La nostra conoscenza era iniziata perché avevo letto un suo libro. Lei era un’affermata scrittrice, un tempo giornalista d’assalto. Aveva viaggiato per tutto il mondo, visto e conosciuto a fondo paesi e culture meravigliose. Tutto questo l’aveva arricchita come donna e come persona.
Da un paio d’anni aveva deciso di lasciare la carriera di giornalista e buttarsi sulla vera e propria letteratura. Da quanto mi aveva raccontato durante uno dei nostri primi incontri, aveva cestinato da subito l’idea di diventare autrice di romanzetti rosa, troppo melensi, stucchevoli e finti. Lei voleva raccontare delle meraviglie che aveva visto, di quanto aveva imparato.
All’epoca di quarant’anni, aveva al suo attivo una cultura non comune: aveva trascorso un mese in Africa, in una tribù autoctona. Era stato difficile farsi accettare: il modo di pensare, di agire, la cultura centenaria che questi indigeni si portavano nel cuore e che mantenevano viva, era tutto diverso. Lei aveva dovuto mettere da parte gli stupidi pregiudizi occidentali che avevano formato la sua conoscenza in materia e farsi insegnare tutto ciò che c’era da imparare.
‘Sono diventata come una lavagna: ho dovuto dare un energico colpo di spugna e ricominciare da zero. Ma ne è valsa la pena. Ho imparato lezioni che valgono il doppio di tutte le cazzate di cui mi avevano infarcito la testa in ventotto anni di vita’.
Aveva imparato danze, canti. Aveva viaggiato nei territori del Sud America, nelle foreste dell’Amazzonia.
Tutto questo aveva fatto di lei una donna profondamente acculturata, e bella in un modo speciale. Era straordinariamente affascinante, accattivante, di classe e raffinata.
L’avevo vista per la prima volta ad una sua lettura per promuovere il libro da lei scritto. Raccontava della sua esperienza in Australia, e l’avevo trovato stupendo, dettagliato. Era stata quasi un’evasione: leggendo tra quelle pagine, mi ero ritrovata a vivere in un mondo a parte, fatto di barriere coralline, surfisti biondi, mare, ma anche di aborigeni che le avevano raccontato la loro storia, nonostante all’inizio capirsi fosse impossibile a causa del deficit linguistico.
Guardarla mentre leggeva con voce sicura, intonando le parole in modo preciso, seduta su uno sgabello con la schiena ben ritta e le gambe accavallate, mi aveva fatto desiderare di conoscerla davvero. Sapevo che avrebbe potuto insegnarmi tantissimo.
Alla fine della serata, quando aveva finito di leggere e il suo pubblico se ne stava andando, mi presi coraggio e mi avvicinai a lei, chiedendole se potevo parlarle un momento. Mi sentivo come una quindicenne davanti a una diva del pop. Presi a parlare meccanicamente, a mitraglietta, quasi balbettando e incespicando con le parole. Le disse molto candidamente che l’ammiravo moltissimo e che avevo adorato il suo libro.
Lei mi guardò da dietro i piccoli occhiali che portava sul naso, con una luce negli occhi che non avrei potuto definire. Più tardi, quando ci conoscemmo meglio, mi spiegò che, ascoltandomi, era’ divertita. Divertita dal mio entusiasmo fanciullesco, dall’eccitazione che aveva letto sul mio viso, con gli occhi che mi brillavano. Era per quello che mi aveva scelta. E anche per il coraggio che avevo dimostrato a farmi avanti e parlarle, cosa che gli altri non avevano osato fare.
Fu lei stessa a offrirsi di sentirci di nuovo, dandomi il suo numero di telefono e proponendomi di mantenerci in contatto. Io, ovviamente, ero incredula, esterrefatta. Com’era possibile che la mia autrice preferita volesse ancora incontrarmi, parlare con me? Non sapevo spiegarmelo. Per un attimo non riuscii a dire niente, rimasi ferma a guardarla imbambolata. Ma quando mi resi conto di quanto mi stessi rendendo ridicola, accettai, entusiasta.
