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Racconti Erotici Lesbo

Beyond the White: Noblesse Oblige

By 7 Gennaio 2023No Comments

Beyond the White : Noblesse Oblige.

La seguivano, Antonia DuLac ne era sicurissima, se lo sentiva dentro.
D’altronde non poteva essere altrimenti: era nel loro territorio e, sebbene lei stessa si reputasse una leonessa feroce, aveva a che vedere con manguste e serpi della peggior specie.
Sapeva bene che sarebbe potuta finir male: l’ha accettato. Era un compromesso, un patto stretto da tempo con se stessa, senza alcuna remora, da quando la sua vita era divenuta quella.
“In fin dei conti, so di essere marcia dentro.”, pensò. Marcia dentro, una frase che grondava schietto putridume, orrore rivoltante. A sentirgliela pronunciare, la sua istitutrice l’avrebbe castigata, i suoi genitori l’avrebbero rimproverata, le sue amiche si sarebbero indignate.
Che si fottessero: era vero. Terribilmente e atrocemente vero.
C’era stato un tempo, molto tempo prima, in cui Antonia aveva creduto di essere non dissimile dalla Bella Addormentata, in attesa di un Principe Azzurro per riconquistare la ricchezza e il privilegio che, sentendo i suoi genitori e tutti i suoi parenti, spettavano loro di diritto.
Quell’illusione non era durata: lentamente Antonia si era resa conto di non far parte del cerchio dei normali. In fin dei conti, c’era voluto poco.
Regole e galatei vari avevano preso inziato a starle stretti. I suoi genitori avevano pensato fosse per via del termine della fanciullezza. D’altronde aveva tutto per poter essere felice, no?
No. Antonia voleva altro. Non era come sua madre, un’attrice italiana di discreta fortuna e di fascino sin troppo ricercato. Non voleva il glamour e le cene di moda, né essere la moglie trofeo.
In una parte di sé che avrebbe richiesto tempo per giungere alla luce, Antonia già sapeva la verità.
Comportarsi da discola durante una delle pompose cene dei genitori le fece solo guadagnare una notte senza cena e relativa dose di commenti acidi da parte di sua madre. Suo padre, Jacques DuLac taceva, apparentemente appagato dall’idea di lasciare la gestione della figlia nelle mani della moglie. Mani che erano quanto mai inadatte a gestirla: Antonia si seppe ritagliare presto piccoli spazi di libertà. Boxe, poi difesa personale (“per potermi difendere, madre!”, aveva detto).
Tiro sportivo e arrampicata (“Papà dice che forgia il carattere”, aveva sostenuto).
Scherma (“Papà dice che la zia era brava”, aveva sibilato. Quanto quest’ultima affermazione fosse stata vera, Antonia non l’avrebbe saputo dire: la sorella di Jacques era morta in un incidente, poco dopo la sua nascita). Il risultato di tanta attività fu un corpo scattante e rapido.
Al posto di quelle noiose giornate nelle SPA o a spettegolare con altre ragazze, a giocare a giochi da ragazzine, Antonia tirava di Boxe e scherma. Invece di recarsi a serate tra amiche in compagnia della madre o dell’insopportabile istitutrice, Antonia passava le mattine a fare trekking e arrampicata e le sere al poligono di tiro con suo padre.
“La mia Pulzella d’Orlèans”, la chiamava Jacques, fiero in cuor suo.
Ad Antonia interessava sempre meno delle attività in cui sua madre si pasceva e che pretendeva coinvolgessero anche lei. Di contro, era sempre più interessata alle attività di suo padre.
Attività che lui celava gelosamente. A quattordici anni Antonia capì che le cose non quadravano: il padre non rientrava per giorni e talvolta aveva l’aria affranta, come se qualcosa lo mettesse profondamente a disagio. Le sue domande in merito avevano incontrato rassicurazioni tutt’altro che convincenti e risposte tutt’altro che esaustive.
Così, Antonia aveva capito: suo padre nascondeva qualcosa. Ma, nell’immane tempesta che stava sopraggiungendo, quella nozione si sarebbe presto persa come in una bufera.

Mentre marciava tra le vie di Amsterdam, era consapevole di essere seguita, ma anche di star facendo la sola vita che poteva davvero definire sua. Svoltò oltre un caseggiato, entrando in un bar. Prese un thé. Tempo. Doveva guadagnare tempo. Inviò un messaggio sul cellulare, contattando Marco Poretti, il suo contatto, l’uomo della tastiera, il predatore della Rete profond, l’hacker e informatore che la aiutava in quella missione tutt’altro che semplice.
“Sono ad Amsterdam. La pista è ancora calda. Mi stanno pedinando. Hai qualcosa?”, chiese.
La risposta ci avrebbe messo del tempo a giungere. Parecchio. Secondo i suoi calcoli più avveuti, almeno venti-trenta minuti. Scandagliò il bar con lo sguardo, ma il suo pedinatore (posto che fosse solo uno e che non fosse frutto della paranoia elevata a virtù) era abile. Non vide nulla e nessuno di sospetto. Brutto segno: significava che il nemico era in allerta.
D’altronde, dopo aver eliminato uno dei trafficanti di organi a Bruxelles, un contrabbandiere di diamanti ad Anversa e la diplomatica che si occupava della copertura di quell’organizzazione decisamente capillare, Antonia sapeva di aver decisamente agitato le acque.
Il Thé alla menta la aiutò a distrarsi dalla preoccupazione e le riportò alla mente alcuni ricordi…

La menta fu indirettamente uno dei segni distintivi di un avvenimento destinato a sancire un’altra immane divisione tra Antonia e lo stereotipo che sua madre, diversi suoi parenti e gran parte della società si aspettava che lei incarnasse.
Accadde durante una lezione di difesa personale. Il corso era aperto alle sole donne ed era gestito da un esperto eclettico di diverse discipline, un uomo che aveva anche operato come guardia del corpo ed aveva sentito fischiare le pallattole, dettaglio che ne giustificava l’esperienza e l’onorario.
Dulcis in fundo, quell’uomo era amico di suo padre: Antonia vedeva che lui e l’istruttore si intrattenevano spesso dopo le lezioni e non era un ospite sconosciuto a casa sua.
Anche in quel caso, la verità sarebbe giunta più tardi. Molto più tardi.
Mentre si allenava in alcune prese e proiezioni con un’altra ragazza del corso, Antonia prese a sentire qualcosa di inusuale: il tocco delle mani dell’altra sulla sua pelle non le giungeva come semplice informazione, innescava invece una più profonda reazione.
Stretta nella presa di un’altra ragazza, sentiva quella sensazione come un flebile richiamo, languido e irresistibile. Quando quella lezione terminò, Antonia si trattenne in doccia. Si accarezzò piano, la schiena appoggiata alla parete, le dita a indugiare su zone sino a prima mai veramente considerate fino a percepire un piacere che la travolse a ondate. Si rivestì ancora tremante e incerta su come affrontare la cosa. Ovviamente se la tenne per sé.
Sua madre, la sera dopo, le chiese se qualcuno dei suoi amici le piacesse. Antonia intuì che quello fosse l’ennesimo passo, l’ennesimo tentativo di trasformarla in una donna d’alta società.
Il suo diniego non fece che veicolare il resto: sua madre prese a fare commenti su ogni singolo ragazzo dell’età di Antonia con cui la giovane aveva avuto modo di avere a che fare, ovviamente scremando i troppo poveri o gli indegni, paventando la bellezza e le virtù e sostenendo che fosse suo dovere interessarsi attivamente a cercare un compagno perché “La vita è un viaggio per due”.
Antonia non rispose. Aveva già capito dove sarebbero andati a parare. L’idea che un ragazzo la baciasse le era spiacevole, anche se molte sue amiche ormai avevano già qualcuno di fisso e altre addirittura parlavano di storie felici e già prossime al lieto fine da fiaba. Ma Antonia non era così.
Sua madre e sua zia materna parlavano spesso di questo fatto. Dell’assenza di un fidanzato e delle attitudini della ragazza, così poco consone a quelle di una donna sofisticata e di buona levatura sociale. Un discorso talmente melenso e insensato che Antonia ebbe oneste difficoltà a non mettersi a urlare. La lezione di boxe giunse a salvarla. Fu una benedizione.
E fu lì che accadde. La sua avversaria era una giovane magra ma dalla carnagione appena abbronzata, Phoung. Occhi a mandorla, viso di procellana indurito in una smorfia concentrata e capelli neri raccolti in una coda. Cambogiana o laotiana. Di pochi anni più grande di lei.
Antonia sentì qualcosa. Farfalle nello stomaco, un senso di improvviso tumulto interiore che vanificò gran parte della sua usuale abilità nel combattimento. Le prese. Di brutto.
Alle domande dell’allenatore sul perché del suo scarso rendimento rispose in modo vago.
Tutto quello che riuscì a ricordare di quell’incontro fu il sottile odore di menta che permeava Phuong. Non ci volle molto per decidere il passo successivo: le chiese una rivincita.
Decisa a dare il massimo, a impressionarla… O forse, semplicemente, ad attirare la sua attenzione.
La campanella successiva segnò l’inizio di uno dei combattimenti più difficili della vita di Antonia.
Solitamente, aveva ragione di diversi avversari, anche oltre la sua categoria di peso ma in quel caso l’unica cosa su cui riusciva a concentrarsi erano le sensazioni che provava.
Solo il pensiero che la sconfitta l’avrebbe vista perdere ogni possibilità la mantenne lucida a sufficienza. Alla fine, vinse ai punti. Accettò ben volentieri le congratulazioni di Phoung, che comunque fu un’ottima avversaria, a livello tecnico. A ogni altro livello, Antonia aveva già deciso.
Voleva che Phoung facesse parte della sua vita. Ad ogni costo.

Il thé alla menta finì senza che niente e nessuno attirassero l’attenzione di Antonia.
“Chiunque sia è bravo.”, pensò tra sé e sé la donna dai capelli ramati.
In realtà anche i capelli non erano più ramati: li aveva tinti ed ora sfoggiava una chioma castana che dava molto meno nell’occhio. Evidentemente però qualcuno doveva sapere.
Era stata attenta durante le eliminazioni precedenti. Ma l’organizzazione che stava combattendo aveva ramificazioni in Olanda e Paesi Bassi, ed era tutt’altro che formata da sprovveduti.
Controllò il telefono. Un messaggio. Poretti non mollava il colpo.
Guardò la schermata. Un indirizzo e un nome. Forse non era solo Poretti ad agire.
Forse anche Shaibat, l’hacker thailandese, aveva qualche ruolo nel gestire la sua missione.
L’indirizzo, inserito in maps, mostrava un posto parecchio fuori zona. Ci avrebbe messo un po’ a raggiungerlo. Si alzò, pagò e uscì. Sfruttò alcune vetrine e lo specchietto di una moto per guardarsi attorno. Un tizio parve venir colto in flagrante. Forse finalmente i suoi pedinatori avevano commesso un errore. Il che portava a una domanda: neutralizzarli? O seminarli e basta?
Avrebbe optato per la prima ipotesi, considerando l’abilità dei nemici, ma la verità era che doveva considerare ben altro. Uccidere qualcuno in piena Amsterdam poteva essere troppo rischioso.
Non che gli strumenti le mancassero: aveva un paio di oggettini utili a quello scopo, ma poi subentravano incognite quali il ritrovamento dei corpi, le indagini, le telecamere agli angoli delle vie, insomma molte variabili, troppe per poter agire. C’era di buono che almeno ad Amsterdam si respirava un clima sereno: pareva che il Covid stesse avanzando verso l’Europa a grandi passi… Antonia espirò appena. Tornò a considerare il problema attual e decise.
Seminarli dunque. Si guardò attorno. Osservò vetrine, scattò foto, spedì messaggi al cellulare, tutto per sembrare la classica turista distratta e rapita dalla rilassata atmosfera della città olandese mentre si guardava attorno avvalendosi di ogni superficie riflettente che poteva. Colse uno sguardo in una vetrina. Un uomo. Lo stesso di prima. Non era un caso.
“Beccato.”, pensò. Almeno uno, quantomeno. Era possibile che ci fosse un altro pedinatore.
Doveva scoprirlo, prima di arrivare alle coordinate datele da Marco Poretti.
Incominciò a camminare, canticchiando tra sé e sé una canzone.
Heroes di David Bowie. Una canzone che le era piaciuta parecchio, sin dalla prima volta che l’aveva udita, anni prima…

David Bowie cantava a squarciagola dagli altoparlanti. Per qualche ragione che Antonia non si era presa la briga di chiarire, l’allenatore aveva una preferenza per le sue canzoni. Non era malaccio.
Aveva terminato l’allenamento con Phoung. Era passata una settimana da quando si erano fronteggiate sul ring e si erano viste un paio di volte fuori dalla palestra parlando del più e del meno, eppure Antonia non era ancora riuscita a mettere insieme un discorso per spiegare all’altra ragazza cosa provasse esattamente per lei. Ogni volta le parole che trovava le parevano riduttive.
Forse perché lei stessa non sapeva con esattezza spiegare.
Al termine di quell’ennesimo incontro, non ce la faceva più: Phoung le era entrata in testa.
Arrivò alla doccia. Non c’era nessun altro negli spogliatoi. Meglio. Si strappò di dosso i vestiti.
L’acqua della doccia era bollente. Era inverno e l’idea di una doccia calda era semplicemente irresistibile. Antonia rimase sotto il getto per qualche minuto, maledicendosi per non riuscire a dire a Phoung che le era entrata dentro come un magnifico veleno. Sospirò. Aveva tutto e avrebbe dato tutto per poter trovare le parole. La modestia di Phuong o le condizioni non esattamente eccezionali in cui viveva, la scuola mediocre (almeno a detta della madre di Antonia) non toglievano nulla alla sua grazia e alla sua bellezza agli occhi di Antonia, tanto meno sminuivano la sua simpatia. Non aveva inoltre obblighi di protocollo o pomposi appuntamenti qua e là.
Era libera, si rese conto la giovane, libera come lei non sarebbe mai potuta davvero essere.
La invidiava per quella sua libertà che probabilmente Phuong dava per scontata.
Il pensiero che quella ragazza fosse così vicina e così inavvicinabile le era intollerabile, il desiderio le intorbidiva il sangue. Senza averne reale coscienza, la sua mano incominciò a sfiorare punti che aveva imparato in solitudine a conoscere e approcciare. Lentamente, si accarezzò tra le cosce, dove sentiva più forte e intenso il piacere propagarsi sino alle estremità.
Intanto, gli Who (altro gruppo che piaceva all’allenatore) erano stati nuovamente sostituiti dalla voce di David Bowie, ovattata e distorta dallo scroscio dell’acqua, dettaglio cui Antonia, persa nel suo piacere, non fece molto caso. Intenta a masturbarsi piano, accarezzandosi l’intimità con la schiena appoggiata al muro e le gambe larghe, a occhi semichiusi, immaginava che le sue dita fossero quelle di Phoung. Un “Sì” sussurrato e lungo, protratto, le sfuggì dalle labbra.
Improvvisamente sentì dei passi, vicini. Si fermò, aprendo gli occhi, accorgendosi che era tardi.
Era stata colta in flagrante: una mano ancora tra le cosce e la postura confermavano oltre ogni dubbio cosa stesse facendo. Il peggio era che a scoprirla non era stata una qualunque atleta, ma proprio Phoung. L’asiatica la guardava, con un’espressione che Antonia non seppe decifrare.
Sicuramente, sul suo viso il rosso dell’eccitazione si mescolava all’accesa umiliazione.
Vedere Phoung nuda inoltre non aiutava: la giovane era bella. I seni erano piccoli ma proporzionati. Pareva una bellissima bambola. Antonia si scoprì eccitata dalla piega che gli eventi avevano preso, eccitazione che faceva a pugni con il terrore di ciò che Phoung avrebbe detto.
-Io…-, iniziò. L’altra, di qualche anno più grande, sorrise appena.
-Ti toccavi.-, disse. Diretta, schietta, quasi spietata. Si avvicinò. Antonia si accorse di non essersi mossa. Era ancora lì, in una postura che oltre che umiliante stava anche iniziando a essere scomoda. Si rimise in piedi, non che servisse a salvare la sua dignità.
-Sì.-, ammise. Anche se quella di Phuong non fosse stata una domanda, si era resa conto che mentire non avrebbe aiutato. L’asiatica annuì appena, con aria stranamente calma.
Sua madre sarebbe inorridita, dandole della degenerata probabilmente. Chiunque altro avrebbe reagito andandosene, ma Phoung no. Era pur vero che Antonia aveva già visto ragazze nude ed era già stata vista nuda da altre. Non era nulla di che per lei. Ma non era mai stato così. Non era mai successo con Phuong. In effetti l’asiatica di solito se ne andava prima. Tranne quel giorno.
-Che ci fai qui?-, chiese, pur sapendo che non aveva molto senso come domanda.
-Dovevo fare un paio di allenamenti extra. Problemi a casa…-, Phuong scrollò le spalle.
-Ah… certo.-, Antonia si sentì come un coniglio in una tagliola: l’altra non la mollava con lo sguardo e non c’era verso di capire se fosse schifata, imbarazzata o cos’altro.
La cosa più logica sarebbe stata scusarsi, finire di lavarsi, uscire e cambiare palestra.
Sarebbe stata la più logica in assoluto e Antonia avrebbe anche proceduto, non fosse stato per una domanda di Phuong. Che cambiò tutto quanto. -Allora? Chi era?-, chiese l’asiatica mentre apriva i rubinetti di un’altra doccia appoggiando il necessaire per la doccia in una rientranza del muro.
-Chi era chi?-, chiese Antonia. Aveva recuperato il flacone dello shampoo ma non osava fare altre mosse, quasi che Phuong fosse stata un predatore e lei la preda.
-Su, Antonia. Quello a cui pensavi toccandoti! Si vedeva che pensavi a qualcuno…-. Touché.
Fu un affondo spietato. Antonia capì che aveva due possibilità.
Mentire, posticipando di nuovo il momento in cui parlarle dei suoi sentimenti, o osare.
E vedere cosa succedeva. Espirò. Si sentiva tesa. Mille volte più che sul ring. Eppure…
Eppure se non avesse osato dire la verità se la sarebbe tenuta dentro a vita.
-Eri… tu, Phuong…-, sussurrò. L’altra la fissò, per un lungo istante. Indecifrabile.
-Sai… tu… mi piaci. Io… non capisco bene, ma tu sei bella e…-, la frase deragliò nel nulla, inghiottita dal rumore dell’acqua. Antonia si accorse di star facendo la figura della cretina. In realtà però aveva notato una certa complicità nelle frasi dell’asiatica.
Ma non significava nulla. Aveva messo le carte in tavola. Si preparò a un rifiuto, a uno schiaffo, alle grida. A qualunque cosa. Credette di essere pronta. Non lo fu minimamente.
Non lo fu a Phuong che si avvicinò attraverso veli d’acqua, tanto vicina da lasciare ai loro seni modo di sfiorarsi. Non lo fu allo sguardo della cambogiana la fissava. Non lo fu alle parole dopo.
-Temevo di non piacerti.-. Il bacio successivo annichilì tutto l’universo di Antonia DuLac.
Per lei era il primo bacio di un’altra donna. Per Phuong no: si capiva. Le labbra e la lingua della giovane pugile si muovevano con un’abilità e una bravura che Antonia si sforzava di apprendere.
Il cuore della rossa batteva tanto forte da farle temere che esplodesse. Si accorse di essere ancora rigida come un paletto di frassino. La bocca di Phuong abbandonò la sua baciando piano il collo e il viso di Antonia, che rimase ferma, suscitando l’ovvia domanda.
-Troppo in fretta?-, chiese Phuong, -Vuoi che mi fermi?-. Antonia scosse il capo.
-Troppo tutto. Troppo bello…-, guardò l’asiatica con desiderio puro, -Non fermarti.-.
Si baciarono ancora. Piano, le mani di Phuong presero ad accarezzare, a esplorare. E quelle di Antonia seguirono. Quando le dita dell’asiatica raggiunsero l’intimità della rossa, la trovarono pronta, bramosa. E lo stesso sentirono le dita di Antonia tra le cosce dell’altra.
-Ti piace?-, chiese lei, insicura. -Sei bravissima…-, mormorò la più esperta con un sussurro.
Come per ricambiare, lentamente, prese a carezzare un punto specifico tra le gambe di Antonia.
La giovane si sciolse in un gemito, stringendo di riflesso le cosce. Il piacere fu un onda che annegò il pensiero. La bocca della rossa cercò e trovò l’altra bocca, le lingue in lotta tra loro.
La mano esplorò, sfiorò e, accompagnata dall’altra mano di Phuong, ebbe modo di infilare piano un dito tra le grandi labbra della sua partner. Il gemito della cambogiana colse di sorpresa Antonia che temette di averle fatto male. Incuante della preoccupazione, Phuong prese a muovere il dito di Antonia dentro le sue profondità, avanti e indietro, muovendo piano il bacino per accompagnarlo.
-Oh… che bello… sì! Così…-, sussurrò. Di riflesso, mosse la mano tra le cosce di Antonia.
Le carezze reciproche spalancarono la strada al piacere, che giunse dilazionato, ma fu assolutamente folgorante. Si guardarono, ancora ansimanti, consapevoli che avevano varcato un confine e che nulla, mai più nulla, sarebbe stato uguale per loro.
-Se il mister ci trova ancora qui ci spella vive.-, disse Phuong. Antonia annuì.
-Domani. Stessa ora.-, disse. L’altra sorrise.
Fuori, David Bowie cantava Heroes.

