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Racconti di Dominazione

Travolti da un insolito destino… XXX Parody.

By 12 Ottobre 2018Dicembre 16th, 2019No Comments

Come ogni estate organizzavo con le commesse del mio negozio una gita in barca. Era un modo per tenerle buone e per mantenere un clima di distensione tra me e loro. Per l’occasione prendevo in affitto un’imbarcazione con il relativo equipaggio, senza badare a spese, e la destinazione la lasciavo scegliere a loro. Devo dire che erano gite di lusso, in cui lo champagne e i piatti prelibati a base di pesce non mancavano mai. Era divertente, e io facevo di tutto per mostrarmi nei loro confronti come un’amica, e non come la responsabile tiranna e insensibile del negozio in cui lavoravano. Purtroppo io ero fatta così; nel mio negozio ero severa e puntigliosa, e loro per questo motivo mi odiavano a morte.
Quando a gestire il negozio era mia madre le cose erano diverse; lei aveva sempre trattato le commesse quasi come se fossero tutte figlie sue, quindi coccolandole e assecondando tutte le loro richieste. Quando ero arrivata io invece era avvenuto un brusco cambio di rotta. E per farmi perdonare questo mio modo di fare da dittatrice allora organizzavo queste gite in barca, una volta l’anno, in cui potevano vedere il lato umano della mia persona, che sul luogo di lavoro probabilmente non sarebbero mai riuscite a vedere.
Quello che sto per raccontarvi però non è un semplice resoconto di una gita in barca con le mie commesse, bensì un’avventura spericolata insieme ad una di loro. Lei si chiamava Barbara, e lavorava al negozio di intimo da un paio d’anni. Era molto bella, con un corpo snello e agile come quello di un felino. Con Barbara avevo avuto non poche divergenze; spesso ero stata costretta a riprenderla pesantemente per certi suoi atteggiamenti poco professionali. Per esempio la beccavo frequentemente a smanettare con l’i-phone, e questa era una cosa che mi faceva perdere la ragione. Molto spesso poi veniva a trovarla il suo fidanzato, e lei allora mi chiedeva se poteva allontanarsi per qualche minuto, e io la lasciavo andare, ma poi lei ritornava sempre dopo una ventina di minuti, e allora a quel punto io davo di matto.
“Ti avevo detto che potevi allontanarti per qualche minuto, non per tutto il giorno!” gli urlai una volta. “Se hai voglia di fare porcate insieme al tuo fidanzato falle fuori dal tuo orario di lavoro!”.
“Sono andata soltanto a prendere un caffè”.
“Sì certo, un caffè corretto con la sborra”.
Insomma, se c’era una delle mie commesse che mi odiava maggiormente era lei. E proprio con lei mi capitò di avere un’avventura davvero surreale che sto per raccontarvi.
Eravamo sull’imbarcazione da un giorno; l’atmosfera che si respirava era molto positiva. Eravamo spesso stravaccate al sole a prendere il sole, alcune di noi in modo integrale, altre invece soltanto col pezzo di sotto del costume. E ovviamente avevamo continuamente gli occhi dell’equipaggio puntati addosso, i quali probabilmente avevano i cazzi durissimi perché morivano dalla voglia di scoparci tutte. Ma ovviamente non potevano, perché non li pagavo per questo. Loro dovevano soltanto pensare a guidare l’imbarcazione e a servirci lo champagne ogni volta che ne facevamo richiesta. E devo dire che in questo mostrarono una certa professionalità. Infatti nessuno di loro provò alcun approccio con noi. Riuscirono a resistere in modo magistrale alla tentazione della nostra carne.
Ogni tanto la barca si fermava e noi facevamo il bagno, ed era un susseguirsi di tuffi a bomba e scherzi stupidi, per esempio lo spingerci a vicenda in acqua o strappare via i pezzi di costume a chi ancora ce li aveva addosso. Per tutto il tempo insomma cercammo di dimenticarci del nostro lavoro, e devo dire che stava funzionando alla grande, perché nessuna di noi mise in mezzo l’argomento.
Poi il secondo giorno della gita, che poi doveva essere anche l’ultimo (in tutto la crociera sarebbe durata due giorni) iniziò la mia avventura allucinante insieme a Barbara. Era successo che avevamo appena finito di pranzare, e io mi ero appisolata cinque minuti, e al mio risveglio le mie commesse non c’erano più. C’era soltanto Barbara che come al solito stava smanettando con il suo i-phone. Era una specie di malattia, la sua. Proprio non ne sapeva fare a meno di quell’aggeggio. Riusciva a starci incollata per giorni e giorni.
