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La mia Prima Volta da Maialina Ammaestrata

By 4 Novembre 2012Dicembre 16th, 2019No Comments

Chiamatemi Amelie.
Sono una ragazza eritrea, arrivata in Italia dodici anni fa, adottata da due splendidi genitori italiani che mi hanno reso molto felice e fortunata.
Sono bisessuale, anche se ci è voluto del tempo per rendermene conto e accettarlo.
Ho un corpo snello e lunghi capelli , la pelle nera come quella del cioccolato con appena una goccia di latte. Ho il seno piccolo (una seconda) ma con lunghi capezzoli scuri. Ho un largo culetto rotondo, che piace molto agli uomini italiani.
Sono una ragazza come le altre se non fosse per un piccolo particolare: amo la dominazione, amo essere umiliata e usata, specialmente da donne e uomini, bianchi e più grandi di me.
Certo, ai tempi di questo racconto, non lo sapevo ancora, sentivo solo un gran caldo alla pancia quando vedevo le mie amiche spogliarsi dopo le partite di pallavolo. Ancora di più, mi sentivo tremendamente eccitata, nello sfogliare nel silenzio della mia camera. la vasta letteratura sulla dominazione che si trova su internet, e a volte andavo anche su siti porno.
Ma non sarei mai diventata quella che sono ora, ne avrei preso coscienza del mio ruolo, quella di una maialina in calore nata per essere sottomessa e compiacere la sua splendida padrona, se non fosse stato per lei, la mia meravigliosa Padrona Cristina, a cui questo racconto è rispettosamente dedicato.

La mia padrona ha trentacinque anni (se sapesse che dico la sua età in pubblico me ne farebbe pentire amaramente), ha lunghi capelli biondi che le ricadono sulle spalle, due occhi verdi, e una bocca rosea, con labbra sottili come rasoi, e come è tagliente la sua lingua se vuole far male. E’ alta, anche perché indossa sempre dei tacchi vertiginosi, e il suo corpo è sempre fresco e allenato: ciò che adoro di più in lei sono le sue enormi tettone (porta una sesta abbondante), morbide e pesanti, che esibisce sempre sfrontatamente con larghe scollature.
E’ single per scelta: il suo carattere sadico e malizioso, la rende una vera predatrice, una lupa in mezzo alle pecore, che si fa largo nel mondo con l’ ancheggiare dei suoi prosperosi fianchi e il sobbalzare del suo grosso seno. Gli uomini perdono la testa per lei, ma lei preferisce le donne, dice che è più divertente umiliarle, e in particolari quelle più giovani di lei, con le quali, forse per invidia per i suoi venti anni perduti, si accanisce con vera perfidia. Ma questo avrei avuto presto modo di sperimentarlo
Ci siamo incontrate per la prima volta ad una festa in giardino, in una sera di giugno di due anni fa: io, allora appena maggiorenne, accompagnavo mia madre a questo ricevimento, a cui prendevano parte tutti i suoi colleghi dell’ ufficio. Tra questi c’ era anche lei, la bellissima Cristina, anche se lavorare era un termine inadatto: si limitava a lasciar prendere aria alle sue cosce, appena sfiorate da corti vestitini, lasciando che i colleghi maschi si occupassero di ogni incombenza al suo posto, nella speranza di ottenere qualcosa che non arrivava mai.
Mia madre, ovviamente, non la poteva soffrire, e mi aveva messo in guardia da lei mentre eravamo in macchina, dirette all’ agriturismo dove si teneva la serata.
‘Attenta a quella strega’ mi aveva detto ‘E’ falsa come una serpe’e tutti gli muoiono dietro ovviamente’ Che tempi.. Per fortuna io e tuo padre abbiamo tirato su una ragazza a modo come te!’
Se solo mamma avesse saputo, che la sua figlia a modo prima di infilarsi nel tubino nero fasciante che indossava, si era masturbata furiosamente di fronte al computer, con le mutandine calate davanti al video di una donna che frustava il sedere di una sua amica legata e imbavagliata, forse avrebbe commentato diversamente.