Antonia sorrise appena al ricordo. S’immerse in negozi e negozietti, comprò dei dolciumi, sgranocchiò mentre camminava. Zigzagò tra i vicoli. Il pedinatore teneva dietro di lei.
Era bravo. Difficle liberarsene. Seminarlo poteva non essere un’opzione viabile.
Allora restava l’altra possibilità. La mano sinistra di Antonia affondò nella tasca destra.
Trovò ciò che cercava. Risorsa dono di Arlecchino. Risorsa preziosa e utilizzabile.
Improvvisamente le sovvenne la consapevolezza che quel tizio potesse esserle utile.
E forse, avrebbe potuto farci quattro chiacchere.
Deviò in un coffee shop. Prese un drum con tabacco e Mild Ice, una varietà di gangja piuttosto blanda. Accese e fumò. Non era la prima volta che fumava, ma andava bene. L’erba la rilassò.
Uscì di nuovo: aveva deciso. Svoltò in altro vicolo, verso una casa. La via non aveva telecamere. Prese una curva stretta. Il suo pedinatore la seguì, fluido e sicuro. Bravo. Non abbastanza però.
Appena girò l’angolo, lei gli fu addosso. Lo strattonò verso di sé piantandogli la siringa nel collo e premendo lo stantuffo. L’altro fece per divincolarsi ma il composto ebbe rapidamente ragione di lui e crollò a terra. Privo di sensi. Gli impedì di crollare, adagiandolo a terra.
Il sedativo l’avrebbe reso inoffensivo per qualche ora.
Lo guardò meglio. Ventisette, forse trent’anni. Non di più. Capelli biondicci e barba curata.
Abiti anonimi. Lo frugò. Trovò chiavi, soldi, un cellulare e un tirapugni, oltre a un tatuaggio d’ispirazione destroide sull’avambraccio.
-Heil…-, mormorò appena con scherno mentre estraeva la SIM dal cellulare e riponeva entrambi nella borsa. Non erano risposte, ma per ora le sarebbero bastati.
Si rimise in marcia. Sentiva dei passi poco distanti e non era un buon segno. Forse i pedinatori erano due. Sfruttò una rientranza per occultarsi.
Un uomo e una donna guardavano quello a terra. A giudicare dall’atteggiamento e dai visi, non parevano intenzionati a chiamare i soccorsi, né tantomeno sembravano turisti.
Antonia si mosse furtiva, scavalcando un muro. Aveva qualche istante di vantaggio, ora.
Arrivò a destinazione rapidamente. Un negozietto cinese, o thailandese?
Il gestore era un cinese vecchio incartapecorito con il viso grinzoso e gli occhiali a mezzaluna.
-Come posso esserle utile?-, chiese. Antonia lo fissò. Non pareva una minaccia.
-Voglio del thé oolong.-, disse. Il cinese aggrottò il viso.
-Qui noi vendiamo solo grappa di serpe.-, disse. Lei annuì appena, accondiscendente.
-Allora servimene un bicchiere.-, concluse. Lui annuì. Girò il cartellino su “chiuso” e le fece cenno di seguirla nel retrobottega. Parola e controparola. Identificazioni da spie.
Antonia aveva trovato l’informatore. Ora poteva passare all’offensiva.

Wu Ming era il classico immigrato cinese. Sembrava un vecchio di cent’anni ma si muoveva con un’energia che stupì Antonia. Gli occhi parevano vispi e intelligenti. La condusse nel retro, oltre un corridoio sino a una stanza che aprì con una chiave. La stanza era occupata da una workstation non esattamente retrograda e da un tavolo con due sedie. Alla donna non sfuggì la presenza di una Black Star, pistola semiautomatica cinese, posizionata sul tavolo accanto al pc.
Da lì, pareva armata. Wu Ming era sicuramente preparato. Un elemento valido. Quanto non era ancora chiaro ma le premesse parevano buone. Forse anche troppo.
La stanza odorava di cibo cotto. Antonia individuò il microonde e alcune confezioni di cibo istantaneo. Noodles e Wanton. Il vecchio si accomodò sulla sedia, fissandola con espressione enigmatica. La rossa notò lo sguardo diretto alla sua camicetta. Inutile che si facesse illusioni.
-Sai chi sono.-, disse. Non era una domanda. Wu Ming annuì appena.
-Sì. Una donna che viene da lontano. Vieni per uccidere qualcuno. Qualcuno di molto pericoloso. E ti serve aiuto.-, disse. Fu il turno di Antonia di annuire.
-Allora sai anche che sarai ricompensato per il tuo aiuto. Mi servono informazioni…-, il vecchio la interruppe senza guardarla. Digitava rapidamente sulla tastiera, apriva files, muoveva il cursore.
-So già. Stai dando la caccia a dei trafficanti di organi. Ti dico sin da ora che le eliminazioni che hai condotto a Bruxelles e nelle vicinanze hanno allertato la loro rete qui. Non sanno chi sei, ma sanno che sei una donna.-, Wu Ming s’interruppe per digitare un’altra sequenza, -I contatti con le autorità da parte dei tuoi bersagli, che si da il caso facciano capo a un’organizzazione di estrema destra, sono molto pericolosi. È imperativo che tu abbia qualche vantaggio.-, puntò una fotocamera su Antonia. La donna reagì in vago ritardo. Wu annuì. -Andrà bene.-, disse.
-Nuova identità?-, chiese lei. Lui annuì. -Non solo. Carta d’identità, passaporto, patente. Ci vorrà qualche giorno, ma avrai tutto quel che ti serve. Confido che nessuno ti abbia seguito e che tu voglia cambiarti d’abito o tingerti i capelli. Più tardi eventualmente ti porterò del cibo.-.
La rossa annuì. Doveva mimetizzarsi, sparire, rendersi irriconoscibile. Prima però…
Estrasse la SIM e il telefono posandoli sul tavolo.
-Questi li ho presi a uno che mi pedinava. Vedi che riesci a scoprire.-, disse.
-Lo farò. Immagino che tu non abbia con te molte armi, vero?-, chiese Wu. Antonia non rispose.
-Esci e torna nel corridoio, prima porta a destra. C’è una scala. Conduce al piano superiore. C’è un appartamentino. Puoi stare lì. Ti procurerò una pistola e una lama. Armi non tracciabili. Ovviamente ti chiedo di servirtene con criterio: non intendo bruciarmi l’attività a causa di una scriteriata che si mette a sparare in piena Amsterdam.-, continuò il fixer passandole una chiave.
-Ovviamente.-, disse lei. SI alzò. Come primo contatto andava bene. Aveva un’altra domanda.
-Shaibat… la conosci?-, chiese. Wu Ming scosse il capo.
-Non di persona. Solo di fama. Ma ha garantito per te.-, il viso del cinese si adombrò, -E spero abbia ragione: quelli a cui dai la caccia sono lupi.-.
-Neanche io sono un’agnellina.-, replicò Antonia con un ghigno. Si voltò e uscì.
Sapeva che il vecchio le stava fissando il culo. Poco importava.
L’importante era che facesse bene il suo lavoro.
Raggiunse l’appartamento. Pulito e tirato a lucido. Nessuna particolare comodità.
Controllò la presenza di cimici o telecamere. Nessuna. Il vecchio era affidabile.
Lo era? Alla fine non ne era certa, ma le aveva dato l’idea di esserlo. Per ora si sarebbe fidata.
Non aveva realmente alternative. Si tolse i vestiti restando in reggiseno e mutande, compiendo una serie di esercizi a corpo libero. Shadowboxing e stretching. Ancora e ancora. Esercizio.
Si avviò verso la doccia. Lo scrosciare dell’acqua le permise di riflettere.
Un organizzazione di estrema destra… Nazionalisti olandesi? Nostalgici di incubi passati?
Oppure la politica era solo una facciata? Probabile. Non lo sapeva. Non sapeva ancora molte cose.
Si abbandonò al getto caldo, ben consapevole della distensione che le concedeva.
L’acqua le frizionò la pelle, lenendo la stanchezza. Ricordava altri tempi…

La prima, bollente, appagante doccia con Phuong fu solo l’inizio.
La doccia dopo la boxe divenne il loro rifugio, la loro alcova. Il loro paradiso privato.
A patto che non ci fosse nessun’altra per quando loro avevano finitio, quegli incontri si protraevano per tempi che parevano infiniti, permettendo alle due giovani di assaporarsi a vicenda. Dopo il terzo incontro però, entrambe volevano di più.
Vedersi fuori era difficile: Antonia lo aveva già detto. I suoi non avrebbero visto di buon occhio la loro relazione e forse anche l’allenatore cominciava a sospettare.
Fu Phuong a proporre una soluzione. Non era ricca, la sua famiglia era benestante e lei stessa faceva un lavoro umile, mentre Antonia poteva continuare la sua vita nella bambagia, volendo.
Ma entrambe sapevano di appartenere a una diversa specie: non si sentivano le classiche donne casalinghe destinate a maritarsi e a passare la vita tra cucina, TV e letto.
Parlandole, Antonia aveva scoperto che Phuong intendeva diventare poliziotta e, con il tempo, entrare nel GIGN francese. Da qui, la soluzione. Occorreva una buona forma fisica per farlo e Phuong propose di unirsi ad Antonia nei suoi giorni di trekking. Detto fatto.
A sua madre, Antonia disse solo che una sua amica l’avrebbe accompagnata durante le escursioni. Disse anche che era un po’ più grande di lei, sciorinò tutta una serie di artistiche mezze verità su Phuong celando però la più profonda realtà dentro di sé. La madre rimase scettica, forse perché delusa da quella figlia che le pareva un maschio mancato, ma lasciò correre. Suo padre invece…
Suo padre la guardò a lungo, quasi a volerle scrutare nell’anima, quasi a volerle strappare i suoi più reconditi segreti con lo sguardo. Infine annuì. Lei l’abbracciò.
Per qualche ragione sentiva, sapeva, che suo padre poteva capirla. Tuttavia non gli disse tutto.
Semplicemente non potevva. Non poteva dirgli che Phuong le piaceva più di qualunque maschio. Non poteva dirle che aveva assaporato un frutto bellissimo e proibito e non voleva smettere.
“Glielo dirò”, aveva pensato, “A suo tempo.”.
Così cominciarono, appena l’inverno cedette il passo alla primavera. Trekking in alta montagna. Antonia si occupava della logistica, Phuong portava qualcosa da mangiare o da bere, talvolta roba casereccia che i suoi cucinavano seguendo ricette asiatiche. Poi, zaini in spalla, si partiva. Ritmo lento, veloce, lento, veloce. Scatti e corse prolungate. Al termine del tutto trovavano un punto discosto dove mangiare, o dove mangiarsi. Tra le foglie, Antonia assaporò l’intimità di un’altra donna, sentendo le mani di Phuong spingerla verso il suo sesso aperto e rorido di umori, poi Phuong ricambiò a sua volta, insegnandole trucchetti che la rossa nemmeno immaginava possibili.
Quella prima giornata fu un successo. E ce ne furono altre, molte. Il tempo passò.
La loro amicizia permise ad Antonia di conoscere anche la famiglia di Phuong, persone semplici e oneste, così diverse dai circoli tanto amati da sua madre. Era gente alla buona che sapeva accontentarsi di essere senza ostentare l’apparire.
Il fratello maggiore di Phuong era sergente istruttore nell’esercito francese. Suo padre aveva lasciato l’esercito col grado di capitano. La madre era sarta. Phuong stava a suo modo cercando di seguire la strada dei suoi parenti maschi. Poi c’era tutto uno stuolo di nipoti e cugini che Antonia non aveva avuto il piacere di conoscere, almeno non tutti assieme.
Soprattutto, la famiglia di Phuong non giudicò il suo rapporto con la giovane, probabilmente già a conoscenza di tutto a giudicare dai sorrisi che le facevano. Ma erano sorrisi veri, lieti.
Antonia ne fu commossa. In pochi mesi divenne una di famiglia. Era felice.
Riusciva persino a ritenere tollerabili le manie di sua madre e i commenti dei parenti e delle sue “amiche”. Ma la verità era che quell’idillio non era destinato a durare.
In realtà, la colpa fu effettivamente di Antonia, ma non interamente, né intenzionalmente.
Accadde che suo padre dovette andar via per lavoro. Antonia insistette un sacco con sua madre, e miracolosamente, questa permise alla giovane di invitare Phuong nella loro non esattamente umilissima dimora. Il fatto che fosse una casa con due bagni, un ufficio, una sala fitness e un cortile ben curato dimostrava che, a dispetto della cattiva nomea del nome, i DuLac avevano ancora un ragguardevole status, quantomeno a livello finanziario. Phuong ne fu stupefatta.
Nulla a che vedere con l’appartamento della sua famiglia, stretto in un condominio di periferia.
Le due studiarono, come di fatto avevano promesso. Passarono due ore di studi.
Due ore che passarono abbastanza alla svelta tutto sommato, anche se entrambe sapevano di voler fare altro. Era un rischio ma d’altronde la madre di Antonia si era assopita sul divano.
Le capitava di recente. Colpa di una stanchezza che a tratti la prendeva.
Di fatto, Antonia l’aveva vista stanca ed era perfettamente plausibile quindi la fiducia con cui mise a tacere i deboli dubbi di Phuong. Dopo il primo bacio, le preoccupazioni svanirono alla svelta.
In pochi istanti, le due erano abbracciate sul letto di Antonia, intente a toccarsi attraverso vestiti mentre si baciavano. Poi accadde…
La madre di Antonia spalancò la porta della stanza, rimasta socchiusa a causa della distrazione delle due e incominciò con una sequela di insulti. Rossa in viso non lesinò parole a nessuno. Antonia tentò di spiegare, di parlare, sull’orlo delle lacrime e della rabbia. Phuong tacque, con gli occhi bassi. Era la fine. Inutile tergiversare. Sua madre sfogò sulle due ogni epiteto, come a volersi rifare di ogni umiliazione, ogni ribellione, anche tacite, da parte di sua figlia.
Antonia la odiò e si disperò. Improvvisamente urlò. Ribatté.
-Non capisci un cazzo! Dei tuoi galà non me ne frega niente! Ma tu cosa ne sai di me? Non sai niente! Un cazzo di niente!-, le ultime parole le uscirono in singhiozzi.
-Brutta piccola…!-, sua madre avanzò, la mano levata a schiaffeggiarla, atto a cui Antonia era pronta. Ma non avrebbe ceduto. Non quella volta. Si preparò a reagire.
E improvvisamente, qualcosa mutò. Vi fu un movimento dietro sua madre. Un’ombra che prese corpo e afferrò il polso della donna, portandola a girarsi e a guardare il nuovo venuto.
-Basta così.-, la voce dell’uomo era misurata, ferma. Glaciale.
-Ma… caro… Tu non puoi…-, belò la donna. Lui la fissò. Era emerso dalle ombre, come uno spettro. Impossibile dire da quando fosse arrivato. Semplicemente un minuto prima non c’era e quello dopo sì. Phuong e Antonia erano paralizzate dallo stupore e tormentate dall’indecisione.
-Basta così.-, ripeté Jacques DuLac. L’uomo distolse lo sguardo dalla moglie, -Me ne occupo io.-.
Non era un’ordine, ma la donna agì come se lo fosse stato: indietreggiò lasciando il campo.
-Nel mio ufficio, entrambe, tra tre minuti.-. Ancora, non era un ordine ma Antonia capì, intuì che la disobbedienza le sarebbe costata tutto. Annuì senza accorgersene. Anche Phuong pareva tutt’altro che incline a contestare quella richiesta. Si ricomposero senza parlare, sull’orlo delle lacrime.
L’ufficio di suo padre era sempre stato off-limits: Antonia sapeva che era un’area in cui neppure sua madre era mai potuta entrare. Il resto della casa era a loro disposizione ma quell’ufficio era semplicemente zona proibita, da sempre.
Entrarvi le parve un sacrilegio. Duplice quando Phuong entrò a sua volta.
“Saremo punite”, pensò mestamente. Era la verità. Sapeva che suo padre le avrebbe punite.
Un genitore normale l’avrebbe fatto. Avrebbe messo bene in chiaro le cose per poi proibire alle due di rivedersi. Ma se con sua madre Antonia aveva avuto modo di reagire, suo padre era tutt’altro che invitante allo scontro. Sua madre cianciava e berciava, suo padre no. Pesava le parole e le azioni. Era in grado di dire di più lui con cinque parole che sua madre con sei frasi.
E anche il suo sguardo, era semplicemente intimidatorio. No: neanche a pensare di ribellarsi.
Potevano solo aspettare, ascoltare, sperare e prepararsi all’addio.
Le due sedie davanti alla scrivania occupata dall’uomo erano libere per loro. Antonia e Phuong vi si sedettero senza una parola. Jacques DuLac continuò a digitare sul computer, passando da uno schermo all’altro, da un’attività all’altra. Infine, alzò lo sguardo, con calma, come se avesse avuto tutto il tempo del mondo.
-Come ti chiami?-, chiese a Phuong. L’asiatica tenne gli occhi bassi.
-Phuong, signore.-, rispose, servile.
-Sei vietnamita?-, chiese lui. Lei scosse il capo.
-Cambogiana, signore. La mia famiglia viene da lì. Da un villaggio a nord del paese… Viviamo in Francia da due generazioni…-, disse Phuong. Jacques annuì. Una raggelante quiete calò.
Antonia si scoprì a desiderare che urlassse, che reagisse. Ma rimase delusa.
-Dove hai conosciuto mia figlia?-, chiese l’uomo.
-A boxe, signore.-, Phuong parlava poco, cosa che Jacques pareva apprezzare.
-Capisco.-, disse lui. SI alzò, piano. Spinse indietro la sedia da ufficio, alzandosi.
Spostò lo sguardo su Antonia. E lei sentì un groppo allo stomaco. Timore. Terrore.
-Da quanto tempo?-, chiese. Lei capì.
-Almeno tre mesi. Ma…-, iniziò. Lui alzò la mano, perentorio. Ottenne il silenzio.
-I tuoi genitori, Phuong? Cosa fanno?-, chiese.
-Mio padre era ufficiale nell’esercito, come mio fratello. Mia madre è una sarta.-, rispose la ragazza. Jacques la fissò per un lungo istante. Antonia si scoprì a desiderare di urlare.
Di spezzare quello stillicidio. Se proprio dovevano venir punite allora che accadesse!
-E tu?-, chiese l’uomo, -Fai boxe per difesa? O solo perché ti piace?-.
-Lo faccio perché spero di riuscire a entrare nel GIGN.-, rispose Phuong.
Jacques annuì. Spostò nuovamente l’attenzione su Antonia.
-Tua madre è… frivola. È una donna affascinante ma credo che le sue maniere non aiutino. Sai, sono contento che tu sia come sei, Antonia.-, lo sguardo di suo padre si addolcì all’improvviso.
-Papà…-, iniziò lei, -Tu… cosa farai?-, riuscì a chiedere.
-Proprio niente. Per quel che mi riguarda non ho nessun problema con la vostra relazione. Vi chiedo solo di osservare il decoro e di non sbandierarla. L’ultima cosa che serve alla nostra famiglia è uno scandalo. Questo lo puoi comprendere, giusto?-, chiese. Antonia annuì.
-Ovviamente questo vale anche per te, Phuong. Sappi che ho dei contatti in alto loco. Se manterrai questo segreto, penso di poter smuovere qualche leva, rendere la tua carriera più facile e la tua vita con Antonia più piacevole. Se poi doveste separarvi, si potrà comunque cercare di restare buone amiche.-, lo sguardo dell’uomo tornò d’acciaio, -Ma se oserai dire qualcosa di tutto questo io mi assicurerò che né tu né la tua famiglia rimpiangiate la tua leggerezza sino all’ultimo dei vostri giorni, mi sono spiegato?-. La cambogiana annuì freneticamente.
-Mia moglie non approva quanto c’è tra voi. È un suo problema. Mi occuperò io di sistemare le cose con lei, ma voi dovrete usare discrezione e attenzione, d’accordo?-, chiese Jacques.
Le due ragazze annuirono, come ipnotizzate. Stava davvero accadendo? Antonia si pizzicò un braccio. No: non era un sogno.
-In più penso tu abbia un’ottima influenza su Antonia e possa darle modo di capire cosa fare nella sua vita, visto che immagino non voglia la vita a cui sua madre insiste a tentare di prepararla.-, la frase fece arrossire Phuong, che fece per rispondere. Ma l’uomo tagliò ogni risposta sul nascere.
-Ora uscite. Ho da fare. Stasera sei ospite qui, Phuong. Non accetterò un “no” come risposta.-.
Antonia notò solo in quel momento i documenti sulla scrivania. Notò un nome. Tikal.
Un nome strano, straniero. Quei documenti le suscitarono domande. DI cosa si occupava suo padre? Quali erano i suoi affari? Grazie a quali investimenti lei e sua madre avevano goduto e godevano di quel benestare economico? Domande che incalzavano.
Ma non era quello il momento: le due uscirono, come richiesto da Jacques. Erano state graziate, miracolate. Il padre di Antonia non aveva solo dato il suo benestare, aveva implicitamente accolto Phuong come una di famiglia. Per Antonia non c’era stata gioia più grande.