Le chiesi spiegazioni e lei mi rispose che le altre erano andate a fare un giro con la barca. L’imbarcazione aveva infatti quattro scialuppe con cui si potevano fare delle escursioni.
“Ma dove sono andate di preciso?” le chiesi.
“Liggiù, verso quelle grotte” mi indicò un piccolo isolotto dove in effetti c’erano delle piccole caverne scavate nella roccia.
“Bene” dissi. “Cosa aspettiamo? Raggiungiamole”.
“Preferisco rimanere qui” mi rispose.
“E stare incollata a quel maledetto i-phone tutto il giorno? Ma vuoi lasciarlo perdere per una volta? È assurdo, è come se per te non esistesse altro”.
“Se permetti quando non sono a lavoro faccio come mi pare”.
“Non azzardarti a rispondermi in quel modo. Io ti pago lo stipendio, non te lo scordare mai. E adesso muovi quel culo da vacca che ti ritrovi e salta in una scialuppa”.
A quel punto Barbara, un po’ controvoglia, fece come le avevo ordinato. L’equipaggio ci aiutò a calare la barca e feci partire il motore e cercammo di raggiungere le grotte dove si erano dirette le mie commesse. Poi ad un certo punto il motore smise di funzionare, proprio a metà strada tra l’isolotto e l’imbarcazione da cui eravamo partite. Poco male, pensai, tanto prima o poi ci sarebbero venuti a prendere. Intanto però Barbara si diede da fare e cercò di capire il motivo dell’avaria. Tirò la corda del motore centinaia di volte senza alcun risultato. Mi disse che suo nonno era un pescatore, per cui qualcosa ci capiva di quegli aggeggi. E allora cominciò a smontarlo e a rigirarsi i pezzi tra le mani, ma senza trovare una soluzione. Io ammetto che cominciai ad andare nel panico, e allora iniziai a imprecare verso di lei.
“Se ci capisci qualcosa, allora fallo ripartire, cretina”.
“Un momento Moana, non mettermi fretta. Non è così facile”.
“Ma guarda cosa mi doveva capitare… alla deriva insieme ad una deficiente come te”.
“Non dire così, sto facendo tutto il possibile”.
Intanto la corrente iniziò a portarci via, ma così tanto che sia l’imbarcazione da cui eravamo partite che l’isolotto erano ormai soltanto due puntini all’orizzonte.
Eravamo alla deriva da più di cinque ore, e non facevo che chiedermi dove saremo finite. Ormai non riuscivamo neppure a vedere l’imbarcazione da cui eravamo partite. Poi ad un certo punto ci trovammo di fronte ad un isola. Era fatta. Lì probabilmente avremmo potuto chiedere aiuto a qualcuno. E poi era così tanta la mia sete che morivo dalla voglia di entrare in un bar e bermi un litro di succo di frutta. Certo, ero completamente nuda, e sarebbe stato difficile entrare in un bar in queste condizioni senza destare scandalo e indignazione. Perché come dicevo nel post precedente alcune di noi si erano tolte il costume per prendere il sole integrale. Invece Barbara aveva tolto soltanto il pezzo di sopra, per cui la sua patatina era al sicuro e ben riparata. Ma non la mia. Dovevo assolutamente trovare qualcosa per coprirmi (perlomeno la fighetta).
La corrente ci spinse verso l’isola e finalmente riuscimmo a raggiungere la terra ferma. Devo dire che quello che avevamo davanti non prometteva niente di buono; distese infinite di boschi e vegetazione fitta, e non c’era neppure l’ombra di un attività commerciale o comunque di un posto dove poter fare una telefonata.
“Cosa aspetti?” urlai a Barbara. “Datti da fare, sto morendo di sete! Cerca un bar, un ristorante, qualsiasi cosa dove io possa dissetarmi”.
Barbara a quel punto iniziò a correre verso la foresta e ci entrò dentro con un’agilità e una sicurezza davvero disarmante. Rispuntò fuori quasi un’ora dopo, e con una camminata spavalda venne verso di me; aveva il fiatone perché probabilmente si era fatta qualche chilometro, ma capii che non aveva trovato niente, perché mentre camminava verso di me mi faceva di no con la testa.
