancora i loro cazzi che sembravano non saziarsi mai, mentre altri, dopo essersi masturbati, le facevano colare il loro seme, nella bocca tenuta spalancata a forza..
La lasciarono in pace solo verso l’alba, quando, avvolta in una coperta la portarono via.
Rossana fu lasciata a disposizione degli uomini del cavaliere per una settimana.
Il giorno era tenuta in una piccola cella, mentre la notte veniva portata nella loro camerata.
Fortunatamente la furia della prima notte si era un po’ placata, altrimenti non avrebbe resistito.
L’ultimo giorno il cavaliere venne a trovarla.
Era ridotta in uno stato pietoso.
Sporca di sperma da capo a piedi e piena di graffi e lividi.
Il suo sguardo spento e le occhiaie profondissime, lasciavano capire quanto fosse sfinita.
‘Allora, mia bella contessa. Come andiamo oggi?
Non mi sembrate molto in forma. Forse che i miei uomini non sono di vostro gradimento?’
Rossana non era neanche in grado di parlare, provò a dire qualcosa, ma rimase con le labbra semi aperte, incapace di articolare suoni.
‘Forse è meglio che, invece di parlare, con le vostre labbra facciate quello in cui siete più portata.’
Si era aperto i pantaloni e, prontamente glie lo aveva ficcato in bocca, bloccandole la testa.
Maledetto bastardo, se un giorno riuscirò a riprendere il mio posto, non avrò pace finché non ti avrò trovato e non te lo avrò fatto tagliare davanti a tutti, per poi darlo in pasto ai cani.
Naturalmente queste cose poté solo pensarle, perché l’idea di essere nuovamente legata alla colonna, le faceva venire i brividi.
Il cavaliere si ritenne soddisfatto solo al terzo pompino, e dopo essersi assicurato che lei avesse inghiottito tutto.
Prima di andare via, le disse che quella sarebbe stata l’ultima notte al castello, perché la mattina successiva sarebbero partiti.
‘Non preoccupatevi contessa. Vi porteremo con noi. Sapete, i miei uomini non possono proprio fare a meno di voi ‘ di voi e dei vostri deliziosi buchi.’
Era state le ultime parole, dette mentre usciva dalla cella, ridendo sguaiatamente.
Il mattino successivo la portarono direttamente dalla camerata ad un carro coperto, pieno di sacchi di farina e la sistemarono all’interno, dopo averle incatenato una caviglia ad uno degli assi delle sponde laterali.
Era una precauzione inutile perché la povera Rossana non riusciva quasi a muoversi.
L’interno del carro era semibuio, ma riuscì a scorgere, in fondo, una figura sdraiata che si muoveva.
‘Chi c’è laggiù?’
‘E chi vuoi che ci sia, una principessa forse? Scema, sono una tua collega.’
Le apparve un viso di donna vecchio e sfatto, con dei capelli lisci, che, anni prima, dovevano essere biondi, e due occhi grigi e spenti.
Sotto la coperta che l’aveva riparata dal freddo della notte, c’era un corpo grassoccio e sformato. Gambe corte, un sedere molliccio che cominciava a mostrare delle grinze e due seni grandi e cadenti.
Ma quello che più la colpì era il marchio, identico a quello impresso sulle sue mani, che le sfigurava la guancia destra.
‘Che c’è? Sono troppo brutta per i tuoi occhi?
Certo, quando ero giovane non ero bella come te, ma ti assicuro che non ero tanto male.
Comunque, non ti preoccupare, perché dopo una ventina d’anni di questa vita, un po’ mi somiglierai.
Avevo quindi anni quando ho iniziato a vendere il mio corpo. Una piccola fatica piacevole per riuscire a mangiare tutti i giorni. Ne avevo appena compiuti diciotto, quando mi hanno arrestata e mi hanno fatto questo bel regalo.’ Disse mostrando a Rossana la guancia deturpata e deformata dal marchio.