Il giorno successivo, Wu Ming si presentò con un coltello a serramanico e una Browning con due caricatori, oltre che con un documento. Antonia aveva mangiato poco ma era in forze e il fixer le aveva procurato anche un nome: Red Pepper. Un nome inglese per un locale nel quartiere a luci rosse. Il posto in cui probabilmente i suoi avversari avevano un ritrovo, o gestivano loschi affari. I dati della SIM che aveva trovato portavano a quel locale. Antonia decise di farvi una capatina.
Il Red Pepper era il classico localino erotico. Amsterdam aveva la fama di città progressista e permissiva, ma il Red aveva una fama… non esattamente buona. Poretti l’aveva informata e Antonia era venuta a conoscenza di alcune coincidenze inquietanti, tipo la morte di un investigatore privato proprio in quella zona. Il poveraccio stava indagando sulla sparizione di un giovane turista francese. E che dire della moglie del commissario di polizia del distretto limitrofo, suicida dopo che delle sue foto durante una gangbang con tre uomini erano finite sui vari social e giornali? Casualmente, il marito aveva iniziato una serie di indagini relative a un giro di reciclaggio di denaro sporco. Altrettanto stranamente, sei mesi dopo, il poveraccio era sul lastrico, disoccupato e prossimo a emulare il gesto estremo della consorte.
Insomma, il Red Pepper non pareva godere di una lieta nomea. Non che questo ne diminuisse la clientela. Faceva il pieno ogni sabato sera e quel giorno era sabato, appunto.
Antonia decise che ci sarebbe andata, anche solo per farsi un’idea di come fosse.
Di fatto, a detta di Marco Poretti, il Red ospitava una serie di traffici tra droga e prostituzione non da ridere. Come se ciò non bastasse, diverse personalità influenti erano connesse (o sospettate di esserlo) al locale. La sicurezza era bella tosta. Meglio non rischiare di farsi beccare con armi addosso. La rossa risolse il problema optando per uan diversa scelta. La mise era da sera, bella ma non eccessivamente appariscente. Niente gioielli e trucco light. Il vestiario era elegante.
Una nobildonna viziosa ma discreta, pronta per una seratina trasgressiva.
-Quindi l’idea è quella di un sopralluogo?-, chiese Wu. Il vecchio pareva preoccupato.
-Sì.-, disse Antonia, -Entro, vedo. Se tutto va bene, avrò modo di farmi un’idea.-.
-Oh. E se va male?-, chiese Wu, apparentemente a disagio con l’idea che la sua connessione con la rossa venisse esposta. Antonia sorrise appena, un ghigno distorto, uno sberleffo bello e buono.
-Se va male mi assicurerò che non sappiano di te.-, promise. -Me lo auguro.-, sospirò il fixer.
Era comprensibile quella preoccupazione: il pericolo esisteva e le ripercussioni in ambienti del genere erano solitamente letali. Antonia sapeva con assoluta certezza che non c’era possibilità di perdono. Il mondo delle persone perbene là, tra le tenebre oltre il lucente apparire, lasciava il posto a emozioni grezze, antiche quanto l’uomo stesso. Sopraffazione, dominio, rabbia, vendetta e paura. Non era un gioco per semplici, né per indecisi. I deboli venivano eliminati, sempre.
Era semplicemente così che doveva andare. Un mondo duro, spietato. Una giungla.
Di cui Antonia aveva già avuto assaggi, molti, nessuno indolore. Il primo tempo prima…

I successivi mesi, quasi due anni in realtà, furono splendidi. Il compromesso era perfetto.
In pubblico Antonia era la figlia perfetta, beneducata, responsabile, educata e fine come sua madre l’aveva sempre voluta. Rispondeva alle domande delle amiche, sue e materne con risposte che corrispondevano a mezze verità. Lavorava? “Sì, come imprenditrice”. Ragazzi? “Oh, no. Al momento la carriera lavorativa mi assorbe interamente”, aveva risposto quando chiedevano. Il che era vero: aiutava suo padre gestendo una piccola azienda di spedizioni. Di fatto era aiutata da numerosi assistenti. Il suo era quasi un ruolo di facciata. Fare la modella? “Lei mi onora, ma la verità è che non ho il portamento…”, aveva risposto a un galantuomo di dieci anni più vecchio di lei. L’uomo aveva annuito, non senza indugiare per un fulmineo istante nella dolce visione del suo decôlte. Un porco benvestito, ecco cos’era, aveva poi detto sua madre.
Sua madre, la stessa che con le amiche criticava a mezza voce gente che poi blandiva in pubblico.
Sua madre, la donna che dopo vent’anni di matrimonio con suo marito, aveva iniziato una relazione clandestina con un settantenne e che, quando non era con lui, si concedeva alle prosaiche attenzioni del giardiniere, un nordafricano chiamato Malik.
Sua madre, campionessa di somma ipocrisia.
Insomma, il pubblico era rappresentazione impeccabile, uno specchio magnifico. Il privato invece…
Nel privato sua madre appariva triste e infelice, apparentemente determinata a continuare la bella vita garantitale da un matrimonio senza più amore. Ma ovviamente, tutto questo ad Antonia non fu mai detto e lei dovette semplicemente riconoscerlo da sguardi e atteggiamenti.
Suo padre era apparentemente immune da tutto ciò, anzi rappresentava l’esatto opposto: in privato era esattamente come in pubblico, impeccabile. Non temeva di dire le cose in faccia o di prendere decisioni inaspettate, un esempio fu il confronto con un collega che fece una frecciatina tutt’altro che lieve. Lui aveva ascoltato sino alla fine e al termine di ciò aveva metodicamente distrutto l’altro, con poche frasi e senza volgarità. In un altro caso, quando la loro colf aveva sbrigato male alcune faccende si era mostrato compernsivo, ma le aveva richiesto di rifare il lavoro, il tutto senza alzare minimamente la voce. Jacques DuLac non alzava mai la voce.
Antonia ancora non sapeva con precisione cosa suo padre facesse. Cercava di indagare ma l’uomo era quasi impenetrabile. Non si sbottonava con nessuno, neppure con lei.
E poi c’era Phuong. La cambogiana era riuscita a superare le selezioni per la Gendarmerie e avanzava a grandi passi verso la candidatura al GIGN. Ovviamente, il tutto dividendo il suo tempo con Antonia e continuando a coltivare le loro passioni in comune. Tiro al poligono, difesa personale, sport, quello non era cambiato e Antonia sognava il giorno in cui avrebbero potuto smettere di nascondersi. In effetti, non ne vedeva già più da tempo il motivo.
Il mondo stava aprendosi e cambiando. Essere gay o lesbica non era più visto come un marchio d’infamia come era stato tempo prima. Accarezzare quel sogno era bellissimo.
Un sogno che era prossimo a terminare. Antonia non ne ebbe sentore, la verità le giunse addosso dopo, in modo improvviso. Fu un colpo inatteso, come quando arriva un pugno allo stomaco.
Impossibile prepararsi o difendersi. Colta a guardia bassa. Tant’era.
Fu una telefonata a far germogliare il seme del dubbio nell’animo di Antonia. Una telefonata da un numero salvato come R. R. Semplice, una lettera. -Chi è?-, aveva chiesto Antonia.
-Un collega.-, aveva risposto Phuong con apparente sincerità. Apparente…
“Le persone non sono mai come sembrano.”, aveva detto suo padre tempo prima, “Tutti nascondono qualcosa. Tutti hanno segreti. Non ti si chiede di sapere tutto, ma di sapere quanto possibile.”, aveva aggiunto. Lei aveva annuito. Lezione imparata? No. Appena metabolizzata.
La verità e il reale valore di quella lezione divennero evidenti quando Antonia notò altre chiamate da parte di R. Il fantomatico collega pareva tutt’altro che timoroso di invadere la privacy di Phuong. Infine, la rossa affrontò l’argomento con la cambogiana.
-È solo un collega?-, chiese. L’altra sospirò. E Antonia sentì il gelo dentro, la consapevolezza di uno strappo lento e lacerante. Improvvisamente, si fece strada in lei la consapevolezza che il suo idillio era finito. Il dolore le incrinò la voce.
-Da quanto tempo?-, chiese. Phuong abbassò lo sguardo. Antonia si protese, allungandosi verso la sua amata, verso la sua compagna. E verso la verità.
-Da tre settimane.-, ammise infine Phuong. Antonia sentì gli occhi riempirsi di lacrime, il cuore stretto in una morsa gelida. Desiderò colpirla, desiderò urlare, desiderò piangere e morire.
-Perché?!-, chiese, -Perché?!-, ringhiò. Afferrò Phuong per la maglia, strattonandola verso di sé.
-Perché?-, chiese di nuovo con il viso che quasi sfiorava quello dell’altra.
-Perché…-, sussurrò la Cambogiana, -Io… ti amo Antonia. Ma lui… Lui è… Lui ha…-, non sapeva come dirlo. Ma Antonia sì. Lo sapeva. Oh, quanto lo sapeva.
-Ha il cazzo, vero? Volevi sentirlo dentro, vero?-, sibilò con odio.
-No, Antonia, non è…-, inziò Phuong con gli occhi umidi. Ma ormai la rossa era scatenata.
-Taci!-, urlò. Si voltò lanciando un urlo inarticolato che finì in un singhiozzo.
-Se penso a tutte le volte…-, sibilò con voce strozzata dalle lacrime che ora scorrevano.
-Antonia, mi dispiace… Io…-, la cambogiana s’interruppe quando vide lo sguardo dell’altra.
-Ti dispiace? Ti dispiace?!-, chiese Antonia, incredula e furibonda.
-Io… Sì. Ho sbagliato. Hai tutte le ragioni ma…-, Phuong mise distanza tra loro, come consapevole del rischio di finire alle mani, -Ma non si tratta solo di quello…-.
-No? Non si tratta solo di sesso?-, domandò Antonia, -Allora di cosa si tratta? È ricco? O ti ha ricattata? O forse, semplicemente…-, la voce di Antonia si alzò di un ottava furente, -Ti sei stufata di leccarmela, vero?-. Calò il silenzio, quello degli epiloghi.
-Vattene, Phuong. Non ti voglio mai più rivedere. Mai più, chiaro?-, il tono della rossa vibrava di rabbia, di dolore, di sdegno. La cambogiana non osò replicare.
Due giorni dopo, era finita. Phuong era uscita dalla vita di Antonia. E lei era distrutta.
Passò i tre giorni successivi a piangere. Si lasciò andare. Ignorò tutti quelli che la cercavano, mandò al diavolo chi cercava di convincerla a tornare sui suoi passi, fece il vuoto attorno a sé.
Non le importava che le venisse detto che Phuong stava male quanto lei. Non le interessavano le chiamate di amici e parenti. Non ne voleva sapere. Sotto molti aspetti, Antonia DuLac era morta.
Finché, non arrivò suo padre. Aprì la porta e si sedette sul pavimento, accanto al letto.
Antonia fissava il soffitto, sguardo vacuo, circondata da bottiglie vuote di alcoolici e pasti mezzi consumati. Jacques non disse una parola, non una. Infine fu lei a parlare.
-Volevo che durasse per sempre. Che fosse perfetto…-, sussurrò appena.
-È quello che vogliono tutti. Ma nulla è per sempre, figlia mia.-, rispose lui.
Figlia. Una parola usata così di rado. Antonia non distolse lo sguardo.
Inutile chidere come suo padre fosse entrato: era stato lui ad affittare loro quell’appartamento.
-Sento che ho perso la cosa più importante della mia vita.-, ammise.
-Falso. Hai perso una cosa importante, ma non vuol dire aver perso tutto. Sei giovane. E poi, non c’è solo l’amore.-, disse lui. Lei lo guardò.
-Se parli dei soldi non m’interessano.-, disse. Lui sorrise. E per un istante, non sembrò più l’eminenza ombra, il padre arcigno che era spesso apparso.
-Parlo di altro. Potere, Antonia, quello vero. T’interessa?-. Al punto a cui era, sì. Le interessava.
Perché l’alternativa era continuare a trascinarsi in quel limbo. A quel punto, qualunque cosa, qualunque alternativa era migliore. Parlarono a lungo, come mai avevano fatto.
Il giorno dopo, lavatasi e cambiatasi accompagnò suo padre ad un incontro con una donna di nome Tikal Withefang. E scoprì chi realmente lei fosse. Una trafficante di armi.
I segreti di suo padre le si aprirono piano. Tikal prese in simpatia Antonia.
E la rossa capì: suo padre, gli accordi con Tikal, le forniture d’armi a governi e organizzazioni straniere… Tutto per la Francia. E per la sua famiglia.
Potere. Quello vero. Leve mosse all’insaputa della massa, per motivi semplici ma nascosti, moventi antichissimi ma sempre validi e un sempiterno motto che suo padre ripeteva spesso.
Ordine dal caos. Gliel’aveva spiegato.
“Noi siamo questo, Antonia. Custodi, guardiani. La gente normale non vede, non capisce. Phuong ha capito un po’ di più di altri, ma anche lei manca di prospettiva. Ho sentito che è stata distaccata al GIGN. È brava, ma è uno strumento, null’altro. Tu invece, puoi diventare un’esecutrice.”, aveva detto. Esecutrice. Le suonava stranamente bene. Sorrise. Suo padre le sorrise a sua volta.
Era così raro che sorridesse.
-Tikal t’insegnerà. Seguila, stalle accanto. Impara. Veglia.-, disse. Lo fece.
Tikal Withefang ospitò Antonia per qualche mese. In Australia. Il loro rapporto divenne presto più intimo. Tikal non era timida, né si faceva scrupoli a dire chiaramente le cose, in più di un ambito.
Le insegnò il valore di non cedere. Il compromesso non era una risorsa, ma un segnale di debolezza a dir suo. Oltre a essere decisamente una bella donna, Tikal era un esempio.
Antonia poteva onestamente dire di esserne affascinata. Dal canto suo svolgeva i compiti che le venivano dati. Contabilità e raccolta informazioni. Tutto molto semplice. Bolle di spedizioni di merci le capitavano in mano, spedizioni per luoghi del Terzo Mondo, Malì, Afghanistan ma anche Etiopia e Sudan. Lei non faceva domande, eseguiva e imparava.
Un giorno, Tikal la portò con sé in un luogo nell’Outback. Abbigliamento pratico e nessun trucco.
C’erano solo loro. Tikal parcheggiò l’auto e scesero, entrando in una baracca. All’interno, Antonia vide un uomo. Era ridotto male: i vestiti erano stracci, il viso era pesto, era palesemente disidratato e affamato e all’entrata delle due palesò un terrore immane sul viso.
-Lui è Norman Friedriksson. Uno svedese molto poco furbo. Voleva fregarmi, il caro Friedrik, qui.-, la voce di Tikal era dura come il diamante. L’uomo, imbavagliato, mugolò qualcosa. Fu ignorato.
-Ha cercato di truffare me e i suoi clienti. Per colpa sua ho perso un affare. Nel mio campo non è qualcosa che io possa o voglia perdonare, capisci?-, Antonia annuì, anche se non era certa che l’australiana parlasse effettivamente a lei. L’uomo imploro sommessamente, parole ridotte a mugolii indistinti. Tikal spostò lo sguardo sulla rossa.
-Nel nostro ambiente la pietà verso un nemico è una debolezza, Antonia. I vermi come lui servono solo a una cosa.-, la donna estrasse la pistola. M1911 americana, arma non registrata, inesistente, -A fare da esempio.-. Le porse la pistola. Antonia la prese. Le parve pesantissima.
-Hai sparato al poligono. Ma qui siamo oltre. Questo è un rito di passaggio.-, disse Tikal.
Antonia capì. Non c’era bisogno che l’altra dicesse niente: era chiaro. Friedrik doveva morire.
E doveva essere lei a ucciderlo. Guardò l’uomo. Era scosso da tremiti, implorava, pregava, la guardava come un animale preso in una tagliola, come una bestia braccata che sa, intuisce, che la fine è vicina. Puntò la pistola, gambe larghe, braccia distese. Si sentì male: quello non era un bersaglio, era un uomo con emozioni, sogni e paure. Un proiettile avrebbe cancellato il tutto.
Riducendolo a un oggetto, a un ricordo. L’uomo gemette. Tikal sorrise appena.
-Lo capisco, sai? La prima volta che toccò a me, avevo diciotto anni. Un mio amico era stato morso da un serpente. Eravamo molto lontani dalle strade. Lui sapeva che sarebbe morto, male.
Il medico non poteva raggiungerci. Mi guardò con uno sguardo implorante.-, la voce della donna si abbassò appena, -E io feci ciò che dovevo.-.
-È diverso…-, disse Antonia, -Lui voleva morire.-. Tikal scosse il capo.
-Nessuno vuole morire. Ma non si sfugge mai davvero. La fine arriva, che tu lo voglia o no.-, rispose. Si avvicinò alla rossa, posando una mano sulle sue strette sulla pistola.
-Non pretendo certo che sia facile, per te. TI aiuto io.-, disse. Chiuse la mano su quella di Antonia, dito su dito nel ponticello. Passò dietro la ragazza, stringendo l’altra mano della rossa con la propria. Antonia poté sentire il seno di Tikal contro la schiena, il suo calore.
Si accorse che le piaceva. Tikal mosse appena le braccia di Antonia con le proprie. Puntò.
Bersaglio a centro massa. L’uomo ora piangeva apertamente.
-È sempre così, sai?-, la voce della donna dietro di lei mandò brividi lungo la schiena di Antonia, brividi che andavano ad annegare in una parte oscura di lei, una parte che aveva preso a esplorare solo tempo prima, con Phuong. Una parte che ora si risvegliava.
-Così?-, chiese. Non capiva. Tikal emise un versetto, un mh-mh di conferma.
-Questo brivido che senti, l’ho sentito anche io. È un’emozione vera, pura. Priva di ogni razionalismo. Non combatterla. Lasciati andare.-, sussurrò. Antonia sapeva di starsi bagnando.
Si chiese, fugacemente, se anche l’australiana provasse lo stesso.
E una parte di lei non riusciva a combattere un senso profondo malessere, come se non riuscisse a rassegnarsi, non interamente. Tikal prese a premere sul dito di lei con il suo, avvicinando il grilletto al punto di sparo. Antonia si accorse di respirare affannosamente, come fosse stata reduce da una corsa campestre. Sapeva a cosa era dovuto. Sentiva le gambe di ovatta.
Un millimetro, un altro. L’uomo continuava a piangere, a implorare. Legato com’era non c’era possibilità di errore, nessuna via di fuga. Con una lentezza surreale, Tikal annullò la distanza rimasta. Il silenzio fu squarciato dallo sparo. Antonia sentì le braccia abbassarsi.
E il corpo di Tikal Withefang contro il suo. Il battito dei due cuori, percettibile.
-Riti di passaggio, Antonia.-, disse la donna. Si sciolse dall’abbraccio, togliendole la pistola.
-Benvenuta nel lato oscuro.-, sussurrò guardandola. Antonia la fissò. Aveva gli occhi lucidi.
-Io…-, mormorò appena. Tikal sorrise e annullò la distanza. Non fu un bacio leggero, fu il bacio di una predatrice, un’invasione, una conquista. Antonia schiuse le labbra senza averne coscienza. Cercò la lingua dell’altra senza fuggire. La strinse. Quando si speararono, il cuore le galoppava.
Tornarono a Sidney. Antonia venne a sapere qualcosa in più dei traffici di Tikal, quel giorno.
Armi, armi andavano e venivano, l’australiana foraggiava vari gruppi, anche più parti nello stesso conflitto. Armi, armi, armi. Fucili d’assalto e pistole, mitragliatrici e fucili da cecchino, granate e mine. Si era fatta un nome. Durante la cena, Tikal le parlò di sé. Non aveva avuto una vita facile.
Antonia annuì. Si rivedeva in lei, sotto molti, moltissimi aspetti. Erano simili.
Nascere donna non era garanzia di salvezza o vita facile. Per Tikal, unica figlia di un padre che aveva desiderato un maschio, era stata più dura che per altri. Cresciuta nell’Outback, era una meticcia, rifiutata sia da uno che dall’altro mondo. Suo padre l’aveva istruita in modo estremamente severo, e lei aveva appreso altrettanto intensamente, sino a subentrare.
In più, in un mondo in cui le donne erano viste come deboli o svantaggiate, Tikal era riuscita a emergere davvero. Ora, persino i clienti più refrattari all’idea ingoiavano l’orgoglio e trattavano.
-Una soddisfazione che nemmeno immagini, vedere quei porci dovermi portare rispetto.-, aveva aggiunto Tikal. Antonia poteva immaginare, in effetti voleva immaginare. Quand’era stata l’ultima volta che aveva avuto modo di fare lo stesso? Di imporre il rispetto ad altri?
Non lo ricordava. Forse non c’era mai stata veramente una simile possibilità. Forse Tikal era tutto quel che lei avrebbe voluto essere. E forse, avrebbe potuto imparare a non nascondersi.
-Gli uomini non ti piacciono, vero?-, aveva chiesto l’australiana. Antonia aveva scosso il capo.
-Non… non mi dicono nulla.-, aveva risposto , -Ammetto che non ci ho mai fatto nulla di serio, ma a pelle, preferisco le donne.-. Ecco. L’aveva detto. Il viso di Tikal Withefang si aprì in un sorriso.
-Sospettavo.-, aveva detto senza smettere di sorridere. Antonia si sentì come trapassata.
Desiderava ardentemente quella donna. Ed era chiaro che anche lei la volesse.
-Ti voglio…-, sussurrò appena. Tikal non cambiò espressione.
-E cosa mi faresti?-, chiese. Antonia divenne bordeaux: un conto era parlarne in casa, nell’intimità, un altro era farlo lì, in un ristorante dove molte altre persone potevano sentire…
-Io…-, sussurrò. Era all’apice dell’imbarazzo. Manco a parlarne di dirlo a voce alta.
-Su, su. Ad alta voce, tesoro. Sennò non ti sento.-, la esortò Tikal.
-Io…-, iniziò più convinta. S’inchiodò quando il cameriere venne a presentare loro il conto.
Tikal non le staccò gli occhi di dosso.
-Io ti voglio. Voglio fare l’amore con te.-, riuscì a dire infine. Qualcuno si voltò, forse. Qualcuno parlottando guardò verso il loro tavolo. Tikal rimaneva impassibile, ignorando commenti e sguardi.
-Era così difficile?-, chiese all’indirizzo di un’Antonia talmente imbarazzata da essere sull’orlo della lacrime. Sì. Era stato difficilissimo. Ma la rossa aveva capito. Non era stata una semplice prova.
Era stata una tappa. Un altro rito di passaggio. Lo aveva superato.
Tikal si alzò con la grazia di una regina, lo sguardo bruciante di lussuria.