Era sudata e stanca, e ebbi l’impressione di trovarmi di fronte ad un’altra, come se quella passeggiata nel bosco l’avesse sconvolta e trasformata in un’altra persona, o in un animale feroce. Era la sua espressione del viso che mi fece percepire questo cambiamento. Barbara quando era in mia presenza aveva sempre un’espressione che denotava timore e soggezione, e invece adesso era tutto l’opposto. Più che intimorita dalla mia presenza sembrava quasi divertita, e mi guardava con un’aria di sfida che mi turbava profondamente, quasi come se stesse cercando di provocarmi.

Link al racconto:
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“E allora?” le chiesi in malo modo.
“Hai sete? Beh, mi sa che devi tenertela, perché su quest’isola non c’è un cazzo di niente”.
“Come sarebbe a dire?” sbottai. “Non è possibile. Dev’esserci qualcosa. Controlla meglio”.
“Non c’è niente” ripeté, ma questa volta scandendo bene le parole e mostrandomi i denti in modo minaccioso.
“Ma guarda cosa mi doveva capitare” urlai. “Su un’isola deserta insieme ad una cretina come te”.
“Sai cosa ti dico, Moana? Che mi hai rotto i coglioni!” Barbara a quel punto perse la ragione e iniziò a inveire contro di me. “Non ne posso più del tuo atteggiamento arrogante. Sai cosa sei tu? Sei una puttana industriale e socialdemocratica”.
“Non ti permetto di parlami in questo modo! Socialdemocratica io? Attenta a come parli!” le risposi, ma lei mi aveva già voltato le spalle e aveva cominciato a camminare in direzione del bosco. Era molto probabile che le nostre strade si sarebbero divise, e che avrei dovuto badare a me stessa senza il suo aiuto, e lei avrebbe dovuto fare lo stesso. Ma in fin dei conti l’isola non era molto grande, per cui eravamo costrette a incrociarci spesso. Io mi misi a cercare disperatamente qualcosa da mangiare, e lei aveva già risolto il problema costruendosi da sola una canna da pesca, e in poco tempo era riuscita a procurarsi la cena.
Era riuscita perfino ad accendere un fuocherello su cui poi aveva arrostito il pesce che aveva pescato. E io guardai, nascosta dietro ad un cespuglio, tutte queste sue operazioni con un tocco di invidia e soprattutto con molto stupore. Non credevo che Barbara fosse capace a fare queste cose. Aveva una capacità di adattamento sorprendente. Io invece ero spacciata. Non sarei mai riuscita a procurarmi da mangiare.
“Ma come ci sei riuscita?” le chiesi, ma sempre rimanendo dietro al cespuglio dove mi ero nascosta.
“Dimentichi che mio nonno era un pescatore” mi rispose. “E mi ha insegnato tutto sulla pesca”.
“Ti prego, posso averne un po’?” ero molto imbarazzata, perché avevo come l’impressione di chiedere la carità.
“Fai come ho fatto io. Procurati una canna da pesca e… buona fortuna”.
“Ma non ne sono capace” piagnucolai.
“E allora se vuoi il mio pesce devi guadagnartelo”.
“Quando ritorneremo a casa ti darò tutti i soldi che vuoi”.
“Non mi interessano i soldi”.
Allora a quel punto uscii allo scoperto e andai verso di lei. Ero indifesa, e lei invece aveva uno strapotere su di me che a questo punto poteva chiedermi di fare qualsiasi cosa, e io non potevo tirarmi indietro. Avevo i crampi allo stomaco per quanta fame avevo.
“E allora cosa vuoi?” le chiesi.
Barbara a quel punto si tolse il pezzo di sotto del costume e rimase completamente nuda come me. Vidi per la prima volta che si rasava i peli dell’inguine alla moicana, che era un po’ come facevo io, soltanto che io la facevo alla brasiliana, che era un taglio più deciso e più linearmente uniforme, invece il suo era leggermente più largo sopra. E poi notai che le sue labbra di sotto sporgevano in modo considerevole; ce le aveva carnose, sembrava quasi una ferita aperta di recente, con i bordi che ancora non si erano rimarginati. E mentre ero impegnata in queste osservazioni lei mi gettò addosso in modo sdegnoso il pezzo di sotto del costume che si era appena sfilato.