‘Ora ne ho ben trentacinque.
Non fare quella faccia sorpresa. Pensavi che avessi l’età di tua nonna?’
Aveva solo trentacinque anni!
Rossana pensò che lei ne aveva compiuti da poco venticinque.
Quanto tempo avrebbero impiegato i soldati a ridurla come quella poveretta.?
Le giornate di viaggio erano faticose, perché il carro in cui erano rinchiuse, sobbalzava di continuo.
La notte, naturalmente venivano i soldati.
Certo, anche l’altra, che si chiamava Agnese, contribuiva, ma la maggior parte di loro preferiva il corpo giovane e fresco di Rossana.
Erano bastati dieci giorni, o meglio dieci notti, per farle apparire normali quelle terribili orge notturne.
Il suo sesso ora, quando provava a guardarsi in mezzo alle gambe, le appariva allargato e slabbrato. Non poteva vedersi dietro, ma da quello che le aveva detto la più esperta Agnese, nel suo culo ci avrebbero potuto infilare un braccio intero.
Forse la sua compagna di viaggio si era divertita a spaventarla, ma non ne era così sicura.
Si sentiva sporca e puzzolente, perché erano giorni che stava chiusa lì dentro, tranne qualche breve pausa. La polvere della strada, che entrava copiosa attraverso il telone del carro, si era impastata con il sudore e con lo sperma dei soldati, e perfino i suoi capelli erano appiccicati ed impiastrati.
Una mattina la sciolsero dalla catena e la fecero scendere dal carro.
‘Signora contessa, vorrebbe farmi l’onore, per oggi, di cavalcare al mio fianco?
Suppongo che una signora come lei sappia andare a cavallo.
Se è brava a cavalcare almeno la metà di quanto lo è a farsi cavalcare, credo che non avrà alcun problema.’
Il cavaliere era scoppiato in una risata fragorosa, a cui aveva fatto seguito un coro di versi e lazzi dei suoi uomini.
A Fianco del destriero del cavaliere, unico ad andare a cavallo, di tutta la compagnia, c’era un asino, a cui avevano tolto il basto con il carico.
Rossana fu messa sopra l’animale, direttamente a pelo, e poi le furono legate le braccia dietro la schiena.
La carovana si mosse. Avanti il cavaliere sul suo cavallo nero, seguito da Rossana sull’asino, poi appresso tutti gli altri a piedi, per chiudere con i carri, i muli e gli asini, che trasportavano tutto quanto necessario al loro viaggio.
Rossana era concentrata nel seguire il movimento dell’asino perché, senza potersi tenere con le mani, sarebbe stato facile scivolare dalla groppa dell’animale, e cadere rovinosamente a terra.
Il pelo dell’asino era ruvido e la sua vagina, provata dall’ennesima notte nel carro, ad ogni passo, sfregava dolorosamente sulla groppa della bestia.
Dietro, i soldati commentavano ad alta voce, eccitati dalla vista di quella donna, completamente nuda, che cavalcava davanti a loro.
Non avendo staffe, il peso del suo corpo gravava tutto in mezzo alle sue gambe e sentiva che, con il passare del tempo, la schiena dell’asino penetrava nel suo sesso.
Si avvicinava l’autunno e cominciava a far freddo.
Quel giorno avrebbero dovuto superare delle alte montagne.
Rossana vedeva la strada che si inerpicava in alto, tra i boschi, di fronte a loro.
Venne la salita e l’aria si fece più fredda.
Ora l’asino, a causa della forte pendenza, aveva cambiato passo, imprimendo alla sua andatura una specie di dondolio, che costringeva Rossana a muoversi leggermente avanti ed indietro.
Si accorse che ora il clitoride sfregava leggermente sulla groppa pelosa dell’animale.
Non comprese subito le conseguenze di ciò, ma, in ogni caso, avrebbe potuto fare ben poco per evitare che accadesse.