Dopo quell’incontro, però, non ci sentimmo subito: io non osavo chiamarla per paura di disturbarla, anche se avrei tanto voluto parlarle di nuovo, sperando di non comportarmi di nuovo come una ragazzina. Passarono due settimane, durante le quali ogni giorno mi proponevo di alzare la cornetta e comporre il suo numero. Tanto non mi avrebbe mica mangiata, no? E poi se avevo avuto il coraggio di parlarle di persona, perché mai avrei dovuto aver paura di farlo al telefono? Cercavo di convincermi in modo razionale, ma poi l’epilogo era sempre lo stesso, e le giornate passavano così. Fino a quando fu lei a prendere in mano la situazione. Me lo disse chiaramente che mi aveva capita, che sapeva perchè non l’avevo chiamata.
‘La gente spesso ha soggezione di me. E’ come se la fama di una persona facesse da barriera. Tu puoi essere umana quanto vuoi, ma la gente ti vedrà sempre come se stessi su un gradino più alto, anche quando tu stessa non lo vorresti’.
Parlando al telefono con lei ero di nuovo agitatissima, l’emozione era tale che mi tremavano le mani. Immaginatevi il mio stupore quando mi invitò a prendere un caffè. Ma chi, io? Davvero?
Per gustarci questo caffè insieme, mi portò in una cremeria/caffetteria/pasticceria. Insomma, vendevano di tutto. Era un bel locale, spazioso e dai colori primaverili. Ci sedemmo ad un tavolino proprio davanti alla finestra che dava sulla strada, da dove i passanti buttavano ogni tanto un’occhiata.
Appena prese posto, si tolse la giacca e subito si accese una sigaretta, ignorando bellamente il divieto affisso al muro in bella vista.
‘Tanto mi conoscono, qui’, disse lei, come a leggermi nel pensiero. Aspirò dalla sigaretta e, incrociando le braccia al petto, esalò lentamente il fumo guardandomi attentamente, scrutandomi, con curiosità e anche con un pizzico di sfida.
Un angolo della sua bocca si alzò, disegnando un sorrisetto sul suo volto.
‘Allora, perché non mi parli un po’ di te? Di me sai già tutto, no? Quindi è inutile prendere l’argomento’, disse, picchiettando sul rotolino di carta che teneva tra le dita, facendo cadere la cenere che la scia di fuoco aveva creato al suo passaggio. Era incredibile con quanta eleganza riuscisse a farlo. Emanava un’innata raffinatezza e incuteva rispetto a chiunque la incontrasse. Io ero incantata dai suoi gesti, così lenti e precisi che sembravano quasi studiati.
‘Che cosa vuoi sapere?’, riuscii a dire, dopo un po’. Stringevo spasmodicamente la borsetta tra le mani, dall’agitazione. Avevo un gran desiderio di fare bella figura davanti a lei, di risultare una persona decente, con cui valga davvero la pena di prendere un caffè.
Lei alzò le spalle: ‘Non lo so, sei tu che conosci la tua vita. Sei tu che sai cosa vuoi o non vuoi raccontare, quello che pensi valga la pena di sentire. Raccontami quello che sei”.
Un po’ insicura, cominciai a balbettare: ‘Beh, ecco, lavoro in un’azienda di pubbliche relazioni, da ormai due anni, e’.’
Lei alzò la mano per interrompermi, quasi come se fosse spazientita, scuotendo la testa: ‘No, no, no, no, non voglio sentire sempre le solite cazzate del lavoro, ecc. Tu non sei quella. Quella è una persona anonima, che conduce una vita anonima, sempre uguale, tra centinaia di altre persone anonime che conducono una vita anonima a loro volta. Non voglio questo grigiume. Voglio sapere come sei tu. Quella sera che ci siamo incontrate’, continuò, buttando altra cenere nel posacenere davanti a lei, ‘quella sera, quando ti eri avvicinata, mentre mi parlavi’. tu avevi’. una luce negli occhi così brillante, così limpida. Eri viva. E’ per quello che mi sei tanto piaciuta, è per quello che ti ho dato il mio numero di telefono e ti ho invitata qui oggi. Non l’avrei mai fatto se fossi stata come tutte le altre persone che c’erano lì quella sera. Quella eri tu, con tutta l’emozione che provavi e che ti faceva fremere e palpitare. Io voglio quella persona. Ora dimmi’ cos’è che ti fa splendere gli occhi in quel modo. Raccontami di te, raccontami di ciò che ti piace fare, di ciò che ti fa splendere gli occhi’.