Comunque sia, fu proprio grazie a quel commento sprezzante di mia madre che mi concentrai dal primo momento su questa ‘mangia uomini’, osservandola rapita dal secondo in cui aveva messo piede in sala, pochi minuti dopo di noi, in un ritardo inevitabile per una come lei.
Quella sera era al suo meglio: indossava un vestitino leggero, con un tessuto trasparente che ne velava appena le rotondità, e che si alzava come una quinta teatrale sollevata sulle sue strepitose gambe bianche. Era invece truccata pesantemente, con tocchi di mascara e rossetto rubino, in modo che alcuni potrebbero definire volgare, ma che mi rapì istantaneamente.
La cena era a buffet, e mentre mia madre mi coinvolgeva nelle formalità di rito, non riuscivo a staccare gli occhi da lei, che flirtava civettuola con tutti, contenta del desiderio che suscitava. Sarebbe sembrata solo l’ ennesima oca tettona come se ne vedono tante, ma aveva una luce sinistra negli occhi, che la rendeva diversa e speciale, e mi attirava come un neon attira una falena incauta.
A lungo andare mi stancai di rimirarla, anche perché lei non faceva alcun cenno di accorgersi di me, e stanca delle chiacchiere formali di mia madre e dei suoi colleghi, mi allontanai per fare una passeggiata nel bel giardino che circondava l’ agriturismo.
Era una bellissima serata estiva, calda ma non soffocante, e la luna brillava illuminando i sentierini ghiaiosi su cui camminai, per sedermi a riposare su una panchina sotto un pergolato.
Mi persi rapidamente nei miei pensieri, come succede a diciotto anni: pensavo alla strana attrazione che provavo nei confronti delle donne, all’ indole di sottomessa che sentivo crescere in me ogni giorno, e che diventava sempre più difficile ignorare, nonostante i miei sforzi. Pensavo al calore che mi invadeva ripensando a quella creatura bionda che avevo appena mangiato con gli occhi, senza accorgermene.
Fu quindi con un soprassalto che tornai alla realtà, quando avvenne l’ impensabile. Come se si fosse materializzata d’ improvviso dalle mie fantasie, la bionda donna stava di fronte a me, con l’ aria annoiata.
‘Ti rompi anche tu in mezzo a tutti quegli sfigati , eh?’ commentò sarcastica.
Io annuì, e lei proseguì: ‘Ho notato che mi fissavi prima. Come mai?’
Io ero molto imbarazzata, ma decisi di darmi una parvenza di autocontrollo, e risposi sicura ‘Beh, è perché mia madre mi ha messo in guardia su di te’ dice che sei cattiva’
Lei replicò con mezzo sorriso: ‘Lo immagino’attenta alla strega’è un pessimo esempio..ihih.. ti spiace se mi siedo?’
Mi spostai per farle posto, il suo tono, seppure gentile, non ammetteva repliche.
Fu così che iniziammo a parlare, e in due ore io mi aprii del tutto: lei era spiritosa, giovanile, aperta. Passammo in breve da parole di circostanza ad altre più intime. Le raccontai tutto, senza riserve, preda dell’ incantesimo che gettava su di me col suo sguardo, un po’ incuriosito da me, dal mio essere diversa per il colore della mia pelle e i miei strani gusti, e un po’ di scherno nei miei confronti.

Le dissi delle sensazioni che mi provocavano le donne, e di come in qualche modo mi sentissi nata per essere dominata. Persi ogni inibizione, e mi spinsi persino a confidarle come mi avesse eccitata spiarla prima, come invidiassi la sua sicurezza, il suo look, il suo corpo prepotentemente femminile.
Fu allora che lei lo disse, con la massima naturalezza, come se mi chiedesse l’ ora:
‘Forse allora dovresti continuare questa conversazione in ginocchio, non credi?’
Forse fu il suo tono. Forse la serata surreale che stavo vivendo. Forse non avevo aspettato altro per diciotto anni. Ma lo feci. Mi alzai di fronte a lei, senza dire una parola, e mi inginocchiai di fronte a suo corpo adagiato sulla sedia, china con le ginocchia nude sulla ghiaia appuntita.