Stava crescendo e, mano mano che si ingrossava e si induriva, il contatto con il pelo dell’animale aumentava.
Cominciò a gemere a bocca aperta, senza alcun ritegno.
Si sentiva sempre più eccitata e sempre più bagnata, mentre dietro i soldati ridevano a crepapelle.
Il cavaliere si era avvicinato a Rossana.
‘Signora contessa, se preferisce, possiamo fare una breve sosta. La vedo un po’ provata, forse potrebbe smontare dal suo destriero e farsi montare un po’ da lui.’
Era seguita una risata sarcastica, accompagnata dal solito coro della truppa.
Lei rispose di no con un cenno della testa e continuò, mentre dietro i soldati facevano commenti sulla sua fica e sulle dimensioni del cazzo dell’asino.
Quando raggiunsero il passo, alla fine della salita, Rossana aveva raggiunto l’orgasmo già due volte. Aveva cercato di non farsi accorgere, arrivando persino a mordersi a sangue le labbra, ma non era servito a nulla.
Si fermarono a riposare per dieci minuti, ma lei rifiutò di abbandonare la sua cavalcatura.
Era tanta, la paura che, una volta scesa, l’avrebbero fatta montare dall’asino, che preferì rimanere sulla groppa dell’animale.
La discesa fu anche peggio, perché senza potersi sostenere con le mani, il suo corpo tendeva a scivolare in avanti, mentre lo sfregamento, che non era cessato, anzi, le sembrava aumentato, le faceva emettere sospiri e mugolii sempre più forti.
Quando si fermarono definitivamente, sulla riva di un piccolo fiume, e la misero giù, Rossana era infreddolita e senza forze.
‘Mia cara contessa, che ne dice di un bel bagno ristoratore?’
Erano giorni e giorni che non si lavava ed avrebbe dato qualsiasi cosa per potersi togliere di dosso lo schifo di quelle notti passate in balia dei soldati, ma solo l’idea di immergere un piede in quell’acqua sicuramente gelida, la faceva star male.
‘No per favore, ho troppo freddo.’
Naturalmente il suo parere non fu preso in considerazione e il cavaliere, dopo averle passato un fune intorno alla vita, entrò a cavallo nell’acqua, trascinandosela dietro.
Dopo pochi passi, Rossana inciampò e cadde, finendo completamente sott’acqua.
Il cavaliere continuò tranquillamente il suo cammino e lei riuscì in qualche maniera a recuperare l’equilibrio.
Una volta uscita dall’acqua le permise di scaldarsi vicino al fuoco.
Finito di mangiare, invece che riportarla nel carro, fu fatta entrare nella tenda del cavaliere.
‘Mia cara contessa, spero che la lunga cavalcata non abbia esaurito tutte le sue energie.’
Era in piedi di fronte a lei, completamente nudo, ed attendeva.
Rossana si inginocchiò ed iniziò a succhiarglielo.
Quando lo vide duro ed eretto a sufficienza, la scansò bruscamente e prese uno strano oggetto, che, lì per lì, nella tenda semi buia, lei non distinse bene.
Lo vide trafficare a lungo intorno al suo pene, poi le si avvicinò.
Il corpo del suo membro era ora rivestito con una specie di astuccio di pelle nera, fatto da sottili striscioline intrecciate. Era come una rete fatta di maglie di circa un centimetro di lato e, in ogni punto di incrocio c’era una minuscola borchia di metallo. Il tutto terminava poco prima dell’attaccatura del glande, lasciando completamente libera l’estremità del pene.
‘Un piccolo stratagemma per rendere più interessante la violazione del tuo bel culetto, mia cara contessa. Sarà un vero piacere sentire la pelle ed il metallo di questo bel giocattolo raschiare per bene il tuo ano sfondato. Non vedo l’ora di sentire le tue grida di cagna in calore.’
Il cavaliere fu di parola.