Aveva detto tutto questo in un modo così naturale’. Ad altre persone sarebbe riuscito forzato pronunciare parole tanto poetiche.
Ad un tratto, come se avesse appena formulato una magia, mi sentii tranquilla, rilassata. Tutta l’agitazione, la tensione, erano sparite.
Posai la borsetta accanto ai miei piedi e sentii la luce di cui aveva parlato tornarmi negli occhi.
Cominciai a raccontarmi a lei, senza paura di risultare noiosa o scontata, non m’importava, tanto sapevo che lei non avrebbe giudicato i miei interessi, avrebbe guardato solo l’effetto che producevano in me. Sentivo le guance farsi di fuoco, il respiro accelerare. Mi sentivo libera di parlare a ruota libera di me, senza costrizioni, senza paure.
Non avrei mai immaginato che quello sarebbe stato solo l’inizio.
Poi, dissi la frase magica, quella che diede inizio a tutto: ‘E’ soprattutto per questo che ti ho parlato quella sera. Vorrei che tu mi insegnassi tutto quel che sai. Tu conosci così tante cose, insegnami ad essere come te’, le dissi, con un coraggio che non avrei mai sospettato di possedere.
Non era la giornata del caffè, era il nostro secondo incontro, e stavamo pranzando in un ristorante piccolo e confortevole, non molto conosciuto ma adorabile.
Lei mi sorrise, con uno sguardo strano’. quasi commosso. ‘Mi stai forse dicendo che saresti disposta a fare tutto ciò che ti chiedo per essere come me?’. Detto in quel modo la faccenda prendeva una strana piega, quasi’ sporca, proibita. Ma ciò me la rendeva ancora più appetibile.
‘Sì’, sussurrai, quasi raspando. Sembrava quasi che la voce non mi volesse uscire. In quel momento, dicendo quel semplice sì, avevo preso quasi un’immediata coscienza di quello che si stava creando tra noi. Era un patto. Io mi ero appena donata a lei, completamente. Sarei stata la sua allieva, la sua adepta. Provai un fremito di paura. Dopotutto, era quasi come se mi fossi resa dipendente da lei. E mi spaventava: se c’era una cosa alla quale non avevo mai voluto rinunciare, era proprio la mia indipendenza.
La guardai, dritto negli occhi. Sembrava quasi che avesse capito quello che stavo provando: la paura, l’incertezza. Con l’immancabile sigaretta tra le dita (fumava un pacchetto al giorno, non per nervosismo, ma perché le piaceva il gusto del fumo), sempre con le sue movenze lente, continuava a scrutarmi attentamente, mentre la sigaretta si consumava, bruciando.
Poi sembrò quasi riscuotersi, alzò le spalle e si appoggiò languidamente al sedile della sedia.
‘No’, esclamò lei, quasi riflettendo sul da farsi. ‘No, so io cosa fare con te. Tu non sarai come me. Sarai meglio di me. Ti farò diventare qualcosa di più, qualcosa di imprescindibile’, proclamò lei, con uno sguardo fisso e brillante, quasi allucinato. Dopodichè, decise che non ci fosse nulla di meglio di un brindisi per suggellare il nostro accordo.
‘Ricordati ciò che mi hai promesso’, sussurrò lei, con un tono basso e quasi pericoloso, mentre stringeva il flute pieno di champagne in mano. ‘Mi dovrai obbedire ciecamente, fare tutto ciò che ti dirò, seguirmi in questo percorso senza mai obbiettare. Chiaro?’, concluse lei, il viso distante dal mio soltanto una decina di centimetri, gli occhi fissi nei miei. Aveva quasi uno sguardo ipnotico. Riuscii soltanto ad assentire con la testa. Ora avevo dato la mia parola per ben due volte, non potevo tornare indietro. Ero sua, la sua discepola, e lei’ lei era la persona che mi avrebbe iniziata a tutti i piaceri della vita. In effetti, si definiva spesso un’edonista convinta. Amava il piacere in tutte le sue forme, e insegnò anche a me come trarne il più possibile da ogni singola azione, o situazione.