Marciò attraverso l’ingresso del Red Pepper con una smorfia arrogante. Aveva scelto capi di prima categoria. Una pelliccia Yves Saint Laurent e un magnifico tailleur nero. Mise perfetta.
Trucco leggero, scarpe con il tacco dodici. Il portinaio deglutì duro, vedendola. Tentò di mantenere l’aplomb. Era un uomo sulla quarantina, viso anonimo, occhi scuri, in smoking. Con un rigonfiamento anomalo ad altezza petto. Pistola, poco ma sicuro. E lo sguardo era di chi la sapeva usare. Poco ma sicuro, un duro con un servizio nell’esercito alle spalle.
-Madame DuLac. Siamo onorati di averla con noi. Posso esserle utile?-, chiese.
Antonia sollevò gli occhiali, montatura priva di lenti correttive e si morse il labbro.
-Sì. Può incominciare dicendomi come mai non è pronto il tavolo che ho richiesto.-, disse con tono stizzito. L’immagine della perfetta dama di buona società timorosa di sfigurare, capacissima di rovinare la carriera a chiunque per piccole sbavature come quelle.
In realtà era una recita perfetta: la prenotazione a suo nome era stata fatta poche ore prima. Improbabile avessero avuto il tempo di organizzarsi. I fondi venivano dal fondo di Antonia, o da quelli messi a disposizione da Poretti e Shaibat. Il portiere esitò.
-Madame, il suo tavolo è pronto, ma devo chiederle un documento e il pagamento della tranche d’ingresso. Voglia seguirmi.-, disse. Un valletto biondiccio e magro prese il suo posto mentre scortava Antonia all’interno. Alla receptionist del Red Pepper c’era un altro uomo in smoking, viso inespressivo. Un altro duro. Antonia lo capì dallo sguardo, dalla postura.
“Un bel livello di sicurezza in questo club…”, pensò. L’uomo alla recetion le allungò un terminale per la carta di credito. Antonia espletò la formalità in pochi istanti. Poi notò il tatuaggio sul polso dell’uomo. Una svastica con due parole. Magnifico: quelli erano di certo i nazi destroidi che Wu aveva menzionato. Sicuramente però erano bassa manovalanza. Buoni per tenere sott’occhio la situazione e per impedire ai ficcanaso occasionali di disturbare il quieto svolgersi degli affari.
Ma ovviamente, i pezzi da novanta erano altrove. Se non altro, il Pepper era davvero il nido di vipere che aveva supposto fosse, casomai le fossero servite conferme.
-Voglia seguirmi, madame.-, disse il grosso che l’aveva accolta all’ingresso. Spalancò le porte a fondo sala. Il vero Red Pepper iniziava lì. Nessun controllo documenti a quel punto, né perquisizioni. Un valletto si offrì di prenderle il cappotto. Lei sorrise. Lo gratificò di un “mercì” veramente ossequioso. L’ex portiere le fece strada sino a un tavolo. Luci basse, corpi in movimento sulla pista, due barman in smoking al bancone. Musica leggera e non assordante. Luci strobo tagliavano l’aria. Un club. Ma non come gli altri. Antonia vide.
Un tizio discuteva con un altro. Documenti e passaggi di mazzette su di un tavolo all’angolo.
Una donna allineava piano strisce di cocaina davanti a sé.
Un tizio grasso e pasciuto inspirava meth da una pipetta in cristallo.
Persino nella permissiva Amsterdam quella gente avrebbe avuto grane.
Ma non lì. Antonia sapeva che il locale era massicciamente sorvegliato e che su ogni ospite veniva fatto uno scrupoloso controllo d’identità. Il Pepper si proteggeva tramite controlli a tappeto e conoscenze in alto loco. Se non fossero stati più che sicuri della sua identità, non l’avrebbero neppure fatta entrare. Aveva saputo mantenere viva la leggenda di Antonia DuLac, baronessa viziosa. Era stata brava, ma riuscire a spingersi oltre era tutt’altro argomento.
-Questa è la zona bar. I clienti sono tenuti a pagare le consumazioni. Abbiamo un menù fornitissimo.-, spiegò l’ex portiere, -Droghe e alcoolici sono controllati per garantire qualità e impossibilità di falsi o tracciamento. Per una maggiore privacy abbiamo a disposizione i privé, a destra. Può fare richiesta al bancone. E qualora desideri svaghi di altro tipo…-, il portiere non si risparmiò un sorriso, -le stanze al piano superiore sono alloggiate per ogni necessità e gusto. Si passa da camere normali ad ambienti BDSM. Ci sono anche diversi intrattenitori o intrattenitrici disponibili. Anche per loro, può chiedere informazioni al bancone. Le uscite di sicurezza sono sui lati della sala. Le auguro una piacevole serata, madame.-. Detto ciò, il grosso svanì nell’oscurità.
Antonia sospirò, adagiandosi allo schienale. Fin lì c’era arrivata.
Il problema era continuare. Si guardò attorno. Individuò presto due “duri”, rigorosamente in smoking e con le armi celate ma sicuramente sull’uomo. Stazionavano a un tavolo. Uno scriveva appunti, l’altro osservava. Avevano auricolari e laringofoni. Organizzati.
La sorveglianza del Red Pepper non pareva dar cenni di allentamento.
Estrasse il cellulare. Tempo di contattare Poretti. Messaggistica crittografata al massimo.
“Sei dentro?”, digitò. La risposta avvenne pochi secondi dopo.
“Sono dentro. È un po’ affollato.”. Brutto segno: voleva dire che la sicurezza informatica era stretta quanto la controparte fuori dal cyberspazio. Poteva essere un problema.
“Ok. Ti troverò io.”, digitò lei. Ciò voleva dire connettere il dispositivo datole da Marco a una porta dati e inizializzare la sequenza per agevolare la violazione delle formidabili difese informatiche del locale. La cosa problematica era raggiungere una presa: poco ma sicuro non erano disponibili al pubblico. E di sicuro, solo lo staff aveva accesso alla rete privata del locale, quella che interessava Antonia e che conteneva verosimilmente i dati che le servivano.
L’ingresso alla parte riservata del locale era un altro problema: Antonia vedeva una sola uscita dalla sala salvo l’ingresso e le uscite di sicurezza: le scale per i piani superiori.
Ciò significava che, escludendo la sala d’ingresso che era parsa spartana e senza ulteriori ingressi, il suo bersaglio era da quella parte. Sospirò: alzarsi o restare?
-Signora DuLac? Posso portarle qualcosa?-, la cameriera aveva tratti e accento slavi. Abbigliamento minimal: stivali alti, corsetto color blu di prussia, minigonna e viso da sgualdrinella. I capelli biondo slavato completavano il quadro. Non era brutta e pareva che non venisse picchiata per fare quel lavoro. Il Pepper doveva pur sempre essere un locale di classe.
-La ringrazio.-, Antonia esibì il miglior sorriso che riuscì a evocare, -Gradirei del vino.Un calice di rosso. Lascio a lei la scelta della marca, purché sia di alta qualità.-, estrasse come in un gioco di prestigio la banconota che aveva preparato. Duecento euro. Più che sufficienti. La porse alla cameriera. Le loro dita si sfiorarono. La giovane sorrise, ammiccante. Probabile che fosse incaricata di intrattenere gli ospiti, oltre ad occuparsi del serivizio ai tavoli. E probabile che non le spiacessero le donne. Afferrò la banconota con gesto delicato.
-Il resto è mancia.-, aggiunse Antonia. La slava strabuzzò appena gli occhi. Un istante.
-La ringrazio signora.-, disse, servile. Antonia annuì. La guardò andare. Non era certa che mance tanto alte fossero elargite spesso. D’altronde era pur vero che non aveva ancora individuato tutti i possibili ostili in salà. I barman potevano rientrare nella categoria, visto l’abbigliamento.
Alzò lo sguardo. Le luci strobo s’intrecciavano e incrociavano a raggi laser. Giochi di luce innocenti?
Forse no. Diversioni per non attirare lo sguardo dei passanti su telecamere? Antonia furò la sala con gli occhi. Niente. Almeno all’apparenza. Il Pepper credeva nella privacy.
Il vino arrivò, portato da una giunonica bellezza dai capelli castani tagliati a caschetto.
Antonia ringraziò e prese un sorso di vino dopo una degustazione degna di un sommelier.
Camas Merlot del 2013. Annata sensazionale. Al palato era semplicemente ottimo. Socchiuse gli occhi un istante, gustandosi quel nettare. Con riverenza lo sentì scendere lungo la gola in un secondo sorso. Buonissimo. Inutile negarlo: per quanto il locale celasse trame illegali, i loro prodotti erano di prima categoria. Adagiata sulla sedia si guardò attorno nuovamente.
Notò un tizio in un angolo. Viso sfregiato, camicia scozzese. Lo riconobbe.
Hans Metzgraf, famigerato mercenario al servizio di svariate cause. La donna con cui stava parlando pareva la classica bellezza uscita da quadri e dipinti. Eppure anche lei poteva essere interessante. Antonia decise: avvicinarsi, ma non di scatto né tantomeno eccessivamente.
Si mosse piano, lentamente e fluida. Oltrepassò un uomo che si agitava piano a ritmo della musica.
Guardò verso i due. Inquadrò Metzgraf e la donna. Non meno di un istante di sguardo.
Impossibile l’avessero notata. A ogni buon pro si diresse verso la calca. Ballò per breve tempo con una donna in maschera da gatto, la quale pareva decisamente allegra a giudicare dalle risate e dall’odore di alcool. Un baccanale bello e buono, ecco cos’era.
Tornò al suo posto dopo essere andata al bagno. I servizi erano impeccabili, come il resto.
Estrasse il telefono. Digitò. Gli occhiali non erano solo per bellezza: permettevano a Poretti di ricevere immagini, come quella che aveva appena inviato tramite cellulare.
“Novità?”, chiese. La risposta dell’hacker non si fece attendere.
“Sì. Metzgraf lo conosciamo già, ma la donna…Lei è Marina D’albricco.”.
“Non mi dice nulla.”, rispose Antonia.
“Oh, è l’amante non ufficiale di un paio di politici importanti sulla scena italiana. Solo voci, nulla di certo, ma se è qui, forse ha i suoi motivi. L’Italia se la fa sotto con l’idea del Covid. Non mi sorprenderebbe se ci fosse dietro qualcosa. La D’albricco è anche azionista e gioca forte in Borsa.”.
“Cerco di scoprire di più.”, disse Antonia. Dopo breve tempo arrivò la risposta di Poretti.
“No. Non farlo. Non ora, quantomeno. Trova piuttosto una porta dati.”.
Lei annuì appena. Guardò verso Metzgraf e la D’albricco. I due parevano intenti in una conversazione scandita dalla musica. Lei aveva un calice di champagne in mano.
“A che brindate?”, si chiese Antonia. Inutile chiederselo: i due si diressero verso un privé.
Andati. Almeno per ora. Anche lei avrebbe dovuto muoversi e farlo alla svelta. Le serviva un pretesto per uscire da lì, per arrivare alla sala server. Analizzò la pista. Uomini e donne. E forse anche qualcuno che sembrava l’uno per poi rivelarsi altro. Promesse di trasgressione.
Corpi a contatto, o quasi. Se non erano palpeggiamenti e avances, poco ci mancava.
A lei serviva solo qualcuno con cui varcare quella porta. Decise.

La ragazza si chiamava Nina. Era piccola e aveva i capelli neri, lunghi. Il viso e il timbro della voce parevano collocare le sue origini tra Moldavia e Romania. Nessuna traccia di cellulite e l’abbigliamento minimale lasciava intendere che fosse lì di sua volontà, o comunque non grazie a percosse ed abbruttimento. Ovviamente: non sarebbe stata una bella pubblicità.
La ragazza vestiva solo un tanga nero in pizzo, visibile a tratti sotto la minigonna e un top che conteneva a stento i seni non esattamente piccoli. Antonia avrebbe scommesso su qualche ritocchino. Le scarpe erano col tacco. Una perfetta escort.
-Dove vuole andare signora? Vuole che io sia la sua umile schiava? Non ha che da chiedere…-, disse Nina mentre marciavano verso la porta. A ogni buon pro, Antonia le palpeggiò il sedere, stringendo appena più forte del gradevole. Nina non emise un fiato.
I guardoni potevano spettegolare: faceva tutto parte della copertura. Entrata oltre la porta, cercò telecamere. Due. Miseria.
-Voglio legarti per bene.-, sibilò all’orecchio della ragazza. Avrà avuto ventun’anni a dir tanto.
-Oh sì… Mi leghi, padrona! Abusi di me….-, l’occhio di Antonia individuò la mano di Nina, intenda a carezzarsi appena, lascivamente. Vera voglia di farsi sottomettere o mera preparazione alla recita?
Antonia decise di non scorpirlo. Salirono altre scale. Altre due telecamere.
Antonia annuì. Aveva attivato il feed automatico, dunque tutto quello che vedeva lei, lo vedeva anche Poretti. L’hacker era già al lavoro, ma penetrare le difese del Pepper avrebbe richiesto tempo, troppo. Doveva agire lei. Girò verso il bagno.
-Vado a espletare un bisogno. Non pensare neppure di andartene.-, sibilò all’indirizzo della giovane, che annuì.
-Sarò qui ad attenderla, mia padrona.-, disse con gli occhi bassi. Una slave perfetta.
Antonia riprese il cellulare appena dentro al bagno.
“Situazione?”, chiese.
“Sono quasi dentro. Le telecamere che mi hai segnalato sono tutte attive a quanto vedo. Posso disattivarle ma il nostro tempo per agire sarà comunque poco.”, fu la risposta.
“Allora non tergiversiamo. Io devo sbarazzarmi della ragazza. Merda, gli altri due, Metzgraf e la D’albricco saranno ancora giù?”, chiese più a sé che a lui.
“Posso provare a scoprirlo. In realtà credo che quest’ultima parte ci importi poco: La D’albricco dovrà rientrare in Italia e Metz la seguirà. Potrebbero incrociare il cammino di un nostro comune amico.”, replicò Poretti. Antonia annuì: era vero. Realisticamente Arlecchino aveva più possibilità d’intervento rispetto a lei. Ma ciò non la esimeva dalla ricerca d’informazioni.
“Capito. Procedo. Ci risentiamo a breve.”. Uscì dal bagno trovandosi davanti Nina, servile. La ragazza l’aspettava come la più devota delle ancelle. Entrarono in una stanza, prima Antonia, poi la schiava. Sempre prima la padrona. Nina si guardò attorno. La sala era un vero dungeon: c’era un telaio a X per appendere la slave, una serie di frustini, mordacchie e manette, morsetti per i capezzoli, diversi falli artificiali di svariate misure e altro.
-La parola di sicurezza, Padrona…?-, osò chiedere Nina. Antonia non ci pensò.
-Paris.-, disse, -Ora sta ferma, schiava.-, ingiunse. Nina parve rabbrividire mentre le mani di Antonia le slacciavano il top gettandolo a terra, sollevavano la minigonna e abbassavano il tanga.
Nessun’arma. Impossibile nasconderle. Antonia accarezzò la schiena della slave fino alle reni.
Era bella. E condannata. Sapeva che il Pepper non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
Anche se lei non aveva colpa, sarebbe stata punita per il solo fatto di essere stata presente.
Ma se Antonia non avesse fatto nulla, le morti sarebbero state molte di più. Agì.
Passò un braccio attorno al collo della slave. -Oh… sì! Mi punisca, padrona…-.
La ragazza si toccava piano, incurante inizialmente del fatto che Antonia stava effettivamente agendo con l’intenzione di bloccarle le vie respiratorie. Quando poi se ne rese conto fece per dire la parola di sicurezza. L’altra mano di Antonia le tappò la bocca e la rossa procedette sino a sentirla afflosciarsi tra le sue braccia. Controllò il battito. Era viva. Le strappò il tanga.
Non proprio ideale per quel che aveva in mente, ma era l’unica. Legò i polsi con quello e le gambe con un lembo della minigonna fatta a pezzi. Usò il resto dell’indumento per tapparle la bocca. Congiunse i due legacci con un ultimo nodo mediano, collocando infine la giovane nell’armadio in cui erano stivati vari capi in pelle e latex.
Quella era fatta. Ora toccava a lei. Iniziò dalla scarpe. Pigiò un inserto rimuovendo i tacchi.
Meglio. Non si era mai trovata con quei cosi. Prese il telefono.
“Sono dentro.”, disse.
“Allora ci siamo. Telecamere in loop per quaranta secondi in tre, due uno”.
“Vado.”, disse lei.