L’inizio non fu affatto doloroso e la punta del suo cazzo s’incuneò senza sforzo tra le chiappe di Rossana. Ormai, dopo gli innumerevoli passaggi dei soldati, chiunque sarebbe entrato facilmente dentro di lei.
I guai vennero quando, continuando a spingerlo dentro, le strisce di pelle e poi le borchie, che sicuramente erano appuntite, vennero a contatto con la sua carne.
Urlava disperatamente, mentre, lui centimetro dopo centimetro, proseguiva nella dolorosa operazione.
Non aveva nessuna fretta, voleva godersi bene la sofferenza della sua vittima.
Così si fermava spesso e lo muoveva dentro di lei, come se volesse aprirsi meglio la strada, qualche volta, addirittura, tornava un pezzetto indietro, per poi spingerlo dentro di nuovo.
Ci mise un tempo interminabile per arrivare fino in fondo e quando Rossana, finalmente sentì il ventre dell’uomo che le premeva sul sedere, arrivò l’ordine perentorio del cavaliere.
‘Toccati e muoviti!’
Si infilò una mano in mezzo alle gambe e, con sorpresa, si accorse di essere bagnata.
Il dolore dietro era fortissimo, ma quando cominciò a masturbarsi, le sembrò normale muoversi.
Lui, con le mani poggiate sulle sue chiappe ne guidava il movimento, cercando di farle aumentare il ritmo.
Ora scorreva, dentro e fuori, dentro e fuori, sempre più veloce.
Il dolore aumentava, si era fatto insopportabile, ma lei continuava, spinta dalle mani di lui e dal piacere che si stava facendo strada.
Le sue grida non erano più di dolore ma di piacere.
L’orgasmo, forte ed irrefrenabile fu una liberazione.
Quando il cavaliere, dopo essersi svuotato dentro di lei, venne fuori, Rossana
gridò per l’ultima volta, mentre quell’aggeggio infernale feriva la sua carne.
Era completamente rosso di sangue e la donna, a quella vista orribile, perse i sensi.
Per quella notte la lasciò dormire nella sua tenda, evitando di farla riportare nel carro, ma il giorno seguente dovette riprendere la sua normale attività.
Ormai il loro viaggio volgeva alla fine, ancora pochi giorni ed il cavaliere, con la sua truppa sarebbe tornato a casa.
E lei?
Non era chiaro ancora cosa sarebbe accaduto a Rossana.
Una mattina fui svegliata dalla luce forte, entrata attraverso la tela della copertura del carro che era stata alzata.
Ancora mezza addormentata, sentì delle persone che parlavano a bassa voce.
‘Ma è grassa, vecchia e brutta, mi state solo facendo perdere del tempo.’
‘Signore, non quella, l’altra, dall’altra parte.’
La coperta che la ricopriva era stata sollevata, e Rossana si era trovata con due occhi puntati che la scrutavano.
‘Beh, questa qui è decisamente meglio.’
Di fronte a lei, un vecchio grasso e pelato, cominciò a studiarla.
La osservava, lo toccava e la palpeggiava, come se stesse scegliendo un vitello alla fiera.
‘Tette piccole, ma la farò mangiare bene, così un po’ le cresceranno.
Un po’ magra, ma ha due belle gambe.
Certo il viso è parecchio sciupato. Chissà quante volte ve la siete ripassata.
Ragazza, fai vedere un po”
Teneva in mano una bacchetta e glie la puntò in mezzo alle cosce.
Rossana, ubbidiente, allargò le cosce.
‘Mamma mia, per fortuna che dovrò usarla solo io, che alla mia età, capite bene, devo andarci piano, altrimenti non mi durerebbe molto.’
Aveva esaminato ogni particolare del corpo di Rossana, facendole anche aprire la bocca per vedere lo stato dei denti. Aveva storto un po’ il naso vedendo le mani marchiate, ma quando il cavaliere aveva replicato che l’alternativa sarebbe stato farglielo sul viso, aveva convenuto che era meglio così.