Mi spiegò fin da subito che era necessario che io fossi educata. O meglio, rieducata. Avrei dovuto fare esattamente come fece lei in Africa: cancellare tutto ciò che fin’ora mi era stato insegnato, dimenticare ci ero stata fino ad allora.
‘Adesso tu sarai una persona nuova, il tuo carattere stesso cambierà, perché cambierà il modo in cui percepirai tutto ciò che c’è intorno a te. Per essere come me, c’è un aspetto fondamentale che devi imparare: la curiosità E per curiosità non intendo il ficcanasare negli affari altrui, io intendo la forma più elevata di curiosità: quella che ti spinge ad imparare sempre. Non dovrai precluderti niente, dovrai sperimentare tutto ciò che ti offrirò. Solo così potrai realmente affinare i tuoi gusti personali, analizzare e poi discriminare tra ciò che ti piace e ciò che non ti piace. Io voglio, anzi, pretendo che tu sia curiosa, che tu mi chieda sempre di più. Chiaro?’, proclamò, con fare deciso, quasi imperativo. I suoi non erano consigli, erano ordini. Camminava per la stanza disegnando larghi cerchi invisibili. Eravamo a casa sua. Tutta decorata con abbellimenti etnici e ricordi dei suoi viaggi. Eravamo nel salotto, un’ampia stanza arieggiata, la grande porta finestra che dava sul giardino spalancata. L’aria calda di inizio estate entrava leggera tra le mura, sfiorando il tessuto del vestito che indossavo e scuotendomi i capelli. Io ascoltavo attenta tutto ciò che diceva. Seduta sul pavimento, su di un grande tappeto colorato, con la schiena appoggiata a una bassa poltroncina, la guardavo camminare, incantata, e mi imbevevo delle sue parole, della sua voce.
I primi tempi fu sempre così: lei parlava, io ascoltavo. Non si passava mai alle vie di fatto. All’inizio la cosa mi scoraggiava, e stavo quasi per pentirmi della mia scelta, mi sembrava che non mi stesse conducendo a niente. E un giorno presi il coraggio a due mani e glielo dissi chiaramente.
Lei mi stava versando un po’ di tè caldo in una tazzina, e quando ebbi finito di confessare il mio disappunto, lei mi guardò e rise di gusto. Di sicuro era l’ultima reazione che mi aspettavo. E per un po’ rimasi lì a guardarla ridere di me, non sapendo assolutamente cosa fare.
‘Finalmente! Non sai da quanto aspettavo che me lo dicessi!’, esclamò. ‘Ricordi cosa ti ho detto alla nostra prima lezione? Curiosità! Questa è la chiave di tutto. Il mio era un test, volevo metterti alla prova, volevo vedere se e quando ti saresti decisa a chiedermi di più di ciò che ti stavo dando’.
Mi sentii così stupida. Ma certo! Me l’aveva detto fin da subito, come avevo fatto a non capire? Mi misi a ridere di me stessa.
Posò la brocca del tè sul tavolino cinese che ci separava e, incrociando le mani sulla gambe, come a riflettere, mi disse: ‘Bene. Ci hai messo un po’, ma alla fine ce l’hai fatta. Questo è il segno che sei davvero pronta, anzi, smaniosa. Ed è proprio così che devi essere. Non aver mai paura di chiedere. Intesi?’. Io assentii decisa. Ora stavo cominciando a capire come ragionava. Era machiavellica, le piaceva giocare, stuzzicare, mettere alla prova.
Bevve il suo tè molto velocemente, con impazienza. I confessò che non vedeva l’ora di cominciare, ed era per quello che aveva fretta.
Bevvi anche io tutto d’un sorso, malgrado fosse ancora molto caldo, e quasi mi scottai.
‘Cominceremo subito’, proclamò, alzandosi in piedi. Mi prese per mano e, eccitata, mi accompagnò in un’altra stanza. Non mi aveva mai mostrato casa sua: mi aveva concesso di vedere solo il salotto e il giardino. Il fatto che mi stesse portando a vedere un altro pezzo della sua casa mi fece capire che era come se fosse’ una promozione. Era come se mi stesse portando al passo successivo.