Fu soddisfatta della mia rapida nell’ obbedirle.
Fu come uno strano sogno.
Lei parlava, mi chiedeva quello che mi piacesse nell’ essere dominata, si faceva gioco di me con termini offensivi e volgari.
‘Ma guardala, che maialina’hai obbedito subito’l’ avevo visto subito che eri una ragazzina cattiva che non aspettava altro che un po’ di disciplina’ ma sei molto maleducata sai? Fissarmi le tette in quel modo’ eri così oscena’ e ora guardati’ truccata come una troietta’lo sai che le schiave non possono mai sfidare la loro padrona in bellezza, vero?’
Mentre lo diceva, con delle dita impudenti mi sbaffava il trucco, rovinandolo, impiastricciava il mio volto, fino a farlo diventare una maschera ridicola, mi stringeva le guance tra le mani, deformando la mia espressione, indugiava sulle mi labbra carnose di nera con le sue unghie laccate.
‘Così va meglio’ ma ora la padrona ha tutte le dita sporche’ puliscile, su, schiavetta!’
E senza fare complimenti, le infilava nella mia bocca senza incontrare resistenza, se non mugugni di umiliazione e piacere. Succhiavo le sue dita, sentendo il sapore amaro del mascara, ma non osavo protestare. Lei si divertiva, stuzzicava la mia larga lingua, la stringeva, la tirava fuori a forza dalla bocca, pinzandola con due dita.
‘Che lingua grande che hai’ci divertiremo con questa. Ringraziami per l’ onore che ti sto concedendo!’
Provai a biasciare quello che chiedeva, ma mi teneva ancora la lingua stretta tra due dita, e così quello che uscì fuori fu solo un ridicolo ammasso di suoni nasali, inframmezzati da un osceno sospirare.
‘Ahahah’, rise di gusto al mio patetico tentativo ‘ma guarda’questa vacca non sa nemmeno parlare’per fortuna, non ci serve che parli, vero troietta?’
Mi lasciò andare la lingua, e con nonchalance si pulì dalla salive, strusciando le dita sulla mia faccia, spostando poi la mia attenzione sulle mie tettine.
‘Sai ora che ci penso capisco perché ti piacevano tanto le mie tette’ commentò mentre le palpava da sopra il vestito, svelando l’ illusione alimentata dal mio pushup ‘ Le tue sono così piccole che non puoi nemmeno chiamarle così. Sono delle mammelle, e tu non sei una donna, sei un animaletto, una piccola scrofa, hai capito’ forza fammele vedere’
Esitando obbedii, con le guance che bruciavano per l’ imbarazzo, l’ umiliazione che mi stava facendo provare, e l’eccitazione che mi faceva pulsare le tempie. Tirai fuori le mie tettine dal tubino, e lei immediatamente si concentrò sui capezzoli turgidi, prese a pizzicarli a secco, per poi far ballare le mie tettine con degli schiaffetti. Io gemevo e questo la eccitava.
‘Mmmm. bene..così, puttanella… ti piace vero? Ti senti appagata? E’ così che vanno trattate le tette di una schiava’devono essere sempre offerte alla padrona, e i capezzoli sempre belli duri in sua presenza hai capito?’
Annui, tremando dall’ eccitazione, e lo dissi per la prima volta: ‘Sì, Padrona’
‘Brava, schiava, impari in fretta’ prima, mentre mi fissavi come la puttanella in calore che sei, anche io ho notato qualcosa sai’hai proprio un culone, vero? Forza, mettiti a quattro zampe e fammelo vedere’
Ormai non potevo fare altro, ero completamente soggiogata dal suo volere e così lo feci. Mi misi a quattro zampe, ora la ghiaia oltre alle ginocchia mi feriva anche i palmi delle mani, e tirai su il tessuto elasticizzato del tubino. Lei alla vista del mio slip nero che indossavo sotto, non resistette un secondo di più:
‘Ma guarda tu, che brutto culone che hai’è così grosso e tondo.. non te ne vergogni, brutta cagna?’