Solo quando l’aveva fatta alzare in piedi e fatta girare di spalle, aveva cominciato a protestare.
‘Che schifo. A me, alla mia età, già si drizza a fatica, se vedo questo disastro non ci riesco più. Ma era proprio necessario ridurle la schiena ed il sedere in queste condizioni?
Mi dispiace, vi darò la metà di quello che chiedete.
E poi, dategli almeno una lavata, è sporca da fare schifo.’
Era seguita una lunga trattativa, alla fine della quale l’uomo, che era un ricco mercante, aveva acquistato Rossana.
La sera stessa, in gran segreto, alcuni soldati l’avevano portata a casa sua.
L’uomo, vedovo da diversi anni, aveva deciso, dopo che la sua vecchia domestica se ne era andata, di rimpiazzarla con qualcosa di più eccitante.
Viveva solo, in una casa enorme, di cui utilizzava solo la cucina ed una piccola adiacente stanza da letto.
I soldati avevano sistemato una lunga e robusta catena che univa una caviglia di Rossana ad una trave del soffitto della cucina.
La lunghezza era stata calcolata esattamente in modo che la donna potesse muoversi liberamente solo in quelle due stanze.
La presenza di questa giovane donna sarebbe rimasta nascosta a tutti, perché il mercante temeva, data la sua età e la sua posizione importante, di essere criticato.
Rossana avrebbe dovuto occuparsi di giorno della casa, ovvero cucinare, lavare i panni e tenere pulite le due stanze, mentre di notte avrebbe dovuto pensare al suo anziano padrone.
Rispetto al carro con i soldati era un grosso passo avanti, da prostituta sbattuta impunemente e brutalmente da tutti, a cuoca, serva e governante, con l’incombenza aggiuntiva di soddisfare gli appetiti senili del suo padrone.
Non era cattivo e non le faceva mancare nulla.
Era ossessionato dall’idea di farla ingrassare, e cercava di farla mangiare tanto, ma Rossana era magra di costituzione e, per quanto la facesse ingozzare, le sue tette non crescevano di un un grammo.
Era molto esigente sull’ordine e la pulizia, ma lei, nelle lunghe giornate passate da sola, aveva il tempo per sistemare tutto prima del suo ritorno.
Le aveva dato dei vestiti appartenuti alla sua defunta moglie, che le andavano un po’ grandi, ma tutto, sommato, viste le esperienze precedenti , non poteva lamentarsi.
La notte i vestiti non servivano, perché la faceva spogliare completamente.
Aveva un cazzo piccolo e curvo e la prima notte c’era voluto tutto l’impegno e l’esperienza accumulati da Rossana, per resuscitarlo.
Quando ormai dopo innumerevoli tentativi, in cui lei aveva sfoderato tutto il suo repertorio, lo aveva visto finalmente sollevarsi, aveva tirato un sospiro di sollievo, perché temeva che il vecchio, insoddisfatto, la riportasse al cavaliere.
Era venuto, ansimando per lo sforzo, dopo un mucchio di tempo.
Era la prima volta che si faceva scopare da un uomo così vecchio, e la sua pelle giallastra e grinzosa le faceva un certo effetto.
Col tempo si era abituata.
Riusciva a farlo un paio di volte a settimana e, dopo, la rispediva in cucina, dove lei dormiva in una brandina.
Tutto sommato non era così male e, visto che, nonostante la sua scarsa energia, ci metteva un mucchio di tempo, Rossana riusciva quasi sempre a raggiungere l’orgasmo prima di lui, anche se cercava di non mostrarlo in maniera plateale, per non offenderlo.
Piano piano si era pure abituato al suo posteriore deturpato dalle frustate che le aveva fatto infliggere il cavaliere.