Aprì la porta della camera in cui saremmo state per quel giorno e mi invitò ad entrare. Era bella, mi piaceva. Le pareti erano dipinte di un giallo chiaro, ad eccezione del soffitto, lasciato bianco. Al centro della stanza c’era un altro tavolino, sempre basso, e dei futon. Anche qui c’era una grande portafinestra che dava sul giardino. Era un ambiente confortevole, caldo e allegro. Ci si stava benissimo.
‘Siediti’, mi disse, dolcemente, mentre lei si mise dietro di me. ‘Adesso non fare nulla. Sta per cominciare la tua prima lezione. Come ti senti?’, mi chiese, sempre con un tono molto premuroso e attento.
‘Un po’ agitata, non so che cosa devo fare’.
Lei emise una risata bassa, di gola: ‘Questo è normale. Non sai cosa devi fare perché non te l’ho ancora detto. Ed è un bene che sia così. Ricordati, non devi farti influenzare da tutti i concetti che ti sono stati inculcati prima di adesso. Devi solo seguire le mie indicazioni, e tutto andrà benissimo. E poi, sta tranquilla, non sarà nulla di difficile’, concluse, mentre mi mise una benda davanti agli occhi, legandomela dietro al nuca, impedendomi così di vedere.
‘Vedi’, mi spiegò, ‘la cosa più importante che ti insegnerò è affinare i sensi. Non si può godere realmente di qualcosa se non si sa come farlo’. La sentii chiaramente alzarsi e andare da un’altra parte della stanza, udii il suono delle perline che si scontravano tra di loro della tendina colorata che faceva da porta, e lasciava accedere ad uno stanzino più piccolo, in cui però ignoravo cosa potesse esserci. Subito dopo sentii il rumore dei suoi passi che si avvicinavano nuovamente a me.
Posò qualcosa sul tavolino e sentii il fruscio del suo vestito, segno che si stava sedendo a sua volta, di fronte a me.
‘L’unica cosa che ti sarà richiesta oggi’, mi spiegò ancora, ‘è quella di aprire la bocca’, mi disse, ridendo. Io obbedii, capendo che il senso che avremmo analizzato sarebbe stato il gusto.
Subito sentii le sue dita che mi mettevano qualcosa in bocca.
Io cominciai a masticare lentamente, gustandolo a fondo e cercando di capire che cosa fosse. Lei mi lasciò qualche momento per decidere, per poi chiedermi: ‘Che cos’è?’.
Io rimasi a pensarci ancora qualche secondo, e poi, quasi del tutto sicura, le dissi: ‘Caviale?’.
‘Esatto. Bravissima!’, rispose. Mi parve di sentirla avvicinarsi un pochino a me. Poi le sue dita presero qualcos’altro dal vassoio, e di nuovo questo fu portato alle mie labbra. Quel gioco cominciava a piacermi, lo trovavo stimolante, divertente, e anche un po’ eccitante. Sentire la forma affusolata delle sue dita che mi accarezzavano le labbra, era incredibilmente eccitante. Mi rendevo conto, però, che era anche sconveniente. Certo, tra me e lei si era fin da subito instaurato un rapporto molto complice. Ma la complicità e il desiderio fisico, carnale, sono due cose completamente diverse. Rigettai quell’idea di fondo che mi disturbava e continuai a sottopormi a quel gioco.
Questa volta non riuscii ad identificare ciò che mi aveva dato. Era qualcosa il cui gusto non mi riconduceva a nulla, che probabilmente non avevo mai mangiato in vita mia. Aggrottai la fronte.
‘Mmm, mi dispiace, ma non so cos’è’, ammisi.
‘E’ avocado. In effetti, molti lo conoscono solo di nome, ma pochi l’hanno mangiato, in realtà’, poi, quasi con nonchalance, disse, con tono gutturale: ‘Dicono, che sia afrodisiaco’.
Certo, come se ci volesse anche quello. Sembrava quasi che l’avesse fatto apposto. Già quel gioco stava producendo una razione molto particolare, figurarsi se avevo bisogno anche del cibo afrodisiaco!