“Lavami le mutande!” urlò.
“Cosa?!” ero inorridita da quella richiesta. Non poteva chiedermi una cosa del genere. Era chiaro che stava cercando di mettermi in una posizione di inferiorità. Al negozio di intimo ero io a comandare, ma qui, come voleva darmi a intendere lei, le cose erano diverse. Era lei al comando, e non io. Per cui dovevo lavarle le mutande, come diceva lei.
“Se vuoi il pesce te lo devi guadagnare. Quindi lavami le mutande!”.
Non avevo altra scelta. Dovevo diventare la sua schiavetta, altrimenti rischiavo di morire di fame.
E così ero costretta a lavare il costume di Barbara, perché lei questa volta aveva il coltello dalla parte del manico, lei era la predatrice in grado di procurarsi da mangiare, io invece no, e quindi dovevo sottostare alle sue richieste. In principio andava tutto bene, nel senso che io ubbidivo ai suoi ordini e lei mi dava da mangiare. Ma poi un giorno cominciò a diventare terribilmente aggressiva.
Ero al fiume a lavare il pezzo di sotto del suo costume quando ad un certo punto lei mi venne dietro e mi appoggiò un piede su una natica e mi diede una spinta facendomi cadere nell’acqua. Quando le chiesi spiegazioni sul motivo per cui mi aveva fatto quella cosa lei mi rispose che lo aveva fatto perché aveva notato che io, nonostante fossi in una posizione di inferiorità, la guardavo con un’insopportabile insofferenza.
“Io esigo rispetto da parte tua” mi disse, “altrimenti puoi scordarti il cibo che ti procuro”.
“Ma io ho molto rispetto per te, Barbara” le risposi, ma ero così piena di rabbia che la voce mi uscì attraverso i denti che stavo digrignando in modo minaccioso.
“Beh, dimostramelo” a quel punto Barbara piegò una gamba verso di me, aveva le gambe molto lunghe e lisce come la seta, e i piedi con le dita ben curate. E me ne mise uno davanti alla faccia e mi disse di baciarglielo. A quella richiesta spalancai gli occhi dallo stupore. Non potevo credere che mi stesse chiedendo di farlo. Ma non avevo scampo; se volevo continuare a sfruttare le sue sorprendenti capacità nel procurarsi da mangiare allora dovevo baciarle il piede che mi stava puntando davanti alla bocca.
“Non puoi chiedermi questo, Barbara” piagnucolai. “Sei una mia dipendente, è ridicolo”.
“Tu sei ridicola” rispose. “E adesso baciami il piede senza fare troppe storie”.
A quel punto avvicinai le labbra e le diedi un bacio a timbro, ma a lei non andava bene. Lei lo voleva con la lingua; e allora la tirai fuori e iniziai a percorrere tutte le dita, e poi me ne presi uno alla volta in bocca succhiandoli come se fossero piccoli cazzi da far godere. E lei allora mi disse che ero una vera cagna, nata per succhiare cazzi. E io continuai imperterrita nella mia operazione, fino a quando lei mi mise la pianta del piede sul viso e mi allontanò bruscamente facendomi capire che poteva bastare.
Il giorno dopo pretese un’altra leccatina, ma non ai piedi, bensì ad un’altra parte del corpo. Io ero come al solito al fiumiciattolo a lavarle il pezzo di sotto del costume e lei si parò dietro di me, proprio come il giorno prima, ma questa volta non mi spinse nell’acqua, piuttosto iniziò a guardarmi in modo minaccioso, con i pugni premuti contro i fianchi.
“Sai cosa mi fa incazzare di te?” mi chiese. “È il fatto che al negozio pretendi da noi che ti si lecchi pure il culo. E sai cosa ti dico? Che adesso me lo lecchi tu, il culo”.
“Cosa?! Stai scherzando, vero?”.
“Niente affatto” a quel punto si girò e mi diede le spalle e mi trovai il suo morbido culo da modella davanti alla faccia. “Avanti, comincia pure” e si piegò leggermente in avanti, cosicché le natiche si aprirono mostrandomi il suo buchetto stretto del condotto anale. Ero quasi certa che fosse ancora vergine, perché era ben chiuso. E io adesso dovevo leccarlo senza fare storie, perché era quello che mi stava ordinando di fare. E allora chiusi gli occhi, tirai un sospiro e cacciai fuori la lingua, e con la punta mi avvicinai lì in mezzo, lì dove nessuno uomo era mai penetrato (o almeno era una mia impressione, poi chissà, magari il suo fidanzato ci era entrato, ma io non potevo saperlo).