Rossana aveva scoperto che le piaceva molto farsi inculare. Visto che ormai aveva accettato pienamente la sua vita di sottomissione, le sembrava una maniera di fare sesso perfettamente consona alla sua condizione.
Da quando Alfredo le aveva messo gli anelli di ferro a polsi e caviglie, era sempre stata sottomessa a qualcuno e probabilmente sarebbe stato così per il resto della sua vita.
Delle volte pensava a cosa sarebbe successo se il vecchio fosse morto all’improvviso.
Nessuno sapeva dell’esistenza di Rossana in quella casa e lei, a causa della catena che le impediva di uscire, sarebbe morta di fame.
Ma il vecchio mercante sembrava avere una salute di ferro, e la presenza di quella giovane compagna lo costringeva a mostrarsi più arzillo di quello che era.
Quando lo osservava, le sembrava che non invecchiasse.
Su di lei invece, nonostante la vita tranquilla e comoda che faceva, i segni del tempo cominciavano a farsi sentire.
Qualche filo bianco cominciava ad insinuarsi nella folta e nera capigliatura, in più era comparsa qualche ruga sotto gli occhi ed ai lati della bocca.
Anche il corpo cominciava a cedere, visto che i suoi seni cominciavano a scendere verso il suo ventre, sempre magro, ma con qualche smagliatura.
Solo la sua voglia di sesso non si placava. Era stata così sollecitata, in certi momenti della sua vita, che proprio non poteva farne a meno.
Si masturbava selvaggiamente più volte al giorno, quando era sola in casa e, le notti in cui doveva dare piacere al mercante, dopo che lui si era addormentato, continuava a lungo per conto suo.
Successe all’improvviso.
Una notte.
Si era messa carponi davanti al suo naso, muovendo il suo bel culo, che sembrava non aver risentito degli anni. Quella sera voleva proprio farsi inculare, anche se sapeva che il suo anziano padrone, trovava parecchia difficoltà in questa pratica, a causa della pancia prominente.
Comunque, il suo ano, rimasto bello dilatato, dopo l’esperienza dei soldati, rendeva le cose abbastanza facili.
Lui sembrava in forma quella sera e si era dato molto da fare, cercando di spingerlo dentro il più a fondo possibile.
Era venuto abbastanza presto, per il suo standard, mentre lei, con una mano in mezzo alle gambe faceva la parte sua.
Un rantolo, un grido strozzato di aiuto.
Il vecchio si era accasciato su di lei, dicendo come ultime parole la chiave ‘ prendi la chiave ‘ il cofanetto ….
Era rimasto lì, stecchito, accovacciato sopra di lei, con il pene pianto in mezzo alle chiappe di Rossana.
Sicuramente era morto felice.
Lei era riuscita a ribaltarlo e poi si era alzata.
Ora doveva ragionare.
Doveva riuscire a fuggire da lì senza incorrere in altri guai.
Ora che il suo padrone era morto, non era certo il caso di trovarne un altro.
Basta! Niente più catene.
Eh no, c’era una bella catena che le avrebbe impedito di andarsene.
La chiave. Il cofanetto.
Il vecchio aveva una piccola chiave al collo. Glie la tolse.
Ora doveva cercare il cofanetto. Sicuramente era nella sua stanza.
Dopo averlo trovato, armeggiò a lungo con la serratura. Era emozionata.
Dentro c’era una chiave grande ed un foglio scritto.
Era un addio, che si era preparato da tempo, e delle istruzioni per lei.
La chiave grande serviva per aprire il lucchetto della catena. Era salva.
Il giorno dopo, prima che qualcuno insospettito, venisse a cercare il mercante a casa, non vedendolo a bottega, Rossana lasciò quella che, per ben quindici anni, era stata la sua prigione.
Era pronta a riprendere il posto che le spettava.
La ricomparsa della contessa Rossana dopo quindici anni, in cui era stata creduta morta era stata una sorpresa per tutti.