Afferrò lo slip e lo tirò a sé, facendolo scivolare nella fessura tra le mie chiappone, dolorosamente.
‘Bisogna punirlo immediatamente! Non fiatare o ci scopriranno, mettiti in bocca gli slip anzi, tanto sono fradici, porca che non sei altro!’
Ci mise un secondo, me li sfilò e mi ci riempì la bocca.
Poi iniziò a sculacciarmi, con entrambe le mani, battendo sul mio culone come un tamburo, con forza e ritmo. Aveva alla mano destra un largo anello intarsiato, che lasciava dei segni sulle mie chiappe, martoriandole.
Sentivo dal suo respiro affannato che se la stava godendo per bene e a darmele di santa ragione sul culo, e anche io ansimavo forte, attutita dalle mutandine che mi chiudevano la bocca.
‘Maiala, mi hai fatto eccitare. Forza vieni qui a leccarmela’
E già afferrandomi per i capelli mi stava portando la testa tra le sue cosce, così vicino che potevo sentire l’ odore della sua eccitazione. Stavo per aprire la bocca e accogliervi il suo sesso, quando nell’ aria risuonò il mio nome. Era mia madre che mi cercava, riportandomi bruscamente alla realtà-
Mi divincolai come percorsa da una scarica elettrica, e tentai febbrilmente di ricompormi, mentre lei osservava divertita la scena.
Quando, in un modo o nell’altro, tornai presentabile. Si alzò e con mossa studiata. infilò un biglietto da visita sotto l’ orlo del tubino, dentro gli slip tutti bagnati che ero stata costretta a reindossare così come erano.
‘Chiamami, c’è del potenziale in te’sarebbe un peccato sprecarlo, no? Ciao maialina”
Capii dal quel gesto, e dal modo in cui aveva detto maialina, come una belva che pregusta il sangue che sta per versare, che la nostra storia era molto lontana dal concludersi.
E dalla fitta di piacere che provai al pensiero, mi resi conto che la cosa non mi dispiaceva affatto.

La scusa che rifilai a mia madre per essermi ripresentata a quel modo, conciata da far pena e con le gote e la fronte imperlate di sudore, non dovette sembrare delle più credibili: dissi che una mia amica mi aveva chiamata al telefono, avevamo litigato e avevo pianto.
Mamma scosse la testa un po’ titubante se indagare ancora, ma poi lasciò correre, per mia fortuna.
Avrei dovuto inventarmi un alibi più solido per giustificare la mia assenza, ma non riuscivo a pensare ad altro che lei. Stringevo le cosce, custodendo tra di loro quel biglietto da visita sgualcito come fosse la cosa più preziosa che avevo. E forse lo era: un biglietto di sola andata verso la vera me stessa, che era esistita al mio interno per diciotto anni senza che me ne accorgessi.
Ma avevo ancora paura, paura di accettarlo, e mi dibattevo tra il desiderio di comporre subito quel numero e sentire di nuovo la voce calda e imperiosa di Cristina, e la paura di dove la strada che esitavo a imboccare potesse condurmi.
Passò una settimana prima che riuscissi a trovare il coraggio di telefonarle: l’ ultimo giorno di sette interamente trascorsi nella ricerca di luoghi appartati nel quale nascondermi per dare sfogo alla passione che sentivo invadermi al ricordo di quello che era successo il sabato prima. Mi ero masturbata nel letto, nei bagni della scuola, persino nel reparto isolato di un grande magazzino, eccitata solo dall’ aver visto in offerta un vestito simile a quello che Lei indossava quella sera. Ormai mi ero abituata a portare in tasca o nella borsa un paio di mutandine, perché riuscivo a godere solo con quelle infilate per bene in bocca, a riempirmi le guance. Mi bagnavo al solo sentire il tessuto che strusciava contro la lingua, sentendo come la mia bocca si asciugava, si seccava provocandomi fastidio e godimento allo stesso tempo. Amavo guardarmi allo specchio mentre venivo, scossa dai tremiti dell’ orgasmo e dai conati che le mutandine mi provocavano, infilate fino in fondo alla gola, e gli occhi appena socchiusi, e la bocca dilatata di una brava cagnetta obbediente.