In fin dei conti non era proprio un dramma; mi piaceva quello che stavo facendo, e lo facevo volentieri. D’altronde non era la prima volta che lo facevo. Lo avevo fatto anche a Berni, più di una volta, e anche ad altri uomini. E devo ammettere che farlo ad una donna era ancora più piacevole, perché la lingua batteva su una superficie più delicata, quasi liscia come la seta. Provate a farlo ad un uomo, e vi assicuro che la sensazione è completamente diversa. Ma il fatto che non mi andava giù era il ricatto che Barbara mi stava facendo. E io dovevo accettare per forza. Era questa posizione di inferiorità che avevo rispetto a lei a mandarmi al manicomio. Se ne approfittava perché avevo bisogno di lei, altrimenti col cavolo che le avrei fatto una cosa del genere.
Comunque ad un certo punto mi disse che poteva bastare, e per non so quale motivo ne avevo ancora voglia, e allora rimasi appiccicata con la bocca al suo orifizio anale, e con le mani mi ancorai ai suoi fianchi e iniziai ad accanirmi maggiormente, succhiando e infilandole la lingua fin dentro, e lei con una mano mi allontanò con la forza.
“Eh no, mia cara” mi disse. “Decido io quando è ora di smettere. Lo so che ne vorresti ancora, perché sei una troia. Però decido io quando potrai averne un altro po’”.
Così mi allontanai da lei e restai immobile, seduta in riva al fiumiciattolo dove poco prima stavo lavando il suo pezzo di sotto del costume. Mi sentivo sconfitta, per la prima volta nella mia vita. E il bello è che sentivo che mi stava bene così. Sentivo una forma di piacevole sottomissione. Barbara era riuscita a domarmi. Nessun uomo ci era mai riuscito, e invece lei sì. Cosa ero diventata? Il suo giocattolo, con cui poteva fare tutto ciò che voleva. Io sapevo che non avrei reagito.
In realtà il giorno dopo provai a reagire. Ebbi uno scatto di ira, e quando mi chiese di lavarle il costume per l’ennesima volta le dissi che non lo avrei fatto, e che quando saremmo tornate al negozio le avrei fatto pagare ogni cosa. E allora lei a quel punto mi colpì con uno schiaffo su una guancia, e io risposi alla stessa maniera, e lei mi saltò letteralmente addosso facendomi cadere per terra. Eravamo sulla spiaggia, in riva al mare, e il peso del suo corpo mi fece cadere con la schiena sul bagnasciuga, e lei si mise sopra di me a cavalcioni e iniziò a tempestarmi il viso di schiaffi, e io provai a ribaltarla, ma non ce la facevo perché lei era agile e scattante. Non riuscivo neppure a rendermi conto da dove venivano gli sganassoni, sapevo soltanto che me ne stava dando parecchi. Provai anche io a dargliene qualcuno, ma non ci riuscivo, perché avevo gli occhi chiusi e quindi colpivo a vuoto. Poi lei ad un certo punto mi afferrò i polsi e mi tenne ferma, e con il suo corpo nudo si accasciò su di me. Sentivo la sua figa calda contro la mia, i suoi seni contro i miei, e i suoi occhi a pochi centimetri dai miei. Iniziò a strofinare il suo inguine contro il mio, e quindi sentivo la sua peluria tagliata alla moicana sfregare contro la mia. A quel punto avvicinò la bocca alla mia e cominciò a baciarmi, infilandomi la lingua in bocca, ed era tutto così bello che smisi di ribellarmi e accettai con piacere di diventare sua, e di fare l’amore con lei, mentre le onde fresche del mare si infrangevano contro i nostri corpi nudi avvinghiati l’uno all’altro.