Con i soldi del vecchio mercante era riuscita a tornare a casa, dalla sua famiglia, a bordo di una carrozza e potendo permettersi anche il lusso di pagare una scorta.
Prima di partire si era fatta togliere gli anelli da un fabbro, ma li aveva voluti conservare, per ricordo.
Visto che il defunto conte non aveva parenti, era tornata in possesso del castello e della contea.
Tutti si erano inchinati al passaggio della carrozza, dove c’era una signora dai capelli neri, con l’aria austera e lo sguardo triste, molto diversa da quella ragazzina di quindici anni, che aveva percorso la stessa strada tanto tempo prima.
La contessa Rossana sorprese tutti, con il suo comportamento.
Innanzitutto, dal giorno del suo inatteso ritorno, nessuno vide mai neanche un pezzetto della sua pelle, a parte il viso.
Vestiti accollati con le maniche lunghe e raffinati guanti, usati in ogni occasione nascosero agli occhi di tutti i segni di quello che aveva subito in quegli anni terribili.
Si era sparsa la voce che lei avesse una strana malattia e che l’aria e la luce le facessero male. Naturalmente Rossana si era ben guardata dallo smentire questa teoria.
Fece sempre una vita molto ritirata ed austera, al punto che non volle mai una cameriera personale. Si spogliava e si vestiva da sola e quindi nessuno la vide mai nuda fino alla sua morte.
Sotto di lei, la contea conobbe un periodo di tranquillità e di prosperità. Non fece mai fustigare nessuno, e nessun criminale fu fatto giustiziare da lei.
Almeno ufficialmente.
Rossana impiegò molto tempo e molte risorse nel tentativo di rintracciare alcune persone.
Alfredo, il fabbro dai capelli rossi, nonostante gli sforzi, non fu mai trovato.
Quando i soldati del re erano entrati nel castello, lui era fuggito scalando le mura. Era stato ferito da una freccia e poi si era gettato in un fiume, per sfuggire agli inseguitori, facendo perdere le tracce.
Cosa gli avrebbe fatto se l’avessero portato al suo cospetto?
Sicuramente l’avrebbe fatto marchiare, per vendicarsi, ma poi l’avrebbe perdonato, perché Alfredo era l’unico uomo che aveva amato.
Sara, la piccola serva che con la sua menzogna le aveva causato tanti guai, fu invece rintracciata facilmente. Presa dal rimorso, per quello che aveva causato alla sua padrona si era rifugiata in un convento. Aveva abbandonato il castello, dopo aver assistito, da una finestra, alla terribile fustigazione di Rossana, legata alla colonna.
Quando si trovò davanti alla contessa, si buttò ai suoi piedi, implorando il suo perdono, dicendole che avrebbe accettato serenamente dieci volte le frustate che lei aveva subito per causa sua.
Rossana si chiese se quella piccola ed insignificante donnetta, vestita da suora, avrebbe apprezzato anche il dopo, moltiplicato per dieci. Avrebbe accettato di essere violata selvaggiamente per giorni, o per mesi, da trenta, anzi da trecento soldati abbrutiti?
Comunque tagliò corto e le disse semplicemente:
‘Non ti preoccupare, per i giorni che ti restano, avrai tutto il tempo per pregare e pentirti. In silenzio.’
Il giorno stesso fu portata nella torre nord ed il boia le mozzò la lingua.
Rossana la volle rivedere, un’ultima volta, prima che la rinchiudessero nel pozzo, in fondo alla torre, dove lei era stata, durante i primi giorni della sua prigionia.
Gli occhi di Sara esprimevano tutto il dolore ed il terrore per quanto accadutole e per quello che sarebbe successo dopo.
‘Bene, mia cara, sono sicura che in futuro non dirai più falsità.’
Ma la persona che più di ogni altra desiderava trovare era il cavaliere.