Esclamai solo un: ‘Oh!’, un po’ strozzato, facendo finta che la cosa fosse interessante ma non mi toccasse poi così a fondo.
Udii chiaramente il fruscio del suo vestito: si era avvicinata ancora un po’. Lo stava facendo gradualmente, dopo ogni boccone lo spazio che ci divideva diminuiva di qualche centimetro. Era come se, andando avanti, dimostrassi di meritarmi la sua compagnia.
Dopo che ebbi ingoiato l’avocado, ecco arrivare un terzo assaggio di quei cibi che, ne ero certa, erano scelti appositamente per quel gioco, con molta attenzione. Lei non lasciava mai nulla al caso, questo l’avevo capito fin da subito.
Al contrario del precedente, questa volta individuai subito il cibo che sprigionava quel particolare sapore nella bocca: miele. Puro e semplice.
‘Mmm, che buono!’, esclamai, rivelando poi che cos’era alla mia compagna. Questa volta si avvicinò di più di quanto aveva fatto prima, era quasi al mio fianco. E poi mi sussurrò: ‘Bravissima. Questo, forse, era un po’ più semplice, ma resta il fatto che l’hai indovinato fin da subito’, concluse.
Poi, senza ulteriori ciance, prese il quarto assaggio e lo mise accuratamente sulla mia lingua, per darlo al mio palato.
‘Questi, sono due cibi messi insieme. Vediamo se riesci a indovinare che cosa c’è’.
Non fece nemmeno in tempo a finire la frase, che subito percepii chiaramente un pizzicore fortissimo sulla lingua e che si stava velocemente estendendo a tutte le pareti della mia bocca. Peperoncino. Niente meno! Il gusto fortissimo del peperoncino bruciava un pochino, ma era comunque in dosi minime, perciò non mi impediva di esaminare l’altro gusto, quello che c’era di fondo. Ci misi qualche momento, perché il sapore della spezia rendeva la cosa più difficile, ma poi individua cosa c’era insieme a quella: cioccolato. Forte e amaro. Cioccolato fondente. Me lo gustai per bene. In effetti, il connubio era riuscito perfettamente, e i due sapori si amalgamavano piacevolmente, lasciando un gusto dolce amaro che non era affatto sgradevole.
Lei stava aspettando pazientemente l’esito, che le diede prontamente. Un altro spostamento, ora era a pochi centimetri da me. Sentivo il suo fiato caldo sulla guancia.
‘Brava, hai indovinato! Questa era più difficile, ma ci sei riuscita. Complimenti. Adesso, ti aspetta il penultimo’, mi disse, mettendomi delicatamente qualcos’altro nella bocca. Dovetti mordere per prenderne un pezzo. Un altro frutto, che questa volta conoscevo: ‘Fragola!’, esclamai, d’impeto.
‘Esatto, sei bravissima. Ma non mangiarla di fretta. Gustatela, assaporala fino in fondo’, mi mormorava nell’orecchio, con voce calda e vellutata.
Poi, sentii le sue mani accarezzarmi la nuca, portarsi al nodo che teneva la benda legata e, con gesti attenti, lo sciolse, per poi sfilarmi il tessuto dal viso, rendendomi la vista. Vedevo tutto appannato e dovetti sbattere più volte le palpebre per riuscire a mettere a fuoco ciò che mi circondava. Intanto, lei aveva preso l’ultima cosa rimasta sul vassoio. Che questa volta potevo vedere. Non era un test, era un premio. Non era più da mangiare, bensì da bere. In un piccolo bicchierino di cioccolato, era stato messo dell’assenzio.