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Gli ultimi giorni sull’isola li passammo in questo modo, a leccarci i buchi a vicenda e a fare del nostro meglio per procurarci da mangiare. E devo dire che in questo Barbara era bravissima; era una cacciatrice esperta. Quindi il pranzo e la cena non mancavano mai. E proprio per questo motivo io continuavo ad essere in una posizione di inferiorità rispetto a lei. E questa condizione mi faceva sentire attratta da Barbara, forse perché non ero mai stata in tale posizione prima d’ora. Gli uomini con cui ero andata a letto non ci erano mai riusciti. Barbara invece sì, e forse per questo motivo mi sentivo il cuore sempre in subbuglio, e quindi avevo sempre voglia di fare l’amore con lei. E anche Barbara non perdeva mai l’occasione di godere col mio corpo. Certe volte mi prendeva con la prepotenza, mi afferrava i capelli e avvicinava la sua bocca alla mia, e mi infilava la lingua in bocca e poi mi faceva sua, e io la lasciavo fare, perché non chiedevo altro.
Ogni tanto ci provavo a ristabilire l’ordine, e a rimettermi sopra, al comando, ma lei puntualmente mi dava uno schiaffo su una guancia, e se io reagivo cominciavamo a darcene di santa ragione, ma lei ne usciva sempre a testa alta, perché era agile e scattante come un felino, e poi facevamo l’amore un’altra volta e tutto tornava alla normalità. Barbara mi apriva le gambe e si metteva in mezzo e iniziava a strofinare la sua patatina moicana contro la mia patatina brasiliana, e questo sfregamento mi mandava al manicomio, e in qualche secondo il miele che usciva dalle mie labbra di sotto, in quantità considerevoli, si mischiava al suo, e quindi sentivo le nostre fighette che scivolavano l’una sull’altra, sempre con minor attrito. E non so cos’era, forse il calore che emanavano le nostre calde aperture, o forse le porcate che mi diceva mentre era sopra di me, ma io riuscivo sempre a raggiungere degli orgasmi sensazionali, che mi facevano perdere i sensi.
Una sera, dopo cena, davanti al fuoco che Barbara aveva acceso per arrostire il pesce che aveva pescato, parlammo del nostro futuro. Lei mi disse che quando saremmo tornate a casa le cose sarebbero notevolmente cambiate, e il nostro amore sarebbe terminato, e io sarei ritornata ad essere la padrona esigente e severa di sempre. Ma io le risposi che il nostro rapporto non sarebbe cambiato, e che io avrei continuato ad amarla, e che magari potevamo continuare a vederci di nascosto.
“Vedrai, non andrà così” mi disse. “Tu ritornerai dal tuo fidanzato, e io dal mio. E io ritornerò ad essere la commessa che deve sopportare l’arroganza di una padrona ricca e viziata”.
“Quindi è così che mi vedi? Come una padrona arrogante e viziata?”.
“È questo che sei” disse alzandosi in piedi, e si parò davanti a me in modo minaccioso, mettendomi la sua patatina davanti alla bocca, e poi con una mano mi afferrò i capelli e mi spinse il viso contro il suo sesso succoso, e quindi le mie labbra incontrarono nuovamente l’apertura dove il suo fidanzato entrava spesso col suo membro, e dove probabilmente scaricava il suo seme ad ogni fine rapporto. Ed ebbi quasi la sensazione di sentirlo, il suo uomo, il suo attrezzo, che era scivolato lì dentro chissà quante volte. Ma ormai aveva anche il mio di sapore, per tutte le volte che lei aveva strofinato il suo sesso contro il mio, per tutte le volte che la mia saliva era entrata in contatto con quelle labbra carnose. E una volta le avevo anche morsicate, e lei mi aveva dato uno schiaffo perché le avevo fatto male. Ma non era mia intenzione farlo, piuttosto avevo risposto ad un istinto naturale, perché era appunto questo che le labbra di Barbara di facevano venir voglia: succhiare e mordere.
Quella sera, davanti al fuoco, la baciai e la leccai lì sotto fino a farla venire, e lei iniziò a squirtarmi in faccia con un getto violento e caldo, come un esplosione, accompagnata da un suo grido liberatorio. Infatti ad un certo punto si allontanò qualche centimetro da me e si aprì la patatina con due dita, e mi spruzzò il suo liquido con un getto che quasi mi tagliò la faccia. E io rimasi lì in ginocchio davanti a lei con la bocca aperta a prendermi tutto, e in qualche attimo ne fui letteralmente ricoperta, mi grondava dappertutto, sulle tette, sulle braccia, e poi giù fino all’ombelico, e poi ancora più giù, sulla fighetta e sulle gambe. Era come una specie di cascata bollente, e io ci ero sotto. Quando ebbe finito mi ci attaccai di nuovo con la bocca per succhiarle le ultime gocce. Poi lei con una mano mi allontanò e aprì di nuovo le sue labbra di sotto puntandomele in faccia.