Si mosse rapida tra i corridoi. Le porte parevano tutte uguali, salvo una: quella con scritto “privato”. Vi arrivò cercando di capire se fosse chiusa. Chiusa. Merda.
Sentì passi, si defilò dietro l’angolo. Un uomo uscì. Tizio grosso, ma senza smoking. Altro tatuaggio da nazista, ma niente armi. Fine turno? Probabile. Antonia gli fu addosso appena l’uomo ebbe svoltato l’angolo. Colpo alla nuca. K.O. Prese la chiave e un tesserino.
Venti secondi. Aprì la porta, trascinandosi dietro l’uomo. Non aveva tempo. Non più. Chiuse dietro di sé. Era nella sala di sorveglianza. Le telecamere non erano più in loop. Tempismo perfetto.
“Porta dati raggiunta.”, digitò collegando alla porta USB la chiavetta. Il dispositivo era la punta di lancia dell’arsenale informatico di Marco Poretti: grazie a quello l’hacker aveva libero accesso al computer cui era connesso. Un minuto, due di silenzio. Poi una scritta.
“Sono dentro. Ho diversi files. Industriali, religiosi, politici. Tutta l’Amsterdam che conta sembra trovarsi qui.”. Antonia annuì. Le porcate evidentemente piacevano a tutti.
“Qualcosa sui nostri amici?”, chiese. Il tempo era tiranno. Non si poteva sapere quando e se qualcuno sarebbe intervenuto.
“Armand Van Straat. È il gestore del Pepper e il capo del gruppo di skinhead che gestisce questo posto e il traffico di droga.”, rispose Poretti.
“Immagino che non sia qui, oggi.”, disse Antonia.
“Non oggi. Ma chiaramente, ha una vita e un indirizzo, come tutti. Si tratta solo di trovarlo.”.
Lei annuì. Quel che potevano fare l’avevano fatto.
“Disconnetto e andiamo.”, concluse lei. Non erano passati più di otto minuti.
“Aspetta. Sta succedendo qualcosa.”, comunicò Poretti.
La rossa alzò lo sguardo sui monitor. Merda.
Il club stava venendo evacuato. Rapidamente. E delle guardie stavano arrivando lì.
“Evidentemente il grosso che ho steso non ha risposto a un appello.”, pensò Antonia.
Ochieggiò la pistola sulla scrivania. Browning HP. Roba tosta. La prese. Controllò colpo e caricatore. Tutto apposto. Tolse la sicura e uscì.
Scendere era impossibile, doveva nascondersi. S’infilò in una camera, trovandosi davanti un travestito che ammutolì alla vista della pistola. Lo neutralizzò con una mossa rapida e non letale.
Finestra. La apre. Nessun cornicione. Potrebbe lanciarsi? No. Cerca altro. Prese d’aria, condotti.
Niente. In trappola, ecco cos’é. Poi lo vede. Il balcone vicino. Da una finestra all’altra ci sono solo due metri. Decisione fulminea. Si getta verso il balcone. Le mani trovano la presa, stringono allo spasmo, le unghie si rompono. Ma lei non molla: getta una gamba oltre il bordo, guadagna la sicurezza. La pistola non le sarà d’aiuto, pensa. Sbaglia: se lo trova davanti. Uno dei cerberi del locale. Stupore da parte dell’uomo ma non da Antonia: allinea mirino e tacca e spara.
I due colpi arrivano al bersaglio senza problemi. Doppio colpo a centro massa. L’uomo crolla con uno schizzo rosso. Peccato che ora tutti gli altri sanno senz’ombra di dubbio che qualcosa non va.
Deve levarsi di torno. In fretta. Sotto di lei, un altro balcone. Salta. Atterra. Le caviglie protestano.
Deve andare avanti. Deve. Perché deve continuare a combattere. Le grida ora sono anche in strada. Qualcuno guarda in alto, sirene e urla. Pessima serata per il Red Pepper!
Si guarda attorno. Deve sparire alla svelta. Decide di giocarsela all’interno: corre verso la porta e apre. Si trova davanti un belloccio con i capelli rasati a zero. Sorpresa totale.
Spara ad alzo zero, distanza ravvicinata. Tre proiettili tra torace e addome. Lo oltrepassa. Scivola, inciampa. Asseconda la caduta in una rotolata in avanti. Qualcuno urla alle sue spalle.
Qualcuno spara. Un pezzo d’intonaco le esplode a poca distanza dal viso. Si getta verso le scale. L’altra guardia in arrivo si becca un calcio nei proverbiali gioielli e un colpo secco al cranio con la pistola impugnata a martello. Steso. Uscita! Le serve un uscita!
Si getta verso una porta laterale a metà scala. Spogliatoio delle ragazze “disponibili”. Urla e pianti.
Una biondina seminuda ha una crisi isterica. Un’asiatica si getta a terra senza esitare, coprendosi la testa con le mani. Antonia passa oltre, a fulmine. Vede la finestra. Sotto cosa c’è? I canali.
Spara alla finestra. Tre colpi. Poi la varca e si getta ad angelo verso i canali.
Freddo. Polare. L’impatto è come un pugno in faccia da dio stesso.
La pistola affonda. La lascia affondare. Si mette a nuotare. Stile impeccabile, asseconda la corrente. Riemerge molto, molto più in là, sfruttando una scaletta.
-Signora…?-, chiede qualcuno. Lei passa oltre. Non vuole attirare altra attenzione.
-Sto bene. Sto bene. Niente ambulanza.-, dice. Difficile che le credano.
Il tailleur è uno straccio intriso di acqua sporca, sudore e forse sangue. Una fortuna che nessuno stia guardando alla luce dei lampioni. Le scarpe sono fradice ma nulla di che. Le fanno male le caviglie, ma sa che non è una storta. È ancora in grado di camminare. Ha la faccia arrossata. Si passa una mano sul viso. Sangue? No. O almeno non troppo. Ha avuto fortuna.
O forse l’acqua l’ha lavata di ogni segno compromettente. In ogni caso fa un freddo boia.
Raggiunge il cellulare. Miracolosamente è attivo. Chiama Wu Ming. Deve farsi recuperare.
E deve fare il punto della situazione.

-Ma bene! Bel lavoro!-, esplose il Fixer vedendola rientrare. A riportarla a casa è stato suo nipote, con un furgone e dopo un lungo giro per evitare pedinatori, -Discrezione e tutto. Proprio come da copione!-, continuò furente mentre preparava un bicchiere di thé verde caldo e una porzione di noodles preconfezionati scaldati a microonde. Antonia si era cambiata alla meglio nel van.
I vestiti di Liu, il nipote di Wu le stavano larghi. Teneva i pantaloni con la mano per evitare che cadessero. Il dispositivo di Poretti era andato, rovinato dall’acqua. Miracolosamente il cellulare teneva botta. Ovviamente il vecchio l’aveva già messo all’asciutto.
-Di sopra ci sono dei vestiti della tua taglia. Vatti a fare una doccia, poi facciamo il punto.-, tagliò corto il cinese. Antonia eseguì, rapidamente. Non voleva indugiare oltre.
-Allora, spiegami un po’ cos’è andato storto.-, disse il fixer.
-Sorveglianza. Molto stretta.-, rispose lei. Dopo una doccia e qualche sorso di thé sentiva le forze tornarle prepotentemente, -Ho dovuto fuggire in malomodo.-.
-Già. La notizia è su diversi notiziari. Sparatoria al Pepper, tre morti… Nessuna dichiarazione ufficiale. Nessuna rivendicazione dai terroristi. Dimmi almeno che ne è valsa la pena.-.
Wu Ming era agitato. Timoroso di essere scoperto, avrebbe detto Antonia, ma la verità era diversa: più che altro, il cinese pareva adirato per la scarsa professionalità della rossa. Impossibile spiegargli che anche il miglior piano di battaglia può andare a puttane.
-Senti. Ho un nome: Armand van Straat. Ti dice nulla?-, chiese con aria veramente irritata.
-Van Straat? Sì. Mi dice qualcosa. Purtroppo. È un politico di spessore. Di destra, guardacaso, ma pare un moderato. Non ce lo vedo a fare lega coi nazi.-, disse il vecchio.
-A volte si trovano strani compagni di letto, no?-, fece Antonia. Il cinese le rivolse un’occhiata.
Lei invece ripensò ad altre stranezze. DI tempi passati.

Attraversarono Sidney talmente in fretta da sembrare comete. Tikal guidava rapidamente, senza parlare né guardarla. Antonia si era domandata se avesse sbagliato. Il terrore la attanagliava.
Alla fine, quando avevano parcheggiato all’interno del perimetro dell’abitazione di Tikal, la rossa aveva dovuto far violenza a sé stessa per non buttarsi ai piedi dell’australiana.
Sottomissione? Sì, poteva essere. Lei voleva Tikal, anche se ciò avesse significato diventarne il trastullo. La voleva, punto e basta. Era dalla sua cotta per Phuong che non aveva più visto qualcuno così magneticamente sensuale, che non aveva provato quel desiderio.
Fu solo quando varcarono la soglia di casa che Antonia ebbe le risposte.
Il bacio da parte di Tikal fu feroce proprio come quello precedente, avvenuto nell’Outback.
Antonia sentì il desiderio esplodere a ondate. Quasi non si accorse di cadere in ginocchio davanti a quella donna. Tikal sorrise sollevando il vestito. Sotto non c’era nulla. Audace e provocatoria.
Antonia si accorse appena di una leggera, irresistibile pressione sulla nuca. Tikal le spinse il sesso contro il viso. Non era indifferente, la rossa lo vedeva. La lingua di Antonia entrò tra le pieghe dell’intimità dell’australiana. La pressione sulla sua testa aumentò mentre la giovane sfruttava ogni sua abilità orale appresa nel tempo con Phuong per compiacere quella donna.
Quando Tikal la fece alzare e la spogliò dopo essersi liberata dei propri abiti, Antonia seppe che stava per vivere una notte trasgressiva come nessun’altra mai. Si diedero piacere reciprocamente per ore, facendo pause, poi ricominciando. Tikal le fece provare nuove sensazioni e la iniziò all’uso del vibratore. Non fu una notte, ma un’estasi in cui il tempo parve perdere di significato.
Di fatto, fu la prima di molte.

-Strani compagni di letto un cavolo!-, proruppe Wu Ming, -Straat è amico di un tale Ludwig, tedesco, quarantasei anni. Un nazi beneducato. Straat è il politico, Ludwig ha altri ruoli, ma non si capisce quali. Si sposta spesso, l’amico. Van Straat è stato visto in sua compagnia in sole tre occasioni, quest’anno.-. Antonia annuì. Possibile che Ludwig fosse l’uomo dei traffici? Che fosse la mente dietro alla droga che girava da Amsterdam e Bruxelles a gran parte dell’Europa Occidentale? Sicuramente era uno dei membri della cupola: le tracce che aveva raccolto durante la sua operazione in Belgio portavano a una figura che poteva essere lui. Van Straat doveva fare da basista, o agevolare i traffici di Ludwig. Semplice.
-Questo Ludwig sembra noto alle autorità…-, mormorò pensierosa.
-Non realmente. Ha avuto un paio di denunce. Tutto risolto alla svelta. Il suo nome spunta spesso furoi quando si parla di vecchi diavoli di altri tempi. La sua famiglia ne ha viste parecchie: suo nonno servì sul fronte occidentale della Seconda Guerra, suo zio e suo padre militarono con Schramme in Africa. Suo padre fu arrestato in Germania per le sue posizioni estreme e la propaganda nazista.-, disse Wu, -Mi sono potuto documentare abbastanza bene, anche grazie al tuo socio, Poretti.-. Antonia annuì. L’hacker aveva lavorato bene davvero.
-Quindi prendiamo Straat e lo convinciamo gentilmente a chiamare Ludwig?-, chiese.
-Altroché. Ho un paio di amici, sai. Gente che non vede di buon occhio i razzisti.-, disse Wu Ming.
-Triadi?-, chiese Antonia. Wu Ming scosse il capo.
-Non sono abbastanza importante, ma i miei amici vogliono comunque evitare che questi affari continuino.-, disse. La rossa ne trasse una possibile deduzione.
La Cina aveva una serie di possibili agenti. Il Goanbu, acronimo per la sigla che contraddistingueva il dipartimento per gli affari esteri cinesi nonché una branca dei Servizi di Pechino, era indubbiamente attivo anche in Olanda. Non era nulla di sorprendente.
Ad Antonia non importava realmente: se gli amici di Wu Ming potevano aiutarla a sistemare quel bastardo di Straat, tanto bastava.

L’organizzazione del colpo fu semplice: Armand Van Straat aveva una villa, poco fuori Amsterdam. Una piacevole residenza fuori città. Antonia condusse un primo sopralluogo. Poche guardie, nessuna particolare misura precauzionale. Van Straat usciva la mattina e tornava la sera.
Una routine ferrea. Era accompagnato da un autista, che probabilmente fungeva anche da guardia del corpo. Impegni politici a parte, Armand viveva bene la sua vita: golf e cene di lusso. Escort e locali. Niente moglie e una figlia che studiava negli Stati Uniti. Un classico.
L’idea fu quindi di colpire subito dopo il suo rientro a casa. Antonia lasciò passare un paio di giorni, affinché il casino del Red Pepper si placasse. Anche se Poretti non aveva lasciato tracce, era bene presupporre che Armand van Straat non fosse un tale sprovveduto. Si presentò ai funerali delle vittime, strinse la mano alle famiglie, si occupò personalmente di elargire loro donazioni….
Il perfetto gestore. Attento e curato. La cittadinanza non coinvolta gli si strinse intorno.
Antonia attese, cercando di non pensare al fatto che Armand van Straat potesse essere una persona rispettabile, non fosse stato per i suoi traffici e le sue frequentazioni. Alla fine, quelli che dividevano il mondo in bianco e nero erano ottusi: la sua esperienza di vita le aveva insegnato che non c’erano un bene supremo o un male supremo. Semplicemente la gente faceva ciò che riteneva giusto o conveniente. Nessuno era totalmente colpevole o totalmente innocente: per Antonia si trattava semplicemente di dove si stabiliva il confine. Di cosa si era disposti a fare per ottenere qualcosa. Il problema di molta gente, era che non ci volevano arrivare: si ostinavano a credere nella loro assurda idea di un mondo diviso tra buoni e cattivi. Stronzate.
Antonia passò quei giorni a montare e oliare le armi. Wu Ming le aveva procurato anche una mitraglietta silenziata. Una mini-uzi israeliana e due caricatori, oltre a un giubbotto in kevlar.
Aveva fatto un ottimo lavoro. Il resto stava a lei.
La sera in cui agì, Antonia era carica come una molla tenuta sotto pressione. Aveva già eseguito una prima perlustrazione, memorizzando routine e possibili turni di guardia. Aveva insistito per andare da sola, alla fine, sostenendo che i rinforzi di Wu sarebbero serviti dopo, contro Ludwig. Dopo aver parcheggiato l’auto al di fuori della strada, aveva indossato il giubbotto, preso le armi e si era mossa verso la casa. Il suo piano era molto semplice: trovare Armand van Straat e torchiarlo finché non avesse parlato. Nessuno spazio per pietismi o misericordie.
Il loro era un mondo implacabile, dove i forti predano i deboli. I corrotti trovavano sempre un modo per cavarsela a buon mercato, complice una giustizia spesso troppo sensibile al denaro e l’incapacità della massa di comprendere quanto realmente il loro parere non contasse nulla.
Alla fine, movimenti di protesta, il nuovo corso del politically correct e tutte quelle idiozie erano pura apparenza: i razzisti restavano razzisti, anche se apparivano cambiati. La droga continuava a circolare, anche se tutti parevano innocenti. E i deboli continuavano a patire. A meno che qualcuno non avesse agito risolutamente e con la determinazione di fare le cose per bene.
Antonia superò un cespuglio ben curato. Individuò con lo sguardo una guardia. Uomo, trentasei anni, imbracciava una corta PS90, versione civile della più nota P90. Poteva essere un problema.
Non era inaspettato, però: Antonia sapeva che era una ronda di routine.
Attese semplicemente che l’uomo, sagoma appena distinguibile nel buio finisse il giro e comunicasse al laringofono qualcosa. Un rapporto negativo dunque. Attese che chiudesse la comunicazione. Puntò e sparò appena l’uomo si preparò a muoversi.
Il singolo colpo che aveva sparato arrivò preciso e perfetto alla testa. L’uomo andò giù senza un gemito né un urlo. Perfetto. Antonia si mosse, arma imbracciata, presa media, passo rapido ma furtivo. Arrivò al muro, accanto al corpo. Perquisì l’uomo. Prese l’auricolare e se lo infilò.
Almeno avrebbe saputo quando iniziare a preoccuparsi. Ma per ora tutto tranquillo. Tutto taceva.
Si avvicinò alla porta della veranda. La casa era una villa in stile moderno. Aprì la portafinestra.
Nessuno all’interno della sala. Van Straat doveva essere nel suo ufficio, intento a gestire le sue attività, lecite o meno. La sala era un capolavoro di arredamento moderno ed essenziale.
Antonia avanzò ancora, arma in pugno, frugando gli angoli con lo sguardo. Telecamere? Nessuna.
Ottimo. Superò una porta. Colse un movimento. Van Straat? O un altro dei suoi. Avanzò ancora.
Entrò nella sala in cui la figura era rientrata. Riconobbe il profilo. Van Straat. Le dava le spalle.
-Non una mossa, Armand.-, disse in inglese. L’uomo non rispose, non subito. Fece girare la sedia, guardandola in viso. Antonia fu colpita: Van Straat era un cinquantenne con un viso stranamente privo di segni dell’età, spalle e torace ampi e occhi chiari. Solo i capelli ingrigiti ne denunciavano l’età. Indossava una camicia e un paio di pantaloni eleganti. Appena rientrato dal lavoro.
-Deduco che tu sei quella che ha sconquassato il mio locale.-, disse soltanto. Era calmo.
-Deduci bene. E ora voglio qualche risposta…-, rispose Antonia. Abbassò l’arma sparando al pavimento. Van Straat la guardò, senza timore. Lei annuì. Doveva passare alle maniere forti.
Si avvicinò di un passo, ma sentì del movimento dietro di sé. Si voltò. La donna bionda dai tratti tenutonici che le era comparsa alle spalle le piantò una siringa nel collo. Premette lo stantuffo.
La rossa cercò di opporsi, ma fu inutile: venne risucchiata nel buio.
Si era fatta fregare come un’idiota, questo pensò.
Non che fosse stata la prima volta che qualcuno la fregava…

Tikal Withefang divenne una maestra di vita per Antonia, di giorno. Ma la notte…
La notte i ruoli si fondevano in un’anarchia goduriosa, dove non c’erano più regole o limiti.
Droghe, sesso, alcool, eccesso a tutto tondo. Antonia arrivò ad amare quella vita.
Anche Tikal pareva compiaciuta: impossibile fingesse. Passavano i giorni tra incarichi lavorativi e le notti tra le coltri della camera da letto dell’australiana, o stese a terra sotto le stelle.
Non coinvolgevano altre persone: avrebbbero guastato tutto.
Tuttavia, anche quel tempo dovette finire: Jacques DuLac richiamò a sé la figlia.
La notte di addio tra le due donne fu sfrenata, coronamento di una giornata oltremodo impegnativa e intensa. Fu alle prime luci dell’alba che, sfinita, Tikal crolllò dal sonno. Ed Antonia si trovò da sola in quella casa, mentre la sua amante scivolava tra le braccia di Morfeo. Poté ammirare il gusto della sua partner nell’arredamento, ma soprattutto, trovò il computer acceso.
Salvaschermo e password. Non osò tentare. Notò però un’agenda aperta accanto. Dati. Su traffici e armi. Vi diede una scorsa. Nulla di nuovo.
Notò però una dicitura. GIA. Antonia s’incupì. Tikal li aveva foraggiati. Il GIA, Gruppo Islamico Armato, aveva effettuato il dirottamento dell’Air France 8969. Le vittime erano state diverse, anche se il grosso degli ostaggi era stato salvato, non senza però lasciare una macchia indelebile, una ferita per tutta la Francia.
“Perché?”, si chiese. Quella donna vendeva armi, lo sapeva, ma aveva creduto lo facesse per gli interessi della Francia, del mondo libero. Così aveva creduto e lei glielo aveva lasciato credere.
Si sentì male, tradita. Il sapore di lei sulle sue labbra le parve disgustoso. Andò in bagno e vomitò.
Ripartì per la Francia il giorno dopo. Suo padre la accolse all’aeroporto Charles de Gaulle.
Nessuna parola né niente. Solo silenzio. E Antonia incominciò, nei mesi successivi, ad agire per ordine suo padre. Era divenuta quello: un’assassina. Esecutrice.
Eliminò trafficanti d’armi e di droga. Rapidamente e senza sbavature.
La sua sorpresa fu che Tikal Withefang non la contattò mai più. Col tempo, si accorse, non le mancava, come non le mancavano le droghe o l’alcool.
Ormai aveva superato la trentina da un po’ eppure restava una bellissima femmina.
I pretendenti maschi non mancavano ma lei li schivava. Le donne erano invece le benvenute nel suo talamo. E per lungo tempo non si fece altre domande, tranquillizzata dalle dichiarazioni di suo padre sulla fine del suo rapporto di lavoro con Tikal.
Finché la verità non tornò, come un boomerang, a colpirla di nuovo con forza inimmaginabile.
Minando un’ennesima volta ogni certezza, nel modo più crudele e subdolo.