‘Bevi’, mi disse, porgendomelo, facendo attenzione a non rovesciare il liquido che conteneva. Mentre me lo accostava alle labbra, mi guardava negli occhi. Si era fatta ancora più vicina, potevo sentire il calore che emanava il suo corpo. Dio, com’era eccitante. Fu lei a farmi bere, per poi mettermi nella bocca il cioccolato. Sentii chiaramente l’alcol scendermi lungo l’esofago, disegnando una scia di fuoco che mi bruciava dentro, e che non accennava a sparire. Lei, intanto, aveva preso a passarmi le dita sulle labbra. Lentamente, lasciava scorrere il polpastrello, spostandolo dal lato destro della mia bocca, fino al sinistro, facendolo entrare dentro un pochino, invitando la mia lingua a cercarlo, assaporarne il gusto. Istintivamente strinsi le labbra attorno al perimetro de suo indice, succhiandolo e roteando la lingua per sentirlo. Lei lo introduceva e lo estraeva ritmicamente, sempre con gesti lenti. Con l’altra mano prese a toccarmi i capelli, a farli scorrere tra le dita.
Sentivo un forte calore espandersi nel mio corpo, le guance che si arrossavano per l’eccitazione e il desiderio di avere di più, di poterla sentire, calda, contro di me. Sentivo il sangue che pompava più veloce nelle vene e il battito del cuore accelerare velocemente. E, cosa più importante, sentivo un caldo fuoco che si accendeva tra le mia gambe, che pulsava nella mia femminilità. Un desiderio crescente che s impossessava del mio corpo e mi ottenebrava la mente. Sentivo tutti quegli impulsi, tutti insieme, e una voglia incredibile che chiedeva di essere soddisfatta.
Mi sfiorava la spalla, poi tornava sulla nuca. Infine, avvicinò gradualmente il suo viso al mio e protese le labbra. Era un invito troppo forte, e non resistetti più. Mettendo al bando tutte le inibizioni, presi la sua bocca e cominciai a baciarla in modo quasi famelico. Volevo sentire il suo sapore, e riempirle la bocca con la mia lingua. La strinsi forte a me, per sentirle più vicina, per poterla toccare, per poter sentire quel corpo voluttuoso e che sembrava non essere stato minimamente toccato dal tempo. Sentivo i suoi seni premere contro i miei, una scarica di eccitazione corse lungo il mio corpo e subito i miei capezzoli reagirono diventando subito turgidi, dritti e durissimi. Ero così eccitata che mi facevano quasi male e avrei voluto sentire la sua bocca che leniva un po’ quel desiderio. Le mie mani scorrevano lungo tutto il suo corpo, frenetiche, in cerca di qualcosa che potesse estinguere quella fame.
Vedendomi in quello stato, lei mie fermò. In modo così perentorio che non potei reagire.
‘Aspetta. Non farti travolgere dall’eccitazione. Ricordi? Bisogna gustarsi tutto. E per farlo è necessario non affrettarsi, andare con calma, dare la massima importanza al più piccolo particolare’.
Mentre mi parlava, in modo così calmo e gentile, le sue mani mi sfioravano le spalle. Mi accarezzavano dolcemente, lasciando una piccola pressione sulla mia pelle. Le faceva scorrere giù, lungo i miei seni, sodi e alti, per poi scendere al busto. Prese i bottoni della camicetta e li fece passare uno per uno attraverso le asole, scoprendo la mia pelle.
Allora ritornò ad abbracciarmi, mi strinse a sua volta contro di lei, mentre mi baciava lungo il collo. I suoi baci, però, tradivano la sua voglia, la stessa che avevo io. Cosa che mi fece capire che anche lei mi desiderava. Le sue labbra erano caldissime, le sentivo chiaramente sulla mia pelle, e l’effetto era lo stesso dell’assenzio. Quel calore, forte e potente, rimaneva su di me ancora, non spariva. Riusciva ad imprimersi sulla mia pelle. Le sue mani mi scorrevano lungo la schiena, accarezzando i piccoli solchi della spina dorsale che si sentivano sottopelle. Riusciva a farmi venire brividi lungo tutto il corpo. La mia voglia cresceva sempre di più, ed era difficile da gestire: involontariamente avevo preso a muovermi come un gatta in calore, dondolando il bacino contro di lei, spingendo i seni contro il suo petto, ed emettendo gemiti bassi. Sentivo la figa pregna di umori, con le labbra calde che si erano dischiuse, scoprendo ciò che c’era all’interno. Sentivo un forte pulsare sottopelle, e il calore degli umori che mi bagnavano le mutandine.