Al settimo giorno, la mia lussuria aveva raggiunto livelli incontrollabili: preda di quella strana frenesia, mi aggrappai alla tastiera del cellulare e composi il numero che mi aveva dato.
Ogni squillo era come una pugnalata. Perché non rispondeva? Tremavo come una foglia, che sentivo quasi le ginocchia cedermi. Il telefono squillò a lungo, ma nessuno rispose.
Delusa, non mi restò altro da fare che terminare la chiamata. Mangiai svogliatamente quella sera, e mi misi a letto prima del solito, come se la scarica di adrenalina mi avesse svuotata di ogni energia. Non rinunciai a masturbarmi un ultima volta, strusciando il bacino contro lo stesso materasso, la testa appoggiata al muro, tirandomi i capezzoli fino a farmi male, ma senza la stessa ferrea decisione del suo tocco.
Caddi addormentata in un sogno agitato, e fu così che il display del cellulare, illuminandosi alle una di notte, non mi svegliò difficilmente. Allungai la mano per vedere chi fosse, ancora stordita dal sonno. Ma mi risvegliai subito vedendo il mittente del messaggio: era proprio lei.
Il messaggio recitava: ‘Ce ne hai messo di tempo, vacca nera. Sarai punita per questo. Dì a quella stupida di tua madre che domani sei a pranzo fuori con le amiche. Aspettami al McDonald del centro. Metti una gonna corta.’
Inutile dire che quella notte non dormii molto. Alle sette saltai giù dal letto, e impiegai un’ ora a decidere cosa indossare. Alla fine optai per un canottiera bianca, molto semplici anche se scollata, e una minigonna di jeans. Non mi truccati, ricordando le sue parole: non dovevo provare a rivaleggiare in bellezza con Lei.
Erano gli ultimi giorni di scuola, quelli, e tutte le ragazze si vestivano discinte, un po’ per il caldo, un po’ per l’ inconfessabile piacere che farsi guardare regalava loro. Anche in mezzo a loro, però, io spiccavo, un po’ per la mia figura alta e longilinea, tipica del mio popolo, un po’ per il mio abbigliamento, che più che ad una liceale mi faceva assomigliare ad una di quelle più sfortunate ragazze, nere come me, che dall’ auto dei miei genitori adottivi avevo visto tante volte guadagnarsi da vivere vendendo il proprio corpo sul ciglio della strada.
Loro non c’ entravano nulla con me, erano delle poverette che non avevano avuto scelta, mentre io, uscendo di casa a quel modo, pazza di eccitazione e paura, una scelta la stavo facendo: quella di diventare una vera maialina ammaestrata.
Le mie lunghe gambe magre, il mio largo sedere a stento contenuto dalla minigonna jeans, e le mie tettine in mostra attirarono gli sguardi e i commenti spinti dei miei compagni di classe, ovviamente. Ma io non ci facevo caso, sorridevo distrattamente alle loro provocazioni, e non distoglievo lo sguardo dall’ orologio del cellulare. Quello fu senza dubbio uno dei più lunghi mattini che ricordo, ma quando la campanella suonò, corsi fuori dall’ aula, e raggiunsi il McDonald con il fiatone.
Erano le una e quarto quando arrivai lì, e mi sedetti ad un tavolino non troppo lontano dall’ entrata, con un gran viavai di gente intorno.
Aspettai per un’ ora e mezza, tanto che uno dei ragazzi ch serviva lì alla fine mi chiese persino se avevo bisogno di qualcosa, stavo lì seduta, tutta rigida, e non ordinavo nulla.
Per fortuna in quel momento , la vidi: in piedi sulla porta si dirigeva sicura verso di me.