L’uomo, quando si era sparsa la notizia del ritorno della contessa Rossana, anche se non erano mai state diffuse informazioni su come la donna avesse vissuto in quegli anni, nel dubbio, aveva tagliato la corda. Il sospetto che quella donna, che lui aveva tormentato ed umiliato con tanta determinazione, fosse realmente la contessa, lo spaventava a morte.
Così aveva preso una nave ed era andato lontano, ma le persone assoldate da Rossana, alla fine lo trovarono.
Non era sicuro al cento per cento del motivo della sua cattura, ma quando varcò la porta del castello, fu certo che non sarebbe mai uscito vivo da lì.
Al sicuro, tra le mura spesse della torre nord, fu frustato così duramente che quasi impazzì per il dolore.
Ma il peggio doveva ancora venire.
Completamente nudo, incatenato mani e piedi alla macchina che Alfredo aveva usato con Rossana, fu lasciato ad aspettare l’ultimo atto della vendetta della contessa.
Quando sentì il chiavistello girare, pensò che erano venuti a frustarlo ancora. Invece se la trovò davanti.
Era invecchiata, ma era sempre una bella donna.
Si era messa di fronte a lui. Lo fissava senza dire nulla.
Poi si era sfilata i lunghi guanti.
Per ultimo si era slacciata il vestito e lo aveva fatto cadere fino a terra.
Era completamente nuda, di fronte a lui.
Non riusciva a capire cosa volesse fare.
Improvvisamente si era chinata e glie lo aveva preso tra le mani.
Era pazza? Voleva scopare con lui?
Cominciò a carezzarlo. Sapeva il fatto suo, lo ricordava bene.
Il suo cazzo si stava drizzando e cresceva, cresceva, nonostante la situazione in cui si trovava.
Qualcosa gli diceva che sarebbe stato meglio di no.
Ora si era avvicinata con la bocca, ed aveva preso a leccarlo.
Era diventato ancora più grande.
Nonostante il dolore causato dalle frustate, riuscì a sorridere.
Ecco, glie lo stava succhiando per bene, lo sentiva sempre più gonfio.
Chissà, avrebbe continuato fino a bere tutto il suo sperma, oppure si sarebbe avvicinata e si sarebbe impalata sul suo membro duro e dritto.
Aveva una luce strana negli occhi Rossana, che di colpo gli fece aumentare la preoccupazione.
Una luce strana negli occhi ed un grosso coltello in una mano.
Allora capì tutto.
Fu questione di un attimo. Lei lo prese, delicatamente, per la punta, con due dita della mano libera ed avvicinò la lama alla base, proprio vicino ai suoi testicoli.
Il cavaliere non poteva fare nulla, completamente immobilizzato dalle catene e Rossana incise la pelle con la lama.
Emise un urlo di terrore, mentre lei, con calma, iniziava a tagliare.
Il cavaliere continuò a gridare mentre il sangue gli inondava le gambe.
Lei non aveva certo fretta, come lui non l’aveva avuta quella notte nella tenda, quando l’aveva tormentata con il pene foderato di pelle e borchie di metallo.
La lama si muoveva avanti ed indietro e Rossana evitava di spingere troppo, mentre le sue grida si affievolivano.
Quando lei, alla fine, gli mostrò il suo sesso completamente reciso, come se fosse un trofeo, era completamente muto, con la testa reclinata da un lato, e guardava il sangue che usciva a fiotti.
Rossana si pulì le mani dal sangue usando il suo petto nudo e si rivestì.
‘Non ti preoccupare, non morirai dissanguato, manderò qualcuno a medicarti.’
Il cavaliere fu rinchiuso nel pozzo della torre nord, insieme a Sara, poi la porticina, fu murata.
Qualcuno dice che vissero diversi anni, in quella orribile prigione, e che spesso si udivano le urla di lui, diventato completamente pazzo.
Quello che invece è certo, è che la contessa Rossana visse a lungo e si spense serenamente all’età di quasi novanta anni.

Leave a Reply