“Aspetta, voglio togliermi uno sfizio” mi disse. “Ti voglio pisciare addosso. E quando mi ricapita un’occasione così?”.
A quel punto si lasciò andare, e il suo getto di urina calda mi investì in piena faccia, e anche in questo caso lasciai la bocca aperta e glielo lasciai fare. Potevo certamente immaginare la sua soddisfazione in ciò che stava facendo; fare pipì addosso alla sua datrice di lavoro. Lei che era sempre stata una dipendente sottomessa ai miei capricci ora mi stava svuotando la vescica sul viso, senza alcuna opposizione da parte mia. Era il riscatto della classe subalterna. Aveva dovuto subire centinaia di soprusi e ingiustizie da parte della classe dominante (cioè io) e adesso finalmente era arrivata l’occasione della rivincita. E non riuscivo ad oppormi, perché sentivo uno strano piacere che mi faceva rimanere lì immobile sotto a quello spruzzo intenso e bollente che si infrangeva contro la pelle del mio viso.
“Guardati, sei una cloaca” disse lei divertita, mentre continuava a spruzzare fuori il suo rigagnolo rigoglioso.
Cercai di non ingoiare, ma fui comunque costretta a mandarne un po’ giù. E non potete nemmeno immaginare quanto mi eccitava questa cosa, tutta questa esperienza, e infatti avevo la figa in fiamme e per fortuna che poi alla fine Barbara, dopo aver orinato, si dedicò ad appagare sessualmente anche me. E quindi si abbassò verso di me e avvicinò le dita alla mia vagina, e iniziò a sgrillettarmi fino a farmi venire. Dovette aver pensato che sarebbe stato molto crudele lasciarmi così, con tutto quel desiderio inappagato che avevo.
Poi ci addormentammo davanti al fuoco, accucciate l’una vicino all’altra. Lei mi stava dietro, con la patatina col taglio alla moicana premuta contro le mie natiche, tenendosi ancorata al mio corpo con braccia e gambe, e la bocca a pochi centimetri dalla mia spalla, e io sentivo il suo respiro caldo sulla mia pelle, e ogni tanto le accarezzavo la mano, la mano che poco prima mi aveva fatto godere.

Io fui la prima a vedere l’imbarcazione della guardia costiera che ci era venuta a riprendere. Ma in principio non feci nulla per segnalare la nostra presenza sull’isola, perché pensai che se lo avessi fatto sarebbe finito tutto, e quindi non avrei più avuto modo di fare l’amore con Barbara, e non sarei più stata la sua schiava del sesso. Tutto sarebbe ritornato alla normalità, io sarei ritornata dal mio fidanzato e lei dal suo, e tutto questo sarebbe stato soltanto un ricordo. E io ne volevo ancora.
Andai a dirlo a Barbara, che quando le raccontai della barca della guardia costiera e del fatto che non avevo fatto nulla per farmi vedere, lei mi diede uno schiaffone su una guancia che mi fece tremare tutta dall’eccitazione. Ormai me ne aveva dati così tanti che iniziavano a piacermi. E ogni volta che me ne dava uno, dopo un breve istante di dolore, le sorridevo e la guardavo con gli occhi a cuoricino, perché ero cotta di lei.
“Perché non ti sei fatta vedere?” mi chiese. Era molto arrabbiata.
“Perché avevo paura che tutto questo potesse finire”.
“Razza di stupida!” urlò.
A quel punto Barbara si mise a correre verso la spiaggia, dove appunto avevo visto i soccorsi, e iniziò a sbracciarsi per attirare l’attenzione. E io la raggiunsi e la saltai addosso per farla smettere, e a quel punto iniziammo a darcene di santa ragione. Io ovviamente le presi in gran quantità, perché lei era agile e scattante, e mi riempì di schiaffi, ma anche io riuscii a dargliene qualcuno. Alla fine la guardia costiera ci vide e vennero a prenderci. Era finita. Il sogno erotico si interrompeva, e tutto quello che c’era stato tra di noi sarebbe rimasto soltanto un piacevole ricordo.

Link al racconto:
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