L’acqua le arrivò addosso. Improvvisa e violenta. Antonia tossì, sputò, centrata in piena faccia.
-Svegliati e sorgi, troia.-, disse qualcuno. Lei aprì gli occhi. Le ci volle un attimo per mettere a fuoco numerosi dettagli della situazione. Il primo era il viso dell’uomo che aveva davanti, un barbuto dai tratti slavi, a torso nudo, tatuaggi da nazi sul petto e occhi spiritati.
Il secondo dettaglio fu una sequela di informazioni. Non era più nella villa di Straat, almeno, non in una sala che poteva dirsi parte della villa vera e propria. Sentiva freddo sulla pelle e le pareti suggerivano una cella, sotterranea probabilmente. Era nuda e legata a un tavolo, gambe divaricate e mani legate sopra la testa. Completamente esposta. Posizione umiliante oltremisura.
Il ceffone successivo le girò la testa verso destra. Sputò bava rossastra.
-Ho detto…-, la voce del barbuto fu interrotta da un’altra, più pacata, fredda. Più controllata.
-Basta così, Malko.-, disse Armand van Straat, -Credo che sia sveglia.-.
-Van Straat…-, mormorò Antonia. Le girava la testa. Lo sberlone e il sedativo, senza dubbio.
Accoppiata vincente per il baratro venturo… Il soffitto e la stanza erano rischiarate da una lampadina nuda. La rossa vide, o percepì anche un’altra figura, la bionda di poc’anzi.
La bionda che l’aveva catturata. Tutti lì a godersi la sua tortura? Probabile.
-Sei stata molto abile. Neutralizzare la mia guardia, infiltrarti al Pepper…-, Van Straat si avvicinò entrando nel suo campo visivo, -Il tutto con addestramento notevole ed equipaggiamento non tracciabile. Molto capace. Ma ora sei qui.-, un sogghignò distorse il viso dell’uomo. La mano di van Straat le strinse il seno destro. Antonia lo fissò con odio purissimo.
-Nessuno ti salverà. Nessuno sa dove sei. Malko sarebbe più che propenso a ucciderti. E anche Wilma ci terrebbe. Magari dopo averti fatta soffrire per bene, magari per estorcerti ogni singola informazione. Ma io…-, Van Straat si concesse un sorriso clemente, ritirando la mano.
-Io sono una persona clemente e civile. Credo fermamente che tu sia più che consapevole di tutto questo. Credo che tu sia anche intelligente e che tu sappia dove sta il tuo interesse.-, lo sguardo dell’uomo scivolò sul corpo di Antonia. La donna si costrinse a non reagire quando l’uomo abbassò il viso al suo orecchio.
-Dimmi tutto quello che sai. Chi sei, chi ti manda, con chi lavori, e potremmo parlare di una possibilità interessante, quella di non morire urlando.-, disse.
-Capo, questa puttana non dirà un cazzo.-, disse Malko in tedesco. Fu ignorato.
Antonia rimase zitta. Saggiò appena i nodi. Fottutamente stretti. Gli stronzi avevano lavorato bene e per ora la sola opzione era sopportare, o spingerli a fare un errore. Di morire non ne aveva proprio voglia, ma si rendeva conto che la situazione era bruttissima.
-Basterebbe poco. Cominciamo dal tuo nome, se ti va?-, Armand van Straat fece un altro sorriso telegenico. Osceno. La bionda sbadigliò appena, appoggiata al muro, indossava un vestito da segretaria. L’amante di Van Straat? Non solo, a giudicare dagli strumenti che aveva accanto e dal coltello che aveva preso a fissare con interesse. Il barbuto, Malko, pareva solo un primate, apparentemente incapace di rinunciare all’idea di infliggere sofferenza. Un classico.
-Bene. Vedo che la cooperazione è esclusa. Peccato. Avrebbe potuto essere l’inizio di qualcosa d’interessante…-, detti ciò, Van Straat si voltò verso il duo, -Pensateci voi.-.
Lasciò la stanza chiudendo la pesante porta in legno. Antonia si accorse di sudare.
Tortura. Qualcosa che aveva subito? Oh, pochissimo, in realtà. Ma sapeva come cavarsela.
Tikal le aveva insegnato anche quello, almeno in parte. Per riflesso.
Il barbuto sorrise. I suoi calzoni non nascondevano il sesso eretto.
-Ora ci divertiamo.-, disse leccandosi le labbra. Partì con un altro manrovescio. Dolore. Previsto.
Il colpo di ritorno non fu nulla di sorprendente. Antonia sentì sangue in bocca. Nulla di nuovo.
Resistere e fuggire. Resistere e fuggire. Doveva resistere e fuggire. Per continuare a battersi.
Le percosse continuarono. Metodiche, scentifiche. Brutali. -Basta.-, disse una voce.
La donna. Wilma. Si staccò dal muro con una smorfia.
-Non serve a nulla pestarla, Malko.-, disse con calma mentre camminava. Si avvicinò al bestione.
-Parlerà. Devi solo darmi tempo.-, rispose lui. Lei sorrise. Gli accarezzò appena il petto, l’addome.
La mano scese sino a stringere il sesso turgido attraverso i calzoni. Malko gemette.
-Tesoro, lo so che vuoi farle male. Ma rischi solo di farci perdere tempo.-, sussurrò appena.
-Fai tu…-, gracchiò Malko, evidentemente compiaciuto all’idea.
-No no, mio caro. Facciamo noi.-, la mano di Wilma estrasse il membro dell’uomo.
-Cosa ne dici? Ti va?-, chiese la bionda all’indirizzo di Antonia. Stringeva il sesso di Malko.
-Ti sfondo, puttana.-, sibilò Malko. Antonia si sforzò di restare impassibile. Non fu facile: l’idea di essere lordata da quell’essere le provocava ribrezzo. La bionda sorrise.
-Forse preferisci altro. Facciamo così. Ti darò tre possibilità per parlare.-, disse. Si avvicinò ad Antonia, passando una mano sul seno e sull’addome della prigioniera, fermandosi sul monte di Venere di lei, -Tre possibilità. Tu taci, io taglio.-. disse. Il coltello nell’altra mano si appoggiò appena alla spalla di Antonia. Punto sensibile, ma non troppo. Ottima tecnica per iniziare.
-Il tuo nome.-, disse Wilma. Antonia sospirò. Doveva guadagnare tempo. Il nome non era che l’antipasto. Poteva concederglielo. Poco ma sicuro, Wu aveva iniziato a cercarla.
-Marie.-, disse. La bionda sorrise appena, condiscendente.
-Ovviamente. Bene, “Marie”, ritengo che il nome non sia importante. M’interessa molto di più chi ti ha fornito le informazioni.-. Antonia la fissò, senza parlare. Un minuto. Due. Poi la bionda annuì.
E fece pressione con la lama, affondando nella carne di Antonia. Nessun danno a muscoli o nervi.
Nessun’arteria o vena. Incurante dei lamenti della prigioniera, la bionda estrasse e ripulì il coltello.
Antonia sentì un tale dolore alla spalla da sentirsi dilaniata. Anche il viso faceva male. Vide Wilma arroventare il coltello con una fiamma ossidrica. Involontariamente rabbrividì.
-Ora stai ferma…-, la voce di Wilma tradiva un piacere non dissimulato. Malko si sfiorò il sesso.
Poi la donna cauterizzò la ferita. E l’urlo della rossa fu lacerante. Rischiò di perdere i sensi. La successiva secchiata d’acqua le evitò di svenire.
-Non andartene, stronzetta. Ora viene il bello.-, le ingiunse Malko.
-Ti ammazzerò, stronzo!-, ringhiò lei. Wilma sorrise.
-Una vera valchiria.-, disse, -Mi piace.-, spostò il coltello sul viso di Antonia. Guancia destra.
-Sarebbe un peccato se finissi sfigurata. Potrei anche ripensarci, ma dovresti dirmi chi ti manda…-, la lama rimase sospesa a quelle parole. Muta minaccia.
-Questa qui non ti dice un cazzo, Wilma. Fammela scopare che poi la sciogliamo nell’acido.-, disse Malko. La donna si voltò verso di lui, furente.
-Il capo vuole che la spremiamo. E noi la spremeremo.-, disse.
-Non abbiamo tutto il tempo. La roba di Ludwig sta arrivando.-, ribatté Malko.
Col membro di fuori pareva solo comico mentre cercava di pensare. Wilma sorrise. Gli accarezzò il viso, prima di scendere a germirgli il membro e masturbarlo piano.
-Lo so. Saremo puntuali. Dammi solo altri due tentativi, poi ti lascerò divertirti.-, disse.
Malko gongolò. E Wilma si rivolse ad Antonia.
-Allora?-, chiese riposizionando il sul lato destro del naso della rossa, -Con chi lavori?-.
-Lavoro da sola, troia.-, ribatté Antonia. Poteva permetterselo, anche perché era vero.
-Ah-ah. Da sola, eh? Io credo di no. Credo che tu menta.-, il coltello si mosse, implacabile. Si spostò sotto il seno, disegnando taglietti piccolissimi, righe sottili, arabeschi di dolore.
-Credo che tu abbia almeno un basista ad Amsterdam. Uno bravo, capace di fornirti armi ed informazioni. Credo che sia uno poco noto, uno che è riuscito a sfuggire ai nostri contatti.-.
Brutta cosa: la stronza aveva intuito qualcosa. Antonia aveva lasciato trasparire qualcosa? Forse.
Male, molto male. Era così che s’iniziava a cedere. Non confessando, ma tradendosi a dispetto dei propri migliori sforzi.
-Penso proprio che andrò a preparare un cocktail. Uno di quelli piacevoli, sai? Robetta da scioglierti la lingua per bene. Non so quanto rimarrà della tua mente, dopo una simile esperienza.-, disse Wilma con un ghigno, -Van Straat vuole risposte, e le vuole alla svelta.-.
Qualcosa era cambiato? Antonia non era in grado di dirlo. Malko sorrise.
-Posso divertirmi un po’ io con la troia?-, chiese. Wilma sorrise mentre usciva.
-Sì. Ma sbrigati.-, disse. Merda. Proprio quello che Antonia aveva temuto. Si preparò mentalmente e psicologicamente, pur sapendo che ogni sua difesa sarebbe stata futile.
-Hai capito, troietta rossa? Ora ci divertiamo.-, disse Malko. Si masturbò appena mentre palpeggiava il seno ed esplorava invadente l’intimità della prigioniera.
Antonia si sforzò di dissociarsi. Di diventare un oggetto. Una statua. Impossibile farlo del tutto.
Lei non si è mai concessa a un uomo. Mai. Ha accettato surrogati solo con altre donne.
Quello che sta accadendo non è stupro, è il sacrilegio supremo. Antonia sa, capisce, che nulla sarà mai più come prima. Malko la tira verso di sé, estendendola sul tavolo in legno, portando la sua vulva a livello del bordo del tavolo. Si piazza tra le sue gambe. Lei tenta di divincolarsi.
“No… No…”, pensa. Non vuole. Non intende subirlo. Ma sa che l’alternativa è cedere.
E quello la distruggerà difinitivamente. Non può farlo. Ma non può nemmeno permettere quest’oltraggio. Il dito dell’uomo le indugia tra le gambe, sonda.
-Sei secca, troia.-, dice. Sputa sulla mano, si cosparge il sesso di saliva.
-Ora ci penso io a farti bagnare.-, sibila. Si afferra il sesso e…
Spari. Improvvisi. Da sopra. Malko s’impietrisce. Si volta verso l’uscita della cella. La porta viene violentemente calciata all’interno. Altri spari. Due, tre. Colpi al centro massa. Malko viene spinto contro l’angolo dagli impatti. Urla e ordini. In francese.
Un commando in nero entra nella stanza. È una donna, Antonia lo capisce. È molto rapida ad accertarsi della situazione e altrettanto professionale a slegarla. Lascia pendere l’MP5K dalla cinghia a tracolla mentre estrae bende e garze. Fascia i tagli e disinfetta. Essenziale. Precisa.
La fissa improvvisamente e Antonia fissa lei. Per un motivo che non capisce, in un modo che non riesce davvero a comprendere, sente odore di menta. La sua mente le deve star giocando brutti scherzi, è l’unica ipotesi plausibile. Perché l’altra ipotesi è improbabile, oltre che la riprova dell’esistenza di una certa ironia da parte di dio o chi per lui.
Poi, rapida, la donna-commando si toglie il balaclava. Occhi a mandorla la fissano, pervasi di stupore e dubbio. Antonia sa che i suoi sono altrettanto colmi di emozione.
-Phuong.-, sussurra. Non riesce quasi a crederci. Alza appena una mano, debolmente.
-Antonia?-, chiede lei, riconoscendola infine. Dando voce ai dubbi, o forse alle speranze.
-Sei tu…-, sussurra Antonia. Un brivido la scuote. Febbre? Merda…
-Ti portiamo via da qui.-, dice lei. La avvolge in un telo. Antonia la lascia fare.
La sente parlare in francese. Gergo da forze speciali. GIGN. In Olanda? È qualcosa di grosso, sicuro.
-Dovremo parlare, lo sai?-, chiede l’orientale. Antonia sospira. L’ultima conversazione non è andata bene. Per niente…

Era cominciata con una chiamata a cui lei non aveva risposto e un messaggio laconico.
“Devo parlarti. È importante”. Inizialmente Antonia aveva ignorato.
Il giorno dopo le erano arrivate due chiamate e altrettanti messaggi.
“Dobbiamo vederci.”, era il messaggio che paradossalmente l’aveva colpita di più.
Antonia aveva ponderato di bloccare Phuong. Era quasi riuscita a dimenticarla e ora quella stronza ricompariva di prepotenza nella sua esistenza…
I messaggi continuavano ad arrivare, ma non avevano il tono da riconciliazione che si era aspettata. No: parevano di più degli appelli, perché lei le concedesse del tempo.
Parlare… E di cosa, poi? Dopo la fine della loro relazione, aveva semplicemente voluto dimenticare la cambogiana e farlo alla svelta. In fin dei conti la fine della loro storia era stata un bene.
Aveva avuto modo di conoscere Tikal che, nonostante i suoi traffici, le aveva insegnato a essere la donna che intendeva diventare, una cosa che Phuong non era riuscita a fare.
Passò un altro giorno. Infine Antonia decise di togliersi quella seccatura di torno.
“Vieni a questo indirizzo alle 16.40.”, aveva risposto..
L’incontro era avvenuto. Phuong era arrivata indossando un abito che ne celava la bellezza, senza trucco e con il viso indurito da un espressione che Antonia non riuscì a inquadrare.
-Volevi parlarmi. Sbrighiamola in fretta.-, aveva esordito la rossa. Non le aveva offerto che un bicchiere d’acqua, che l’altra aveva rifiutato.
-Non voglio disturbarti più del necessario.-, aveva detto Phuong. Antonia si trattenne dallo scattare. Odiava quel siparietto. Quella donna aveva distrutto la sua felicità e ora…
Ora osava preoccuparsi di disturbarla!
-Parla. E finiamola.-, aveva esortato Antonia.
-Si tratta di tuo padre.-, aveva iniziato la cambogiana. E poi…
Poi era iniziato come un mormorio nel petto, un filo rovente che, come una miccia aveva dato inizio all’esplosione. Phuong aveva parlato di una rete criminale, traffici di armi, anche per i nemici della Francia. Di corruzione in alto loco, un giro in cui anche Jacques DuLac era coinvolto.
Antonia infine era esplosa. Aveva urlato all’asiatica di uscire e non farsi mai più rivedere, oppure avrebbe ben volentieri barattato la sua libertà con la possibilità di spaccarle la faccia.
Phuong se n’era andata senza dire altro. Antonia aveva semplicemente sfogato la rabbia colpendo selvaggiamente il sacco da boxe che teneva nella cantina adibita a mini-palestra.
Solo dopo che l’ira fu sbollita però, si era concessa di pensare. Ed aveva deciso: voleva delle conferme. Ma non poteva chiederle a suo padre. Avrebbe dovuto indagare per conto suo.
Entrò nella villa di famiglia quella notte. Non fu difficile: conosceva tutto tra codici e posizione delle telecamere. Entrò nell’ufficio di suo padre. La password del computer rappresentò l’ultimo, enorme ostacolo. Ma Antonia la conosceva. Impossibile non conoscerla.
Rappresentava il ricordo di un tempo più felice, anche se forse, più ipocrita.
Digitando “Pulzella” ebbe accesso ai files di suo padre. Vagliò segreti e corrispondenza.
Tikal Withefang, Marcos Wentreub, Bao Yi… Una rete di criminali, alcuni uccisi in quei giorni.
L’elenco era lungo. Droga, armi, movimenti finanziari, manipolazioni politiche e speculazioni borsistiche, un Gotha del male noto come il Consiglio dei Sedici, di cui Tikal stessa faceva parte.
E suo padre non solo li aveva corteggiati, offrendo i suoi servigi ma li aveva anche agevolati. Sotto la facciata del rispettabile imprenditore politico, aveva autorizzato spedizioni e rifornimenti.
L’attentato al Bataclan, avvenuto nel 2015 recava anche la sua firma.
Antonia impietrì, su quella sedia non sua, in quell’ufficio che le era sempre stato proibito e che ora pareva chiudersi su di lei come un’infernale fauce pronta a divorarla.
Suo padre, l’eroe, il campione. L’uomo che lei aveva eletto a esempio. Il genitore che, a differenza di sua madre pareva non essere ipocrita…. Antonia sentì le lacrime, brucianti, scendere.
Cercò altre notizie. Su quanto in alto arrivava la corruzione. La risposta era molto in alto.
Affondava i suoi tentacoli negli Stati Uniti, ma, pur nascendovi, si era ramificata anche altrove.
Ma c’era qualcuno che la stava combattendo. Che l’avrebbe combattuta ancora. Un uomo.
Noto come il Giustiziere. Antonia navigò ancora in rete. Notizie. Morti illustri.
La notifica della morte di Tikal Withefang, notizia di solo poche ore, la scosse profondamente.
Tikal. La sua amante, la sua maestra. La sua traditrice.
Phuong, la stronza che aveva preferito un uomo a tutto il suo amore, aveva fatto crollare tutte le sue certezze. Antonia DuLac si sentì stanca. Stanca e stufa. La rabbia arrivò dopo. Furia.
Ira contro l’ipocrisia di suo padre, contro la mollezza di sua madre, contro un sistema marcio.
Contro Phuong che l’aveva tradita, contro Tikal che l’aveva ingannata e contro sé stessa.
Decise. Scaricò quanti più dati possibili. Spense il computer e ne tolse l’hard disk, ma non prima di prendere le carte di credito di riserva di suo padre. Passò il denaro su di esse a un conto cifrato a suo nome. Depositò le informazioni anonimamente, presso la Gendarmerié National.
Chiamò sua madre il mattino dopo. Poche parole. Brucianti. La verità.
Sua madre urlò, pianse, la insultò. Antonia tacque. Non c’era nulla da dire. Non c’era mai stato.
Basta con le falsità. Basta con l’ipocrisia. Basta con le debolezze.
Avrebbe trovato il Giustiziere. Lo avrebbe aiutato nella sua crociata.
Avrebbero cancellato quel cancro, una pallottola alla volta.
Suo padre fu ritrovato cadavere in una stanza d’hotel a Malaga, tre giorni dopo. Il suo intero patrimonio fu pignorato, le sue società furono passate al setaccio e smantellate.
Sua madre fu ricoverata in un istituto per malati mentali.
I suoi molti parenti, travolti dallo scandalo si eclissarono o lasciarono la Francia. La villa di famiglia divenne un’attrazione turistica, gestita da dei suoi cugini.
E Antonia DuLac, baronessa in caduta, incominciò la sua crociata.