Era valsa la pena aspettarla:
Indossava ancora il tailleur grigio del lavoro, ma faceva molto caldo, e aveva la giacca in mano, e la camicetta celeste sbottonata, da cui il suo prorompente seno si affacciava spudorato. A spezzare la formalità del suo abito, un borsa colorata di Hermes e due eccentrici occhiali neri con la montatura rossa, dalle estremità allungate, dietro cui i suoi occhi di leonessa potevano guardare non visti.
Si sedette con naturalezza al tavolo,accavallò le gambe, mi squadrò da sopra le lenti con una smorfia di sufficienza: ‘Ciao, è molto che aspetti? Mi sa che mi sono dimenticata di avvisarti che staccavo dall’ ufficio alle due e mezza, ma che importa? A parte prendere i cazzi di cui sarai ghiotta, non credo tu abbia molto di meglio da fare,no?’
Annuì. Le era bastata una frase per distruggermi, per rendermi una piccola ameba senza personalità, una cagna pronta ad obbedire ad ogni suo desiderio e sopportare ogni sua umiliazione.
‘Allora, alzati e vammi a prendere un menu completo con l’ insalata, ho una fame! Per te prendi solo delle patatine grandi, e niente bibita, mi raccomando. Ricordati di sculettare mentre vai, voglio vedere quel culone da nera ondeggiare come quello di una vacca.’
La sua volgarità, la tranquilla compostezza con cui diceva quelle frasi così piene di parolacce, mi mozzavano il fiato: col cuore in gola, mi alzai, e mi diressi al bancone, stando attenta a mettere sempre un piede di fronte all’ altro, in modo da far appropriatamente ondeggiare il mio sedere come richiesto. Comprai con i miei soldi ciò che aveva chiesto, e tornai reggendo il vassoio in mano, che appoggiai tra di noi.
‘Come cameriera non vali nulla, come ti permetti di guardare la Padrona mentre la servi?’
‘Mi scusi’Padrona”, riuscì a balbettare.
‘Per fortuna sei meglio come troia, avevi gli occhi di tutto il locale sul culo, te ne sei accorta?’
‘No, Padrona’, mentii cercando di superare l’ imbarazzo.
‘Che bugiarda questa troia!’, rise ‘Beh dovrai essere doppiamente punita’.
Mentre lo diceva, rovesciò di fronte ai miei occhi le mie patatine sul vassoio.
‘Mangiale una ad una, non ti strafogare, maiala che non sei altro: prima di metterle in bocca però strofinatele sulla bocca, voglio vedere quelle labbrone da pompinara piene di sale, vedrai come sarà piacevole senza poter bere’
Mi accingevo già ad iniziare, quando mi disse: ‘Ah-ah.. un secondo. Prima fai la brava, e appoggia le tue mutandine sul vassoio, su’sfilale da sotto la gonna, cagna’facciamo prendere un po’ d’aria a quelle fighetta!’
Sapevo che il particolare della gonna non era casuale: quella vedova nera che mi stava di fronte, esibendo tutto lo splendido corpo che aveva, aveva già pianificato tutto. Con qualche fatica, arricciando le labbra, riuscii a sfilarle, e a depositarle già un po’ bagnate sul vassoio, tutte strette, per cercare di nascondere cosa fossero.
‘Fai la furba, puttanella? Forza, stendile bene, fai vedere a tutti cosa hai lì’, sogghignò, mordicchiandosi le labbra, divertita dalla situazione. Mi toccò stenderle bene con le mani, esporle agli occhi di tutti, delle mutandine usate sul vassoio.
‘Bene, bene’ora possiamo cominciare’
-Mangiammo in silenzio, io, obbedendo ai suoi ordini, mi passavo le patate sulle labbrone, che in breve si ricoprirono di sale e di olio, e mi bruciavano da morire, soprattutto di fronte a Lei, che sorbiva una gigantesca coca cola con la cannuccia, mentre si godeva lo spettacolo.
Come se non bastasse le mie mutandine, così inequivocabilmente in mostra sul tavolo attiravano l’ attenzione dei clienti che entravano e uscivano. Molti si davano di gomito, altri nascondevano uno sguardo allibito, e vidi un signore che mangiava solo vicino a noi tastarsi inequivocabilmente la patta dei pantaloni.