Lei, intanto, aveva portato la sua bocca sui capezzoli, e aveva preso a succhiarli con avidità, ma anche con maestra, mentre con le mani mi stringeva forte le tette, le palpava, le chiudeva tra i palmi.
Anche lei, ora, cominciava a muoversi come una gatta vogliosa. Potevo vederla chiaramente strusciare l’inguine sul pavimento, avanti e indietro, cercando un po’ di sollievo alla voglia che la stava prendendo.
Io, decisa a non starmene lì a far niente, cominciai a accarezzarle la schiena, per poi scendere lungo le natiche. Aveva un bel culetto, sodo e pieno, che dava soddisfazione e prenderlo tra le mani e stringerlo.
Quando le strizzai le natiche nei palmi, lei emise un gemito forte che sembrava quasi un ululato. Da gattina a cagna. A quanto pare, anche se predicava dolcezza, calma e gentilezza, anche a lei piaceva l’idea di essere scopata selvaggiamente,senza riguardo. Con prepotenza. Tenendole il culetto ben fermo nelle mie mani, spinsi il suo bacino verso di me, in modo da avvicinarlo il più possibile a me. Sembrò quasi impazzire, cominciava a dimenarsi sena più controllo, e mi stringeva sempre più forte, mentre mi infilava la lingua in bocca, con una voglia esasperata, che aveva bisogno di essere soddisfatta.
Io mi stesi sul pavimento, offrendomi a lei, mentre mi levavo del tutto la camicetta e mi liberavo anche della gonna e delle mutandine. Ero completamente nuda, davanti ai suoi occhi. Le stavo lanciando un messaggio. ‘Sono tua. Sei libera di farmi tutto ciò che vuoi’.
Lei si buttò su di me, vorace. Prese a mordicchiarmi i capezzoli, e intanto insinuava il suo bacino tra le mie gambe, avvicinandosi alla mia figa, che ora era diventata bollente, e riversava umori lungo le labbra e in mezzo alle natiche.
Presa dalla voglia, cominciai a toccarmi davanti a lei. Presi le tette fra le mani e me le strinsi, mentre mi strusciavo contro il suo corpo, cercando il contatto con la sua pelle. Lei mie accarezzava, passava le sue mani intorno ai miei fianchi, ai seni, mi metteva le sue dita nella bocca, invitandomi a giocarci.
Intanto sentivo il suo viso che scendeva sempre di più verso il pube, la sua bocca che lasciava baci caldi. Il mio clitoride era ben eretto e caldo, e a contatto della sua lingua mi mandò una scarica di eccitazione tale da farmi inarcare violentemente la schiena e lanciare un gemito.
Prese il clito fra le labbra, succhiandolo, titillandolo con la punta della lingua e mordicchiandolo molto delicatamente. Io stavo impazzendo, mi dimenavo come una pazza, mentre gemevo e scuotevo la testa, in preda a un piacer fortissimo. Senza smettere di leccarmi il clitoride, mi mise senza preavviso tre dita nella figa, spingendomeli forte dentro, cominciando a masturbarmi. Io lanciai un gemito e venni copiosamente, con un orgasmo che mi fece inarcare nuovamente la schiena e spalancare oscenamente le gambe.
Lei mi lasciò un momento per riprendermi, ma nei suoi occhi, oscurati dal desiderio, si poteva chiaramente leggere l’intenzione di ricominciare.
Respirai a fondo, per riprendere fiato, rimanendo lì distesa, tutta accaldata e sudata. Lei non mi toglieva gli occhi di dosso, anzi, mi mangiava con gli occhi. Doveva ancora soddisfare tutta la voglia accumulata. Sembrava una leonessa, con la preda davanti agli occhi, che si permette di aspettare solo perché sa di poterlo fare.
Il racconto nasce dall'unione di alcune esperienze sessuali e relazionali che ho vissuto. Celeste esiste, ma non è quello il…
Pazzesco..sarebbe bellissimo approfondire la sua conoscenza..
Mi piace pensare sia un racconto reale..se ti andasse di parlarne scrivimi a grossgiulio@yahoo.com
Molto interessante, è realtà o finzione? Dove è ambientato?
Felice che le piaccia. Le lascio il beneficio del dubbio…