Wu Ming non fece mistero del suo coinvolgimento. E Phuong non lavorava per il GIGN.
Antonia venne a sapere tutto ciò quando, in una casa sicura poco fuori Rotterdam.
-DGSE.-, disse Phuong, -Spionaggio al di fuori del territorio francese.-.
-Da quando vi occupate di droga?-, chiese Antonia. Si era data una lavata ed era stata curata.
Dopo un paio di antibiotici e un pasto leggero poteva dirsi apposto.
-Da quando l’Eliseo è ragionevolmente preoccupato per la situazione politica. Il Coronavirus sta per arrivarci addosso, Antonia. Sono certa che te ne sarai accorta.-, disse l’orientale.
Lei annuì. Le avvisaglie di una tempesta c’erano tutte. Ma proprio tutte.
-Quindi, anche tu e i tuoi date la caccia a Van Straat e al suo amichetto?-, chiese lei.
-Sì. Abbiamo l’ordine di sgominare il traffico. Estremo pregiudizio e nessuna estradizione. Le autorità olandesi non sono state coinvolte. Tu piuttosto…-, gli occhi della cambogiana agganciarono quelli della rossa. Non si sottrasse al confronto.
-Sto seguendo una pista. Avevi ragione, Phuong. Mio padre era marcio, e non era il solo. C’era dietro una cupola criminale che faceva spavento.-, chiarì Antonia.
-Hai detto “c’era”.-, disse un commando. Un uomo. Aveva detto il suo nome, a un certo punto.
Romould? Robert? Antonia non ricordava con precisione.
-C’era.-, annuì, -Perché un mio alleato se n’è occupato.-.
-E immagino non ci dirai chi é.-, celiò l’uomo. Il terzo membro del commando era un mediorientale. Stava graniticamente in silenzio. In attesa. Ascoltava paziente.
-Esatto.-, rispose Antonia, le braccia conserte e la postura rilassata. Wu Ming sospirò.
-Potremmo arrestarti, lo sai?-, chiese il nordafricano. -Potreste tentare.-, ribatté la rossa.
Tensione, improvvisa. Antonia sapeva che difficilmente avrebbe potuto vincere contro di loro lì.
Loro erano in tre, lei da sola. Wu Ming non si sarebbe messo in mezzo. Il fixer pensava ai fatti suoi.
-Basta così, Karim.-, s’impose Phuong, -Abbiamo ben altro a cui pensare.-.
-Van Straat.-, rientrò Antonia. La cambogiana annuì.
-Quel bastardo è riuscita a farmela. Se non fosse stato per voi…-, il commando dal nome con la R fece appena un cenno, come a invitarla a non rievocare il dolore.
-Van Straat ha lasciato Amsterdam. Si è diretto a Rotterdam, dove dovrebbe arrivare il suo carico. Ma è un uomo imprudente.-, disse Wu Ming con un sorrisetto.
-Che vorrebbe dire?-, chiese Phuong spostando lo sguardo su di lui.
-Che ogni uomo ha i suoi vizi e Van Straat non è da meno.-, disse l’asiatico.
-Mica male per un fixer.-, osservò Antonia.
-Un collaboratore dei Servizi Francesi, per la precisione. Hanno molto gentilmente preferito offrirmi una collaborazione duratura in amicizia piuttosto che rinchiudermi per vent’anni…-, precisò Wu, -Sei com’é. Ex Triadi.-. Ecco svelato l’arcano. Il cinese era stato un membro delle Triadi. Ecco perché Shaibat lo aveva conosciuto e contattato. Ed ecco perché non aveva coinvolto la malavita cinese. Tutto si chiariva.
-L’Eliseo chiude un occhio sui tuoi traffici e tu li tieni informati sul ventre molle dell’Olanda.-, riassunse il commando con la R.
-Fa comodo a tutti.-, minimizzò Wu, -Riguardo a Van Straat…-.

Il locale si chiamava Zwarte Roos, un luogo per scambisti abbastanza discreto. In passato doveva essere stato una casa patronale. Phuong e Antonia vi si recarono con Karim come supporto.
Antonia si era tagliata i capelli a caschetto, trucco volgare e tinta nera. Difficile che Van Straat non la riconoscesse, ma almeno non gli avrebbe reso facile il compito.
Shaibat invece era poco truccata, ma aveva sciolto la coda e i suoi capelli neri parevano blu alla luce fioca della sala. Karim aveva indossato una camicia e jeans. Antonia aveva optato per pantaloni jeans e una camicetta, Phuong invece si era superata con un vestito da sera aperto sulla schiena. Entrarono separati, giravano nel locale e si ritrovavano a ritmi quasi regolari. Un metodo.
Avevano individuato le uscite, le guardie e le telecamere.
E avevano individuato il bersaglio. Armand Van Straat pareva il classico riccone annoiato.
Sedeva al tavolo, calice di cristallo contenente millesimato brût da esportazione in mano e scandagliava la sala con gli occhi di chi vuole qualcosa ma non sa decidersi.
Appena uno sguardo tra Phuong e Antonia. Non esisteva che fosse la rossa ad approcciarlo.
La cambogiana sfoderò il suo sorriso più seducente e si mosse.
Karim, accanto ad Antonia, parlava con lei del più e del meno, ma nessuno dei due perdeva di vista Phuong o le guardie, neppure mentre fingevano di stuzzicarsi.
Phuong aveva con sé anche un piccolo gioiellino, un microfono inserito in una spilla.
Poterono così sentire l’intero scambio.
-Bevi da solo?-, chiese Phuong. Antonia sospirò: l’orientale non aveva perso nulla del suo fascino.
-Non credo di conoscerla, signora…-, Van Straat deragliò. Il suo sguardo si diresse tra i seni di Phuong, orgogliosamente sodi. -Linh. Linh Defruys.-, completò lei presentandosi.
-Armand van Streit.-, disse lui stringendole la mano e portandosela alle labbra. Baciò.
-Galante.-, sorrise l’asiatica. Phuong si sedette al tavolo.
Antonia si scoprì a provare un filo di tensione. A lungo si era chiesta se fosse stato quello a portare Phuong ad allontanarsi da lei. Era stato quello? Il bisogno di un membro maschile? La curiosità?
“Non le sono bastata?”, si era chiesta più volte con angosciante dubbio. Ora quel dubbio si ripresentava, nel momentomeno opportuno.
-E cosa porta un distinto gentiluomo quale lei in questo posto?-, chiese Phuong con voce suadente. Antonia vide Armand sorridere, era già quasi cotto a puntino.
-La stessa cosa che porta una splendida donna come lei in un posto come questo.-, rispose.
-Ah… Voglia di evasione?-, azzardò la cambogiana. Van Straat sorrise ancora.
-La mia è una vita stressata, signora Defruys. Ricevo molte pressioni e viene naturale cercare di alleviarle con diversi mezzi.-, disse lui. Phuong si sporse verso l’uomo.
-Capisco. Meglio di quanto lei immagini.-, disse a mezza voce, offrendogli la vista sul suo seno superbo. Antonia sospirò. Il giochetto della cambogiana la irritava, ma di interromperla manco a parlarne. La missione veniva per prima. Prese un flûte di champagne che le porse Karim.
Brindarono. Proprio come una bella coppia appena suggellata dal destino.
L’alcool era leggero, delizioso. Antonia annuì appena. Posò il flûte sul vassoio di un cameriere, insieme a una mancia sostanziosa. L’uomo mantenne l’aplomb e si dileguò con un sorriso e un ringraziamento. Karim gettò uno sguardo ad Antonia.
-Quanto gli hai dato?-, chiese con un sorrisetto.
-Oh, solo cinquecento euro.-, rispose la rossa.
-Perché? È uno spreco di soldi.-, sussurrò lui.
-Noblesse oblige, mon amì.-, rispose lei. Karim la guardò, confuso.
-Essere nobile richiede di comportarsi da nobile.-, spiegò Antonia.
-Gran bella recita. Sicuramente hai centrato l’obiettivo.-, disse lui.
Quello che Karim non sapeva, né poteva sapere, era che Antonia DuLac era di fatto nobile, d’altronde come avrebbe potuto? Era stata molto attenta a non fare trapelare nulla sul suo passato, e probabilmente anche Phuong aveva evitato di menzionarlo. Un bene.
Intanto, l’asiatica e il bastardo parlavano. Phuong sorrise ancora, in un modo languido.
-Perché non mi parli un po’ del tuo lavoro, Linh?-, chiese Armand.
-Oh, non c’è molto da dire. Sono una modella, e una sportiva.-, si schernì lei.
-Le dee non dovrebbero lavorare.-, disse lui. Phuong sorrise.
-Allora forse dovresti mostrarmi il tuo Olimpo, Armand.-. Colpo finale l’uomo sorrise.
-Le consumazioni le offro io.-, disse chiamando un cameriere per pagare. Sbrigato il pagamento, mise un braccio attorno alla vita di Phuong, la quale sorrise. La mano di Van Straat le strinse una natica. Lei sorrise. Un sorriso pregno di desiderio. Simulato? Antonia non poté fare a meno di chiederselo, di nuovo. Ma la verità era che non lo sapeva. Non era neanche sicura di volere risposte. Il dubbio era un tarlo, ma anche un riparo da verità che non voleva affrontare.
-Si muovono.-, disse a Karim. Il mediorientale agì. Porse il gomito ad Antonia. Uscirono come una coppietta. Tutto come da copione. In strada nessuno badava a loro.
Armand e Phuong fecero appena qualche passo, poi l’agente agì: incespicando appena sui tacchi, estrasse la siringa e la piantò senza soluzione di continuità nel collo di Armand.
L’uomo si afflosciò tra le sue braccia.

Tornare alla casa sicura era stato facile: viaggio rapido in auto, con Armand nel bagagliaio, legato e imbavagliato. L’autista del politico era stato neutralizzato dall’altro agente.
Armand van Straat riprese i sensi. Era legato a una sedia, con un sacco sopra la testa e nudo come un verme. Antonia lo sentì ansimare, in preda al panico. Tolse il sacco.
-Tu!-, esclamò l’uomo riconoscendola.
-Io.-, disse Antonia. Aveva insistito per essere lì con gli altri durante l’interrogatorio.
-Non potete fare questo! Ho amici potenti, vi troveranno… Siete già morti e non lo sapete!-, esclamò il politico. Antonia tacque, fu Phuong a parlare. A parte la rossa, i commando erano a viso coperto. Una loro scelta che aumentava l’intimidazione.
-Penso proprio che non sia questo il caso, Van Straat.-, disse l’asiatica.
-Sai chi sono. Allora sai anche che non me non conviene fare queste stronzate. Non uscirete dall’Olanda vivi.-, il viso dell’uomo si aprì in un ghigno, -Troverò voi e i vostri parenti. Le vostre madri, i vostri figli, tutti. Vi farò pentire di essere nati!-.
-Melodrammatico.-, disse Antonia. Si avvicinò. L’uomo la guardò. Lei gli carezzò una mano.
-In realtà la cosa è molto semplice, Van Straat. Io so che tu sei in combutta con dei trafficanti di droga. Brutta cosa per un politico farsi finanziare così, eh? Specie quando la cosa giunge a orecchie poco disposte a tollerare i traffici del tuo amico, Ludwig..-, Antonia sorrise, un sorriso da lupa.
-A tutto c’è rimedio, però. Forse non sarà ideale, ma è la tua possibilità di uscirne lontanamente bene. Tu ci dici dov’è la droga, dove arriverà, quanti uomini e quando. E noi ti permetteremo di restare vivo.-, la mano di Antonia afferrò il mignolo sinistro dell’uomo, applicando una torsione.
L’urlo di Van Straat fu assordante, la rossa non si scompose.
-In caso contrario, comincerò personalmente a mostrarti quanto posso essere creativa a livello di giochini per adulti. Mi pare che tu possa apprezzare, vero?-, chiese senza badare ai piagnistei, -E credimi, posso essere molto, molto più brava di quella tua biondina da operetta e del suo gorilla.-.
Gli occhi di Antonia agganciarono quelli di Van Straat. La donna sorrise.
-Ti lascio i prossimi cinque minuti per scegliere.-, disse alzandosi.

-Non cederà.-, Phuong aveva le braccia conserte, e l’aria scettica, -Ha troppo da perdere.-.
-Esatto. La prima cosa sarà la vita. E non solo la sua: i trafficanti di droga sanno di dover essere spietati, anche con gli alleati di lunga data.-, Antonia prese un sorso di thé, -Armand non ha molta scelta, visto che non si tratta solo di lui.-.
-Mi da il voltastomaco quel politico.-, sibilò l’agente che iniziava con la R.
-A chi non lo da? Vengono eletti da gente che si fida e poi diventano così. A che servono le dimostrazioni in piazza, la Thumberg con i suoi seguaci e tutto il resto?-, chiese Phuong.
-A niente.-, rispose Karim, -Tutte quelle vaccate sono specchi per le allodole. Il vero problema sono il potere concentrato in mano a pochi e l’illusione, peraltro molto ben architettata, della libertà.-.
Antonia non rispose. Non subito. Ne sapeva qualcosa, dell’illusione. E aveva fatto la sua scelta.
-Quindi, secondo questa logica…-, iniziò Phuong.
-Tutto il sistema è una prigione. È una guerra tra poveri continua. Lotta di classe, peccato che persino Marx e le sue idee siano finiti nel dimenticatoio: i politici sono una classe da operetta, una casta senza reale potere. A detenere il vero potere nel nostro mondo sono le banche e le industrie. Il potere politico è solo un’orpello. La democrazia è una finzione bella e buona.-, Karim scolò la lattina birra con un sorso, -Alla fine, se votare fosse davvero utile, pensate seriamente che ce lo permetterebbero?-.
-Se la pensi così, perché sei qui?-, chiese Antonia, fissando l’uomo.
-Mia madre è morta in Libano. Mio padre si è fatto due turni nella Legione Straniera per riuscire a far sì che lui, la sua nuova moglie, io e i miei fratelli avessimo una casa. I politici del Libano non sono diversi da quelli europei, solo più feroci e meno retorici, forse.-, raccontò Karim, -Io volevo fare la differenza, anche se molti non lo sapranno. Ogni trafficante che arresto, ogni terrorista che muore, ogni politico che smaschero è un passo in più, un modo per rendere il mondo migliore, nel mio piccolo. Ed è la sola cosa che mi faccia sentire coerente con me stesso. Tu, invece?-.
Antonia sospirò. Temeva sarebbe arrivato quel momento.
-Sai, nasci in una famiglia ricca, benestante, e tutti ti dicono che non devi preoccuparti, devi solo obbedire. Ma tu sai di essere diversa. Cerchi di ritagliarti i tuoi spazi, la tua libertà, le tue storie…-, gli occhi di Antonia incrociarono quelli di Phuong. Vi lessero un marasma di emozioni.
-Poi va tutto in vacca e alla fine la verità ti si palesa: il tuo benessere non è frutto di onesto lavoro, ma di trame e complotti, di morti e guerre. E decidi di porvi fine.-.
-Potevi ignorare.-, fece l’agente chiamato R, -Potevi voltare le spalle.-.
-No. Non senza voltarle a me stessa.-, ribatté lei. Lui annuì. Sorrise.
-I cinque minuti sono finiti.-, disse Phuong.

Armand Van Straat sfidò i commando con lo sguardo prima di guardare Antonia. La donna si girava per le mani un coltello. Strumento grezzo, ma adatto per iniziare.
-Voglio negoziare.-, disse Van Straat, -Voglio delle garanzie.-.
-La possibilità che i tuoi attributi maschili restino al loro posto mi sembra un buon inizio.-, fece lei.
-Ascolta bene, maledetta puttana…-, iniziò l’uomo. Antonia mosse un minaccioso passo verso di lui, lama in pugno. Gli appoggiò il coltello alla gola.
-No, ascolta tu. Abbiamo tutto quello che ci serve per darti in pasto ai lupi. La gente non la prenderà bene sapendoti in combutta con dei nazifascisti trafficanti di droga. E la prenderà ancora peggio scoprendo quanti bei traffici organizzi. Non avresti nessuno a difenderti. Persino l’ergastolo parrà molto, molto poco, per te. Ci sarà chi vorrà la pena di morte, a dispetto della nostra bella democrazia. E io personalmente sarei propensa a lasciare che accada anzi persino ad attuarla, visto che i marci come te mi danno la nausea.-, accentuò la pressione contro la gola con la lama. L’uomo boccheggiò. Ora c’era vera paura nei suoi occhi.
-Purtroppo però tu sei poco rilevante. Quindi ecco la proposta: tu ti costituirai. Racconterai di essere stato ricattato. Richiederai la protezione per i testimoni e collaborerai attivamente con l’Interpol e le amministrazioni del caso. Farai tutto questo dopo un bel mea culpa pubblico e una rapida quanto giustificata ritirata dalla vita politica. Dopodiché…-, Antonia fece un sorrisetto ironico, -Potrai tornare a goderti la tua bella vita. Potrai ricominciare ad andare in quei bei locali per scambisti e scopare come un riccio con tutto l’agio di questo mondo. Ma prima, conditio sine qua non, esigo e pretendo che tu mi dica tutto, o posso garantirti che ti farò scorpire nuovi significati della parola “sofferenza”.-.
Van Straat annuì, spezzato. Tremava e sudava. Antonia si ritrasse, fluida come una vipera.
-Va bene! Va bene!-, esclamò l’uomo piangendo.
-A voi.-, disse la rossa mentre usciva dalla stanza.