‘Sono buone le patatine, vero troietta? Gustatele pure mentre ti dico come faremo d’ ora in poi’ allora, è molto semplice, d’ora in poi tu non sei più libera, sei la mia schiavette..il che significa che farai quello che ti dico, come e quando lo dico, senza fare un fiato. Se sbaglierai ti punirò, e altre volte ti punirò solo perché sei brutta e stupida, e mi piace vederti soffrire. Ti userò come voglio, e vedrai che ho molta fantasia. Nel momento in cui ti scappa una parola con tua madre o le tue amiche sulla nostra relazione, vedrai che renderò una vita un inferno, e in più tu perderai il motivo stesso della tua vita’perché, lo so, tu vivi per essere una schiava e obbedire alla tua Padrona? Ci divertiremo insieme, e tu puoi dare addio alla tua vita di zoccoletta adolescente perché d’ ora in poi sarai molto impegnata’ se hai capito, ringrazia la Padrona’
Cosa stavo facendo? Dovevo essere pazza ad umiliarmi così in pubblico, comportarmi come una troia senza nulla da perdere.. Cosa mi stava succedendo? Ma non era forse quello che volevo? Il dolore, l’ umiliazione, non mi facevano sentire viva per la prima volta?
Con le labbra che andavano a fuoco, risposi ‘Grazie, Padrona’
‘Brava, troietta, credo proprio che te ne pentirai’ non ho molto tempo, ora’ Sabato finisci la scuola vero? Non leccarti le labbra, non hai il permesso, vacca, il sale deve stare lì!’
‘Sì..sì.. Padrona, poi ho gli esami”
‘Ottimo, tua madre non si insospettirà quindi se andrai dalle tue amiche a studiare insieme allora! E, questo mercoledì, la sera dell’ ultimo giorno di scuola non farai la puttana in discoteca. Ma verrai da me, chiaro?’
‘Padrona’la prego’le mie amiche si insospettiranno se non vado!’
‘Non me ne frega un cazzo’ troverai una scusa’ ora vado, tu resta qui finché non sono uscita dalla porta.. poi potrei leccare il fondo della mia bibita..ma prima’vedo che hai lasciato un ultima porzione di patatine’beh..non si fa’ non sai che la tua gente in Africa muore di fame, stupida scimmia? Allora vorrà dire che le porterai a casa con te..dentro la fighetta”
‘Ma padrona”
‘Incominciamo con i ma, schiava? Non esistono ma! Ora ti rimetti le mutandine, qui, di fronte a tutti’e poi ci infili le patatine’vedrai, porcellina, la tua fighetta nera gradirà senz’ altro questo castigo’
Eravamo ormai andate troppo oltre per tirarmi indietro: con le lacrime agli occhi obbedii, cercando di non guardare il tizio del tavolo vicino, che con la mano in tasca si stava spudoratamente segando.
Nell’ infilare una ad una quelle patatine fritte, emisi un gemito, nel sentire che la mia patata era bagnata quanto i miei occhi.
‘Brava la mia vacca’, concluse Cristina, la mia Padrona, alzandosi.
‘Se avessi esitato un secondo di più ti avrei fatto mangiare la tovaglietta di carta un pezzetto alla volta. A mercoledì prossimo, e presentati perfettamente depilata, sarai ispezionata per bene..ovunque.. e profondamente’
Detto questo la mia dea si alzò, e io dovetti sforzarmi tantissimo per non gettarmi subito a leccare ciò che restava della sua CocaCola. Ma il bruciore che avevo sulle labbra, non era nulla in confronto a quello che avevo tra le gambe, dove la mia povera fighetta bruciava per la tortura. E avrei dovuto arrivare fino a casa così.
Dovetti esercitare di nuovo un grande sforzo su me stessa. Per non mettermi a piangere. Per non scoppiare nell’ orgasmo che avevo sentito montare irresistibile in quei venti minuti.

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