La doccia servì a lavar via anche il disgusto.Antonia vi si abbandonò senza remore.
Aveva rapidamente contattato Poretti spiegando la situazione, aggiornandolo al meglio.
Si lavò e avvolse in un asciugamano. Cortesie della casa. Si sentì meglio.
-Antonia, posso entrare?-, Phuong bussava alla porta. La rossa sospirò.
-Entra.-, disse. La cambogiana entrò, indossava dei pantaloni neri e una maglietta da allenamento.
-Dobbiamo parlare.-, esordì lei.
-Sì. Di diverse cose.-, rispose la rossa. L’orientale si sedette sul letto, accanto ad Antonia.
-Ascolta… riguardo… tutta la faccenda della nostra storia…-, iniziò Phuong. Pareva davvero faticare a parlarne. Vergogna? Senso di colpa? Dolore? O mera commiserazione?
-Non c’è molto da dire.-, disse Antonia, -È finita, no?-.
-Mi hai chiesto perché…-, replicò la cambogiana, -Onestamente… Mi spiace.-.
-Dispiace anche a me. Ma ormai è finita. Siamo andate avanti, no?-, chiese la rossa.
-Lo siamo?-, chiese Phuong, -Lo siamo davvero? Pensi che non veda i tuoi occhi, il tuo sguardo? Pensi che io sia così cieca, Antonia?-.
-No.-, ammise lei, -Non siamo andate avanti. Non del tutto. Si tenta di affogare il dolore e si fallisce. Ci si chiude all’amore perché ci ha rese deboli e si cerca di essere altro, ma… non si va avanti.-. Dirlo le era costato fatica. Phuong annuì.
-Vedi, a quell’età… credevo di sapere cosa volessi. Credevo di saperlo davvero.-, sussurrò.
-Cosa è successo dopo? Non ti sono bastata io? Non volevi… restare?-, chiese Antonia.
Il dolore di non sapere, di sospettare, era infinitamente più intenso, ora.
-Antonia… tu eri perfetta. Ma io… io volevo sapere. Volevo capire. E poi, le voci su tuo padre. Sai, le malelingue parlano e…-, sussurrò Phuong con gli occhi umidi di lacrime.
-E tu hai avuto paura?-, osò chiedere la rossa. Si accorse di avere freddo. I riscaldamenti non erano proprio al loro meglio e lei aveva su solo l’accappatoio, oltre ad essere ancora bagnata per la doccia. Però, quella situazione le ricordava molto il primo incontro con Phuong.
-Per te, Antonia. Le voci parlavano di tradimenti, di furti, di decisioni poco chiare.-, la mano della cambogiana prese la sua, piano, timorosamente. Con rispetto.
-E R.? Cosa c’entrava?-, chiese la rossa con voce incrinata. Phuong esitò.
-R… Lui mi credeva. Voleva vederci chiaro. E…-, la cambogiana abbassò gli occhi.
-E ti piaceva.-, completò Antonia. Ora anche lei aveva gli occhi umidi.
-Sì…-, sussurrò l’altra a fior di labbra. Antonia sospirò. La sentì alzarsi e uscire. In silenzio.

Il porto di Amsterdam era un luogo surreale tra casse e container e moli. Un dedalo. Antonia, Phuong e i due commando erano appostati da ore. La muta da sub impediva all’acqua di toccare la pelle ma il senso di freddo c’era comunque. Eppure, la dotazione era di prim’ordine, come tutto il resto. Pistole mitragliatrici silenziate, armi da fianco e da taglio, giubbotti in kevlar e sistemi di comunicazione.
-Visuale. Nave in attracco.-, disse Karim. Era da qualche parte, tra le boe di segnalazione.
-Corrisponde?-, la voce di Phuong tenne tutti in attesa della risposta.
-Negativo. Non è la Großmutter.-, rispose il mediorientale.
-Da me è tutto libero.-, disse l’agente col nome che iniziava per R, Robert.
-Antonia?-, chiese Phuong. La rossa scrutò tra le tenebre. Niente.
-Impossibile che quel figlio di puttana ci abbia mentito…-, mormorò.
-Calma. Siamo ancora entro i limiti di un ritardo accettabile.-, s’impose Karim.
-Vero. In più vorranno essere prudenti…-, la voce di Robert deragliò, -Movimento sul molo.-.
-Contatto visivo. Tre elementi.-, fredda la voce di Phuong, ora, -Due uomini e una donna. Armi corte e da fianco. Personale civile assente.-.
-Altro movimento. Automobile.-, riferì Karim, -È ferma. Tre uomini in discesa.-.
-ID? C’è il nostro uomo?-, chiese Antonia.
-Confermato. Ludwig è presente. Ripeto, contatto con Ludwig.-, rispose Karim.
Antonia annuì. Posto giusto, momento giusto.
-Nave in arrivo. Sembra un peschereccio. Uomini sul ponte, quattro. Ulteriori forse all’interno. Niente armi.-, disse Robert, -Identificazione positiva: è la Großmutter.-.
-Ricevuto. Ci prepariamo all’attacco. Niente prigionieri se non Ludwig. Priorità agli armati.-.
A quelle parole di Phuong, Antonia annuì e prese a nuotare piano, verso la riva.
Inquadrò l’uomo, un tizio brizzolato, panzone. Classico birraiolo, solo armato. La mitraglietta MP5 smentiva l’aria bonacciona. Antonia inquadrò. Arrivava dal suo fianco sinistro.
-Acquisito. Tango uno, armato con mitraglietta.-, disse.
-Acquisito. Tango due, Aks-74u, molo esterno.-, rispose Karim.
-Acquisito. Tango tre, fucile a pompa Franchi SPAS-12, vicino alle auto.-, Robert si fece vivo.
-Acquisito. Guidatore auto e copilota. Armamento di entrambi: pistole semiautomatiche.-.
Con Phuong, tutti erano in posizione, pronti a colpire.
-In attesa di via libera.-, sibilò Antonia. Il grasso si grattò il collo, guardandosi attorno. La rossa rimase immobile. L’oscurità le faceva gioco. Il tizio non si aspettava problemi.
-Potete ingaggiare, fuoco.-, a quelle parole si scatenò l’inferno.
Il grasso fu colpito in pieno viso. Karim liquidò il suo uomo con un colpo perfetto, Robert anche.
Phuong sparò per ultima: i proiettili ad alta velocità infransero i vetri prima di abbattere i bersagli.
I restanti trafficanti misero mano alle armi e, pur senza avere percezione diretta delle direzioni da cui l’attacco era arrivato, seppero riorganizzarsi. Antonia scattò in avanti, come anche Karim doveva star facendo. La rapidità era cruciale: guadagnare terra e chiudere la trappola.
Il tempo si dilatò. Civili ulranti e fuggi fuggi generale. Ludwig e i due pretoriani battevano il molo, cercando di capire da dove l’attacco fosse arrivato. Sulla Großmutter i trafficanti si guardavano, indecisi, così come i loro cerberi, le armi puntate verso il nulla.
-Ingaggiamo gli ostili sul ponte della nave.-, Karim fece seguire il gesto alla parola: si muoveva e sparava due colpi per poi muoversi di nuovo. Colpi ad altezza uomo. Nessun prigioniero.
Fuoco in risposta, disorganizzato e selvaggio. Antonia sparò a sua volta, più per alleviare la pressione sull’alleato che per colpire. Si riparò dietro un container, inquadrando e sparando a una donna rasata a zero che impugnava un F2000. La tipa andò giù premendo il grilletto, sparando verso l’alto, scagliando una raffica al cielo.
-Altri, di qua!-, urlò qualcuno. Altri ostili raggiungevano il campo: due uomini impugnavano le pistole. Antonia si riparò dietro al container e cambiò il caricatore.
Raffiche rabbiose si contrapposero a misurati spari silenziati. Da qualche parte, qualcuno urlò qualcosa. Uno sparo tagliò la frase a metà. La rossa si sporse e abbatté i due ostili. Libero? Sì.
-Qui Phuong. Rapporto.-, ordinò la cambogiana.
-Qui Antonia. Da me è libero.-, disse. Oltrepassò i corpi, -Convergo verso Ludwig.-.
-Qui Robert. Plancia nave libera. I ponti inferiori sono liberi. Nessun altro Tango.-.
-Karim?-, la voce dell’asiatica tradì il timore. Solo il silenzio rispose.
E poco dopo giunse lo scalpaccio. Ludwig, in fuga. Antonia lo vide chiaramente, impugnava una mitraglietta ed era seguito da due dei suoi. Si sganciava. Fuggiva.
“Non finché respiro.”, pensò Antonia. Prese a correre. Estrasse la pistola dopo aver messo in sicura il fucile. Gesti automatici, meno che un pensiero. Ludwig la vide. Sparò.
Il kevlar fermò la pallottola, ma Antonia cadde all’indietro. Perse la pistola nella caduta.
“Rialzati!”, si esortò. Il petto faceva un male boia. Si alzò. Sparò. Colse alla gamba uno dei fuggiaschi che cadde urlando. Il secondo colpo lo finì.
-Antonia?-, la voce di Phuong ora grondava timore.
-Ci sono. Ludwig è in fuga.-, riferì lei.
-No.-, corresse Phuong. La cambogiana emerse da oltre alcuni container. Sparò tre colpi che abbatterono l’altro uomo. Ludwig imprecò. Sparò in risposta. Mancò. Phuong nemmeno si scompose: sparò alle gambe. Ludwig crollò a terra.
-Ludwig è in custodia.-, disse Phuong mentre balzava sull’uomo legandogli i pollici con le manette.
Le imprecazioni in olandese lasciarono il posto al silenzio. E alla conta dei caduti.

Antonia, Robert e Phuong, con Ludwig a seguito, si riunirono sulla Großmutter. La nave era un mattatoio, ma tra i corpi, tutti riconobbero quello di Karim.
Giaceva a terra, il petto e il giubbotto squarciati da troppi impatti. Troppi nemici, anche per lui.
Phuong aveva il viso color alabastro, anche se impassibile la sua ira, il suo dolore, erano percettibili. Antonia si guardò attorno. C’erano cassoni sulla nave. Ne aprì uno. Sacchi, farina, stando alle scritte. No. Non farina. Bastò un colpo di pugnale e un esame sommario per aver conferma. -Cocaina.-, disse con tono incolore..
-Altra droga qui. Pare meta.-, disse Robert da prua.
-Rinforzi in arrivo.-, riferì Wu Ming. Il cinese aveva seguito l’intera operazione.
-Ricevuto.-, disse Phuong. Sospirò. Sferrò un calcio al prigioniero.
Ludwig gemette biascicando un insulto.
-Da dove veniva la droga?-, chiese la cambogiana.
-Dal culo di tua madre.-, sibilò Ludwig. Il pugno successivo gli fece perdere un dente.
Robert non scherzava. Afferrò il braccio del trafficante e applicò una leva.
-Ci tieni tanto a far compagnia ai tuoi amichetti, nazista di merda?-, chiese.
-Ffff-fanculo!-, riuscì a proferire Ludwig. Antonia lo fissò.
Avrebbe parlato, ma non lì e non senza metodi aggressivi. Con la polizia in arrivo, concretamente non c’era il tempo. Quello che potevano fare era portarselo dietro, e spremerlo per bene una volta in un luogo sicuro. Le sierene della polizia ululavano nella notte.
Per quando sarebbero arrivati però, loro non sarebbero più stati lì. Si volse verso Ludwig.
Inquadrò e sparò. Punto d’impatto al ginocchio della gamba integra.
-Il prossimo sarà più in alto. Da.Dove.Veniva.La.Droga?-, scandì la rossa.
-Da Malaga! Da Malaga, cazzo! Puttana!-, le imprecazioni si mischiavano ai lamenti.
-Cosa gli avreste dato in cambio?-, chiese Phuong.
-Avevamo già pagato… Sai, no… Pay-pal…-, il ghigno di Ludwig s’infranse con il successivo pugno.

-Malaga.-, disse Antonia.
-Sì. Ma questa non sarà la tua battaglia.-, chiarì Phuong.
Erano nuovamente nella casa sicura. Il corpo di Karim era stato inviato a Parigi. Sarebbe stato sepolto con tutti gli onori. Ludwig aveva parlato. Van Straat stava collaborando.
Il traffico di droga in Europa stava subendo un gran bel colpo e Antonia poteva dire conclusa la sua missione, visto che ora l’intero schema stava cadendo come un castello di carte.
L’organizzazione di Ludwig era a pezzi e quella cui faceva capo lo sarebbe stata a breve.
Anche se era solo una vittoria momentanea, era già qualcosa.
-Ludwig ha detto che hanno già pagato…-, ponderò Antonia.
-Sì. Di fatto ci sono stati alcuni pagamenti da Van Straat e Dietrich Woort, un ricco avvocato penalista olandese. Diretti a un import-export di Malaga. D’altronde, la cosa è parsa sospetta e mi sono permesso di fare alcuni controlli.-, Wu Ming estrasse il palmare.
-L’Import Export è solo di facciata, inoltre il suo azionista di maggioranza non è neppure spagnolo. È tedesco. Heinrich Schlossmeister. Famiglia teutonica, parecchio antica. Un suo avo combatté durante la cristianizzazione della Lituania.-, spiegò. Antonia annuì.
-E questa è la mia battaglia.-, disse.
-Potrebbe. Potrebbe non essere solo tua.-, replicò Phuong.
-Ti aiuteremmo, lo sai. Tu ci hai coperto le spalle sul campo. Tanto mi basta.-, concordò Robert.
-Le autorità olandesi ringraziano, sapete. Propongono persino una medaglia…-, disse Wu.
-Possono tenersela. Preferirei mille volte un bel repulisti dell’estabilishment.-, replicò Antonia.
-Già. È solo questione di tempo perché altri si facciano avanti. La lotta continua…-, sospirò Phuong.
Era vero e tutti loro lo sapevano. Wu Ming fu il primo a scuotersi.
-Beh, se vi serve un passaggio per Monaco di Baviera, perché il nostro uomo risiede lì, sarà meglio che mi dia da fare.-. Uscì.
-Antonia…-, iniziò Phuong.
-Lo so.-, rispose lei, -E apprezzo.-.
-Non è solo la tua lotta. Non sei sola. Io e Robert ci siamo, lo sai.-, disse la Cambogiana.
-È lui, vero?-, chiese Antonia. Phuong annuì. Il viso di Antonia rimase inespressivo.
-Beh, almeno l’hai scelto bene. È un bell’uomo, per quel che mi riguarda. E un buon soldato.-, disse. Si alzò. Il petto le faceva ancora male. Gli impatti erano stati belli forti.
-Antonia… Io non so cosa ci fosse tra te e Phuong ma lei…-, iniziò Robert.
-Lo so.-, rispose lei, -Lo so bene. Ed è per questo che devo andare. Lo conoscete quel detto, no?-.
-In tre si è una folla.-, rispose l’asiatica. Un sorriso triste illuminò il viso di Antonia.
-Ciò non toglie che non si possa tentare, Antonia.-, mormorò appena Phuong.
-Forse. Ma non qui. E non ora.-, la rossa marciò verso la porta, -Ho ancora un bersaglio.-.

L’addio con Phuong e Robert non fu proprio così liscio: gli occhi dell’orientale erano velati di lacrime e Robert pareva altrettanto colpito. Antonia non si pose altre domande in merito.
Aveva fatto quel che doveva. Wu Ming le aveva procurato i documenti e ciò di cui aveva bisogno.
Partì per Monaco il giorno stesso mentre i due agenti tornavano in patria a seppellire il terzo.
Poretti organizzò il trasporto e la logistica e i documenti falsi. Ma non con il bersaglio.
A lui, la donna si presentò col suo vero nome.
Il giorno seguente, Antonia si trovò davanti ad Heinrich Schlossmeister, nel suo ufficio.
L’uomo era un sessantenne dallo sguardo freddo, gli occhi simili a quelli di un rettile. Il fisico non era messo male per l’età. La ricevette con strette di mano e salamelecchi vari.
-Madame DuLac. Conoscevo suo padre, sa? Un vero peccato che i suoi affari siano stati stroncati in modo tanto brutale.-, disse quando sedettero davanti a due calici di vino.
Sulla carta, Antonia era giunta là per siglare un proficuo contratto di acquisto per un terreno sotto la gestione di Schlossmeister. La verità era ben diversa.
Dopo pochi minuti di pura conversazione affaristica, presero a parlare del resto.
-Purtroppo mio padre non mi ha mai parlato di lei. Ma conoscevo i suoi affari.-, disse Antonia.
Prese un sorso dal calice. Uno solo. S’incupì appena.
-Suo padre era un grande uomo. Ha fatto tutto ciò che poteva per il suo paese e per l’Europa.-, proclamò Schlossmeister. Antonia sorrise appena. Impossibile non notare lo sguardo dell’uomo che puntava i suoi seni. Ma andava bene così.
-Mio padre ha fatto delle scelte. Scelte che a molti possono sembrare oscure.-, disse.
-Ma non a lei, madame.-, disse Heinrich.
-No. Non a me.-, replicò Antonia. Il suo anfitrione sorbì un altro sorso.
-Io so esattamente tutto delle motivazioni che hanno spinto mio padre. Avidità, desiderio di potere, brama di venire ricordato per qualcosa, di vivere da re. Ottusa e gretta nobiltà di facciata volta a celare il putridume dell’animo.-, disse la donna. Distese le gambe bevendo un altro sorso.
-Non le permetto di mancare di rispetto a quell’uomo qui. Non ora.-, sibilò Heinrich.
-Oh, mi scuso profondamente. Mio padre era un eroe, vero? Perché solo un eroe venderebbe armi ad Al-Qaeda. Solo un eroe foraggerebbe i gruppi secessionisti della Falange Cristiana in Libano.-, fissò l’uomo con occhi che parevano in fiamme, -Solo un eroe permetterebbe a dei terroristi di colpire la sua stessa nazione.-.
-La facevo molto meno stolta, madame.-, ribatté sprezzante Heinrich.
-Ma davvero? Non mi dica. Allora forse sarà bene che io tolga il disturbo.-, si alzò con un movimento fluido ed elegante, bevendo un sorso ancora.
-Sì, penso sia il caso. Come penso anche che sia bene che lei si guardi le spalle.-, Heinrich ora la fissava con freddo odio, determinata volontà di punire.
-Pensavo che un cavaliere quale lei avrebbe colpito solo secondo le regole del duello.-, disse lei con falso disappunto. Il tedesco fece per ribattere, ma le parole gli si strozzarono in gola.
-Io non sono una nobildonna, anche se a tratti viene utile fingermi tale. Quello che lei ha bevuto con tanto gusto era il suo vino ma vi ho versato una piccola aggiunta, una correzione semplicissima che sicuramente riconoscerà. Entro pochi secondi sarà tutto finito.-, disse Antonia.
Heinrich Schlossmeister cadde riverso sulla poltrona. Cercò di afferrare qualcosa, di chiamare aiuto. Troppo lento, troppo tardi. La rossa fece appena un inchino, residuo di altri tempi.
Noblesse oblige, tributo e sberleffo. Non fu fermata da nessuno. Non c’erano guardie.
-Missione compiuta.-, disse a Poretti appena la chiamò.
-Ricevuto. Rimani in zona?-, chiese. Antonia sospirò.
Restare in Europa… Le sarebbe piaciuto? Onestamente? Non aveva una risposta.
Non ancora. Anche perché c’era un funerale a cui doveva presenziare, quello di Karim.
E poi, poi sarebbe andata avanti. L’organizzazione aveva subito un colpo, notevole anche, ma Antonia era certa che le sue ramificazioni sarebbero sopravvissute per risorgere più avanti.
Un Idra malefica, che persa una testa ne vede crescere un’altra.
-Per ora sì. In caso raggiungerò Arlecchino. So che anche lui è da queste parti.-, disse.
Poretti annuì. Approvò. Sull’Europa stava per calare il flagello del Covid-19. Ma Antonia non si sarebbe fatta trovare impreparata a quell’evenutalità.
Lei e gli altri avrebbero continuato a colpire, arginando il marcio ove possibile.
Anche se era una cosa dappoco, era sufficiente. Karim aveva ragione: vittorie momentanee ma sufficienti. Avrebbero continuato a combattere.

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